venerdì 28 gennaio 2011

mito, cultura, memoria





l'anno continua bene,
onda positiva e situazioni che si aprono,
energia, felicità, articoli, interventi, conferenze e contatti,
segni di cerchi nell'acqua che si allargano e arrivano
da qualche parte

a salvarmi dalla deriva
mille promemoria quotidiani
prima metti a posto la tua stanza e poi vai a fare il filosofo

di seguito lo speciale 'giorno della memoria'




Il ‘mito’ nel Novecento. Mitopoiesi, tecnicizzazione del discorso mitico e costruzione delle identità.

Enrico Manera

0.

L’obiettivo di questo incontro, pensato all’interno di un progetto più ampio, è presentare uno studio del mito che non si sovrapponga alle vostre conoscenze ma che le integri suggerendo studi e letture recenti con un taglio multidisciplinare. Lo sguardo che vi voglio proporre nasce dall’intensa riflessione europea sul mito sorta nel dopoguerra con un culmine negli anni ottanta e tutt’ora molto vivace, soprattutto in Italia che ha vissuto con un certo ritardo culturale temi e innovazioni metodologiche. Gli aspetti principali fanno riferimento ad ambiti del sapere che sono di ‘secondo livello’: non implicano la sola conoscenza di determinati contenuti ma prendono in considerazione il valore che gli oggetti di conoscenza hanno nell’ambito della loro genesi e in quello della loro ricezione. Intendo dire che un dato storico non è mai ‘neutro’ e ‘oggettivo’ come un fenomeno fisico, ma è sempre storicamente situato dal suo contesto e culturalmente e ideologicamente mediato dalla storiografia.

Questo tipo di approccio tipico delle Scienze della cultura, implica che i contenuti, in questo caso il mito o meglio le mitologie, vengano indagati e ‘decostruiti’ sotto tre aspetti che sono l’antropologia, la storia della storiografia e la filosofia della memoria culturale.

Mito e mitologia sono parole tanto familiari quanto in realtà vaghe e polisemiche. La prima cosa che ci viene in mente è il grande patrimonio della tradizione epica dell’antichità, greca in particolar modo: quella che riguarda le «opere di uomini e dèi degne di ricordo» (Odissea I, 338). Una definizione di ‘mito’, che accomuna Esiodo, Platone e Plutarco è quella di «racconto che riguarda dèi, demoni, eroi, cose dell’Ade» (Repubblica, 392 a, 3-8).

C’è una domanda che tutti i mitologi evitano come il fuoco: «Che cos’è il mito?». Si può rispondere con le parole di un importante studioso contemporaneo, scomparso di recente J. P. Vernant:

«esso si presenta sotto forma di racconto venuto dalla notte dei tempi e che esisteva già prima che un qualsiasi narratore iniziasse a raccontarlo. In questo senso il racconto mitico non dipende dall’invenzione personale né dalla fantasia creatrice, ma dalla trasmissione e dalla memoria»[1].

Tale definizione mette in luce la provenienza remota, pre-istorica di una serie di narrazioni, patrimonio culturale che si è conservato per via orale e trasformato nei millenni ed è venuto a costituire una memoria culturale, cioè una summa di conoscenze e pratiche omogenee e note a tutti, articolate in varianti e versioni multiple, mai definitive e anzi spesso contraddittorie, che si definiscono per contrasto con il racconto storico (di cui non hanno l’esattezza) e con quello filosofico (di cui non hanno la struttura logica rigorosa) e che mantengono un ambiguo rapporto con dimensione letteraria (perché non c’è una dimensione autorale).

Tutti questi racconti ci sono noti perché sono stati scritti, ovvero snaturati nel loro essere flusso continuo e mutevole e fissati in modo arbitrario dalla scrittura, congelati nella consegna alla tradizione dalla filologia ellenistica che aveva bisogno di canonizzarli e unificarli in una biblioteca. Cristallizzati in una fonte letteraria che rende possibile la conservazione del mito trasformandolo nell’essenza e modificandolo nei contenuti al tempo stesso: per questo molti studiosi, tra tutti Lévi-Strauss e Kerényi pensano che un mito debba essere definito da tutte le versioni attestate e possibili di un mitologema. Il mito è come un brano musicale, in cui un qualsiasi tema rimanda alla tecnica di suonare e alla pratica del comporre, e dunque al mitologizzare.

Lo storico dei miti, un po’ filologo e un po’ antropologo, “disseccando i miti come farfalle morte” nei racconti mitologici ricerca lo sfondo intellettuale di cui la narrazione è testimonianza (Dumézil): in essi sono depositate tracce di un’ideologia, intesa come concezione delle grandi forze dominano il mondo, gli uomini, la società e li rendono ciò che essi sono: li plasmano letteralmente nel senso che edificano le coordinate cognitive con cui gli uomini pensano se stessi nel mondo. In questo senso ‘ideologia’ significa concezione del mondo, della storia, della vita, non valutabili in termini di vero o falso, ma espressione di interessi, bisogni, aspirazioni di diversi gruppi sociali.

La mitologia, come patrimonio di narrazioni mitiche, appare così come l’articolazione narrativa e declinata nella storia di una costellazione di idee e di un modo di pensare nella quale si incontrano forme sociali arcaiche, politiche, giuridiche, religiose e rituali: riflesso dell’immagine del mondo di chi le ha espresse. Una sorta di pensiero sociale di carattere obbligatorio, che agisce a livello inconscio: «una maglia di tela di ragno», scriveva Marcel Mauss nel 1923, che innerva di significato la vita di una comunità.

Noi non incontriamo mai il ‘mito’ al singolare: ma piuttosto alcune concrete manifestazioni della mitologia, miti al plurale, o meglio «materiali mitologici» (racconti, figurazioni, simboli, resti di culto, citazioni letterarie ma anche teorie che li spiegano).

Il singolare ‘mito’ è piuttosto usato dagli studiosi per indicare la funzione che può assumere: il mito come fattore culturale efficace e unificante, sul terreno dell’immaginario collettivo «serve, non solo a vedere, leggere e interpretare, ma anche a ordinare e perfino a costruire la realtà»[2].

Una mitologia nel mondo antico è costituita da racconti e immagini, espressioni di una visione del mondo che si riverbera in riti e pratiche quotidiane. L’immaginario collettivo di un gruppo umano costituisce il nucleo simbolico fondamentale che riempie di significato la totalità della vita delle comunità che in essa si riconosce.

0.1 Funzioni

L’incontro di oggi vuole mettere in luce la funzione sociale del mito, partendo dal presupposto che prima di chiedere ‘cosa’ il mito ‘è’, bisogna chiedersi ‘a cosa serve’: in quanto modalità di conoscenza veicolata dal linguaggio e dalla scrittura, forma di razionalità pre-scientifica e pre-filosofica, assolve funzioni teoretiche di orientamento generale, nello spazio e nel tempo. Il patrimonio di racconti mitologici, storia sacra, per gli antichi aveva un valore di fondazione, permetteva di spiegare in modo elementare la genesi del mondo (ad esempio in Esiodo il fatto che le cose derivino dal Chaos e da lì arrivino fino all’epoca degli uomini in una vicenda di ordine progressivo e orientato); servivano a riconoscere antenati comuni che fossero eroi fondatori di una casata o di una famiglia reale (es. Teseo per Atene, Cadmo per Tebe); ogni realtà locale aveva suoi ‘patroni’ e storie capaci di collocare il luogo e la comunità in un epos più complesso, divino e umano al tempo stesso.

La memoria mitologica permetteva ai Greci di sentirsi tali: i cicli omerici, mediante la grande narrazione di una guerra degli Achei, costruirono l’unificazione culturale e religiosa oltre la dimensione politico-amministrativa delle città stato. La loro forma di memoria culturale fu scritturale, e funzionò per unire, al di sopra dei conflitti, tutti i popoli che si sentivano greci, parlanti la stessa lingua e devoti alle stesse figure divine. Condividere una mitologia è fondamentale per riconoscere sé e gli altri attraverso di essa e dire: ‘noi siamo questo’.

