venerdì 20 settembre 2013

Cefalonia. 7tantaResistenza


i miei archivi, sulla strage di Cefalonia. c'è la scuola media intitolata ai suoi caduti nel quartiere da dove vengo.




Cefalonia, 14-24 settembre 1943

Gli avvenimenti di Cefalonia


Enrico Manera

Quando l’8 settembre 1943 viene reso noto l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, il paese e le forze armate precipitano nel caos. Di fronte al tergiversare delle autorità italiane, che continuavano a rinviare l’annuncio dell’armistizio, la notizia è diffusa da Radio Algeri (controllata da angloamericani e da francesi degaullisti) alle 18,30. Solo in serata, dopo ore di silenzio, Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, in fuga verso Brindisi, fanno diffondere dalla radio un comunicato in cui l’armistizio è confermato. Alle forze armate e agli apparati amministrativi dello Stato non vengono date indicazioni di comportamento, se non quella di cessare in ogni luogo le ostilità contro le forze angloamericane e, ambiguamente, di difendersi contro attacchi provenienti «da qualsiasi parte» (sono le cosiddette ordinanze OP 44 e 45). Privi di direttive precise, i reparti del regio esercito iniziano a sbandarsi. Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre le unità dell’esercito tedesco, calato in forza nel paese dopo il 25 luglio, cominciano a disarmare le truppe italiane e a occupare punti strategici, aree industriali e vie di comunicazione. Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle opposizioni, comunica la costituzione del Comitato di liberazione nazionale, lanciando un appello alla lotta e alla resistenza, senza nascondere la richiesta di sostituzione del governo in carica, della fine della monarchia e dell’istituzione della repubblica.
Per le truppe italiane fuori dal territorio nazionale, incapsulate dai reparti tedeschi che ne avevano praticamente accerchiato la maggior parte nelle settimane successive la caduta di Mussolini, la situazione diventa drammatica. Nell’isola di Cefalonia, nel mar Ionio, occupata dal regio esercito dalla primavera 1941, dopo la resa della Grecia di fronte all’aggressione italogermanica, è stanziata un po’ più della metà (11 700 tra soldati ed ufficiali) della divisione «Acqui», assieme al suo comandante, il generale Antonio Gandin; il resto (circa 10 000 uomini) è sulla vicina isola di Corfù. Il 14 settembre 1943 i militari italiani a Cefalonia, dopo una consultazione interna che coinvolge ufficiali e soldati, rifiutano di obbedire all’ordine dei tedeschi di consegnare le armi e di arrendersi, e si apprestano a resistere con le armi (non senza, nel frattempo, aver fucilato cinque greci che avevano manifestato in pubblico contro l’occupazione italiana che si protraeva da oltre due anni). Di fronte al rischio di un collegamento tra le truppe britanniche che nel frattempo hanno raggiunto Brindisi e le unità italiane che continuano a tenere diverse isole del Dodecaneso, i comandi tedeschi decidono di attaccare Cefalonia e Corfù e di applicare l’ordine, emanato il 10 settembre dal Comando supremo della Wehrmacht (OKW), secondo il quale gli ufficiali italiani che avessero dato ordine di resistere dovevano essere fucilati. La battaglia che ne segue si conclude tra il 22 e il 24 settembre: 1300 soldati e ufficiali italiani muoiono durante negli scontri, oltre 5000 vengono fucilati dopo essersi arresi, altri 1400, fatti prigionieri e caricati su alcune navi, scompaiono in mare. Dei circa 4000 sopravvissuti, 2500 verranno trasferiti nei campi d’internamento militare in Germania, mentre gli altri saranno utilizzati a Cefalonia come manovalanza coatta al servizio dei tedeschi fino allo sgombero dell’isola da parte della Wehrmacht, nel settembre 1944. Solo un piccolo gruppo di ufficiali e soldati riuscì a sottrarsi alla cattura e ad unirsi alle forze della Resistenza greca operanti nell’isola.
Se Cefalonia è il caso più noto, nella convulsa fase di sbandamento caratterizzata dall’assoluta assenza del re Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali in fuga (è il caso di ricordare che la mancata dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo italiano fu presa a pretesto dalle autorità civili e militari tedesche per dichiarare «franchi tiratori», e perciò passibili di fucilazione, quei militari italiani che avessero rifiutato di cedere le armi), gli episodi di resistenza che hanno come protagonisti membri dell’esercito italiano sono stati numerosi, da Corfù (anche in questo caso per opera degli uomini della divisione «Acqui») a Lero, a Scarpanto, a Spalato, a Barletta, al Moncenisio.
Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti di Cefalonia hanno promosso attivamente una mobilitazione per ottenere giustizia nei confronti dei 31 militari tedeschi responsabili dell’eccidio, che a Norimberga era stato definito «una delle azioni più arbitarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato». In quella sede il generale Hubert Lanz, comandante del XII corpo d’armata da montagna, in cui erano inquadrate le unità responsabili della strage di Cefalonia, era stato condannato a 12 anni di carcere, di cui però solo cinque scontati. Le pressioni poc’anzi ricordate indussero all’inizio degli anni Cinquanta il Tribunale militare territoriale di Roma ad aprire un duplice procedimento, per «omicidio di prigionieri di guerra» contro gli ufficiali della Wehrmacht, ma anche, per «cospirazione e rivolta», contro 28 ufficiali italiani sopravvissuti che erano stati tra coloro che più attivamente si erano adoperati per convincere Gandin a resistere! Nel 1957 questo secondo gruppo fu assolto con formula piena, ma di una sentenza analoga avrebbero beneficiato, nel 1960, i tedeschi. L’andamento del processo fu pesantemente influenzato dalla situazione politica internazionale, che indusse le autorità politiche occidentali a sostenere la tesi di una Wehrmacht sostanzialmente immune da responsabilità nelle stragi naziste, totalmente addossate alla SS ed alla Gestapo, per favorire il riarmo della Germania in funzione antisovietica. Furono in particolare due ministri del governo Segni nel 1956, il liberale Gaetano Martino e il democristiano Paolo Emilio Taviani a impegnarsi in tal senso. Recentemente Taviani, intervistato da «l’Espresso», ha ricordato che «la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise […] l’Unione Sovietica stava invadendo l’Ungheria con tutte le ripercussioni che chi ha vissuto in quel periodo conosce bene».
La rivalutazione del caso Cefalonia da parte del presidente della repubblica Ciampi costituisce solo l’ultimo dei segnali di attenzione verso quei drammatici avvenimenti da parte della storiografia antifascista, dell’associazionismo democratico di ogni colore e di chi aveva combattuto per la Liberazione.

