martedì 30 agosto 2011

settembre torna sempre



è stata una buona estate, a livello strettamente personale intendo.
Libri letti da metà luglio a oggi:

Ioan P. Culianu, Il rotolo diafano
Keith Richards, Life
Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo
Giuseppe Caliceti, Una scuola da rifare
Valerio Evangelisti, Rex tremendae maiestatis
Gianfranco Marrone, Addio alla natura

canzoni della mia estate:
William Fitzsimmons, If You Would Come Back Home
Retribution Gospel Choir, Breaker
Postal Service, Such Great Heights
Thurston Moore, Benediction
Laura Veirs, July Flame
Idlewild, A Modern Way to Letting Go
Joseph Arthur, There is a Light that never Goes Out
Rolling Stones, Street Fighting Man
Einstürzende Neubauten, Sand

nel frattempo ho (quasi) finito di scrivere una monografia e ho riletto diverse cose di Jesi, Barthes etc etc per esigenze di lavoro.





ecco un divertimento letterario che non ha trovato altro posto.

Camminare in autostrada

Era capitato per caso, una stupidaggine. In autostrada sul furgone, diretti in Emilia, ancora prima di arrivare ad Asti avevamo finito la benzina. Fermi. Sotto il sole, carichi di strumenti e con tutto il viaggio da fare. Io e Pietro abbiamo scavalcato una rete sul ciglio della Torino-Piacenza e ci siamo incamminati attraverso i campi, verso l’abitato in cerca di carburante lasciando gli altri in attesa a discutere di chi fosse la colpa di tale idiozia. Dopo aver trovato un distributore, in un piccolo paese sonnolento disteso tra l’autostrada e una statale, con la benzina in una sacca di plastica abbiamo tagliato nuovamente per i campi dirigendoci verso l’autostrada, dove il furgone fermo nella corsia d’emergenza ci aspettava un paio di chilometri più indietro.

Abbiamo cominciato a camminare al bordo della Torino-Piacenza, un posto dove le distanze mostrano tutta le relatività del mezzo che le compie. Il tragitto, molto breve in auto, sembrava lunghissimo. Non passavano macchine, la strada era vuota. Il sole di fine luglio arroventava l’asfalto, l’aria tremolava all’orizzonte. Non mi sarebbe mai più capitata un’occasione del genere. Ho cominciato a camminare in mezzo all’autostrada. In centro alla corsia, aprendo le braccia, accennando alcuni passi di una danza e alternandola con salti e qualche segno tracciato nell’aria.

Quasi non sentivo la voce di Pietro, «Cosa fai? Sei impazzito? Torna qui». Pensavo a quel luogo non calpestato, un posto dove pezzi di metallo e gomma passano a 130 chilometri all’ora. Mi sembrava di essere il visitatore di un mondo parallelo che prova dimensioni inedite. Lì a rivendicare il diritto della specie a riconsegnare un suolo non pensato per velocità umane alla portata di gambe e piedi. Quasi come se con quel camminare, incerto, lento e solenne, potessi cancellare le tonnellate di asfalto e i centinaia di migliaia di chilometri che ricoprono la Terra, prima di perdersi nel mare, e rendere quel posto abitato e reale.

In quella manciata di minuti di camminata nel nulla, non saprei quanto e per quale distanza, sono stato semplicemente i miei passi sulla strada; il battito del mio cuore era lo stesso pulsare del sole e il mio sguardo era quello degli uccelli in volo. Senza sopra e sotto prima e dopo, soggetto e cosa, qualcosa in me ha ricordato distese di boschi popolati di animali mai visti, montagne percorse da ruscelli che si gettavano nel mare senza fine, cieli lividi su cui danzano bagliori gialli e rossastri come di stelle esplose e poi ricomposte in altra forma.

Poi il rumore di un’ondata di veicoli in arrivo mi ha riportato indietro, nei giorni che si rincorrono e nell’ora in cui l’io si può dire tale. Ho atteso di vedere avvicinarsi il bagliore feroce delle lamiere delle auto, fino al limite del ragionevole, poi mi sono spostato di nuovo sul ciglio della strada, ancora ridendo. Dopo poco raggiungemmo il furgone.

lunedì 1 agosto 2011

Simboli, potere ed emozioni

dopo essermi perso da qualche parte mi sono ritrovato.
ho dovuto guardare fisso il mare per un bel po' per sputare il veleno dell'anno, e sospetto che non sia finito
comunque sto scrivendo, con la ritrovata felicità del tempo che ci vuole. quello che segue è molto buono e non lo userò per il libro.

La concezione del mito elaborata da Jesi in questa prima fase sembra avere molti punti di contatto con altre teorie più o meno coeve e imparentate con la riflessione strutturalista. Per Dan Sperber, in una prospettiva cognivista (Le symbolisme en général, 1974) «l’interpretazione simbolica» è «un’improvvisazione che si appoggia a una sapere implicito e ubbidisce a regole inconsce[1]». Come in Lévi-Strauss, per cui il senso simbolico dei miti esprime proposizioni che hanno come oggetto le categorie del pensiero[2] ma rigettandone la concezione semiologica per la quale il simbolo è segno di qualcos’altro, in Sperber, il «dispositivo simbolico» è un meccanismo generale di ordine cognitivo, i cui principi di base fanno parte di un apparato mentale innato sotteso da attività intellettuali diverse e stratificate (come la cognizione, la simbolizzazione, la ideologizzazione) che rendono possibile l’esperienza. In tal senso il dispositivo simbolico, preposto all’elaborazione di sistemi simbolici, è una forma di bricolage della mente che adottando «i rifiuti dell’industria concettuale» conservati, dispone e riutilizza i materiali culturalmente precedenti e trasformandole in rappresentazioni simboliche, «inventando per esse un’appartenenza e uno spazio all’interno della memoria»[3].