La rete della mitologia, riflesso della vita religiosa, permetteva a ogni individuo di costruire la propria ‘identità’: questa è appartenenza di tipo riflessivo, il riconoscersi consapevolmente in un cosmo, in un popolo, in una comunità, in una famiglia, mediante il riferimento a un sapere condiviso, a una storia comune e al patronato che diverse divinità gli offrivano a seconda del mestiere, del ruolo sociale, dell’età e del genere.

Le funzioni che il mito svolge sono simultaneamente teoretiche (riguardano il cosa del sapere), pratiche (riguardano come agire) e coesive (riguardano il noi), sviluppano cioè il legame sociale, senza cui l’individuo non può essere ciò che è.

Il filosofo e scrittore Roger Caillois, sviluppando gli insegnamenti del suo maestro Marcel Mauss, sociologo e antropologo, propone una interessante etimologia della parola ‘religione’. Il termine deriva da religere, ‘tenere insieme, collegare’: anticamente religiones tramenta erant (Festo), letteralmente: «le religioni erano dei nodi di paglia», ovvero con quel termine si indicavano i nodi di paglia che tenevano le travi dei ponti. Dai tempi di Numa Pompilio il sacerdote più importante di tutti era il pontifex, il pontefice, letteralmente colui che supervisionava la costruzione dei ponti, una violazione dell’ordine di natura immane (unire ciò che è separato), un sacrilegio che richiedeva quindi la celebrazione di rituali esorcistici adeguati per placare gli dei e rimettere ‘le cose al loro posto’.

Così il pontefice è colui che veglia sull’ordo rerum, la disposizione dell’ordine dell’universo, mediante il controllo sulle pratiche rituali, dai sacerdoti alle preghiere, dalle feste agli oggetti liturgici. Perché per gli antichi il sacro non è separabile dal profano, è ciò che tiene insieme tutti i pezzi altrimenti dispersi e frammentati del mondo naturale e sociale.

Da questa importante funzione deriva il fatto che il mito continui ancora oggi a presentarsi come la voce del sacro. Qualcosa del mito, nuovi modi di pensarlo e nuovi significati continuano a funzionare nel legare insieme le persone intorno qualcosa, simile ai nodi che tengono le travi.

Un patrimonio mitologico, teologico prima e narrativo poi, assolve funzioni fondamentali per gli individui e le comunità, ripondendo a bisogni di conoscenza e di azione, di coesione sociale e di legittimazione dell’ordine e del potere che lo rappresenta.

0.2 Mito, voce del verbo ‘naturalizzare’

La condivisione di una mitologia ha una importante funzione nella fondazione di un legame sociale e nella legittimazione del potere: in virtù del suo potenziale emotivo e della sua capacità comunicativa può fornire risposte alle domande generali sulla realtà e plasmare, in modo inavvertito, le coordinate elementari di senso del mondo in cui si vive. Fin dall’antichità il mythos è qualcosa che si presenta con l’autorevolezza della verità, realizza e consolida delle autoevidenze altrimenti arbitrarie facendole apparire ‘naturali’: esso significa «parola, discorso» ma anche in altri contesti «progetto, macchinazione, rivolta», è parola concreta, efficace che evoca il tempo trascorso ed ha l’autorevolezza di un passato consacrato[3].

Come mostrano le teorie antropologiche ogni cultura opera in modo da occultare quanto di arbitrario c’è nel nostro modo di vivere, presentandolo come il modo naturale, l’unico possibile. Non ci dice che tra tutti i possibili modi di vivere noi ne abbiamo uno qualunque: lo stato elementare di una cultura naturalizza e rende ovvi norme, valori, istituzioni, interpretazioni del mondo e della vita: le rende invisibili, trasformanandole in ordine intrinseco e senza alternative. Quasi tutti i popoli antichi, come molti gruppi etnici ingiustamente considerati ‘primitivi’, chiamano se stessi con il nome che nella propria lingua significa ‘gli uomini’ (rmt per egizi, innuit, bantu: sono parole che significano ‘essere umano’, cioè diverso da dèi e animali, il nome del popolo e i maschi adulti del gruppo…).

Così opera la cultura, tanto quella antica quanto quella moderna, in base a una doppia finzione: prima ‘finge’, modella, gli uomini in un certo modo, poi ‘finge’, fa finta, che quella non sia una costruzione culturale, ma sia il vero[4].

Il mito si presenta nella storia come voce del sacro, indispensabile alle religioni organizzate man mano che aumenta la complessità politica delle comunità di riferimento: semplificando, si possono portare differenti esempi che avallano questo schema di connessione tra etnogenesi, politica e teologia tanto nel politeismo (Numa Pompilio a Roma, gli Oracoli di Delfi e Dodona nell’Ellade), quanto nel monoteismo (Aton nell’Egitto sotto Akhenaton, Jahweh in Israele post-esilio, il cristianesimo per Costantino, la diffusione dell’Islam nella penisola arabica).

Ciò che chiamiamo ‘mito’ è allora il risultato di un dispositivo sociale che produce cultura, ovvero struttura connettiva che garantisce identità: per fare questo si presenta come discorso di verità efficace, perché si mostra come ‘vero’ da sempre, ponendosi come origine e fondazione si sottrae a ogni domanda su di sé e occulta la sua artificialità, arbitrarietà e infondatezza.

0.3 Mitodinamica e macchina mitologica

Ogni cultura, indipendentemente dai contenuti delle proprie narrazioni mitologiche, si costruisce sul mito, racconto di storia sacra variamente inteso: esso ha un potere performativo molto elevato, genera significato e significatività, produce ‘senso’. Così ogni società, antica o moderna, comporta una qualche forma di mitologia: il ‘mito’, o meglio la circolazione di materiali mitologici svolge una funzione fondamentale nella tessitura e nel funzionamento della struttura connettiva di una società.

Nell’ambito della teoria della cultura Assmann ha elaborato in modo particolarmente chiaro il concetto di mitodinamica (Mythomotorik): il mito è un ricordo del passato che produce immagine di sé e speranza per obiettivi dell’agire, ha un riferimento narrativo al passato che lascia cadere luce sul presente e sul futuro.

Esso ha:

- funzione fondante, pone il presente sotto la luce di una storia che lo fa apparire dotato di senso, necessario e immutabile. (Es: il mito di Osiride in Egitto, l’Esodo per l’antico Israele, il ciclo troiano per Roma; il Golgota per il Cristianesimo originario).

- funzione controfattuale, a partire da carenze del presente evoca un passato eroico, che rende palese la frattura tra ‘un tempo’ e ‘adesso’: il presente è relativizzato rispetto a un passato migliore. In epoca di oppressione e impoverimento si possono sviluppare forme di messianismo e millenarismo. (Es: il ciclo omerico viene canonizzato con la decadenza di un sistema cavalleresco che si trasforma nella polis, celebra un tempo eroico precedente a quello della comunità democratica e dei suoi rischi; la Repubblica romana nell’età imperiale, come modello di virtù e di buoni costumi; il libro di Daniele per i Maccabei, immagine della purezza religiosa come resistenza a motivazione religiosa contro i tentativi ellenistici di assorbire il giudaismo).

Il mito assume significato e funzione in un determinato contesto di ricezione e di uso politico, formando l’immagine di sé e guidando l’agire nel presente: la mitodinamica è la forza orientatrice per un gruppo a partire dai suoi bisogni, in particolare le emergenze che richiedono un ‘di-più’ di significato. «Il mito non ‘è’ qualcosa. Qualsiasi cosa può diventare un mito»[5].

