lunedì 28 giugno 2010



quarta puntata della metaarcheologia del sé, autoanalisi attraverso la tesi di dottorato. mi dicono di scrivere meno che sono lungo. Come fanno i pensieri a stare dentro le parole?

Caldo afoso, Caterina dice - mamma gli occhi belli, papà anche -, qualche giorno fa' ho trovato una camicia integra che sembra venire direttamente dal 1973, nuova.



4. Terzo millennio


Succedono diverse altre cose, mentre io cresco e il paese peggiora: sarà che sono nato nel 1973 ma ho come l'impressione che i ventisette siano gli anni decisivi in cui la vita cambia, nei termini di un salto di soglia.

Certo incominci a anche a perdere i capelli e a dimezzare quello che mangi, ormai hai solo più metà bolismo, credo, la barba diventa blu fissa anche dopo che ti sei rasato e due birre ti buttano giù per terra, sfigurandoti il profilo per sempre. Ma ne vale la pena, rispetto all'inferno di prima.


Il 2000, suona come una promessa dopo che: la mamma non c'è più, gruppo musicale imploso, il servizio civile mi ha tolto quel poco di entusiasmo che mi rimaneva dopo la laurea, non male ma dal retrogusto da assurdo. Tutto qui? Tutto quel lavoro serviva solo a questo nulla?

Rapporti tagliati e ponti tagliati alle spalle. Ma dopo poco c'è qualcosa di bello, che per me continua ad avere del miracoloso: continuo a studiare, fuori città e occuparmi di libri, addirittura per lavoro, compro un portatile quasi nuovo, il mio vero primo computer.

Specializzazione in Scienze della cultura. Palazzo del seicento, mantenuto per studiare con altri quindici coetanei più o meno increduli di non stare ancora cercando un lavoro come baristi la notte. Anche un posto insensato come una piccola e borghesissima città del centroitalia diventa un buon posto in cui stare se l'hortus conclusus che ti sei scelto è ben frequentato. Mentre l'Italia segue il grande fratello noi fumiamo lo stesso numero di sigarette ma parliamo di Dante, Mann, Curtius, Ginzburg, Welles, Mosè e Gesù di Nazareth, spesso con ordinari di (o)rango internazionale, e (per fortuna?) non ci vede nessuno. In più quando torni rivaluti Torino, che improvvisamente sembra Gnuiorch. Preparo il concorso per l'insegnamento della storia della filosofia in un anno di allenamento da otto ore al giorno di seminari specialistici e lo vinco bene. Metto da parte mentalmente che nel giro di poco potrei fare il lavoro che ho sempre desiderato e smettere di essere sottopagato in ritenuta d'acconto. Succederà, altrimenti non sarei qui a scrivere.

Torno a Torino. Il 2000 è la mia estate dell'amore, ma questa è un'altra storia troppo privata. Ci sono altri gruppi da ascoltare e mettere su, altre persone e nuovi amici mi indicano libri giusti da cui si aprono altre porte. Scopro nuovi maestri e strade alternative, di cui riconosco una linea sotterranea che riconnette tutto. Da quando ho cominciato a raccogliere sistematicamente articoli di giornale e riviste, l'archivio sta divendo voluminoso. Sbatto le ali contro i vetri della cattiva conoscenza delle lingue straniere, altro peccato da scontare. Quando trovo un testo di Jesi con una postfazione folgorante di David Bidussa, capisco che avevo visto bene, e che posso lavorare lì sopra.

Facciamo un gioco. Adesso mi chiama Radio tre, con l'acca in mezzo, e mi chiedono di fare una puntata di Damasco. Per cinque giorni devo scegliere cinque autori fondamentali che ho usato come fari in una navigazione incerta. Scelgo Roth, Pamuk, Blumenberg, Assmann, e ovviamente Jesi.

Sono passati altri anni, ho insegnato, scritto, lavorato, la mia biblioteca è diventata imponente e mi ci specchio: ho moltissimi materiali archiviati, so come rintracciare tutto perché ho soggettato per chiavi in ordine alfabetico e con il tempo la mia memoria e il mio gusto per le connessioni si è raffinato. Oltre a un sistema informatico di ricerca, come scrive Melandri in La linea e il circolo,'ho una memoria che funge da schedario trascendentale'.

Il mio lavoro di questi anni è anche il risultato di tutto questo, sebbene sia più quello che ho taciuto di quello che ho dichiarato. Senza quell'edizione dell'Accusa del sangue la mia tesi non ci sarebbe, e questo vale per il numero di letture da cui ho distillato l'autorità per affermare quello che ho scritto. Poiché credo in una dimensione collettiva dell'autorialità, mi piace pensare che ci sia anche il loro lavoro nel mio, e le loro pagine risuonino nelle mie. A Marco Belpoliti vorrei riconoscere soprattutto il coraggio per scegliere le connessioni, grazie.

Sono nato lo stesso anno in cui Jesi pubblicava il suo libro più importante, in un quartiere di periferia della stessa città. Ho frequentato una scuola intitolata a Gobetti, in una zona delimitata da vie e piazze intolate a Salvemini, Carlo Casalegno e Roberto Crescenzio. Il mondo è disseminato di segni, lo è sempre stato. Avevo bisogno di capire e di ricomporre i frammenti in una sintassi dotata di senso: è quello che ho fatto. Questa storia mi appartiene.



«Mi sento intriso di un'intellegibilità profonda

dentro la quale i secoli e gli spazi riecheggiano,

comunicando tra loro con un linguaggio

finalmente comune».

C. Lévi-Straus




venerdì 18 giugno 2010

anni novanta

terza puntata della metaarcheologia del sé, eccetera eccetera. forse smette di piovere, la bicicletta è riparata, pizze con gli studenti e tra poco tempo per scrivere.

