venerdì 19 novembre 2010

Benjaminiana.





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Pochi giorni fa sono uscito dalla vita ascetica del padre di famiglia di bimbi piccoli e sono andato a vedere i national, grazie anche a accrediti che un caro amico ha avuto in seguito a contatti con l'entourage della band.
tralasciamo il fatto che era a milano. loro sono davvero bravi, qualche cassadritta un po' populista, ma non è facile rifare in cinque tutto il lavoro di scomposizione di high violet, la sensazione è che i pezzi vecchi girino meglio,
il cantante è sempre molto misurato ma funziona, è l'antidivo per eccellenza che non riesce a dissimulare il proprio imbarazzo per il ruolo che ha. stellari i gemelli chitarristi, la vera anima armonica e sonora del gruppo un po' imballato il batterista che forse ha scomposto un po' troppo e potrebbe fare di più, mi sembra sempre un po' indietro, e il fratello bassista deve lavorare troppo. forse un po' stanchi, zagabria, milano, colonia e sempre troppe poche ore di sonno sullo sleeping bass si sentono. Comunque mi associo a quanto scrive di loro il critico Paolo Bogo: «un boato meditativo che inizia nel cuore, viene catturato nel cervello e risuona all’esterno».

Bene. Oggi si parla di Benjamin, sto lavorando per un incontro/conferenza sulle Tesi di filosofia della storia, e rimango stupito di quanto mi piaccia sempre leggerle. Di seguito alcune frattaglie di quanto sto mettendo a posto.

Benjaminiana 1.

teoria della conoscenza e filosofia della storia

Il procedimento contenuto nelle tesi Sul concetto di storia[1] è il consapevole antidoto ai luoghi comuni dello storicismo à la Ranke e strumento critico di disintegrazione della razionalità tardo-borghese e del presunto continuum spazio temporale da essa edificato mediante la delineazione fittizia di epoche e avvenimenti inseriti in una «immagine “eterna del passato”»[2].

Per Jesi quella di Benjamin è una «tecnica di “composizione” critica di dati e dottrine, fatti reagire tra di loro, il cui modello metodologico si trova nella formula del conoscere per citazioni (che divengono schegge interreagenti)»[3].

Benjamin è un pensatore che, nella saldatura tra romanticismo tedesco e messianismo ebraico, hanno elaborato una nuova percezione della temporalità sulla base della nozione metodologica di anacronismo[4]: l’invito a «spazzolare nel senso opposto il pelo troppo lucido della storia»[5] implica una concezione della cultura consapevole che «tradizione è innanzitutto memoria; ma la memoria è una realtà partecipe più del presente che dal passato: un atto creativo, il quale si giustifica proponendo come propria prospettiva il passato e proiettando sul fondale del passato le proprie componenti non risolte»[6].

Benjamin e Jesi sono vicini, sia per il modo militante di intendere la critica che per l’affinità con l’idea della redenzione profana e della cultura come utopia[7].

allegoria

Nel Trauerspiel l’allusività dei simboli e la verità della narrazioni mitiche sono svuotate di valore metafisico e riportate a una rivalutazione dell’allegoria[8]: al «carattere indiretto e intransitivo della significazione simbolica» Benjamin ha opposto quello «diretto e transitivo dell’allegoria»[9] che appartiene alla sfera del dire e della narrazione, spingendo all’estremo l’idea che per attingere alla verità si debba sprofondare nella soggettività, ma in modo tale da evitare qualsiasi approccio mistico. «Se ogni forma che pretenda alla dignità del simbolo è destinata all’inautenticità, sarà accettabile solo quella che porrà in primo piano la propria natura rappresentativa, che mostrerà appunto di non essere niente più che rappresentazione ed eluderà così la fascinazione della presenza mitica»[10].

