sabato 30 novembre 2013

lemmario - Assurdo





Assurdo


Il termine latino absurdus significa ‘dissonante’, ‘stonato’ ed è composto da ab (particella che indica allontanamento) e surdus, forse dalla radice sanscrita svar/suar (suonare). Già nell’antichità in senso figurato assume il significato che ha in italiano: ‘assurdo’ è ciò che è in contrasto con l’evidenza logica, intrinsecamente contraddittorio, privo di fondamento razionale e di riscontro nel senso comune. Metafora musicale, è una ‘stonatura’ che diverge rispetto all’armonia interna a un discorso.
Nel linguaggio comune il termine è usato tanto come aggettivo che come sostantivo, (riscontrato anche nella forma ‘assurdità’) per designare un fenomeno (atto, evento, ragionamento) che contrasta con le opinioni consolidate e si presenta come sconveniente, stravagante, inopportuno.
In filosofia l’assurdo è stato utilizzato nei ragionamenti come strumento dialettico fin dai tempi dei sofisti, maestri di retorica e professionisti dell’argomentazione che hanno elaborato nell’Atene democratica le regole della dimostrazione: per difendere la validità di una tesi si mette in luce l’impossibilità dell’affermazione contraria. Tale proposizione viene respinta mostrando l’assurdità delle conseguenze a cui si andrebbe incontro qualora venisse accettata.
Esso compare nelle forme di irrazionalismo o di parziale rifiuto della ragione che hanno caratterizzato diverse teorie filosofiche di matrice religiosa. Nel cristianesimno è opzione a favore della priorità della fede sulla ragione: credo quia absurdum era una formulazione del cristianesimo delle origini (Tertulliano, II sec.) volto a negare compromessi con la ragione e la cultura filosofica (“bisogna cercare Dio in semplicità di cuore”); verrà ripresa dalla tarda teologia medievale (XIV sec.) secondo cui, Dio, potentia absoluta dalla volontà imperscrutabile, è in grado di agire in qualsiasi modo, persino violando le leggi di natura, come avviene nei miracoli. In tal senso la Rivelazione e la pratica liturgica devono essere accettate come mistero della fede, irriducibili all’esperienza alla ragione e incomprensibili dalla ragione umana.
L’assurdo come irrazionalità è riscontrato anche nella filosofia moderna. Nel pensiero, profondamente religioso, di Soren Kierkegaard (1813-1855) l’esistenza dell’individuo si rivela incompatibile con la dimensione sociale e con ogni forma di ottimismo: il senso della vita si rivela nella solitudine e nella radicalità richieste da una fede assoluta. Ne sono la prova la scandalosa e paradossale richiesta di Dio ad Abramo di sacrificare il proprio figlio Isacco e la stessa Passione di Cristo, misteriosa umiliazione del divino nell’umano.
Nel Novecento esperienze artistiche come il Teatro dell’assurdo mettono in luce le contraddizioni della realtà, nascoste sotto la loro parvenza di linearità; le avanguardie letterarie come il futurismo, il dadaismo e il surrealismo esprimono l’estraniamento e lo sgomento a cui la modernità, dalle devastazione delle guerre alla pervasività del sistema di fabbrica, sottopone gli individui cresciuti nell’ottocentesco mito ottimistico del progresso. L’esistenzialismo ripropone il tema dell’assurdo su un piano teorico che nega ogni trascendenza e la presenza di una ragione interna alla storia e al mondo: la vita è per Sartre gratuita, priva di senso e non riconducibile ad alcuna razionalità (“Esistere è essere lì semplicemente. Gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può dedurre”). L’essere è un puro dato materiale, fattuale ed opaco che non prevede alcun fondamento extraumano e sovrastorico. Il divino scompare dall’orizzonte dell’essere umano che deve assumere su di sé la responsabilità della determinazione del senso e del divenire della società e della storia.