Vento d'estate

porta via stanchezza e malumori

le stelle sono tutte al loro posto


3. Novanta. Dopo Smel like Teeen Spirits

Studio filosofia, dopo un liceo scientifico affrontato con onore, ma dal lato sbagliato delle scienze: la storia, la riflessione sul passato, e in particolare l'importanza della dimensione religiosa e mitico-sacrale nelle idee degli uomini sono il mio interesse. Diversi peccati da emendare: non conosco il greco, la mia cultura classica ha diverse lacune, la biblioteca di famiglia la lascerei perdere. Potrebbe essere interessante per cogliere il tentativo di una piccola borghesia di recente urbanizzazione di dare un futuro migliore alla loro prole: su tutti un Pinocchio, Il Grande libro della storia, e il Grande libro della natura, le cui immagini mi stanno ancora oggi dinnanzi agli occhi: le immagini dell’evoluzione sui libri per bambini sono sempre la certezza rassicurante che c’è distanza tra noi e quelle quasi scimmie pelose e seminude che arrosticono animali sui pali, attorno a un fuoco. La raffigurazione degli stadi di evoluzione che accompagna le enciclopedie per ragazzi che andavano di moda negli anni sessanta e settanta, lineare e costante serve a rassicurarci, che noi non siamo più quegli esseri che tremavano nel buio e si cibavano di carne semicruda, siamo quelli che alle fine dei libri vanno nello spazio con le loro tute spaziali linde e così tecnicamente perfette. Poi antologie di Marx, Malthus e Smith che mio padre ha recuperato da un ragioniere e compagno di avventure dei ruggenti anni da scapolo, spiritualità varia e pochi classici d'antan da attribuirsi all'adorata genitrice. La biblioteca è cresciuta grazie a mio fratello maggiore, e alle sua passione per la letteratura, che si è nutrita di diversi Garzanti colorati. A lui devo anche, scelti appositamente per me, i primi classici che tutt’ora considero fondamentali dal Primo dizionario di Richard Scarry a Tolkien, per poi passare molto tempo dopo a Thomas Mann.

Ma andiamo con ordine, in questa fase mi ritaglio un percorso personale e alternativo.

Tornando a casa MTV mi trasmette gli occhi vitrei di Kurt Cobain e ragazzi in palestra di scuola con ponpon girls incendiarie e Acerchiate, alternativamente il ritmo al fulmicotone della Manonegra e la micidiale sintesi di psichedelia, new-wave e hard rock che viene da Seattle, in quel tempo Ten dei Pearl Jam vende 5 milioni di copie in pochi mesi e una copia è a casa mia, il mio ritornello preferito di quei confusi anni è dello scanzonato Beck, I’m a Loser, Baby, why don’t you kill me. Il mio romanziere preferito in questi anni è Lovecraft, di cui mi compro l'opera omnia in Newton Compton, presto scopro Auster, Moon Palace in particolare, è un libro soglia su mille altri; contando le millelire fotocopio l'inverosimile, comincio a comprare libri usati sulle bancarelle, libri di liceo classico degli anni settanta, colleziono garzantine di provenienza illecita, insomma incomincio a raccogliere cose che oscuramente sono collegati e fittamente intrecciate tra loro, e sembrano chiamarsi. Le bancherelle di libri usati di Torino sono speciali per questo, ci ho anche lavorato in una (– senta ce l’avete ‘Se questo è un uomo’ di Italo Calvino?, – ehm, signora, sì ce l’ho anche se… –). Comunque, Lou Reed quando è venuto a Torino, dice per le librerie sembra di essere a Berkeley.

Con l'università, nonostante la laurea in filosofia non sia esattamente nelle tradizioni di famiglia e nelle scelte tendenziali del quartiere (il natìo borgo selvaggio), gira bene, leggo classici come vuole un rinnovato piano di studi restauratore e rigoroso e, contro qualche scetticismo, rendo molto bene, scegliendo l'ermeneutica filosofica come mio ambito d'azione (sulla scia della locale scuola pareysoniano-vattimiano) e sviluppando una certa passione per il primo Heidegger, che, lo capisco solo ora, in realtà scambiavo per Benjamin, il quale sarebbe arrivato solo dopo. Un bellissimo corso sull'estetica dello Sturm und Drang e su Goethe (grazie ancora professor Klein, anche se non lo sa ha salvato molte menti di una generazione con quel corso 1994-95) mi introduce alla meraviglia della grande letteratura europea e del suo potenziale filosofico immenso.

Capisco che qualcosa non va il giorno in cui, sfidando la timidezza, oso chiedere a un'anziana ordinaria in cattedra perché i padri cappadoci scelgono di adottare lo schema trinitario per la loro teologia, il cui modello mi sembra chiaramente plotiniano. «La domanda è mal posta» - mi sento rispondere - «bisognerebbe chiedersi perché Nostrosignore ha scelto di manifestarsi in quel modo». Annuisco, ammutolendo, non certo di aver sentito quello che ho sentito. Ma le facce intorno a me confermano. Comincio a sospettare che la metafisica e la filosofia morale siano da accantonare a favore della storia delle idee e della critica dell’ideologia. Per fortuna ci sono seminari anche su quello.