Più che di miti si parlerà allora di una funzione mitopoietica, ‘macchina’ che genera i significati condivisi sotto forma di «materiali mitologici», i quali operano nella stabilizzazione delle identità individuali e collettive, ovvero le appartenenze consapevoli a un gruppo o a una società.

Nella teoria di Furio Jesi (1941-1980) la «macchina mitologica» è un incrocio di relazioni di sapere e di potere, un complesso ‘dispositivo’ che fabbrica mitologie, produce forme di conoscenza come se fossero verità indiscutibili: essa è articolata in funzioni (il ruolo svolto nel processo di elaborazione e ricezione), mediatori (i soggetti attivi in tale processo) e depositi (i luoghi e il ‘patrimonio’ di idee e immagini veicolate). I «materiali mitologici» sono i prodotti delle macchina in forma di racconti, opera letteraria, documenti, monumenti e qualsiasi forma di testo o traccia riconducibile all’operare della macchina. Di per sé neutri, essi sono resi mitologici dalla circolazione linguistica.

Assistiamo così a uno spostamento dell’asse, nella definizione del ‘mito’ dal contenuto dei racconti, il ‘cosa’, alla modalità del raccontare, il suo ‘come’. Il verbo mythologheuein (= mitologizzare) era già presente nell’Odissea con il significato di «raccontare di nuovo»: questo dettaglio suggerisce il carattere ripetitivo del luogo comune, del cliché, come pratica mnemotecnica. La ripetibilità è un requisito fondamentale di ogni immagine mitica e simbolica: stabile e immobile, il ‘mito’ appare sovratemporale e come tale in grado di essere riattivato in ogni circostanza, producendo a seconda dei casi la rinascita periodica che si verifica nel rito e un effetto di rassicurante stabilità e di naturalizzazione del mondo.

Perciò ‘mitologie’ sono le storie raccontate da sempre e riprese di continuo: «le raccontavano una volta e le racconteranno ancora» (Platone, Politico, 268 e 4-10). Vecchi e bambini adorano ripetere e sentire ripetere le storie: se i primi hanno bisogno di trattenere i ricordi di una vita che se ne sta andando, i secondi hanno bisogno di fermare e rendere coerenti una massa multiforme di sensazione, pensieri e immagini che diventeranno la realtà che condividiamo. Con la stessa dinamica, dai tempi più antichi e mutatis mutandis fino all’età contemporanea, a forza di sentire ripetere qualcosa gli esseri umani adulti finiscono per considerarla ovvia, come un pezzo di natura.

La mitologia è frutto di una macchina identitaria che non funziona da sola, ma come strumento di comunicazione efficace al servizio delle idee. Tutte le narrazioni e i saperi pubblici hanno sempre un contenuto ideologico e vivono nella ricezione, sempre storicamente situata. La loro presunta autonomia è sempre relativa e negoziata: i miti non sono mai non-pensati.

0.3.1 Due esempi di uso filosofico del mito: Platone e il proto-idealismo tedesco

a. Platone in Repubblica intendeva bandire dalla città i miti diseducativi, che rappresentano il divino in modo inadeguato, perché ne temeva le ricadute etiche da parte dei cittadini: Atene è malata di pleonexia e philotimia (‘desiderio di avere di più degli altri’ e ‘brama di potere’) dovuti all’imperialismo marittimo e al mercantilismo ‘borghese’ prodotti dalla talassocrazia democratica. Così nelle Leggi teorizza l’utilizzo di una mitologia popolare, incentrata sul culto degli antenati, degli dèi della polis e della teologia astrale: dai vecchi ai bambini tutti devono reincantare il mondo, servendosi delle onnipresenti ‘voci ostinate della tradizione’ per arginare la decadenza di Atene e la sua corruzione morale.

Il risultato è la produzione del cittadino ideale. Platone elabora una rimitizzazione razionalistica volta a costruire i cittadini della nuova politeia: la mitologia è il dispositivo incantatorio messo in opera dal legislatore che potrà assicurare la continuità del bene e del bello attraverso la perorazione continua delle idee di giustizia, patria, fratellanza, stratificazione sociale, immortalità dell’anima.

b. Il celebre manoscritto pubblicato con il titolo Das älteste System-programm des deutschen Idealismus è un documento paradigmatico per la genesi dell’idealismo tedesco. Proveniente dall’ambiente dello Stift di Tubinga è un autografo del giovane Hegel redatto tra il 1796 e 1797, frutto del lavoro comune con Schelling e Hölderlin e bozza di ‘manifesto’ di un sistema filosofico. Il breve testo è costituito da tre aree tematiche (etica, estetica, nuova mitologia) è animato dalla critica allo Stato borghese moderno e razionalista: lo Stato meccanico, spersonalizzato e anonimo, tanto quello hobbesiano quanto quello giacobino, è il prodotto della ragione analitica che conduce al nichilismo e al disincanto del mondo e quindi alla propria delegittimazione. Ne consegue la necessità di riportare una solidarietà perduta all’interno di un modello politico simile a un organismo, in cui ogni parte ha in sé l’idea finalistica del tutto. La ricomposizione sociale si otterrà portando le istanze emancipative dell’illuminismo dentro un progetto estetico-mitologico. «Ecco quanto ci occorre: un monoteismo della ragione e del cuore, un politeismo dell’immaginazione e dell’arte». Poesia e mitologia sono strumenti di una «educazione popolare» in cui si avverte uno slancio utopico, sulla base dell’idea di Herder secondo cui la poesia è maestra perché la mitologia è fondazione di società e cultura: garantisce coesione civile nel trattare le gesta degli eroi e dei padri che si innervano nelle istituzioni pubbliche dello Stato e del culto; la rivendicazione di una cultura germanica si salda con il cristianesimo come prospettiva mitologica della modernità, capace di creare rappresentazioni comunitarie.

1. ‘L’invenzione della mitologia’:

Arriviamo a delineare le conseguenze storiche e teoriche di quanto detto finora. La ‘mitologia’ come la conosciamo è un prodotto della riflessione filosofica che inizia con Platone e passa attraverso il Romanticismo come tappe obbligatorie; il mito è qualcosa che sorge nel sacro, con esso tramonta e rinasce secolarizzato, privo cioè di valore religioso, nella letteratura; esso diviene fin dagli albori della razionalità occidentale l’immagine che di esso hanno voluto dare i diversi mitologi: il mito è l’invenzione addomesticata dei filosofi, che ne hanno fatto l’opposto della ragione. Questo è il risultato del dibattito sul mito, vivacissimo tra Germania e Francia a partire dai tardi anni sessanta.

Marcel Detienne ne Linvenzione della mitologia (1981) sostiene che il mito, apparentemente immediato e legittimo, può essere compreso solo se lo si interroga, se si ‘smonta’ ciò che appare dietro la sua facciata. Il mito necessita di decostruzione; ‘mito’ appare come una «specie introvabile, oggetto misterioso dissolto nella acque della mitologia»[6], creato di volta di volta dagli intellettuali che se ne sono occupati. Letteralmente ‘inventato’ da Platone e Tucidide come genere avversario della ragione, «finzione che mima la demenza e l’infanzia», il mito è fin dall’antichità una sorta di schermo su cui proiettare «ogni realtà metafisica che si voglia», secondo un movimento che fa della mitologia «l’atlantide sommersa della razionalità, la saggezza superiore di un continente fantasma»[7]:

In questo senso il modo non ingenuo per studiare il mito è costituito dalla pratica della storia della storiografia: ecco una sintesi di una storia delle concezioni del mito che si sono succedute[8].

