venerdì 4 maggio 2012

Il bisogno di un paese diverso


Emergono dal mio archivio scritti di qualche anno fa, che stavo dimenticando.
Invece sono sempre attuali. Questo è del 2003, e uscì su «l'Unità» per il 25 aprile.
Confermo tutto.










Resistenza, la disobbedienza come responsabilità civile


Enrico Manera

Ha scritto Claudio Pavone nella sua fondamentale opera del 1991 Una guerra civile, ancora oggi non correttamente recepita dai più, che con la scelta resistenziale “per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in forme varie una esperienza di disobbedienza di massa”. Il senso di tale affermazione investe l’intero assetto della Resistenza nella molteplicità delle sue manifestazioni, assumendo il senso di un clima generale che accompagna interamente quei circa venti mesi che separano l’Armistizio dalla Liberazione.
Proprio dall’8 settembre bisogna partire per ritrovare le tracce di un primo significato di ‘libertà’ nella scelta resistenziale: il suo essere un atto di disobbedienza, non «a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione», ma «a chi aveva la forza di farsi obbedire» (Pavone).
Il totale vuoto di potere creato dall’abbandono di ogni responsabilità da parte del Re e dei generali in fuga verso Brindisi, aprì uno spazio di libertà che per tutti si trasformò nell’esigenza di scegliere da che parte stare. Massimo Mila descrive questa situazione parlandone come di una “rivelazione a se stessi”, una nuova possibilità di vita scaturita da scelte che venivano compiute spesso in solitudine e la cui radicalità veniva modulata in base alla situazione contingente, alla possibilità e alla determinazione. Nei testi di Mila, di Ada Gobetti, di Franco Venturi, di Roberto Battaglia, di Pietro Chiodi, emergono a questo proposito espressioni come ‘gioia’, ‘infanzia’, ‘incoscienza’, ‘entusiasmo’, ‘fervore’, ‘energia’. Parole che testimoniano, oltre la tragicità degli eventi, l’ebbrezza della libertà. Una realtà di grande rilevanza educativa per una generazione, cresciuta negli apparati totalitari del regime, che nella scuola elementare aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: “quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza”.
Connessi alla recuperata libertà furono, da subito, il senso di responsabilità a cui si era chiamati e la dimensione collettiva del fenomeno. Fin dal settembre 1943 si assistette a manifestazioni di solidarietà e di aiuto della popolazione offerto agli sbandati e ai fuggiaschi, in un clima diffuso di ‘resistenza passiva’. I macchinisti rallentavano i treni o si fermavano per permettere ai soldati di scappare; contadini e ragazze portavano cibo a ragazzi in fuga e senza le idee chiare, tutti offrivano abiti borghesi. Cominciava da lì quella resistenza civile che Anna Bravo ha definito un “maternage di massa”, una gigantesca mobilitazione soprattutto di donne tale da configurare un “enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sia sul piano materiale sia spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti”.
Una tale rete di supporto fu la base su cui si erse la “resistenza attiva”, i cui primi nuclei si sarebbero venuti a formare di lì a pochissimo. Uomini di diverso orientamento politico, vecchi antifascisti liberati o tornati dal confino, militari sbandati, giovani renitenti alla leva, studenti e contadini, fecero la scelta, collettiva e non individualista, di diventare “banditi”. Una scelta fatta nella consapevolezza di essere portatori di una legittimità e di una giustizia ormai scomparse dall’orizzonte storico del tempo.
La disobbedienza è, di per sé, il primo atto di una scelta responsabile, nata all’interno di un ripristinato ‘stato di natura’, in cui tutti, potenzialmente, sono contro tutti. Eppure nei luoghi della Resistenza tra il 1943 e il 1945, sulle montagne, nelle città, nelle fabbriche, nei campi di concentramento, nelle case e nelle cantine, nelle osterie dopo l’orario di chiusura, si ridefinivano i ruoli e i rapporti tra le persone. Rinasceva la democrazia come confronto diretto e dialogo aperto, beninteso anche con scontri e divergenze drammatiche di natura politica e organizzativa. Non si dimentichino la fame, la povertà e le condizioni proibitive in cui versava la popolazione di un paese in guerra, frequentemente bombardato e con una rete di spionaggio e di repressione durissima e violenta.
In questa situazione la facoltà di critica e il rimpadronirsi di sé si riaffacciavano nella vita degli individui per diventare lo spazio mentale e sociale su cui si sarebbe rifondato il Paese. La disobbedienza della Resistenza diventa dunque sinonimo di responsabilità civile, capacità di ridare dei significati alle azioni e alle scelte dopo un ventennio di eterodirezione delle coscienze e di un apparato totalitario retorico, pacchiano e tronfio che aveva reso ridicolo il senso stesso delle istituzioni. Mentre le maiuscole del littorio romano e dell’impero si sprecavano, i soldati al fronte male armati ed equipaggiati erano stati i primi a scoprire quanto ci fosse di drammaticamente falso nelle trite formule del credere-obbedire-combattere e in difesa della patria a guardia dei bidoni di benzina.
Se le drammatiche condizioni della ritirata di Russia avevano spazzato via ogni dubbio, così l’8 settembre fu il momento, percepibile da tutti, del vuoto di potere assoluto e del crollo delle isituzioni. Non “morte della patria”, come vuole certo revisionismo nostrano, ma crollo definitivo del misero edificio costruito da una dittatura che in vent’anni aveva eroso le già fragili fondamenta di uno Stato in cui il processo di Nation Building era tutt’altro che compiuto. Moriva la patria monarchica e fascista, bisognosa di fondarsi su valori altisonanti e ideologici perché incapace di esprimerne di autenticamente umani. Ma lo Stato italiano era morto ben prima, nel 1938, quando Mussolini con l’avallo della monarchia aveva instaurato le leggi razziali, stabilendo la fine dei diritti più elementari per i cittadini italiani di origine ebraica. O, addirittura nel 1924 insieme a Giacomo Matteotti, senza che i senatori liberali del Regno avessero fatto alcunché per ripristinare lo stato di diritto; o il 28 ottobre 1922 quando con la passeggiata romana in camicia nera, l’incapacità delle élites liberali di rapportarsi con le emergenti masse popolari decretò l’affidamento del potere a Mussolini da parte della monarchia.