Nel frattempo arrivano i Radiohead, siamo circa 1993 quando l’NME (New musical Express) faceva uscire della cassette contenenti i singoli più interessanti del momento, che oggi, pare, valgono una fortuna; per chi non poteva permettersi da studente il regime di acquisto compulsivo del trentenne che ha barattato la sua libertà con un salario e in absentia della rete e del suo inflattivo potenziale di exploitation musicale si trattava di una straordinaria fonte di nuovi materiali. Detto altrimenti, si poteva fare una trasmissione radiofonica d’avanguardia con roba sempre fresca e molto cool (che tra l'altro non compravo neanche io ma il fratello maggiore), per fare il dj con le cassette, che non è certo il massimo della vita ma del resto non se ne è mai accorto nessuno. Nel numero che ospitava Pearl Jam in copertina (“Can Eddie Vedder save the world?”) tra i brani della cassettina omaggio c’era Vegetable. Chitarre deviate, melodia zuccherina, ritornello insidioso e un certo controllato rumore di fondo, da Oxford, segnalati come molto promettenti. Quanto basta per un prima serio innamoramento. Nel 1994 Pablo Honey è già un must e il video di Creep è entrato nelle reti neurali dei ragazzi che solo due anni prima avevano cominciato a scaldarsi alle fiamme della palestra di Smell like teen spirits. A Milano, tra le tante date vista in quegli anni (con tappa obbligatoria al ritorno all’autogrillone di Novara, che vivo ancora oggi come qualcosa di simile al Cammino di Santiago e non posso non prendere almeno un Capri) con un drappello di ‘veri credenti’ vado al City Square a vedere per la prima volta i Radiohead. Un piccolo, stazzonato e pesto Thom Yorke in giubbotto di jeans, fuma fuori dal locale, timidi saluti e niente di più. Poi il concerto è strepitoso: tre chitarre che suonano sempre eppure non è mai troppo, basso e batteria inesorabili, rigorosi e millimetrici. Strumenti bellissimi, ancora difficili da vedere in giro. E le canzoni sono struggenti. Thom urla, si dimena e si contorce, Johnny Greenwood è un funambolo della chitarra, handsome devil che non pecca mai di virtuosismi inutili o personalismi sterili, ma mette le mani in un modo che non capisci come ma viene sempre fuori magia: è il guitar hero del terzo millennio, che combina rumore, alchimie da pedalino analogico e giubbettini di pelle striminziti (che in Italia non si trovano). Quando inizia a suonare una tastiera servendosi della paletta della chitarra (!) la sensazione è che potrebbe fare qualsiasi cosa, probabilmente sa suonare lo xilofono infilandosi una scopa nel naso e sarebbe comunque elegante. Quando arriva Creep la zappata di chitarra che introduce il ritornello, e che tutti stiamo aspettando con desiderio, proviene da un piccolo ampli casalingo completamente imballato e distorto ed ha il volume onnipotente che hai sempre desiderato: una cassa grande quanto un condominio e questo mondo che viene spazzato via da un accordo potentissimo. Dio suona una telecaster, lo sapevo.

La contemporanea lettura del Pendolo di Foucault è la mia folgorazione sulla via di Damasco: da lì il mio piano di studi prende la via degli studi religiosi in chiave sempre pià antropologica e storica e capisco che si può affrontare lo studio del passato e dello spirito umano senza offendere l'intelligenza. Appena posso scegliere qualcosa incappo in Ironia e Poesia di Alleman Beda, e poi uno studio di Festugiére sull'ermetismo gnostico e sulla mistica del politeismo. Un corso di estetica e un fraterno amico mi mettono in mano il libro giusto per una tesi di laurea, Hans Blumenberg e l'ermeneutica del mito. Incomincio a documentarmi e mi prende lo sconforto: letteratura vastissima e potenzialmente infinita, la sensazione che chiunque sappia più di me del mondo greco e la sensazione di inadeguatezza più spaventosa che si possa immaginare. Un cugino più grande, sapiente e laureato, lo stesso che ci aveva inziato a Whole lotta love (sento ancora la puntina che scende e l’ingresso di basso e batteria pulsare nelle vene e nelle tempie nel retrobottega di un colorificio) anche lui in fuga dalla provincia in cerca di cose diverse e migliori, mi parla di Jesi, il grande mitologo, - Devi leggerlo -. Registro l'informazione. Quando trovo Mito lo compro su una bancarella, anche se quando inizio a leggerlo è come sbattere contro un muro, tanto frustrante quanto emozionante: capisco meno di un quinto di quello che mi viene detto ma intuisco che lì, se solo potessi capirlo, ci sarebbe tutto quello che vorrei sapere. Ci tiro fuori comunque un buon paragrafo su mito e allegoria nell'illuminismo; ma ho un conto in sospeso con quel libro e tutto quello che io non sono per poterlo leggere.

domenica 13 giugno 2010



seconda puntata della metaarcheologia del sé.

piove spesso, ma per fortuna the national hanno fatto uscire il nuovo disco, e bloodbuzz ohio è straordinaria.



2. Anni ottanta. Ci sono piumini e jeans corti e stretti intorno a me, Snoopy è l'icona dominante, le sciarpe fluorescenti sono gran moda nella scuola media dove cerco di costruire le basi della mia socialità tra la Scilla del teppismo giovanile e la Cariddi della cattolicizzazione integrale, soprattutto cercando di non farmi pestare ed elaborando strategie di popolarità alternative, la principale delle quali, oltre lo studio, sarebbe stata la musica. Quello che conta in quell'epoca di tagli di capelli che gridano vendetta è che qualcosa sta succedendo e lo percepisco. Tra noi ragazzi la televisione è una presenza decisiva, le parole chiave sono dettate dai programmi culto, solo un attimo prima i puffi e ti ritrovi poi il Drive-In, Hazzard ma anche General Hospital, DJ Television e i film dell'orrore in seconda serata (anatema su chi volle trasmettere l'esorcista in tivvù nel 1985, chiedete agli analisti). Al centro di tutto c'è la pubblicità: la vedo e nelle immagini della vita che si manifesta nello spot, in mezzo a tutto il Mulino bianco, sento che c'è qualcosa che non va in me e nella mia famiglia. C'è una nettezza, una distinzione in quei corpi e nei cibi che rifulgono di luce perfetta che fa li sembrare più puliti più sani e perfetti, in contrasto a una sorta di pesantezza e lordura che riveste invece le nostre pastesciutte e fettine con il burro. Lì in quelle immagini c'è un mondo in cui io non ci sono, fatto di leggerezza, fragranza e grandi sentimenti, che mi dice tutta la mia grevità e inadeguatezza che ci costuituiscono contrapposta al nitore e alla finezza delle ragazze più belle della mia classe (come S*****a che divenne uno struggente simbolo di chissà che cosa nel suo negarsi), che invece appartengono a quel mondo. All'epoca soffrivo – come si fa ad accedere a quella sfera? – e sentivo il richiamo della produzione di quella mitologia che sta alla base dell'analisi della civiltà borghese di Barthes, ma avrei dovuto aspettare Marx e Nietzsche diversi anni dopo per trovare il varco che mi consentisse di capire. Il varco verso l'uso politico dell'immaginazione che ha bruciato il cervello di questo paese moltiplicando i processi di mutazione antropologica di cui il berlusconismo è risultato e nuova causa. Il cui principio teoretico, l'estetizzazione della politica, è alla base delle culture dell'identità. Se questa è una costante dell'antropopoiesi, ovvero di come ogni forma di umanità autocostruisce le proprie strutture connettive naturalizzandole con il nome di realtà, forme di religione e forme politiche sono il luogo di osservazione privilegiato di queste dinamiche intensificate: fondamentalismi e totalitarismi appaiono al microscopio dello studioso paradigmatici per l'osservazione su scale di evidenza assai ampia di un modo elementare di darsi nella cultura. Nella tarda o surmodernità con il combinato disposto di cultura dell'immagine insistita e narcisismo prometeico di massa si rendono apprezzabili modalità simili di costruzione della realtà, che oltre la tecnicizzazione triviale e scoperta del mito, sono ideologia pervasiva in termini microfisici e a bassa intensità, macchina di costruzione della realtà attraverso la miticizzazione, in cui l'essere collassa sotto l'imperativo sociale di un dover essere. Che è conformismo, omologazione, apparire, voler essere visti, implosione della critica e assorbimento dell'utopia, che può sopravvivere solo come nuova estetizzazione. Gli anni 80, insomma.