In questo senso il Benjamin il «metodo di commento [...] conferisce al commentatore una funzione straniante nei confronti del testo lirico analoga a quella dell’attore nei confronti del testo teatrale»[11] secondo Brecht: il ribaltamento dell’istituzione linguistico-letteraria non sostituisce il momento rivoluzionario ma lo prepara, perché ha la funzione di «troncare il circuito ideologico dell’opera d’arte come rifornimento di un apparato capitalista di produzione. La letteratura diventa così una produzione di significanti (di qui il rapporto con l’avanguardia), sottratti al cemento ideologico della reificazione, come all’ipostasi dei valori universali di cui la società borghese si proclama depositaria»[12].

ricezione

Citando le tesi Sul concetto di storia («articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato” ma impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo»[13]) si tratta di «privilegiare il metodo della citazione saliente»: se l’approccio scientifico storicistico ha la pretesa di cogliere le cose “così come esse si sono verificate”, Jesi si propone di riconoscere la distanza che ci separa inevitabilmente dal mito, all’interno di una teoria della ricezione consapevole dell’arbitrarietà di ogni discorso sulla mitologia. La riflessione ermeneutica implica il riconoscimento della significatività come criterio del rapporto con la storia, che è momento in cui il ricordo è vitale, urgente e attuale. Il critico torinese riteneva «inutile, inopportuno e vacuo studiare un testo poetico senza adoperarlo»[14] ovvero con l’intento di capire il presente e di evitare di esserne travolti: nella continuità tra un testo e la realtà sociale che lo riceve, l’interprete fa «della propria pagina lo spazio tristemente privilegiato entro il quale il passato diviene nella sua ‘cosità’, versione interlineare del presente»[15].

In conformità con la nozione di ‘origine’ esposta nel Trauerspiel[16] il passato è presenza reminiscente e «immagine dialettica»[17]: «produrre un’immagine dialettica vuol dire fare appello al Già-stato, accettare lo choc di una memoria rifiutata di sottomettersi o di “tornare al passato”: vuol dire per esempio accogliere i significanti della teosofia, della cabala o della teologia negativa risvegliando questi riferimenti dal loro sonno dogmatico, e così facendo decostruirli, criticarli»[18].

L’apologia dell’anacronismo è il precipitato del caposaldo teorico della distanza, la Ferne che Jesi giudica come il più importante insegnamento kereniano, nei termini di una «frattura profonda, dinanzi al mito tra noi e gli antichi». «La mitologia in flagranti (la mitologia non tecnicizzata, s’intende non evocata e sfruttata per qualsivoglia interesse», che si presenta senza mediazioni, è per Jesi «assolutamente remota dalle nostre imprese gnoseologiche scientifiche oltre che dalle nostre esperienze quotidiane»: «solo così è possibile avvicinarsi al bordo esterno di ciò che – come per esempio la mitologia greca – non permette oggi altro approccio»[19].

dissoluzione della metafisica

«Analogamente a quanto si verifica in Benjamin, ossia l’abbandono delle entificazioni storiche fittiziamente costruite sullo storicismo [...] si è assistito, più di recente, in antropologia, a una smobilitazione delle entità etnologiche: culture e società (specie quelle “tribali” o “tradizionali”), intese come se fossero realtà naturali magnificamente sopravviventi nel loro vuoto storico o travolte dalla nostra storia, hanno perduto i loro contorni netti e definiti, il loro peso ontologico, la loro apparenza di forme volumetriche incastonate nell’ordine classificatorio [...] elaborato dagli antropologi»[20].

Secolarizzazione e messianismo

La questione posta da Benjamin con la sintesi tra marxismo e messianismo che Jesi rilanciava negli anni settanta italiani è allora la considerazione, da parte di un ateo, di come con l’ateismo di massa, in nome di una demitizzazione grossolana, si fosse perso ogni contenuto utopico in modo tale da preparare il terreno a nuove rimitizzazioni ‘tecnicizzate’.