«l’Unità», 11 maggio 2001



La memoria di Cefalonia e la malafede del centrodestra


Brunello Mantelli

«I soldati che combattevano nella divisa, con le stellette, e sotto la bandiera del Regio Esercito, per fedeltà a un giuramento e alla Patria, non avevano i requisiti del Partigiano che si batteva contro questi valori, e magari per altri non meno nobili, ma «di parte», come del resto diceva la sua qualifica, non di patria. Ecco perché i caduti di Cefalonia non potevano entrare nel sacrario della Resistenza. Ne avrebbero inquinato il Dna e il blasone». Così, il «Corriere della Sera» del 1° marzo 2001 commentava la visita di Ciampi a Cefalonia, sostenendo che «in Italia se n’era ogni tanto – ma ogni tanto – parlato come di cosa imbarazzante, perché politically uncorrect». La tesi viene ribadita il giorno successivo, sempre sul «Corriere», là dove si afferma che il presidente avrebbe «corretto la storiografia antifascista», espressione di una «sinistra che pretese subito di egemonizzare la Resistenza, escludendo» i militari. Il 4 marzo Ernesto Galli della Loggia, noto commentatore del quotidiano milanese nonché professore di Storia contemporanea all’Università di Perugia, rincara la dose sostenendo che eventi come Cefalonia sarebbero «stati dimenticati o "addomesticati" per anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra». Si innesca così un dibattito che coinvolge anche altri quotidiani e che, quasi sempre, non contesta l’assunto di partenza: la resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia come episodio ignorato dalla storiografia e assente dai libri di scuola. Tale «rimozione» sarebbe da ricondursi all’egemonia della storiografia antifascista, tesa a privilegiare la resistenza dei partigiani rispetto a quella dei militari.
Ma chiediamoci: il punto di partenza di queste affermazioni è vero? Facciamo qualche controllo. Quasi mezzo secolo fa, nel 1953, esce la Storia della Resistenza italiana, pubblicata da Einaudi. La scrive Roberto Battaglia, storico dell’arte, partigiano, comunista. All’eroica resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia che rifiuta, con un «tumultuoso plebiscito in cui tutta la divisione si pronuncia per la lotta contro il tedesco», di arrendersi alla Wehrmacht sono dedicate due fitte pagine, in cui le coordinate essenziali dell’evento vengono lucidamente tratteggiate: la pressione esercitata dagli ufficiali inferiori e dai soldati sul generale Gandin, comandante dell’unità, perché venisse respinto l’ultimatum tedesco; il già ricordato «plebiscito», che porta alla stesura di un comunicato in cui si risponde ai tedeschi che: «per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione “Acqui” non cede le armi»; il successivo attacco della Wehrmacht che, vinta la resistenza degli italiani, sfocia in un massacro indiscriminato dei prigionieri. La ricostruzione, sintetica ma esaustiva, di Battaglia influenza non pochi libri di testo: «i reparti dell’esercito all’estero lottano eroicamente ma sfortunatamente contro i tedeschi, come a Cefalonia e a Lero». Così il Corso di storia per i Licei e gli Istituti magistrali pubblicato nel 1973 da Petrini, di cui è autore Guido Quazza. Come Battaglia, Quazza è personaggio emblematico: storico, antifascista e partigiano, negli anni Settanta succede a Ferruccio Parri nella carica di presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Rappresenta perciò autorevolmente la storiografia antifascista.