martedì 8 giugno 2010


Dopo solo neanche una settimana il pungiglione velenoso dello scorpione della melancolia (naturaliter dell'uomo di genio) riprenda a inoculare il suo tristo veleno; noi studiosi di filosofia post-scritturalisti criptoromanzieri siamo creature lunari, sofisticate e malinconiche.
Ma è il momento buono per tirare fuori alcune riflessioni ossianiche e cimiteriali accarezzate nel tempo parallelo alla scrittura della tesi.
A puntate, che mi dicono che l'ultimo post era un po' troppo lungo.





Metaarcheologia del sé. La tesi di dottorato come autoanalisi


«Mi sento intriso di un'intellegibilità profonda

dentro la quale i secoli e gli spazi riecheggiano,

comunicando tra loro con un linguaggio finalmente comune».

C. Lévi-Strauss


Alle origini del mio interesse per il passato e il mito posso individuare alcuni fatti biografici, apparentemente insignificanti, ma tali da restare nella memoria di lungo periodo, per chissà quanto e credo destinati ad affiorare qui ora, mentre mi accinge a chiudere un cerchio, durante la stesura di un lavoro pluriennale sul mito, sulla mitologia e sulla scienza che ne se occupa.


1. Novembre, fine anni settanta e primi anni ottanta. I santi, il giorno della visita a chi non c'è più è per me la sensazione di avere i piedi freddissimi, la felicità di un viaggio verso la campagna, quella campagna piemontese che un giorno avrei imparato a leggere attraverso Pavese, ma che era già così allora. Ma soprattutto è il cimitero che conta: incassato nella valle tra il fiume Tanaro e le colline di tufo che segnano l'ingresso vero e proprio nel territorio della Langa, quel cimitero è per me il passato, è il simbolo di qualcosa che non c'è più ma che ha lasciato dei segni materiali. Cinta di mura basse, colori tenui, una piccola campana e un cancello sempre aperto. Lungo le lapidi interrate vedo scritte cancellate dal tempo con date di secoli passati, qualche famiglia benestante ha eretto cripte antiche ed eleganti ricoperte di edera e di segni inequivocabilmente remoti e alieni nella loro ambiguità: angeli e donne velate si alternano alle onnipresenti croci attestati in tutte le variabili ortodosse di marmo, pietra e legno. Poi i loculi nel marmo bianco: progressivamente vecchie foto in bianco e nero, da cui nonni mai conosciuti mi sorridono circondati da una schiera moltitudine di loro solidali. Qualche cognome riecheggia il mio e nel giro di saluti, intimidito nel discorso mentale che accompagna la preghiera rituale – l'eterno riposo è sempre stata la mia preferita, insieme all'angelo custode – non posso fare a meno di contare le date e calcolare il tempo che mi separa da queste vite, di uomini con grandi baffi e donne, alcune giovani e molto belle. In un'ala apposita i morti bambini, quelli inaccettabili a cui si destina un posto speciale, testimoni muti di un'era in cui la mortalità infantile era orrore quotidiano e diffuso. E poi i segni della guerra: morti partigiani, tanti, foto in divisa e segni di pietas civica di quando la resistenza voleva dire qualcosa, soprattutto rapporto con i luoghi e con la dignità offesa da riscattare. Dispersi in Russia, resti di caduti sempre più remoti, la siepe esterna di cinta coronata, come grani di rosario, dei morti della grande guerra, a circondare tutto come a dire che il Novecento nasce da lì, è la Grande guerra il contenitore di tutto con il suo correlato di morte addizionale, quella che va oltre il già inaccettabile trascorrere nel non più dato. Lì c'è il mio zio più caro di quando ero bambino, un tumore all'intestino lo ha portato via nel 1980, avevo sette anni. Lì c' è mia madre, un mieloma la ha portata via nel 1998, quando avevo venticinque anni; lì ci sono altri cugini, zii e conoscenti che mi hanno portato in braccio e seduto sulle ginocchia, mostrato animali e cose di un mondo, quello della mia famiglia da secoli – la terra – che da bimbo di città non sapevo. Anche loro persi e diventati memoria postuma.