Per Benjamin la fine della «coscienza storica [...] in Europa»[21] significava anche la perdita del legame sociale che la società illuministico-borghese ha introdotto nel mondo moderno. Un nuovo legame sociale poteva però nascere con la logica di classe: in Benjamin la «solidarietà è l’atto che trasforma la folla in classe», rompendo «i vincoli dell’antagonismo» che sono alla radice della frattura e dell’atomizzazione che caratterizzano la società borghese[22]. Nella lotta di classe il tratto panico della ‘festa crudele’ e ‘guerresca’ (che Benjamin vedeva nella piccola borghesia e che si esprime nell’«entusiasmo bellico, odio contro gli ebrei o istinto di conservazione»[23]) muta di segno e si apre al futuro. Contro il potere ipnotico del ‘mito’ in questi termini Jesi pensa un «modello gnoseologico che implica come condizione sine qua non la collettività e l’autoaffermazione nell’esperienza festiva»[24]. Nella voce di enciclopedia dedicata a Benjamin si legge: «La redenzione dell’uomo può giungere soltanto da una rottura radicale con il passato improntato dal dominio e da un recupero della tradizione sacra, messianica. Ma in mancanza di elementi di fede come i presupposti della liberazione-redenzione non sono dati, così anche la soggettività liberante attende di essere istituita»[25].

La festa rivoluzionaria della classe solidale rappresenta l’«oggi dell’eternità»[26] e l’apocatastasi la reintegrazione di un tempo ‘edenico’ futuro e lontano dai mali della storia: in questa prospettiva oltre il significato della distruzione in termini tragici si colloca quello di «rivolgimento, cambiamento di direzione. Catastrofe come “svolta”, ovvero come trasformazione, metamorfosi»[27]..

Nel saggio Zur Kritik der Gewalt[28] (1921) Benjamin distingue la «violenza che impone il diritto dalla violenza che conserva il diritto: questa è la violenza legittima che viene esercitata dagli organi dello stato; quella è la violenza strutturale, tratta fuori nella guerra e nella guerra civile, latente in tutte le istituzioni»[29], violenza che si manifesta nella stessa conflittuale struttura della società di classe. In quello scritto si prefigura «l’ipotesi di una società liberata in cui il lavoro non sia più quello di prima sotto padroni diversi, bensì un lavoro interamente mutato o non imposto dallo stato»[30]: la violenza rivoluzionaria ‘pura’ creatrice di nuovo diritto è la festa futura in cui riluce il «riverbero della giustizia divina nella sfera umana»[31] contro la violenza conservatrice delle democrazie liberali e del fascismo. Così come mito e festa, se rivolti al passato, diventano strumenti reazionari, alternativamente possono diventare la lingua dell’utopia. Accanto alla rivoluzione politica l’esperienza creativa della scrittura, della filosofia e della critica ha così un compito strategico e preparatorio: «Jesi presuppone che la festa permetta “alle realtà incombenti sulla vita quotidiana di trasformarsi nella materia stessa del mito”. Se dunque manca la festa, l’artista avvertiva “l’obbligo morale di determinare egli stesso quella trasformazione nell’unico modo oramai lecito, e cioè superando il rimpianto e agendo, creando, narrando le vicende dell’oggi affinché attraverso il suo impegno morale l’oggi privato di festa tornasse ad essere il luogo ed il tempo del mito”»[32].

Contro la tecnicizzazione la mitopoiesi assume un aspetto positivo: attraverso il sapere critico, l’ironia e la parodia si tratta di salvare il meglio della tradizione umanistica, rilanciando una mitologia-narrazione (che implica anche la sua critica) e che sia discorso dell’immaginazione che lega senza fondare e ponendosi come regolativo[33].



[1] W. Benjamin, Angelus Novus (1955), ed. it. Torino, Einaudi, 1962, p. 81, nella traduzione di R. Solmi, riferimento di Jesi per la terminologia italiana; cfr. Id. Sul concetto di storia, (a cura di G. Bonola e M. Ranchetti), Einaudi, Torino, 1997. Tra i progetti di Jesi rimasti incompiuti vi è una monografia sul critico berlinese, progettata a partire dai primi anni settanta; sua è la voce dedicata a Benjamin dell’Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 1981, p. 83-84, da cui si può presumere in che direzione avrebbe sviluppato il testo.