Per gli uomini preistorici è immagine della realtà;

per gli uomini antichi è un’esperienza del sacro;

per il periodo classico è il canone di un’etnografia identitaria;

per l’ellenismo è una koiné cosmonaturalistica universalizzante;

per il neoplatonismo è un simbolo dell’Uno;

per il cristianesimo è allegoria della rivelazione;

nel medievo è allegoria, fuorviante e deviata, della rivelazione;

per il rinascimento è nuovamente simbolo dell’Uno, con nostalgia dell’antico;

per il barocco è ornato retorico, codice di celebrazione del potere e dell’amore;

per l’illuminismo è allegoria naturalistica su base deista;

per il romanticismo è simbolo dell’Uno, con nostalgia dell’antico e del rinascimento con intenzione di fondazione metafisico-politica;

per l’ontologia idealista è voce dell’essere;

per la fenomenologia è l’esperienza del mysterium tremendum et fascinans;

per il marxismo è naturalizzazione della realtà;

per la psicanalisi è traccia dell’infanzia che si confonde con l’origine;

per il neokantismo è preistoria della ragione e forma simbolica trascendentale;

per lo strutturalismo è sintomo della regola di funzionamento delllo spirito umano;

per il post-strutturalismo è dispositivo generatore di identità;

per il post-storicismo è la storia delle intepretazioni del mito.

La sfera della mitologia è quindi «sito provvisorio, spazio aperto, luogo nomade, che può diventare qualsiasi cosa voglia farne chi lo guarda», in cui l’incredibile e l’irrazionale non sono altro che l’«ombra proiettata dalla ragione o dalla religione di circostanza» e in cui ‘mito’ è si rivela un «significante disponibile per una serie di significati diversi»[9].

Negli anni settanta emerge l’idea che la presunta vicinanza del mito all’origine dell’essere sia soltanto un mito del mito e che serva a generare tenaci illusioni metafisiche. Ma c’è di più: la concezione del ‘mito’ come epifania del sacro sarebbe una proiezione a posteriori che gli studiosi di storia delle religioni hanno fatto, immaginando che gli antichi avessero un rapporto con il sacro che essi volevano realizzare nel loro presente, quando la cultura moderna stava perdendo il proprio!

In altri termini il mito come vettore del sacro ed esperienza mistica è un concetto metafisico che accompagna la nostalgia di un rapporto integro con il sacro, quando ancora ‘dio non era morto’, per dirla con Nietzsche.

Il mito è un oggetto culturale prodotto storicamente dalle scienze dello spirito nella cultura moderna, e in particolare modo la filologia europea del XIX secolo che ha usato il sapere classico per legittimare le nascenti identità nazionali e la nozione di civiltà europea, ma così facendo è anche il correlato di un pensiero conservatore che si sente assediato dalla società di massa; quasi tutti gli scienziati tedeschi di fine ottocento sono coinvolti nel processo di costruzione dello stato tedesco che culmina nel Reich di Guglielmo II; il caso tedesco è esemplare perché la cultura tedesca si presenta come diretta erede di quella greca, attribuendosi lo statuto di umanità nel suo grado più alto di civiltà (Kultur) a partire dalla fine del settecento quando viene elaborato il concetto di Altertumwissenschaft[10]. Così il mito nel XX secolo ritorna nella politica e nella comunicazione pubblica.

2. ‘La tecnicizzazione’ del mito.

All’origine della riflessione sul mito come modalità di conoscenza vi sono le riflessioni sull’uso del mito nel Novecento, nel momento in cui l’esplosione della modernità e della società di massa, vedono sorgere insieme una nuova forma di mitologia, quella nazionalista: essa condivide i propri linguaggi, verbale e visuale, con quelli della propaganda e della pubblicità: dalla Grande guerra al fascismo e al nazionalsocialismo in particolare il rapporto con il passato diviene cruciale e il mito ritorna protagonista, come perno di una cultura dell’Ur-, suffisso che sta per ‘arcaico’ e ‘primigenio’, ‘vitale’ e ‘incontaminato’[11]. T. W. Adorno scrive ne La dialettica dell’Illuminismo (1947)[12]: «La pretesa genuinità, il principio arcaico del sangue e del sacrificio, ha già qualcosa della malafede e della scaltrezza del dominio propria del rinnovamento nazionale che usa oggi la preistoria come réclame».

In particolare si parla di «mito tecnicizzato» per indicare l’elaborazione strumentale di immagini che punta al conseguimento di determinati obiettivi servendosi del mito come strumento di incantamento:

Karoly Kerényi (1896-1973) ha proposto nel 1964 la distinzione tra «mito genuino» e «mito tecnicizzato»[13]: il primo è forza che «afferra e plasma» la coscienza dell’uomo arcaico, forma spontanea e disinteressata della psiche, sorta di griglia trascendentale e di facoltà immaginativa costituente dentro la quale si compongono gli elementi della realtà di un gruppo sociale.

Viceversa il «mito tecnicizzato» utilizza e strumentalizza un processo mitodinamico per ottenere degli effetti concreti di azione o mobilitazione politica, quando nell’età contemporanea, a partire dalle riflessioni sulla società di massa, si pone il problema di riconsolidare forme di dominio attraverso la comunicazione di massa.

Il Doctor Faustus di Thomas Mann elabora esplicitamente la questione, così come era posta nelle Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel (1906):

«Nel secolo delle masse la discussione parlamentare doveva risultare assolutamente inadatta a formare una volontà politica (…), bisognava sostituirvi un vangelo di finzioni mitiche destinate a scatenare e a mettere in azione le energie politiche come primitivi gridi di battaglia. La rude ed eccitante profezia del libro era in sostanza: che i miti popolari, o meglio fabbricati per le masse sarebbero diventati il veicolo dei moti politici: fiabe, fantasie e invenzioni che non occorreva contenessero verità razionali o scientifiche per fecondare, per determinare la vita e la storia, e dimostrarsi in tal modo realtà dinamiche».

In queste parole di Mann c’è già tutto il Novecento. Il libro di Sorel ebbe un’enorme diffusione e effetti notevoli: fu letto ad esempio da Lenin e Mussolini, che ne fecero ampiamente uso. Il fascismo europeo del Novecento ha utilizzato il mito come una clava, facendone una ‘religione della morte’: in Germania con la razza ariana, il germanesimo, la lotta e la potenza, il sangue e il suolo. I fascismi europei sono stati veri e propri laboratori per la comunicazione di massa: se estendiamo il ragionamento alle modalità di propagazione e all’uso sistematico della persuasione anche in Italia possiamo parlare di mitologia, reducismo e combattentismo, poi romanità e giovinezza, la prolificità e l’impero, o più banalmente con il mussolinismo. In Romania con la Legione dell’arcangelo Michele, altrimenti nota come Guardia di Ferro, e in Spagna con il franchismo.

Analoghi ragionamenti possono essere fatti per esperienze simili, ma con grado diverso di intensificazione del mito: nella Russia stalinista con il culto di Stalin e lo stacanovismo, ma anche negli Stati Uniti con ‘i discorsi del caminetto’ di Roosevelt e nell’Inghilterra con la mistica del ‘sangue, sudore e lacrime’ di Churchill, ovviamente mutatis mutandis, su valori diversi.

Lo storico delle idee George L. Mosse ha chiamato «nazionalizzazione delle masse» (1974) questo processo di direzione dell’agire collettivo delle masse, il nuovo soggetto emergente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sulla base dell’ideologia come «arte di dirigerne l’immaginazione», per creare una comunità di fede e di sentire.

C’è una specificità del pensiero di destra? Secondo Furio Jesi, il più importante mitologo italiano, sì. In Cultura di destra (1979) egli identifica nelle «idee senza parole» (espressione di Spengler, l’autore de Il tramonto dell’Occidente) il fulcro di un sistema di tecnicizzazione del mito, strumentalizzazione politica del linguaggio volta a costruire un apparato rituale per coinvolgere gli individui nella comunità vivente della nazione all’interno di un progetto totalitario.