Rappresentazioni concettuali che non hanno potuto essere regolarmente costruite e valutate in base agli elementi culturali di un gruppo umano costituiscono l’elemento di informazione nuova che si introduce nel sistema culturale di simbolizzazione («in altri termini, il dispositivo simbolico ha per input l’output difettoso del dispositivo concettuale»[4]) in modo tale che rappresentazioni concettuali vengano ristabilite in un livello di comprensione soddisfacente. Così come avviene con la metafora, la coscienza sotto la spinta della costrizione generata da una dissonanza integra la nuova immagine simbolica, inserendola nell’intenzionalità reinterpretandola, cioè includendola in una normalità superiore. L’evocazione chiama in causa la memoria nella ricerca di un’informazione che permetta di stabilire una condizione concettuale inizialmente non soddisfatta, in modo da costruire una rappresentazione concettuale ricollocandola in un nuovo livello di significato. Accanto alla rinarrazione di storie precedenti che implica «la trasformazione di altri miti, endogeni o esogeni», figurano altri dati dell’esperienza di volta in volta trasformati in mito, ad esempio nuovi racconti storici tramandati oralmente[5]: in questo senso il mito è «oggetto culturalmente esemplare e psicologicamente emozionante», che diviene mito «dal momento in cui è adottato da una società»[6].

Così come avviene per Jesi, Manfred Frank, richiamandosi alla tesi di Sperber, scrive che il simbolo deve essere inteso come un «segno libero, il cui senso non dipende da un rapporto codificato tra l’espressione materiale e il significato intellegibile, ma è il risultato di un atto inventivo originario»: «la realizzazione simbolica collega magicamente il senso al suo sostrato. [...] Nell’azione rituale i gesti compiuti [...] non rimandano a un’idea esterna all’azione, ma sono l’idea stessa». Ogni simbolo può diventare ciò che rappresenta in «virtù di un’attribuzione di senso ritualizzata mediante la quale gli attori sociali rafforzano (simbolicamente) la propria identità»[7]; presupponendo la funzione denotativa del linguaggio gli atti di natura simbolica o rituale, «prendono quel segno o quella serie di segni come spunto per una proiezione di senso che si sovrappone a quella abituale», come avviene tanto nel rituale quanto nella poesia, fenomeni estetici che consentono la coesistenza di due livelli di codificazione (letterale e simbolica).

«Il sistema segnico funziona sul piano della parola espressa soltanto se una comunità interpretativa ha già fissato il suo valore duso, predisponendo un sistema di rappresentazione che colleghi i segni codificati ai loro oggetti, per poi ridefinirlo via via nel corso della sua storia empirica». La tesi di Frank è che «la funzione denotativa del discorso sarebbe allora vincolata [...] a un sistema di atti simbolici e di decisioni assiologiche la cui origine va cercata sul piano dell’interazione sociale, e che in prima approssimazione direi mitica»[8]: si tenga presente fin d’ora per comprendere la dimensione politica di Jesi che la fissazione di valori di uso e l’istituzione di piani assiologici sono forme di esercizio dell’autorità (Jesi dirà Gewalt), prerogative implicite e inderogabili di ogni forma di potere, il quale si esercita primariamente in forma ‘mitologica’. La miticità implica il rapporto tra individuo e collettività: il mito ‘vissuto’ è prassi comunicativa che consente la reciproca interazione di individuale e collettivo. L’elemento di innesco dei processi di coinvolgimento che si attivano nella ricezione mitico-simbolica riguarda l’importanza della dimensione emotiva nella vita psicologica individuale e collettiva: la performatività politica dei miti, antichi e moderni, è resa possibile innanzitutto dalla sua dimensione emotiva.



[1] D. Sperber, Per una teoria del simbolismo (1974), ed. it. Einaudi, Torino, 1981, p. VIII-XI.

[2] «il pensiero simbolico[...] farebbe uso delle proposizioni sul mondo per stabilire dei rapporti tra categorie», Ivi. p. 9.

[3] Ivi, p. 111 (cit. parzialmente modificata).

[4] Ivi, pp. 137-138.

[5] Ivi, p. 78. Anche per Sperber l’opera di Dumézil in ambito indo-europeo fornisce un’«ottima testimonianza» di tale modalità di costruzione dei processi culturali.

[6] Ivi, p. 79; cfr. «tutte le opere individuali sono miti in potenza, ma è la loro assunzione in chiave collettiva che attualizza all’occorenza la loro “miticità”» C. Lévi-Strauss, Luomo nudo (1971), ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1974, p. 590.

[7] M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia (1982), ed. it. Einaudi, 1994, p. 94.

[8] Ivi, p. 95.