[2] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 81; cfr. F. Jesi, Mito, cit., pp. 8-9 e Esoterismo e linguaggio mitologico, Quodilibet, Macerata, 2002, pp. 36-37; per la ‘riscoperta’ di Benjamin si veda G. Schiavoni, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo, 1980, p. 11 e p. 35; cfr. J. Habermas, Attualità di Walter Benjamin, in «Comunità», n. 171, 1974, pp. 211-245, nella traduzione di Jesi. Per un inquadramento di Jesi nella cultura italiana: M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino, 2001, pp. 92-99, 285-287.

[3] F. Jesi, Mito, cit., pp. 8-9; cfr.: Id. Esoterismo e linguaggio mitologico, cit., pp. 36-37; Id., Materiali mitologici, cit., p. 206.

[4] G. Didi-Hubermann, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 52-54; cfr. M. Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea (1988), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992.

[5] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 67.

[6] F. Jesi, Letteratura e mito, cit., p. 57.

[7] Nell’Archivio di Jesi vi sono pagine autografe sulla critica come «battaglia» risalenti al periodo 1958-61 che inducano a ritenere che già allora l’influenza fosse molto forte: cfr. W. Benjamin, La tecnica del critico in XIII tesi, in Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, (1928), ed. it. Einaudi, Torino, 1983, p. 28). «I. Il critico è stratega nella battaglia letteraria; II. Chi non sa prendere partito taccia; III. Il critico non ha a niente a che spartire con l’interprete di passate epoche artistiche; IV. La critica deve parlare la lingua degli artisti. Perché i concetti del cénacle sono parole d’ordine. E solo nelle parole d’ordine risuona il grido di battaglia; V. Bisognerà sempre sacrificare l’obiettivià allo spirito di partigiano, se la causa per cui ci si batte lo merita.; VI. La critica è una questione morale. [...]; VII. Per il critico i giudici d’appello sono i suoi colleghi. Non il pubblico. E tanto meno i posteri; VIII. I posteri dimenticano o esaltano. Solo il critico giudica al cospetto dell’autore; IX. Polemica significa stroncare un libro in base a un paio di sue frasi. Meno lo si è studiato meglio é. Solo chi sa stroncare sa fare della critica; X. La vera polemica si lavora un libro con lo stesso amore con cui un cannibale si cucina un lattante; XI. Il critico non conosce l’entusiasmo per l’arte. L’opera d’arte è in mano sua, l’arma sguainata nella battaglia degli spiriti; XII. L’arte del critico in nuce: coniare slogan senza tradire le idee; XIII. Il pubblico deve sentirsi sempre smentito e sentirsi ugualmente rappresentato dal critico».

[8] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. Einaudi, Torino, 1999, pp. 134 ss.; cfr. G. Raio, Ermeneutica e teoria del simbolo, Liguori, Napoli, 1988.

[9] P. Cresto-Dina, Perché non possiamo non dirci moderni. Benjamin, Gadamer, Baudelaire e la temporalità estetica, in «l’ombra», 5/6, 1998, Moretti e Vitali, Bergamo, p. 112.

[10] M. Pezzella, Mito e forma in Furio Jesi, cit., p. 293, c. n.

[11] Ivi, p. 78.

[12] F. Masini, Gli schiavi di Efesto. Lavventura degli scrittori tedeschi del novecento, Studio Tesi, Pordenone, p. XXXVII.

[13] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 77.

[14] ELM, p. 37.

[15] F. Jesi, Il testo come versione interlineare del commento, in Caleidoscopio benjaminiano (a cura di E. Rutigliano e G. Schiavoni), Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 219.

[16] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), ed. it. Einaudi, Torino, 1999, pp. 20-24

[17] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, ed. it. Einaudi, Torino, 2002, p. 516.