Quel cimitero è per me l'altro, la distanza da colmare, la luce abbacinante del ritorno e di qualcosa da trovare. L'inizio di una volontà di sapere che arriva fino a qui.


mercoledì 2 giugno 2010





A un giovane emo


L’essere mostra il suo splendore e il suo senso, e ciò può avvenire in molte forme: nelle forma delle epifanie divine, o attraverso l’utilizzazione di un semplice espediente tecnico, un’altalena, con l’aiuto della quale si sta sospesi tra cielo e terra, e se si è, altro non si fa se non essere. L’uomo non è gettato o tenuto entro il nulla, dove tutto intorno a lui ‘nienteggia’, bensì nell’essere, dove tutto intorno a lui, anzi in lui ‘natureggia’.


K. Kerènyi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Scritti italiani, 1955-1971, Napoli, Guida, 1993, pp. 120-121.



Caro giovane emo,


1. so che probabilmente la definizione è sbagliata, e che tu e i tuoi amici non siete degli ‘emo’, che è è un’etichetta giornalistica priva di spessore che vi siete trovati appiccicata addosso con quel tanto di stereotipico che hanno tutte le rappresentazioni del nuovo. Oppure no, la definizione è giusta e tu e i tuoi amici siete degli emo, anche in senso ‘emico’ e siete fieri di esserlo perché è così che vi definite nei vostri blog, su facebook, su my space, in chat e chissà dove ancora io non riesco neanche a immaginare. Da lì viene la vostra esistenza umbratile, simile al riflesso che la luce dei laptop proietta sulle facce di chi sta al computer, sornione nel suo taggare il mondo di sé oppure miagolando nel buio nel comunicare la sua angoscia digitale.

Quale che sia la vostra natura o denominazione, tu e i tuoi amici, prima solo una vaga descrizione sociologica spigolata su qualche rivista, siete diventati veri e vi ho incontrati nella mia città. Più precisamente nel suo cuore, il negletto parco dei giardini reali di Torino, dove da mesi sciamate in branchi, sulla collina vicino all’Auditorium, nei prati e sulle panchine da cui si vede la Mole, finendo per rotolare giù nella sgraziata area bimbi che tutti ricordano per il sole a picco d'estate e l'umidità residua al suolo nelle altre stagioni. È qui che io, la mia piccola Caterina e la sua mamma, passiamo le ore migliori della giornata e intratteniamo relazioni con i nostri simili sapiens sapiens in questa fase di poco seguita alla riproduzione: Caterina con i piccoli gattonatori, instabili bipedi ed esploratori del nuovo mondo-ambiente, io e la mia compagna con i nostri pari per genere/specie, neo-genitori di provenienza più o meno alternativa, con cui si affrontano e condividono le delizie della genitorialità e le croci della ritrovata dimensione familiare. Ma non è di questo che voglio scrivere.

Parlerò piuttosto della collisione tra il giovane emo e il giovane padre – siamo tutti giovani in questo paese, non è straordinario? – ; questo è quanto avviene quando in un parco giochi per bimbi da 0 ai 6 anni, io con la mia unenne in braccio mi ritrovo a far la coda per le altalene con dei sedicenni androgini con ciuffi biondo platino in calzamaglia.


2. Non cadrò nel tranello in cui cascano le mamme che hanno paura di voi, delle punte nei capelli e degli strappi nei giubbotti, delle sigarette insistite e delle birre pomeridiane; sono scene che ho già visto e appartengo a quella generazione che ricorda ancora molto bene come si mima la sfrontatezza dell’adulto cattivo con accurata messinscena: conosco quel codice dal retrogusto amaro, rivolto ai propri simili, con il suo sottotesto di angoscia e di solitudine, di percepita inconsistenza di sé. In ogni caso, non ho paura di te, giovane emo, perché riconosco ancora i tratti infantili del viso e una certa goffaggine nello scegliere e indossare i vestiti.

Sia chiaro: le culture giovanili esistono, per fortuna, e mutano in continuazione, servendosi del continuo riutilizzo di materiali preesistenti a formare un nuovo codice che lentamente emergerà con il suo tratto specifico, secondo quanto Lévi-Strauss ha sapientemente scritto sul pensiero mitico in quanto bricolage: nei colori dei vostri vestiti, nei tagli di capelli, nell’ambiguità sessuale ricercata, c’è del punk, del dark, del metal, del gotico, qualcosa di new-romantic, tanto manga, elementi pop camp, spruzzate di anacronismi vintage variamente declinati e tante altre cose convergenti in qualcosa, la dimensione emozionale, che dovrebbe dire qualcosa riguardo la vostra sensibilità speciale.

Il che è perfetto per circoscrivere l’adolescenza contemporanea: emozione, sensibilità, diversità, anticonformismo, incomprensione, solitudine, angoscia, alienazione, confusione, ribellione, trasgressione, ironia sferzante, épater le bourgeois, stile civettuolo, sensualità sono le coordinate che il vostro stile cerca di trasformare in segno. E, a essere sinceri, ci sono tutti gli elementi che potrebbero indurmi ad apprezzare il gesto: soprattutto se l’alternativa sono i fascisti da discoteca (con pantaloni strettissimi e corti e i cappelli di una taglia più piccola che stanno sulla cima della testa rasata) che si ritrovano da McDonald, centro metri più su dei giardini reali. In particolare potreste la corrente emo potrebbe anche dire qualcosa sui diritti degli omosessuali o dei transgender, che in un paese come questo non è cosa da poco; ma non sono convinto che ne siate consapevoli, né che ne abbiate la forza. C’è qualcosa che non funziona e che ha a che fare con l’altalena.