domenica 24 novembre 2013

lemmario - Furore





@FacesPics


Furore


Il termine ha origine dal latino furor, sostantivo derivato da furere ‘essere fuori di sé, impazzire’; indica lo stato di sconvolgimento della personalità che si manifesta come passione scomposta, delirio, ira, tipico dell’individuo che perde il controllo delle sue azioni e si abbandona alla gioia, alla collera, all’aggressività o alla violenza, con un impeto dai tratti animaleschi o estremi, assimilabili alle forze della natura.
Nell’antichità classica il furore era considerato di orgine divina: derivava dall’invasamento, ovvero la possessione della volontà dell’individuo da parte di un dio che ne dirigeva le azioni (entusiasmo, dal greco en e theos significa letteralmente “pieno di un dio”) ed era un aspetto dell’esaltazione profetica e sacerdotale. Anche l’amore era considerato causa di delirio, uscita da sé e oltrapassamento del senso della misura, secondo una concezione radicatasi poi nel tempo (si pensi all’Orlando furioso o alla cultura romantica).
Il filosofo rinascimentale Giordano Bruno (1548-1600) esprimeva la sua etica dell’azione con il nome di “eroico furore”(il primo termine veniva ricavato da eros). Immerso in un universo panteista e animato da forze vive, l’uomo è “arso d’amore” per l’infinito; la vita deve essere sforzo appassionato verso il superamento di ogni limite, spinta all’azione attiva e consapevole per la trasformazione della realtà, tensione verso l’unità con la natura divina.
In età moderna il termine perde il significato riferito alla trascendenza per designare aspetti negativi del comportamento individuale o collettivo che trovano la loro origine nella dimensione sociale, con particolare riferimento alle manifestazioni dell’ira. Recuperando un significato presente già nel latino, “furore” ricorre nella descrizione dell’agitazione e dello scompiglio che caratterizzano i tumulti e le sollevazioni popolari, che le classi dirigenti percepiscono come disordine e discordia interne al corpo sociale.
Tra Otto e Novecento, alimentato dalle ideologie, il termine è connesso alla dimensione politica: può essere tanto il “furore nazionalista” diffuso negli stati europei durante la Grande guerra, quanto il risentimento antiautoritario e antiborghese che accompagna le manifestazioni socialiste e le lotte del movimento operaio e sindacale.
In Vittorini il furore nasce come rabbia sociale per l’umanità schiacciata dal predominio delle forze trionfanti del fascismo europeo e, contestualmente, per gli orrori della guerra di Spagna, la prova generale del secondo conflitto mondiale. La repressione in Italia impedisce ogni sfogo di tali “furori”, definiti quindi “astratti”, responsabili dello stato di malessere e di prostrazione psicologica del protagonista di Conversazione in Sicilia.
Furore è il titolo italiano del capolavoro di John Steinbeck The Grapes of Wrath (1939, letteralmente “L’uva dell’ira”): esso narra del tragico esodo attraverso gli Stati Uniti di una famiglia durante la Grande depressione degli anni trenta, quando il mito della prosperità americana fu distrutto da una crisi economica di proporzioni inaudite. Milioni di persone persero il lavoro e si ritrovarono a lottare per sopravvivenza: nel romanzo un’umanità disperata si trascina da uno stato all’altro, trovando paghe miserabili, lavori semi-schiavili e un padronato feroce, alla ricerca di una redenzione che si manifesta in piccoli gesti di solidarietà.
Una differente accezione del termine, utilizzato in un’espressione risalente alla società dello spettacolo, sembra testimoniare la rottura con la cultura dell’impegno, avvenuta nel secondo dopoguerra: “fare furore” significa suscitare grande entusiasmo e riscuotere successo. A perdere il senno sono i consumatori di cultura pop nel testimoniare il loro apprezzamento verso i divi del cinema, della musica e della televisione, di cui si dichiarano fan (fanatic). L’intera sfera linguistica, proveniente dal sacro, viene risemantizzata nel profano, testimoniando la sostituzione del divino con l’effimero nei meccanismi di produzione dell’entusiasmo.

sabato 16 novembre 2013

lemmario - nostalgia


pezzi di lavori che ritornano, questa serie era per un manuale di letteratura per licei.
a volte ci si racconta anche così.





Nostalgia


Il termine francese nostalgie, dal greco nostos (ritorno) e algia (dolore, sofferenza), è un neologismo coniato dal medico dell’Università di Basilea Johannes Hofer nel 1688 per indicare lo stato psicologico e patologico diffuso tra i soldati svizzeri in servizio all’estero: il “male del ritorno” colpisce chi è lontano dal proprio paese, con sintomi quali febbre, allucinazioni e delirio, che scompaiono al rientro a casa. Ogni riferimento al desiderio di Ulisse, che soffre nelle sue peregrinazioni lontano da Itaca, o al neoplatonismo, che considerava l’Essere divino come patria dell’anima esiliata in terra, sono quindi costruiti a posteriori, mediante l’‘invenzione’ di un termine che designa un sentimento antico.
Nostalgia è lo stato di tristezza e rimpianto per la lontananza di persone o luoghi cari, il desiderio struggente di ritornare a casa, all’infanzia e agli oggetti importanti del proprio passato, di cui è vittima il migrante, costretto alla lontananza per cause di forza maggiore. Nella Dissertatio medica Hofer classifica la nostalgia come una malattia dell’immaginazione: per quanto siano le condizioni materiali (clima, paesaggio, abitudini alimentari) a creare sofferenza, il malato richiama ossessivamente una rappresentazione ideale della patria d’origine che non è mai reale, in un vissuto che fonde memoria e desiderio, processi cognitivi ed emotivi.
Il concetto di nostalgia perde progressivamente la connotazione medica per entrare nella sfera del sentimento e dalla metà dell’Ottocento il termine viene fatto proprio dalla letteratura: si pensi a Carducci nelle Rime nuove, che vagheggia una vita all'insegna della solarità mediante la celebrazione della natura e del passato, o all’opera di Ungaretti, in cui il termine assume sfumature che tengono insieme biografia (la nascita in Egitto), condizioni materiali (la guerra) ed esistenziali (la condizione umana).
Sovrapponendosi alla malinconia, dolce inquietudine non disgiunta da un certo compiacimento, la nostalgia diviene propensione a chiudersi in se stessi, atmosfera spirituale del desiderio inappagato o dell’aspirazione irraggiungibile a cui sono cari i paesaggi autunnali e le ore del crepuscolo. Quali che siano le sue ragioni (emigrazione, esilio politico, persone perdute…) la nostalgia è sempre il rimpianto di una situazione percepita come migliore rispetto a quella attuale, che comporta l’idealizzazione del passato e dell’origine (da qui anche la definizione di nostalgico, per chi rimpiange un momento storico, un assetto politico trascorso e concluso).
In termini psicanalitici, Freud chiama “sentimento oceanico”la sensazione di unità illimitata con l’universo derivata dalla condizione del neonato che non distingue tra se stesso e la madre, immerso in un’unione simbiotica e indifferenziata. La nostalgia, o meglio la sua radice, diviene il correlato del distacco originario dalla madre, l’archetipo di ogni processo di crescita e cambiamento, che significa sempre allontanarsi da qualcuno o qualcosa: fare i conti con una primigenia beatitudine ormai perduta, vorrebbe dire, in definitiva imparare a vivere.