Tale abuso del sistema di ‘produzione della verità’ realizza l’omogeneizzazione culturale di un gruppo attorno alla dicotomia ‘amico/nemico’, ‘noi/loro’, con la santificazione di un modello di dover-essere a cui tendere e la demonizzazione dell’altro, il diverso, il ‘nemico interno’ sul quale vengono proiettati tutti gli aspetti negativi: così l’uniformazione della cultura, l’uso dei sistemi di comunicazione di massa e l’inquadramento della popolazione mediante gruppi omogenei di età e ruoli possono servire i progetti di edificazione dell’‘uomo nuovo’.

La tecnicizzazione fascista mostra in maniera macroscopica ed evidente come i contenuti della propaganda fossero una mitologia, artificiale e fraudolenta, capace di surrogare la violenza nelle fasi di consolidamento del regime con la mobilitazione della cosiddetta ‘zona grigia’: in una costruzione ideologica ciò che è importante non è il suo grado di verità, ma il suo livello di integrazione e omogeneità, in altri termini la sua efficacia performativa, che deriva la sua forza dall’immediatezza del simbolo e dalla sua capacità di semplificare la realtà. Oltre alla violenza della repressione esiste la capacità di creare consenso attraverso la persuasione, grazie all’ideologia come forza motrice dei sistemi totalitari. Il culto del leader nella stabilizzazione del potere dei regimi totalitari avviene con il salto di qualità dovuta alle nuove tecnologie di massa e all’uso sempre più spregiudicato della dimensione fabulatoria, pensata per un «popolo bambino» (Gibelli) che, fin dai soggetti in più tenera età, aveva ‘bisogno’ di rude paternalismo, sapiente menzogna e continua blandizia.

Tecnicizzare il mito significa intensificare consapevolmente un processo mitodinamico, partendo da una posizione di potere, per ottenere degli effetti concreti di azione o mobilitazione politica servendosi del dispositivo della comunicazione, modulandone ritmo e intensità, contando sulla reiterazione dei cliché e sulla capacità di costruire luoghi comuni e parole d’ordine in forza della sola frequenza e pervasività, come avviene nella gestione totalitaria dei mezzi di comunicazione di massa.

2.1 Mito di morte

C’è però qualcosa di specifico nella tecnicizzazione del mito operata nell’ambito della cultura tedesca, che la rende più pervasiva e profonda, e che spiega la grande diffusione ed efficacia che ebbe la propaganza nazista: già il romanticismo si configura come cultura di un’«aura apaziale e atemporale (...) sospensione della storia sotto il prestesto del recupero dei gangli vitali della vera storia (il Sacro romano impero, l’unità spirituale e politica dell’Europa cristiana medievale, il militarismo carismatico prussiano), intesa come opportunità di salvare quella parte della società e del mondo feudale pregiate dalla borghesia stabilizzando in forme conservatrici la propria sicurezza, fatti salvi i vantaggi sull’aristocrazia e repressi i pericoli che le erano giunti dalla Rivoluzione francese. Si trattava di un recupero del feudalesimo, ma da parte borghese; e quindi gli era necessario uno spazio astorico che risultava ingrediente stimolante nella composizione artistica di cui sarebbe stato dichiarato sede»[14].

Questa precisa accezione estetica avrebbe subito nel Novecento una torsione in senso reazionario, fornendo parole chiave ai pensatori politici della grande destra conservatrice che riprendendo il ‘dionisismo’ secondo una lettura politica di Nietzsche (si pensi al famoso George-Kreis) avrebbero di lì a poco preparato il gigantesco reincantamento del mondo operato con gli strumenti della società di massa che fu l’apparato ideologico del nazionalsocialismo.

Il nazismo per molti filosofi è stato anche una forma di attuazione storica del mito, nei termini di una nuova epoca del mondo da realizzare oltre il percepito compimento nichilistico della storia.

Parliamo di ‘religione della morte’ per indicare il ruolo simbolico che la morte riveste nella cultura tedesca. Vediamo un esempio concreto, un verso a caso dalle Liriche di Hölderlin:

Ma siano queste lacrime le ultime/che ora ho versato per l’amata Grecia:/ stridano le cesoie delle Parche, /perché il mio cuore già appartiene ai morti.

Questa poesia è bellissima, e nel suo contesto è struggente e innocente ma il suo significato divenne nel precipitare della cultura del tempo anche politico e promosse una cultura della morte come stato ideale di perfezione, da realizzare come si realizza un’opera d’arte.

I morti sono il passato, la nostalgia di un’epoca pre-moderna pensata dalle classi dirigenti come migliore e vitale, non isterilita e infiacchita dalla modernità borghese. Non solo per i poeti, spesso inconsapevoli degli effetti che il loro vagheggiare il passato poteva avere nella storia delle idee, ma anche per tutto il mondo culturale di studiosi e intellettuali le cui cattedre universitarie erano legate a doppio filo al potere statale. Si pensi alla rivalutazione e all’interesse per il Männerbund dei Germani antichi, che venivano visti come i precursori delle Ss e più generalmente del soldato tedesco, o al profluvio di studi sull’indoeuropeismo, che in tedesco suona come indogermanische.

Il processo certo viene da lontano: attestato nella tradizione guerriera antica il culto dei martiri, appartiene tanto al critianesimo quanto al risorgimento italiano. Il valore della vita vissuta per un ideale non è dissociabile dal ricordo dei morti, ma quello che è particolare qui è l’intensificazione e l’amplificazione che con l’età moderna viene fatta in Italia dal fascismo e in Europa dai diversi fascismi. Non abbiamo quindi a che fare solo con il contenuto (immagini della morte), ma con lo stesso movimento di pensiero che ha che fare con l’uso del passato e con il rapporto che la cultura europea ha con esso. Esiste un substrato culturale più o meno inconscio della cultura europea e tedesca in particolare che pensa al mito come voce della verità ad esso si rivolge nel momento in cui deve reperire risorse per gli uomini di un mondo in crisi di senso e legittimità. Studiosi del ‘mito’ come Creuzer, Bachofen a Nietzsche contribuiscono involontariamente allo sviluppo di un irrazionalismo germanico e paganeggiante, attivo tanto nella Germania guglielmina successiva al 1871 quanto nella mitologia nazista di Rosenberg e Göbbels.

È in Germania che si ha per usare la parole di Blumenberg, la formazione del «mito della mitologia», che a fronte dell’incerta origine dei miti ne fà l’origine dell’umanità o della nazione, a seconda della declinazione ‘politica’ che intende dare, sia essa cosmopolita (Herder) o nazionalista (Hamann).

Religio mortis non è solo l’esplicita tanatofilia fascista: Schiller dichiara che l’unica poesia valida è quella moderna e sentimentale (che tematizza la perdita, la distanza, la frattura della natura); Nietzsche annuncia la morte di Dio. A partire da qui ampi settori della cultura si rivolgono al passato come spazio di morte, assenza e opacità, in grado di diventare simbolo, un surplus che di valore in grado di rivitalizzare la società pre-moderna pensata come età dell’oro rispetto all’attuale decadenza.

I filosofi francesi Lacoue-Labarthe e Nancy hanno esposto questo processo in modo molto chiaro in Il mito nazi (1992), uno studio sulla componente culturale del nazismo, individuando un processo storico di almeno due secoli di identificazione e di significazione che avviene attraverso passaggi esponenziali: dall’uso del mito classico alla costruzione di nuova mitologia germanica e di lì al mito della mitologia come vicinanza all’essere, per culminare nel momento in cui il nazismo si definisce nella nozione di razza come mito della potenza creatrice del mito. Che vuol dire potenza di un’identità che si affida alla forza della propria affermazione.