Provo a immaginare: tu vuoi stare con i tuoi amici, con cui condividi una ricerca del senso della vita che sia diverso dalla noia borghese e mercantilistica del tardo capitalismo avanzato; vuoi trovare i tuoi spazi, esprimere la rabbia e sperimentare la trasgressione, vincere la timidezza e sciogliere le contraddizioni che ti impediscono di comunicare e magari anche avere relazioni sessuali con chi ti piace e scoprire le cose della vita perché adesso tocca finalmente a te; se è solo questo, perché avete scelto proprio un posto in cui apparite fosforescenti di fronte a mamme e papà con prole, nonne e nonni con discendenza? E se siete tutti così sensibili perché nessuno di voi dà l’impressione di non aver mai sentito parlare di Wilde o Rilke o Pavese o Hesse o Rimbaud, e perche non vedo mai nessuno leggere punto? Detto altrimenti, perché scegliete la visibilità estrema al posto del nascondimento e della segretezza? Perché al posto di essere al cimitero monumentale a passeggiare tra simboli funerari neoclassici e statue di donne velate liberty, o a limonare nel segreto di un bosco dei tanti parchi della città, voi siete qui a mostrare tutta la vostra sfrontatezza a mamme e bambini, e, in definitiva a fare la coda per l’altalena a fianco di mia figlia?

Perché cicche spente, bottiglie vuote, strusciarvi, dire arditezze lascive e ammiccanti ad alta voce sembrano darvi piacere non tra di voi ma di fronte a bimbi, nonni, mamme e papà?

Queste le domande che mi passano velocemente in testa quando vedo voi emo saltellare allegramente su per il parco, nel momento in cui sto per sfiorare tangenzialmente il vostro mondo. Oltre l’indignazione del neo padre trentaseienne in svolta reazionaria il senso di quello che sto dicendo è: voi volete farci credere che siete più sensibili e ve lo ripetete insistentemente nei vostri blog in cui postate le foto fatte con il cellulare alle panchine, con le quali misurate l’arditezza della vostra trasgressione a centimetri di frangia, sbavatura del trucco, vodka alla pesca il sabato pomeriggio. Così, mi sembra, l’andare in altalena insieme ai bambini, rientra in una competizione non si sa bene con chi per il premio di chi è più strano e al contempo intende provocare un’irritazione, ma vi tradisce nel cercare la sponda in qualche cosa che vi appartiene ancora. Parlo dell'infanzia.


3. Ecco il mio surreale colloquio, ma reale, con te, giovane frangiuto emo un po’ butterato in giubbotto tipo pecora e l’occhio truccato con l’eye liner di tua sorella. Io, dopo aver visto l’altalena per bambini di due-sei anni dondolare paurosamente sotto il tuo peso, mi avvicino al vostro gruppo e dico, con tutta la cortesia alla quale mi sono addestrato nell’arco degli anni, che sarebbe il caso che la smetteste, perché state impedendo ai bambini di giocare e oltretutto rischiate di rovinare un gioco, come avviene quasi per tutto in un paese in cui lo spazio pubblico, simbolico e reale, è abbandonato, assegnato al degrado all’incuria, all’alzate di spalle, alla rassegnazione, e al limite custodito minoranze attive e livorose.

I tuoi amici/che annuiscono memori di una qualche legge morale o quanto meno di una traccia di super-ego, e tu che ciondoli, senza malagrazia, perfino con una certa ironia dici che avevi letto sedici e non sei, che sei magro e leggero e che in fondo sei ‘affezionato alla tua altalena, che è la stessa che usavi da bambino’; altrettanto graziosamente ribatto che tutto sommato crescere può voler dire anche staccarsi dai vecchi ricordi e che questo è un buon momento per farlo.

Mentre le oscillazioni dell’altalena diminuiscono e ti prepari a scendere, ribatti dicendo qualcosa del tipo tipo che ‘il fatto di essere ebreo ti discrimina e che quindi non puoi andare in altalena’. Tocco surreale e dada rivolto ai tuoi amici, rispetto ai quali devi salvare la faccia, in fondo un adulto ti ha sgridato e tu mi hai sempre dato del ‘lei’. Parli a loro, dunque, ridacchiate un po’ impacciati e senza aggressività ve ne andate senza lanciare imprecazioni a mezza voce come altri adolescenti fanno quando vengono ripresi. Per me va bene, non raccolgo l’insulsaggine di tirare fuori una cosa seria come l’antisemitismo, non voglio umiliarti e il mio obiettivo è raggiunto: l’altalena è libera, per un po’ non ci saranno danni e nell’immediato i due-seienni possono tornare a giocare, mamme e nonne possono rilassarsi.

Certo, anche loro che scambiano un adolescente truccato e perfino scolarizzato per un delinquente confermano che il sultanato di Silvio I il Panegocrate, che da oltre quindici anni governa questa provincia dell’Impero, ha decisamente modificato la percezione delle persone che ormai vedono nella realtà solo i simulacri di quello che esiste nello spazio dell’etere, che secolarizzandosi, è oramai divenuto digitale terrestre. L’immaginazione, neanche quella buona, è davvero al potere. Ma intanto eccoci qui tutti insieme nel giardino segreto del nostro meraviglioso tempo retto da egolatria e narcisismo, le coordinate antropologiche di un asse percettivo visione-immagine sovradeterminante rispetto al resto.

Provo a mettere a fuoco anni di studi per decostruire l’immagine dell’altalena in alcuni strati della cultura dell’Europa: già nella Lisistrata di Aristofane emerge una connessione delle altalene legate agli alberi con la religiosità agraria e una certa simbologia sessuale che l'ambiente arcaico ellenico assegna alle Korai, le fanciulle in fiore; Kerényi ne fà una metafora della tensione dell’umano tra l’aldiqua e l’aldilà, trasposizione in termini di esperienza percettiva elementare di un’oscillazione tra terra e cielo che stava a indicare come l’umano sia intrecciato con il mondo, a partire dal quale rivolge lo sguardo a ciò che lo fonda, un qualcosa che seppur indeterminato si manifesta in forme determinate. Mann nel Doktor Faustus parla di «stiramento di ventre che il bambino prova sull’altalena lanciata in alto e nel quale si mescolano il giubilo e la paura del volo» (ed. it. 1996 p. 157), per indicare un’analoga esperienza di sete di trascendenza per chi è inchiodato nell’immanenza: qui il romanziere, nemico di ogni indebità profondità sovraumana, trasforma in emozione umana l’inquietudine sacra che l’antichista leggeva in senso metafisico.