«L’esercito si disgregò immediatamente e solo pochi reparti non si sbandarono: a Cefalonia, dopo alcuni giorni di combattimento, la guarnigione italiana fu costretta alla resa e poi completamente massacrata». È la sintesi di altro manuale largamente diffuso negli anni Settanta: il Corso di Storia per le scuole medie superiori steso da Franco Gaeta e Pasquale Villani e pubblicato nel 1974 da Principato. Paradossalmente, a non far cenno al rifiuto opposto da migliaia di soldati ed ufficiali alle profferte di resa della Wehrmacht sono invece i libri di testo di orientamento moderato (se non francamente conservatore). Se dai manuali passiamo alle sintesi, lo spazio dedicato a Cefalonia aumenta: «A Corfù e Cefalonia gli episodi più tragici e gloriosi: i reparti italiani si rifiutarono e ingaggiarono battaglia [...] I nazisti, sopraffatte le truppe italiane in durissimi scontri […] procedettero alla fucilazione della maggior parte dei superstiti. […] A Cefalonia la decisione di resistere con le armi [fu] assunta con un plebiscito tra ufficiali e soldati», così la Storia d¹Italia 1860-1995 pubblicata nel 1996 da Bruno Mondadori e scritta da Alberto de Bernardi e Luigi Ganapini, entrambi esponenti autorevoli degli Istituti storici della Resistenza. Per quanto riguarda gli studi specialistici, mi limito a citare il fondamentale La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi e pubblicato da Mursia nel 1993. Frutto di un convegno promosso dalla città di Acqui, che – retta allora da una giunta di sinistra – aveva istituito in ricordo della divisione martirizzata a Cefalonia un premio di storia, il volume raccoglie in 349 pagine nove saggi di studiosi italiani e tedeschi (tra cui Mario Montinari, dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, e Gerhard Schreiber, dell’omologo Ufficio storico della Bundeswehr).
Pare sufficiente a dimostrare che raffigurarsi una Cefalonia dimenticata dalla storiografia antifascista è una menzogna detta per ignoranza o per malafede. In entrambi i casi con lo stesso risultato: diffondere un senso comune che, attribuendo alla sinistra e alla storiografia a essa vicina rimozioni, censure e distorsioni della verità storica (non importa se del tutto inventate, come in questo caso) punta a sminuirne il ruolo nella lotta di Liberazione e nella costruzione della Repubblica democratica.
Un ultimo appunto: forse è fatica sprecata indignarsi perché giornalisti, anche autorevoli, scrivono senza documentarsi, è purtroppo costume diffuso nella categoria; ma da personaggi come Ernesto Galli della Loggia, da anni nei ruoli del ministero dell’Università, si deve pretendere che – prima di impugnare la penna – vadano a controllare le fonti. In questo caso bastava dare un’occhiata al vecchio e ben noto Battaglia.

«l’Unità», 11 maggio 2001

venerdì 6 settembre 2013

Lotto settembre


Nell'estate del 2001 iniziai a lavorare presso il service editoriale Alicubi e uno dei primi importanti lavori fu uno speciale per l'Unità, direzione Colombo, dedicato all'estate '43, sotto la direzione di Augusto Cherchi e con altri collaboratori. Attraverso un cut-up di documenti e fonti raccontavamo giorno per giorno l'Estate dei 45 giorni del Governo Badoglio. Venne un interessante esperimento di narrazione storica, nel fare il quale giorno per giorno imparai molte cose. Negli anni successivi scrissi molto in quel contesto.
A distanza di oltre 10 anni c'è ancora tutto. Qui ne mostro qualcosa. É ora di riportare alla luce i files archiviati.