Nel caso tedesco la ricerca di un’identità culturale parallela all’edificazione di una realtà statuale è stata perseguita mediante il potenziamento del mito classico che enfatizzava la Grecità oscura, fino a costruire la mitologia germanica della guerra; di lì si è passati al mito dell’arianità come mistica vicinanza all’essere imperniata sulla triade Volk, Blut, Boden. Decisiva in questo senso è stata la «costruzione, la formazione e la produzione del popolo tedesco nell’opera d’arte, come un’opera d’arte»[15] ben oltre la citazione del passato che ha contrassegnato altre esperienze politiche come la Rivoluzione francese o il secondo Reich. La cultura nazista del Der Mythus des 20 Jahrhunderts e del Mein Kampf persegue la potenza di un’identità affidata alla forza della propria affermazione, in cui lo «stile» coincide con il «pensiero» e trova la sua sintesi nella nozione mitica di razza pensata come «mito del Mito, mito della potenza creatrice del mito»[16].

Il potere evocativo e coesivo del mito viene piegato e strumentalizzato a obiettivi politici contingenti da parte dei fascismi europei, che legittimano il loro potere mediante il riferimento al passato e se ne servono come strumenti di propaganda. Ma questa non sarebbe stata possibile se gli intellettuali non avessero posto le basi di un rapporto con il mito che il nazionalsocialismo avrebbe portato ai massimi livelli. Parallelo alla diffusione del razzismo scientifico positivista di stampo darwinista che accompagna le pratiche coloniali e imperialiste, l’antisemitismo è una forma di sapere mitologico moderno che si basa sul meccanismo psicologico-sociale del capro-espiatorio e del nemico interno. Dal mito del germanesimo il passaggio alla mitologia della razza ariana è rapido, nel momento in cui l’asse indoeuropei-tedeschi-civiltà si sovrappone a quello oriente semitico-ebrei-decadenza

2.1.1 L’‘accusa del sangue’

Arriviamo dunque al tema più vicino alla nostra occasione di riflessione sulla memoria e sulla Shoah, che è l’ultima estrema conseguenza di una catena logica che, prima pensata, viene poi attuata in modo stringente. Parlare di ‘accusa del sangue’ signfica parlare del mito antisemita dell’ebreo sacrificatore di vite cristiane[17]. ‘Accusa del sangue’ è «l’espressione ebraica che designa ellitticamente l’accusa [...] di usare il sangue dei cristiani come ingrediente di cibi e delle bevande prescritti per le feste pasquali»[18].

Si tratta di un cavallo di battaglia del repertorio antisemita, il ‘tratto invariante’ di un’associazione tra ebrei e la categoria simbolica ebrei/vampiri/streghe, destinato a ricomparire sulla base di un medesimo prototipo in diversi momenti storici.

Il primo caso di accuse rivolte ad ebrei di aver ucciso bambini cristiani si ha in Inghilterra nel XII secolo, ma è notissima la vicenda leggendaria del piccolo Simonino da Trento, poi beatificato dopo la sua uccisione in circostanze misteriose nel 1475, ma non mancano i casi moderni come a Damasco nel 1840, Kiev nel 1913, Kielce in Polonia nel 1946. In tutti i casi le conseguenze erano persecuzioni e violenze collettive sugli ebrei-capro espiatorio, il ‘diverso che vive fra noi’ a cui si imputano i crimini peggiori. A tali accuse, che seguono da vicino quelle che accusavano gli ebrei francesi di diffondere la peste già nel 1348, seguivano puntualmente pogrom. Inutile dire che tutti i processi erano basati su accuse false: la stessa idea è frutto di un’immagine negativa di un popolo diverso, considerato malvagio per natura.

La stessa idea che gli ebrei praticassero tali sacrifici (si pensava che impastassero il sangue con farina) presenta i tratti dell’elaborazione in ambito cristiano[19]: «la prima e più evidente conclusione è che l’“accusa del sangue” antisemita sia nata per un ribaltamento in negativo del sacrificio di Cristo, il popolo “deicida” continuava a far scorrere sangue cristiano, dopo essersi macchiato di quello di Cristo, che a sua volta si innestava sulla sopravivenze delle memorie di sacrifici infantili presso i “pagani” […]. A ciò dovette seguire l’interpretazione a cui abbiamo accennato: gli ebrei fraintesero il valore salvifico del sangue di Cristo ecc»[20].

Attraverso rovesciamenti, riletture e fraintendimenti avvenuti sulla base di una mentalità pregiudizialmente informata dalla nozione dell’ebreo ‘infido’ e ‘perfido’, il sangue di Cristo diventa nell’immaginario antisemita il sangue di un cristiano di cui gli ebrei si nutrirebbero in modo cannibalistico per volgere a proprio vantaggio il potenziale salvifico (si mangia il nemico per inocularne la forza). Il «ribaltamento in negativo dell’eucarestia» si vedrebbe nell’immagine secondo cui gli ebrei, contrapponendo Pesah alla Pasqua, celebrerebbero riti in cui pane azzimo e vino sono mescolati con «sangue cristiano», pervertendo ulteriormente il senso del rito cristiano, rendendo delittuoso e magico ciò che è mistico e santo; allo stesso modo la tipica accusa dell’infanticidio celerebbe la reversione dell’immagine dell’agnello di Dio e del bambino Gesù.

Scrive Levi della Torre: «c’è una mentalità cristiana, che assimila a sé l’ebraismo per poi respingerlo come imitazione degenerata»[21]. Nel testo di Jesi: «“Diverso” per eccellenza, l’ebreo acquistava così la fisionomia precisa dell’essere umano simmetricamente opposto al cristiano: non solo [...] l’ebreo praticava culti bizzarri, risibili, turpi, bensì esso faceva esattamente il contrario di ciò che facevano i cristiani. Ed è noto che queste precise simmetrie, queste coppie di opposti, sono peculiari del funzionamento della “macchina mitologica”»[22].

All’antigiudaismo ‘classico’ derivato dal pensiero cristiano si associa l’immagine moderna del vampiro prodotta dalle società tradizionali: qui il vampiro è interpretabile come fantasma della modernità da parte dei soggetti che subiscono il trauma sociale seguito alla rivoluzione industriale[23]. Studiare l’immaginario antisemita significa affrontare la performatività del «fatto mitologico»: «un prodotto della macchina mitologica il quale concentra in un sol punto, extratemporale, extraspaziale, le luci che vengono dal passato e dal futuro»[24].

La macchina mitologica antisemita nel dodicennio nero della storia tedesca è la macchina della propaganda congeniata da Göbbels, a partire dalla quale un nuovo incantamento, creazione di realtà a partire da una mitologia, è diventata possibile: Himmler si interessò moltissimo del Jüdische Ritualmorde, preoccupandosi di fornire materiale, con la più ampia diffusione possibile, a quanti fossero implicati direttamente nella “questione ebraica”.

La mitologia antisemita del nazismo era una rigorosa manifestazione della retorica del nemico interno. Per il razzismo antiebraico l’oggetto del suo disprezzo è una razza «ipocritamente ed esteriormente civilizzata»: all’elemento selvaggio e ferino degli «impulsi cannibalici» si aggiunge quello della doppiezza e della mimesi furbesca, in modo che l’ebreo è pensato come colui che «può continuare a dar sfogo ai suoi istinti entro il tessuto stesso delle società “civili”»[25].

L’antisemitismo è una cartina di tornasole del rifiuto della modernità che si manifesta nell’emancipazione degli ebrei[26] e avviene sulla base della stessa mentalità che accompagna l’ideologia della violenza e giustifica il colonialismo nazionalista. La storia degli ebrei nell’Europa moderna, prima oggetto di una politica di sottomissione e poi protagonisti di un disegno di cambiamento in senso progressista, in un contesto di stabilizzazione delle identità etniche, culturali, nazionali e ‘razziali’ determina l’ossessiva insistenza dell’antisemitismo nel mettere la raffigurazione dell’ebreo al centro di ogni discorso[27].