[18] G. Didi Hubermann, Storia dellarte e anacronismo delle immagini, cit., p. 225.

[19] M, p. 9.

[20] F. Remotti, Walter Benjamin in una prospettiva antropologica: uno sguardo a ritroso sulla modernità, in AA.VV., Walter Benjamin: sogno e industria, Atti del Convegno del 21-22 ottobre 1994 (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea), a cura di E. Guglielminetti, U. Perone e F. Traniello, Torino, Celid, 1996, p. 145-146.

[21] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 81.

[22] «La coscienza di classe proletaria, che è la più studiata, modifica radicalmente la struttura della massa proletaria. Il proletariato dotato di coscienza di classe forma una massa compatta solo dal di fuori, nella rappresentazione dei suoi oppressori. Nell’istante in cui inizia la sua lotta di liberazione, la sua apparente massa compatta si è in verità già allentata. Essa smette di essere dominata dalla semplice reazione; passa all’azione. L’allentamento della massa proletaria è l’opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria viene soppressa la morta, adialettica contrapposizione tra individuo e massa; per il compagno essa non esiste». Si tratta di un passo di W. Benjamin de Lopera darte nellepoca della sua riproducibilità tecnica, nella trad. di Andrea Cavalletti, in Classe, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 38.

[23] A. Cavalletti, Classe, cit., p. 37.

[24] F, p. 22.

[25] F. Jesi, Walter Benjamin, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 1981, p. 84

[26] A. Cavalletti, Note al «modello macchina mitologica», cit., pp. 39-40; «Poiché eternità è proprio questo, che tra l’istante presente ed il compimento non c’è tempo che possa reclamare un posto, bensì già tutto il futuro è afferrabile nell’oggi». (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, ed. it. Marietti, Genova, 1985, p. 351.

[27] M. Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino, 2005, pp. 131.

[28] W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus, cit., pp. 5-30.

[29] J. Habermas, Attualità di Walter Benjamin, in «Comunità», n. 171, 1974, pp. 211-245, p. 239-40. Traduzione di Jesi.

[30] G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino, 2001, p. 79.

[31] Ibidem.

[32] M. Belpoliti, Settanta, p. 95; cfr. LM, pp. 167-168.

[33] MM, pp. 246-252 e pp. 253-271 dedicate a Thomas Mann e all’«umanizzazione del mito» compiuta nei romanzi del ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli.





venerdì 12 novembre 2010

Miti e gamberi



Ritorno alla programmazione alta.
Sul sito di «Riga» sono disponibili alcune anteprime del numero su Jesi, con articoli su di lui vecchie e nuovi molto rari, e un paio di inediti.

http://www.rigabooks.it/

Di seguito uno dei più gustosi tra i miei pezzi, che riprende un intervento di Jesi a un convegno del 1975 a Urbino, poi pubblicato nei 'Materiali mitologici'.



La cucina del mitologo

Negli scritti della metà degli anni settanta la preoccupazione di natura epistemologica è in Jesi preponderante, per poi venire progressivamente sostituita da un’intensa attività saggistica in cui l’operatività della macchina mitologica viene studiata in azione all’interno di determinati ambiti testuali, come Rilke, Mann, Canetti, ma anche la cultura di destra che caratterizza molta tradizione letteraria europea.

Per Jesi la macchina mitologica produce mitologie, forme di sapere che promettono un rapporto con un presunto oggetto “mito” e dunque surplus di significato, i cui effetti sono osservabili: in ogni aspetto della vita sociale del mondo antico, nella religione e nel culto in particolare; nella produzione letteraria di ogni tempo, in quella moderna come sopravvivenza secolarizzata; nella dimensione politica di cui le tecnicizzazioni sono l’aspetto più evidente; nelle opere dei mitologi le cui teorie sono una continuazione del lavoro sulla realtà che il loro oggetto, il mito, compie rendendola comprensibile.