Poiché i simboli sono operanti anche se non ne siamo consapevoli (soprattutto se non ne siamo consapevoli) su queste basi posso immaginare che allora il giovane emo sia attratto dalle altalene perché è un essere immaturo e implume che cerca un modo di manifestare il disagio della trasformazione del suo corpo in una cornice estetica che enfatizza l’infantilismo, almeno quanto il dark-goth enfatizzava il primitivismo e la sacralità cruenta: un’altra spia è il riferimento ai manga nelle capigliature e nei pantaloni stretti al fondo (che radicalizzano un tratto già tragicamente ‘80), secondo un modello pansessuato ma in realtà asessuato in quanto bidimensionale, in una sorta di rovesciamento dello stereotipo angelicato del bimbo pre-freudiano. Questo, esagerato ed eccessivo, non farebbe che alimentare la desublimazione repressiva di cui parlava Marcuse inserendola già nel prodotto per la preadolescenza, secondo un processo che riempie la scena di immaginario sessuale per cancellarla dalla pratiche reali.

L’altalena allora potrebbe essere il richiamo dell’adolescente alla sua infanzia, di chi cerca di seminarla senza che si veda cosa altro si potrebbe diventare. Ma anche il vagheggiamento regressivo di un modo diverso di vivere rispetto a ciò che si è, qualcosa che si porta dietro la traccia di un’emozione antica di meraviglia dell’essere, simile al canto, al mito e alla danza. Circa centomila anni prima della cassa dritta in quattro quarti.


5. Vediamo cosa non mi hai detto giovane emo nel nostro colloquio: vuoi tornare bambino, non solo quando vuoi andare in altalena ma quando persino ti giustifichi con il ricordo di infanzia; un’altra giovane madre che ha recentemente sgominato una banda di finti-punk che occupavano il girello si è sentita rispondere, anche lì con gentilezza: - è che in fondo ci sentiamo bambini. Per la cronaca è andata peggio a un terzo giovane padre che doveva affrontare di mattina giovani italomagrebini in botta da hashish, ma questo è un altro discorso e i problemi di un boeur italiano rispetto al permesso di soggiorno, lingua, sradicamento, emarginazione e quant’altro non sono quelli di un esponente della classe media in crescita (l’esponente, non la classe media) che cerca visibilità e riconoscimento in un mondo pensato a forma di facebook.

Rispetto alla dichiarazione di magrezza, un’ossessione di cui si può morire, non hai perso l’occasione per rimarcare ai tuoi amichetti quanto sei fragile e passerotto, e sensibile nel non prendere peso, così da poter sfoggiare i tuoi pantacollant estremi, che ti rendono simile al personaggio dei fumetti tanto bisex. Stupisce sempre quanta crudeltà e violenza ci siano nei discorsi adolescenziali sul peso, sul sesso, sull’avvenenza e sulla popolarità; stupisce che dopo averli visti nei telefilm americani siano diventati reali anche da noi. A proposito, i Simpson sono nati come un raffinato progetto di critica alla società dello spettacolo, non come modello di emulazione di cui andare fieri: intendo dire Homer e Bart non sono un un modello, erano lo specchio crudele ma non privo di compassione, non la via per la distruzione nell’individuo di ogni forma di super-ego.

Quando poi, giovane emo, per uscire dall’impasse del quadretto in cui io-adulto sgrido te-giovinastro, dici di ‘essere ebreo’ e quindi discriminato, ti tradisci involontariamente di nuovo: perché tu ti senti veramente discriminato e incompreso in quanto giovane, indipendentemente dal fatto che tu abbia addestrato i tuoi adulti di riferimento a soddisfare diversi tuoi bisogni.

Quello che mi colpisce è come tu stia veramente lanciando un messaggio agli adulti, di cui riconosci l’adultità e l’autorità ma senza metterla in discussione. Di cui cerchi, se non la comprensione un rapporto fosse anche sottoforma di repressione, che è quello che vedo fare a tutti gli studenti, che nel mio ruolo di insegnante di scuola superiore (sorpresa!) mi sforzo di trattare come esseri dialoganti e pensanti, e che invece invocano un approccio comportamentista duro. Trasgressione-punizione.

Il giovane umano appartenente alle più recenti generazioni lancia dei messaggi perché oscuramente avverte il bisogno di una relazione, oltre che con l’assente (l’altalena come traccia della nostalgia per il perduto sé e per l'essere) anche con gli educatori? Certo la relazione non c’è o è difficile e interrotta perché la prima cosa che salta è il linguaggio comune, il repertorio di topoi e punti di riferimento a cui attingere, di immagini, conoscenza, storie, sogni, strumenti di comunicazione. Vedo ragazzi che non sanno parlare a qualsiasi altra persona di età differente, si smarriscono nei cioé, ignorano le forme di saluto per rivolgersi o come si gestisca una telefonata, sembrano usciti dall'uovo l'altro ieri, dice Cotzee dei suoi studenti, che di fronte ad Agostino, Dante, Milton scuotono le spalle e ridono.

Un ipotesi: invocate la repressione con un comportamento stolido e irritante, messinscena del fatto che esistiate solo voi, proprio per richiedere un’intervento; e in qualche modo quando voi emo state lì a mettere in mostra la festività della vostra trasgressione, credete di impressionare mamme e nonne, babbi e nonni, mentre state metacomunicando la vostra presenza e chiedete il lro aiuto. Perchè siete dei bambini, davvero.


6. Niente di personale, giovane emo, nei tuoi confronti; probabilmente, fuori dalle maschere che il teatro di sguardi costruisce al parco-giochi, non saresti neanche male come persona. Ma c’è qualcosa che avverto come offesa personale nella collettività che incarnate, simile a branchi di lemming impazziti lanciati verso chissà quale direzione: c’è molto rancore da parte mia perché voi (generalizzo perché la vostra natura è collettiva, il vostro numero legione) perché avete trasformato in brand massificato e avete ridicolizzato, definendola, una costellazione alternative-post-punk indefinita, inchiodandola a una versione macchiettistica e irritante; e con essa quella generazione che, contro ogni fissazione e cristallizzazione ed etichetta aveva fatto del ‘non chiedermi la parola’ il suo tacito codice di comportamento; così, mi sembrate la sensibilità adolescenziale e il dolore di crescere trasformato in barzelletta di cattivo gusto.