Vero e proprio mito moderno, il codice retorico dell’accusa di omicidio rituale rientra nella logica di «disumanizzazione che rende legittima la pratica di sterminio»[28] poiché contribuisce a istituire, alimentare, rafforzare l’«ideologia della differenza assoluta tra il Sé (posto come bene) e l’Altro (posto come male)»[29]: come lo studio comparativo dei genocidi ha messo in luce, quando la forma mentis che produce/stabilizza le identità procedendo per differenziazione e separazione diventa ossessione della purezza e timore del contagio, la sistematica demonizzazione del diverso può legittimarne l’esclusione, che è il primo livello di una escalation dell’odio le cui tappe progressive (marginalità, segregazione, deportazione, sterminio) sono, non deterministicamente e necessariamente concatenate, storicamente interconnesse[30].

3. Politica e economia. La ‘macchina mitologica’ nella tarda modernità

Ci allontaniamo sempre di più dall’antichità per una breve e impressionistica panoramica delle direzioni che lo studio della mitologia ha preso nel Novecento. A partire dalla necessità di demistificare l’ideologia, dalla riflessione sulla fotografia, sull’immagine, sull’illusione di verità e sulle strategie di persuasione, Roland Barthes (1915-1980) ha inaugurato una fortunata stagione di studi sulla mitologia come modo di espressione e come processo continuo di significazione: con Mythologies (1957)[31] ha mostrato che ogni cosa può diventare un ‘mito’, arrivando a individuare nuove forme di mitologia in territori completamente desacralizzati come gli stili di vita, lo sport, la moda, il consumo.

Si può parlare di mitologia all’interno delle moderne democrazie, con la pianificazione di campagne ideologiche e pubblicitarie? Gli Stati Uniti fin dagli inizi del XX secolo sono stati i pionieri del modello economico capitalista e di sviluppo fordista, e quindi dell’industria culturale, che ha dato luogo a nuovi modelli culturali.

Come non vedere un riflesso della funzione di creazione delle identità in tutte le forme di narrazione di largo consumo? Dai fumetti alla letteratura di genere, dai colossal cinematografici fino alle fiction televisive, il nostro mondo, i nostri pensieri e la nostra cultura sarebbero impensabili senza questa nuova dimensione mitologica. Il mito, la narrazione mitica, in virtù della sua capacità significante o della sua efficiacia propagandistica, è una rappresentazione della realtà, la sua immagine. Non è una visione neutra e oggettiva ma è una rapprentazione della realtà con elementi simbolici che rinviano sempre ad altro, è un sistema di significazione complesso e articolato, che include diversi sistemi di segni.

Un mito è fonte di informazione su ciò che non si conosce, su qualcosa che si sottrae all’esperienza quotidiana – morte, distanza, lontananza, nello spazio e nel tempo, oblio dello sguardo e del passato – ma è qualcosa di più: è la sua condizione di pensabilità[32].

Su certe cose noi abbiamo solo conoscenze mitologiche, che caratterizzano dunque i nostri pre-giudizi: i cliché sopravvivono nel tempo e in virtù della loro provenienza remota vengono creduti reali e si confondono con il paesaggio fino a essere scambiati per la realtà. Così i luoghi comuni e le leggende metropolitane per molti sono la verità, così come le conoscenze che noi abbiamo di quasi tutto è ormai una rappresentazione mediatica che si è sovrapposta e ha sostituito la realtà. La nostra ‘esperienza’ è ormai la voce del televisivo. Il che contraddice la nozione stessa di esperienza, da ex-perior, ‘provare, passare attraverso’.

Günther Anders scriveva dieci anni dopo l’esplosione della bomba atomica (1956): «Chi ha consumato nella propria stanza ben riscaldata un’esplosione atomica sottoforma di un’immagine fornita a domicilio, cioè di una cartolina illustrata in movimento, costui ormai assocerà tutto ciò che può capitargli di sentire su una situazione atomica a questo avvenimento domestico di dimensione minuscole e con questo verrà defraudato della possibilità di concepire la cosa stessa e di prendere nei suoi confronti una posizione adeguata».

I mass media sono da tempo riconosciuti come potenti fattori di socializzazione: producono informazione e modelli di pensiero, veicolano rappresentazioni collettive, omologano stili di pensiero e di vita, naturalizzano la realtà e come si è visto, possono renderla funzionale al potere. Qualsiasi critica dei mass media non può essere separata da considerazioni sul mercato, sulle logiche dell’induzione al consumo, che a partire dalla pubblicità sono inseparabili dall’industria culturale. In tutto il mondo occidentale dal secondo dopoguerra in poi la propaganda, un tempo definita ‘persuasione occulta’, ha accompagnato la storia del costume e dell’immaginario, dando vita a quella situazione in cui dimensione politica e di consumo appaiono sempre più inseparabili. La macchina mitologica contemporanea da tempo è quella del potere dell’immaginazione pubblicitaria: le mitologie del quotidiano vanno ricercate ad esempio nell’estetizzazione e nell’ossessione stilistica che accompagna i nostri consumi. Automobili, abiti, creme di cioccolato, zainetti, prodotti per l’hi fi e dispositivi tecnologici, ma perfino cibi biologici e libri, sono merci corredate da un sovrappiù di significato che celebra e rende onore al dio del mercato, il vero trionfatore dell’epoca della globalizzazione[33].

La critica di origine marxista e di impronta francofortese si è spinta ancora oltre: dopo aver scambiato l’essere con l’avere, oggi abbiamo sostituito l’avere con l’apparire, e le stesse categorie possono tornare a essere utili per una riflessione sulla politica contemporanea e sulla crisi di legittimazione della democrazie parlamentari.

Si possono solo accennare alcuni esempi. Diversi osservatori contemporanei sostengono che la stessa nozione di ‘cultura’ sia usata in modo mitologico: il recente dibattito sul relativismo culturale e sul cosiddetto ‘scontro di civiltà’ teorizzato da Samuel Huntington sembrano confermarlo. Le differenze tra gruppi umani vengono esasperate fino a far sparire gli individui che vengono sostituiti da culture concepite come eterne e immutabili per servire politiche economiche e strategie globali (come ad esempio è stata quella dell’amministrazione repubblicana degli Usa) che necessitano di accettazione pubblica; ma le culture non sono sostanze che sovradeterminano gli individui, ma sono descrizione idealtipiche “buone per pensare” continuamente mutevoli e rinegoziate.

Nella stessa direzione va il potente ritorno alla legittimazione localistica e alle comunità inventate: è un caso evidente per ogni studioso l’uso retorico che la Lega Nord fa della cosiddetta Padania, una vera e propria «invenzione della tradizione» pensata per servire gli interessi regionalistici ed economici di alcune fasce di comunità regionali. La Padania è un’entita storica inesistente e il celtismo un’eredità priva di consapevolezza e tradizione in Italia. Ma non è che un esempio di una costellazione di fenomeni in cui l’identità culturale, con annesse mitologie, viene brandita come una clava per servire interessi politici. Per quanto possa sembrare paradossale l’integralismo islamico si serve sostanzialmente delle stesse logiche, additando la purezza di un Islam ideale e immaginario, che nella storia non si è mai dato, ma il cui potenziale di riscatto si dimostra nella forza di propagazione in aree geografiche che versano in situazione di grave crisi politica, culturale ed economica[34].

Con l’età della globalizzazione i movimenti di spossessamento dell’identità (integrazione transnazionale politica, economica, culturale) sembrano provocare per reazione una chiusura di segno uguale e contrario che spinge a una torsione sulle pratiche identitarie, intese come miti unificanti e riti di legame per servire dinamiche politiche bisognose di legittimazione.