Sorto dalla necessità di comprendere in modo razionale fenomeni culturali che sembrano irrazionali, “l’elaborazione e l’uso della ‘macchina mitologica’ si rivela uno strumento gnoseologico in grado di neutralizzare gli effetti fascinatori del mito”: parlare di macchina mitologica e non di mito ha il preciso intento di evitare “il rivoltarsi della stessa macchina contro lo studioso che incautamente ne vuole svelare il segreto: lo strumento gnoseologico corre il rischio di trasformarsi in pseudo-epifanie”[i]. A questo tema Jesi dedica il saggio Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina lanimale di un bestiario[ii], una versione rielaborata della conferenza La machine mythologique, pronunciata in francese il 14 luglio del 1975 al Colloque sur l’analyse mythologique del Centro internazionale di semiotica di Urbino: qui il critico torinese, oltre a esprimersi in modo più coinciso, usa tonalità ironiche che costituivano un aspetto della sua personalità[iii]. Il punto di partenza è la discussione contemporanea sui modelli teorici in uso nelle scienze umane: già in Lévi-Strauss “la scienza sociale non si edifica sul piano degli avvenimenti” avendo come scopo quello “di costruire un modello, di studiare le sue proprietà e le sue diverse reazioni [...] per applicare poi quanto si è osservato all’interpretazione di ciò che avviene empiricamente”[iv]; così Kuhn, con la nota teoria dei paradigmi, aveva descritto ogni modello teorico nei termini di “caselle prefabbricate e relativamente rigide” in cui vengono collocati i loro oggetti, non senza “elementi di arbitrarietà”[v]. La “macchina mitologica” è definita da Jesi come un modello che serve a “configurare sia gli oggetti storicamente verificabili, sia gli oggetti storicamente ipotetici che stanno sulla tavola della cosiddetta scienza del mito o della mitologia”, e che, in quanto tale, non riesce a sottrarsi pienamente al rischio di fare della mitografia:

I materiali mitologici che si incontrano nella storia presentano quasi sempre una tendenza vivissima a farsi modelli, immagini esemplari; e ogni operazione gnoseologica che miri a metterli in rapporto fra loro senza distruggerne le presunzioni, può conferire nuovo ardore a questa tendenza. Composti, combinati insieme in un modello, i materiali mitologici cederanno la qualità esemplare, che si arrogano, al modello stesso che li riunisce tutti. In questo modo lo strumento gnoseologico che il modello dovrebbe essere diviene esso stesso un materiale mitologico. La “macchina mitologica” risulta così mitologica perchè rientra fra i materiali della mitologia, non perché serva a conoscerli[vi].

Ciò premesso Jesi riconosce come il suo modello presenti una certa “utilità”, in quanto consente di

risolvere i problemi epistemologici circa i rapporti fra il mito e i materiali mitologici: fra l’oggetto latente, che non è verificabile nella storia (il mito) [...] e gli ho oggetti che ho chiamato “materiali mitologici” (cioè la mitologia o le mitologie, di cui troviamo testimonianze nella storia). Il modello macchina mitologica presenta il vantaggio di non porre la domanda “che cos’è il mito?”, o almeno di dichiarare questa domanda mal posta, falso problema, poiché non è possibile dire cosa sia l’oggetto che si annienta da sé quando si dichiara la sua esistenza o la sua non-esistenza[vii].

Il solo nominare la macchina mitologica, come qualsiasi altra prospettiva sul mito, suscita una vera e propria “fame di miti”, un desiderio di sapere che invoca il riferimento alla trascendenza che ha garantito al mito come oggetto culturale, pur mutante, di conservare inesausta vitalità nella cultura europea grazie alla sua capacità di alludere, anche quando la nega, alla capacità di celare verità dotate di un’aura di superiore genuinità e distinzione.