7TantaResistenza inizia qui.

Versione originale dell'8-9-10 settembre 2001
qui


http://archivio.unita.it/risric.php?key=enrico+manera&ed=&ddstart=08&mmstart=09&yystart=2001&ddstop=10&mmstop=09&yystop=2001


sotto la trascrizione della prima giornata
da l'Unità. 8 settembre 2001, p. 29-30, poi in Cherchi e Manera, Estate 1943. Il crollo di una dittatura, 2 vv., Nuova iniziativa editoriale, Roma, 2002.


Mercoledì 8 settembre 1943
A cura di Augusto Cherchi, Enrico Manera, Gian Luca Caporale

Il governo Badoglio tenta di dilazionare l'annuncio dell'Armistizio e decide all'ultimo l'annullamento dello sbarco alleato su Roma. Gli Alleati, irritati, apostrofano duramente il governo italiano, dichiarano di aver perso ogni fiducia e di voler procedere ugualmente: viene annullata l'operazione Giant II ma nel pomeriggio viene comunicato attraverso Radio New York, prima che lo faccia il governo italiano, l'avvenuta firma dell'armistizio. I tedeschi si apprestano a occupare il territorio italiano denunciando il tradimento. Con loro, fino all'ultimo, il governo nega di essersi arreso agli Alleati. Gli antifascisti annunciano al Paese la mobilitazione contro i tedeschi e la Resistenza armata: ricevono dal governo armi che la polizia sequestrerà poco dopo. Dopo aver addirittura pensato di ritrattare l'armistizio, il Re finalmente decide di andare avanti. Badoglio dà l'annuncio ufficiale al Paese alle 19,42. La notizia si diffonde, come un'onda che travolge tutto. La guerra fascista è finita. Ma ne comincia un'altra. La Guerra di Liberazione. Da quel momento l'Italia non sarà più la stessa.

Ore 2 Il maresciallo Badoglio spedisce un telegramma al quartier generale alleato in Nordafrica, nel quale la prospettiva dell'attacco alleato, concordato e organizzato in concomitanza dell'annuncio dell'armistizio, viene completamente rimessa in discussione:
"Dati cambiamenti et precipitare situazione et esistenza forze tedesche nella zona di Roma non è più possibile di accettare l'armistizio immediato dato che ciò dimostra che la Capitale sarebbe occupata e il Governo sopraffatto dai tedeschi. (...). Operazione Giant 2 non è più possibile dato che io non ho forze sufficienti per garantire gli aeroporti. (…) Il generale Taylor è pronto a ritornare in Sicilia e rendere noto il punto di vista del governo ed attendere ordini. Comunicate mezzi e località che voi preferite per questo ritorno. Fine telegramma. Firmato Badoglio".