Studiare le teorie contemporanee del mito può fornire spunti di analisi dei meccanismi di definizione delle appartenenze e delle pratiche condivise nelle società globalizzate e aiutare a svelare le tecniche di retorica con cui opera la manipolazione veicolate dai mass media.

Dopo che l’uso del mito fatto dal fascismo ha messo in guardia gli studiosi europei da ogni abuso (Cassirer, Kerényi, Mann, Adorno) gli studiosi contemporanei a partire dagli anni settanta hanno prodotto la nozione di ‘funzione mitopoietica’ (la scuola di Lévi-Strauss e la Mythos Debatte tedesca) e in Italia di ‘macchina mitologica’ (Furio Jesi) che sposta l’asse della riflessione sulla modalità con cui le diverse culture generano miti, ovvero contenuti arbitrari, storici e contingenti ideali che vengono considerati valori, eterni, indiscutibili e ‘naturali’ in virtù non della loro verità ma della performatività delle strategie di persuasione e di circolazione linguistica. In questo senso le identità politiche, sociali e culturali si costruiscono attraverso diverse “macchine mitologiche”, serie testuali di immagini sedimentate, condivise e risemantizzate, ‘documenti’ che si trasformano in ‘monumenti’ e che determinano le memorie culturali e le strutture connettive dei gruppi umani.


[1] P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Torino, 1999.

[2] R. Di Donato, Un mondo mitico, in J.-P. Vernant, Mito e religione in Grecia antica (1987), Donzelli, Roma, 2003, p. 81

[3] F. Jesi, Mito, Isedi, Milano, 1973, pp. 15 ss.

[4] F. Remotti, Prima lezione di antropologia, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 135-136.

[5] Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (1992), Einaudi, Torino, 1997, p. 51-52.

[6] M. Detienne, Linvenzione della mitologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1983, p. 161.

[7] Ivi, p. 158.

[8] Ancora più sottile e specialistica l’analisi delle teorie contemporanee sul mito partire dall’800. Ileana Chirassi Colombo ha aggiornato la rassegna delle teorie del mito proposte da P. S. Cohen (Theory of Myth, in «Man. The Journal of Royal Anthropological Institute», 4, 1969, pp. 337-353) individuando nove paradigmi. Mito come: 1) forma di spiegazione di eventi (Tylor e Frazer); 2) espressione di una autonoma facoltà di pensiero (Müller e Cassirer); 3) manifestazione dell’inconscio (Freud e Jung); 4) racconto fondatore della solidarietà sociale (Durkheim); 5) dichiarazione legittimante senza valore descrittivo né eziologico (Malinowski); 6) versante discorsivo del rito (la scuola mitico-rituale); 7) linguaggio strutturante (Lévi-Strauss); 8) forma narrativa in senso semiotico (Greimas, Courtès, Calame): 9) forma narrativa in senso antropologico (Vernant e Detienne).

Nella voce Mythos dello Handbuch religionswissenschaftlicher Grundbegriffe redatta da Jan e Aleida Assmann è proposta una più ampia tipologia articolata in sette modelli interpretativi) : 1) polemico (il mito è non verità); 2) storico interpretativo (il mito è allegorico); 3) funzionale (il mito ha funzione sociale); 4) quotidiano (il mito come idea guida); 5) narrativo (il mito è racconto); 6) storico storiografico (ricezione del mito); 7) critico-ideologico (il mito è ideologia).

[9] M. Detienne, op. cit., p. 160.

[10] G. Leghissa, Incorporare lantico. Filologia classica e invenzione della modernità, Mimesis, Milano, 2007.

[11] «Fin dai primordi dell’etnologia o dell’etnografia moderne, lo studioso si è accostato alla credenze e alle esperienze esoteriche dei cosiddetti “primitivi” con l’intenzione più o meno esplicita (particolarmente esplicita in tempi recenti) di conoscere gli aspetti più segreti di forme di vita collettiva diverse da quelle europee, e spesso con il proposito o la speranza di contribuire così a una sorta di rigenerazione della socialità del proprio gruppo, alla scoperta o alla riscoperta di potenzialità umane latenti, la cui conoscenza contribuisse a liberare o ad arricchire la coscienza di animale sociale propria e dei membri della propria collettività». F. Jesi, Introduzione a C. Castaneda, Lisola del Tonal, Rizzoli, Milano, 1975, p. 6.

[12] T. W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo (1947), Einaudi, Torino, 1966.

[13] K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Scritti italiani (1955-1971), Guida, Napoli, 1993, pp. 113-126.

[14]F. Jesi voce Romanticismo in Dizionario critico della letteratura tedesca a cura di S. Lupi, Utet, Torino, 1975.

[15] P. Lacoue-Labarthe e J. -L. Nancy, Il mito nazi (1991), il melangolo, Genova, 1992, p. 44.

[16] Ivi, p. 49.

[17] Recente la pubblicazione del libro di A. Toaff, Pasque di sangue. Ebrei dEuropa e omicidi rituali, il Mulino, Bologna, 2007, a cui è seguito un vastissimo dibattito tra gli addetti ai lavori (tra gli altri, Luzzatto, Ginzburg, Prosperi, Cardini) sull’antisemitismo, sul rapporto mito/storia e mito/rito, sulla libertà di stampa, sulla metodologia storica, sulla responsabilità degli uomini di cultura e dei mezzi di informazione di massa. Cfr. D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica. A proposito di Pasque di sangue e del «mestiere di storico», in Vero e falso. Luso politico della storia, (a cura di M. Cafiero e M. Procaccia), Donzelli, Roma, 2008, pp. 139-172.

[18] F. Jesi, L’accusa del sangue (1973), Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 3.

[19] Citando Jesi, Cardini parla di «caratteristico e indelebile sigillo dell’immaginario cristiano». A differenza dell’orrore per il sangue che accomuna tanto l’ortoprassi ebraica e islamica dopo l’abbandono del sacrificio animale, i «cristiani [...] celebrano continuamente, nella messa, il Sacrificio del Corpo e del Sangue del Signore». F. Cardini, Il «caso Ariel Toaff». Una riconsiderazione, Medusa, Milano, 2007, p. 31.

[20] F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., p. 39.

[21] S. Levi della Torre, Il delitto eucaristico in «Immediati dintorni», 1, 1989, p. 316.

[22] F. Jesi, L’accusa del sangue, pp. 39-41.

[23] D. Bidussa, Retorica e grammatica dellatisemitismo, In F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., p. XVI.

[24] F. Jesi, L’accusa del sangue, cit. p. 17.

[25] F. Jesi, L’accusa del sangue, pp. 33-34.

[26] «L’antisemitismo moderno è per molti aspetti una risposta all’emancipazione degli ebrei (una non-nazione transnazionale che si libera in mezzo al levitare nazionalistico) prototipo a suo modo di altre emancipazioni civili, sociali e culturali». S. Levi della Torre, op. cit., p. 318.

[27] La storia dei Protocolli dei Savi di Sion è da questo punto di vista paradigmatica: cfr. D. Bidussa, Retorica e grammatica dellantisemitismo, p. XXXIII ss.

[28] Ivi, p. XXXII; cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino, 2007, pp. 97 ss.

[29] P. Portinaro, Genocidio, in Id., I concetti del male, Einaudi, Torino, 2002, pp. 109 ss.

[30] Cfr. F. Remotti, Contro lidentità, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 28-29; M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 27-29, p. 35, p. 39-40, p. 74-75; E. Donaggio e D. Guzzi, A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2010, pp. 13 ss.

[31] R. Barthes, Miti doggi (1957), Einaudi, Torino, 1974.

[32] Furio Jesi, «Riga» n. 31 (a cura di M. Belpoliti e di E. Manera), Marcos y Marcos, Milano, 2010.

[33] V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri,Torino, 2007.

[34] M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004.