Rivolgersi al mito vuol dire farsi trascinare in territori che hanno a che fare con il non-dicibile, calarsi storicamente in una sfera che necessariamente rinvia a se stessa, con il risultato di distogliere lo sguardo dal non-detto che la sorregge e dalla inevitabile generazione di nuovo e altro senso che scaturirà da quell’approccio. Lo studio del mito evoca inevitabilmente il suo “ectoplasma” ed è descritto

come una cerca, non solo capace di distruggere, ma obbligata a distruggere il suo oggetto: come una crociata che non potrà conquistare il suo Santo Sepolcro senza averlo prima distrutto. Il modello “macchina mitologica” è innanzitutto la macchina da guerra che conquista mentre distrugge, il marchingegno che conosce il suo obiettivo annientandolo.

A partire dall’idea-forza per cui ogni ricostruzione è una distruzione si sviluppa un’argomentazione basata sulla metafora gastronomica che sorregge l’intero testo:

Aver fame di miti: vuol dire prepararsi a mangiare i miti quando deporranno le loro corazze. Poiché altrimenti sono immangiabili. Si tratta di sgusciare dei gamberi, già bolliti al fuoco della cerca affinché assumessero cuocendo il colore rosso che è l’oggetto vero della nostra fame. Questo colore rosso è il colore di ciò che è morto e, morendo, assunse il colore di ciò che è vivo, maturo piacevolmente commestibile. Lo scopo della moderna scienza del mito [...] è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole[viii].

L’immagine kerényana della distanza dal passato, superabile in termini creativi solo nell’esperienza artistica, viene qui modulata nei termini di una “invenzione” del passato, o meglio di una costruzione del contenuto dell’oggetto perduto della propria ricerca paragonato all’arte culinaria, capace di ridare colore a qualcosa che altrimenti sarebbe respingente, come appunto il gambero. Desiderato per il suo colore rosso che assume solo attraverso la cottura, che implica la sua morte, in realtà questo, quando è vivo, è grigio, esattamente come il mito: oggetto culturale del passato e appartenente alla sfera del diverso questo non è conoscibile quando è vivo o si rivela ripugnante quando osservato nei “selvaggi”, per diventare interessante e disponibile alla comprensione solo dopo il trattamento a cui è sottoposto attraverso la scienza.

Il modello “macchina mitologica” [...] è una ricetta utile per rendere i materiali mitologici gradevolmente morti, irrorati del colore della vita, squisitamente commestibili, [...] è la ricetta per preparare i materiali mitologici affinché compaiano sulla nostra tavola scientificamente ben morti, ma anche molto appetitosi[ix].

Il movimento della macchina mitologica è la ricetta che il cuoco/mitologo applica sui propri materiali: così Jesi si serve per la sua descrizione della coincidenza tra le regole che compongono il modello della macchina mitologica e la preparazione dei gamberi secondo una celebre guida gastronomica[x]; indipendentemente dalla particolarità della ricetta e degli elementi che daranno il gusto definitivo al piatto, ciò che non manca mai è la fase del “ben lavare”, la cui parte più delicata è il “castrare”, nel senso letterale di liberare il gambero dal “boyau intestinal”, in modo tale da evitare che questi conferisca al cibo gusto “amaro” (amertume): in questa operazione di pulizia che preoccupa così tanto il cuoco, Jesi vede l’eliminazione del “fango delle ipostasi storiche”, che erano invece il suo interno. Il mito è dunque come il gambero: cibo pregiato e appetitoso, per poter essere mangiato deve essere bollito, sottoposto al trattamento che lo renderà ricercato e diverso da ciò che era. Attraverso il lavoro dell’ermeneuta, che è lo stesso della macchina, il “materiale mitologico” diventa “mito”: le tracce di memoria divengono coerenti solo perché all’interno del processo di ricezione.