Quando era nata, la Repubblica di Salò aveva ripristinato un ordine costituito con tanto di costituzione (quella carta di Verona che annoverava gli ebrei come nazione nemica) eppure per la maggior parte della popolazione era chiaro che la giustizia non stava da quella parte. Anche chi non amava i partigiani li preferiva di gran lunga ai tedeschi e ai fascisti perché sapeva benissimo chi era stato a scatenare la guerra. La rete di solidarietà di cui godettero i partigiani testimoniano al contrario una istintiva identificazione con la giustizia e con la legittimità che rendeva non solo possibile, ma anzi doveroso praticare la Resistenza.
Una delle ragioni della differente qualità etica tra la scelta resistenziale e quella fascista repubblicana (tra la ‘vita’ e la ‘bella morte’) sta nel fatto che l’opzione salodiana per la Rsi non avvenne alla luce della critica, ma in quella della continuità con un regime di cui si conoscevano i programmi e le efferatezze. Il più delle volte, nei processi dopoguerra la scelta per la Rsi e la commissione di crimini efferati furono giustificate dai fascisti con la frase: “l’ho fatto perché mi è stato comandato”. Per non parlare di quella citata da Pietro Chiodi che si sentì dire da un marò della X mas “ che gli è sempre piaciuta la marina” e che “nei partigiani non c’era”.
Le giustificazioni incentrate sulla difesa e sull’onore della patria non reggono se si pensa che oltre il 95% degli ufficiali tra gli internati militari italiani, arrestati e deportati in Germania dopo l’8 settembre rifiutarono di farsi reintegrare nell’esercito saloino, non in quanto antifascisti (o, peggio ancora, ‘comunisti’), ma proprio in quanto ufficiali dell’esercito di una patria di cui difendevano l’onore.
Come ha detto Claudio Pavone, in un ragionamento semplice e autoevidente, profonda è stata la differenza etica che ha diviso chi ha fatto la scelta resistenziale da chi ha scelto per la Rsi: da un punto di vista collettivo e politico da una parte si combatteva per la libertà e la democrazia, dall’altra si combatteva per un regime totalitario e autoritario, al di là della buona o della cattiva fede nell’uno o nell’altro campo.
A chi oggi mette in discussione l’importanza del 25 aprile e il suo valore collettivo per lo Stato e la società italiana, ricordiamo la gioia di chi cinquantotto anni fa visse la Liberazione dal nazifascismo. È Ada Gobetti, la vedova di Piero -lucidissima intelligenza stroncata dalla violenza fascista nel 1926- a ricordare l’aprile 1945 e il sentimento comune e condiviso: «Ebbene? – gridai loro – rallentando la bicicletta. E tanta era in quei giorni l’identità dei sentimenti e dei pensieri che essi intesero benissimo il senso della mia domanda e, benché non mi conoscessero come io non li conoscevo, risposero con un gesto allegro della mano: – Se ne sono andati!».