Non era già più la mia cosa, eppure quegli anni ottanta di cui evocate il fantasma sono stati molto di più e di diverso da quell’immagine patinata di cui avete colto l’allure, come la luce di stelle morte in altri tempi. Mentre il paese e il mondo cambiavano e la storia accelerava in modo pauroso, in quegli anni ottanta qualcuno ci è morto, quasi tutti vi sono passati attraverso con genuino dolore, molti si sono anche divertiti vivendo la ricerca di una vita che battesse più forte, in una paese che era davvero differente da oggi: Mimì Clementi, una voce che ha saputo parlarmi quando era il mio tempo giusto con i Massimo Volume, ha scritto recentemente di quegli anni in questi termini:

«Così mi compro un basso, imparo a suonarlo, inizio a vestirmi di nero e vado in piazza. Scopro che dentro i dischi c’è la vita che mi manca e comincio una nuova esistenza [...] dove ognuno cerca di nascondere le stimmate di di ciò che gli appartiene. [...] Tutti hanno hanno chiaro in mente che [...] l’Italia tutta è un posto di merda. Così ci tagliamo i capelli a zero, ce li facciamo crescere fino al culo. Ci mettiamo addosso orecchini, borchie, tatuaggi. Ci scoliamo flaconi interi di Zitoxil e scriviamo sui muri: Né stadi, né legge, né eroi. Segni di distinzione che devono far capire che noi non ci stiamo, che è stato il destino a condannarci a un posto del genere. È la consapevolezza di questo che sancisce le amicizie, adesso. Non ci si passa nemmeno a chiamare casa, [...] perchè casa è una parte di quella maledizione» (L’ultimo dio, Fazi, 2004, p. 54).

L’autenticità è sempre l’illusione retrospettiva di una coscienza postuma, la quale invoca il lusso dell’origine che tutti vorremo per noi e per noi solo, così come lo scritto è il tradimento di una presenza che quanto era presente non si dava a conoscere. Tutto dopo appare più chiaro, ci deve essere qualcosa di storto nell’apparato cognitivo di un adolescente che dopo non ci sarà mai più. Per fortuna. Quindi non sarò io a stabilire con certezza chi era autentico e chi non lo è. Ci sono stati veri credenti, atei, opportunisti, mestatori, inconsapevoli, traditori del propria tempo in ogni epoca, luogo e gruppo sociale. Quindi potrei sbagliarmi e voi emo state solo cercando la vostra strada per uscire da un inferno per certi versi simile a quello dei vostri nonni, genitori o fratelli maggiori.

Forse la ruota dell’eterno ritorno macina sempre la stessa materia almeno dai tempi in cui Goethe ha scritto il Werther e qualcuno che ha riconosciuto in esso un modello estetico se ne è servito come veicolo di qualcosa che stava provando, rendendolo ridicolo e trasformandolo mentre credeva di ripeterlo, inventando una cultura giovanile il cui destino è apparire repellente alla generazione che l’ha preceduta.

Ma nulla mi toglie della testa che voi siete soddisfatti del mondo in cui vivete, dal quale cercate visibilità e complicità. Credo che il nichilismo realizzato sia l’assenza totale di noia e di dolore, l’apatia totale, il complesso del Nirvana e la riduzione all’inorganico realizzata per instupidimento e nullificazione del pensiero. Cos’era che potevamo sapere? Cos’era che dovevamo fare? Che cosa potevamo sperare? Nessuno odia più se stesso e nessuno vuole più morire. Chi non capisce di cosa sto parlando è già parte di un problema, prima ancora di esserne vittima.

Detto questo, piccolo emo, non ho soluzioni. Posso solo suggerirti di lasciare il parco ai bambini e andare a passeggiare in un parco con una copia (vado a caso) dell’Antologia di Spoon River in tasca o delle Lettere a un giovane poeta o un Roland Barthes a caso o di qualche altra meraviglia dimenticata che sta nelle bancherelle di via Po, a due passi dalla vostra collina, che ti sceglierai da solo, stregato da una copertina o da una frase ammaliatrice: presa al tempo giusto è roba che salva la vita, il combinato-disposto che può accendere la miscela del più potente e miglior stupefacente, quell’immaginazione che spero porterà mia figlia a cercare un paese diverso.


(Torino, ottobre 2009)


PS Cambio scena. Ieri ho estinto un principio un incendio in un parco periferico, i giardini Crescenzio, che hanno meno bad-vibes dei Reali; certo, non senza aver prima redarguito gli adolescenti sovrappeso, terza media direi a occhio, che lo avevano acceso rischiando pure di ustionarsi.

Un bambino accorso che avrà avuto quattro anni mi chiede: – ma perché quei bambini hanno acceso il fuoco? – Perché volevano fare un dispetto e sentirsi più grandi – dico io – e perché li hai sgridati? – ribatte. – Perché è pericoloso, rischiano di fare male a qualcuno e bruciare tutto il parco, rispondo mentre quello mi guarda tra lo stupito e l’ammirato.

Mezz’ora dopo mi raggiunge allo scivolo dove Caterina scivola e mi chiede: – ma tu sgridi sempre i bambini? E io: solo quelli che fanno cose stupide e pericolose, è che sono un insegnante. Ma l’avresti fatto anche tu con quei ragazzi del fuoco. – Infatti volevo dirgli qualcosa – dice il piccolo. – Stai tranquillo, gli dico, adesso sei piccolo, è normale, quando diventerai grande vedrai che lo farai anche tu. – Forse lo farò, se diventerò furbo, mi dice il piccolo Salomone scuotendo la testa perplesso.