La critica jesiana alla moderna scienza del mito ha un’indubbia consonanza con il dibattito aperto da Marcel Detienne con la pubblicazione de Linvenzione della mitologia, intenso lavoro di 2decostruzione di un sapere apparentemente immediato e legittimo” che ha proposto, anche molto provocatoriamente, l’idea di una “mitologia senza mito”, ove esso appare come una “specie introvabile, oggetto misterioso dissolto nella acque della mitologia”, creato di volta in volta dagli intellettuali che se ne sono occupati[xi]. Come mostra la digressione nelle pagine che seguono sulla “cucina medievaleggiante” del “laboratorio filologico del XIX secolo”, al centro della dissacrante ironia di Jesi c’è il sapere sui miti e sulla cultura a esso correlata che rivela la sua natura di “interpretazione molto saporosa secondo la ricetta borghese” che cercava nel suo passato forme ideologiche di legittimazione del presente. Si tratta di una lettura della realtà che continua a rimanere culturalmente dominante, in virtù della quale si persevera in ogni rapporto con il mito nel guardare all’introvabile “motore immobile della macchina”, invece di “guardare da vicino i prodotti e il produttore”[xii] dei materiali mitologici.

“C’è al centro della macchina mitologica, una camera segreta: quella che si trova nei sogni, e che molto probabilmente è vuota”, scrive Jesi; un luogo da cui escono continuamente “camerieri”, che fingono di essere tali “sebbene siano verosimilmente dei cuochi”[xiii]. I produttori di materiali mitologici, destinati ai consumatori di questa merce pregiata, sono coloro che fingono di essere solo i mediatori mentre producono l’inganno che rende “miti” i “materiali mitologici”.

In chiusura della conferenza Jesi dichiarava che la macchina mitologica

può essere utile come modello gnoseologico poiché traspone al livello del suo inganno meccanico, del suo inganno funzionale, normativo nella sua esistenza, l’inganno che K. Kerènyi chiamava la “tecnicizzazione del mito”. Così facendo, la macchina mitologica pone nelle nostre mani, nello stesso tempo, un modello gnoseologico e uno specchio del nostro inganno[xiv].


[i] C. Fiore, “Il mito e la macchina mitologica”, in «La critica sociologica», n. 54, estate 1980, pp. 161-2.

[ii] F. Jesi, Materiali mitologici (1979), Einaudi, Torino, 2001, pp. 174-182.

[iii] Tra le tante testimonianze del tratto ironico e sarcastico del suo eloquio cfr. il commento di Margherita Cottone (“Furio Jesi: vampirismo e didattica”, in «Cultura tedesca», 12, 1999, p. 43) che parla dello Jesi docente universitario come di un “sapiente ‘Trickster’”, figura che lo stesso Jesi definiva “‘imbroglione’ divino, [...] ‘gabbamondo’ che mentre imbroglia fa ridere”.

[iv] C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 56.

[v] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1969, pp. 44, 23.

[vi] F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 174.

[vii] Ivi, p. 175.

[viii] Ivi, p. 176.

[ix] Ivi, cit., p. 177.

[x] Si tratta di A. Escoffier, Le guide culinaire. Aide-mémoire de cuisine pratique, Flammarion, Paris, 1921

[xi] Detienne M., L’invenzione della mitologia (1981), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1983, pp. 8, 161. Cfr: I. Strenski, Four Theories of Myth in Twentieth Century History: Cassirer, Eliade, Lévi-Strauss and Malinowski, Iowa City, 1987; C. Grottanelli, “Problemi del mito alla fine del Novecento”, in «Quaderni di storia», 46, 1997, pp. 183-206; C. Ginzburg, “Mito. Distanza e menzogna”, in Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 40-81; I. Chirassi Colombo, “Il mito e il novecento”, in Interrompere il quotidiano. La costruzione del tempo nell’esperienza religiosa, (a cura di N. Spineto), Jaca Book, Milano, 2005; M. Cometa, “Mitocritica”, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, (a cura di R. Coglitore, F. Mazzara), Meltemi, 2004, Roma, pp. 290-302.

[xii] F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 180.

[xiii] Ivi, p. 181.

[xiv] Ivi, p. 182.