Badoglio convoca nelle prime ore del mattino il Ministro degli interni Ricci e gli da ordine di "preparare un piano per il trasferimento degli organi essenziali del governo fuori Roma", sovrapponendosi così alle iniziative già precedentemente organizzate dal generale Rossi, vice di Ambrosio.
Ore 8 Il telegramma del capo del governo italiano, giunto alle 5.30 viene decodificato e spedito a Biserta dove nel frattempo si è trasferito il generale Eisenhower. Tra le 11.30 e le 12 il testo arriva anche nelle mani del generale Castellano, che rimane sbigottito; dirà in seguito:
"Non potevo supporre nemmeno lontanamente che si potesse non ottemperare agli impegni presi con la firma dell'armistizio, né potevo ammettere che a Roma non si fosse capita l'enorme importanza del concorso americano alla difesa della capitale e lo si fosse rifiutato".
Ore 11.35 Il generale Taylor spedisce un breve messaggio a Eisenhower: "Situation innocuous", è il segnale convenzionale di sospensione dell'operazione Giant II. Badoglio telefona al generale Roatta per avere conferma delle deficienze di carburante segnalate da Carboni e addotte come motivo dell'impreparazione italiana. Roatta si reca immediatamente al Viminale. Decidono insieme al generale Ambrosio, finalmente tornato da Torino dopo due giorni d'assenza, di inviare al comandante Eisenhower "un messaggio di primo piano" per mano del vice capo di stato maggiore, generale Rossi. Questo è il testo di quel memoriale:
"La parte italiana aveva la netta impressione che lo sbarco nella zona Salerno-Napoli avvenisse verso il 12 settembre. In conseguenza aveva preso le disposizioni per rafforzare per tale data la difesa della capitale, e per ricevere e proteggere la divi- sione aviotrasportata americana. Non è perciò pronta alla data dell'8 settembre. Ma, a parte questo, sono intervenute le seguenti circostanze:
- Considerevole aumento delle forze germaniche a nord ed a Sud- Ovest di Roma (divisioni 3° panzer granadiere e 2 ° paracadutisti);
- Distruzione di depositi munizioni e carburanti causa i bombardamenti aerei;
- Fortissima diminuzione da parte germanica nei rifornimenti di carburanti;
- Afflusso in Toscana, a Nord dell'Arno, di due divisioni germaniche (65° - 305°) e di aliquote di due divisioni corazza- te (Hitler-24°) che erano prima situate ad Ovest di La Spezia ed a Nord dell' Appennino.
In conseguenza le forze italiane destinate alla difesa della Capitale ed alla protezione della divisione aviotrasportata, si sono trovate a corto di munizioni e di carburante e non ancora rinforzate da due divisioni provenienti dal Nord; e perciò non nella situazione di assolvere efficacemente i loro compiti, mentre d'altra parte le forze tedesche a portata erano molto più forti di prima. Ne sarebbe derivato, qualora si fosse attuato il primitivo programma:
- Rapida occupazione di Roma da parte germanica ed insediamento di un governo tedesco-fascista;
- Conseguente pericoloso disorientamento dell'opinione pubblica e delle truppe;
- Grave situazione per le forze aviotrasportate americane man mano sbarcate.
Allo stato attuale delle cose la parte, italiana considera come la più opportuna la condotta seguente:
1. Rafforzare secondo il programma già previsto, ed accumulando proprie scorte di munizioni e carburanti, la difesa della Capitale e la protezione della divisione paracadutisti.
2. Pubblicare la richiesta di armistizio al momento in cui sia iniziato il secondo grosso sbarco, ed esso abbia già fatto progressi tali da impegnare le truppe germani- che a portata. Il chè permetterebbe di ridurre al minimo il periodo di tempo in cui le truppe italiane si troverebbero a dover fronteggiare da sole le truppe germaniche (le quali - nel frattempo - potrebbero ancora aumentare attorno a Roma).
3. Questo secondo grosso sbarco dovrebbe avvenire il più vicino possibile a Roma, allo scopo di attirare le truppe germaniche situate a portata della Capitale, ed a quello di tagliare fuori le truppe tedesche situate più a Sud. Se la necessità di far proteggere detto sbarco dall'aviazione da caccia, non permettesse di effettuare lo sbarco attorno a Roma, esso dovrebbe almeno essere attuato nella zona di Formia, Gaeta, Terracina, Littoria sulla quale potrebbe concorrere la caccia partente dalla zona di Salerno. Si potrebbe anche considerare il caso di un'occupazione dei campi di aviazione della Corsica orientale (Borgo-Ghisonaccia). Ma questa operazione preventiva non è semplice, perché avvenendo prima dell'armistizio, le truppe italiane potrebbero bensì ritirarsi sulle montagne ed astenersi da attacchi ai campi predetti ed alle truppe alleate che li proteggerebbero, ma non potrebbero ancora impedire che tali attacchi fossero attuati dalle truppe germaniche dell'isola (brigata SS. Reichsfuhrer).
4. Non fare seguire immediatamente l'armistizio da atti di ostilità italiani contro le truppe germaniche. È importante, infatti, che la iniziativa di tali ostilità sia presa, come quasi sicuramente avverrà, dalla parte germanica, perché in questo caso non ci sarebbe la minima incertezza da parte della popolazione e delle truppe nel combattere i tedeschi. Si tratterebbe, perciò di fare arrivare la divisione aviotrasportata solo diverse ore dopo la proclamazione dell'armistizio (nella notte successiva, se l'armistizio è proclamato al mattino - nella seconda notte, se 1'armistizio è annunciato alla sera). Naturalmente, se (cosa improbabile) la parte germanica non prendesse lei l'iniziativa delle ostilità, la parte italiana le prenderebbe ugualmente al momento dell'arrivo della divisione in parola.
5. La data del secondo grosso sbarco e la distanza di tempo dell'arrivo della divisione aviotrasportata dalla proclamazione dell'armistizio, debbono essere chiaramente prestabilite, e comunicate il più presto possibile.
6. Non è nell'interesse alleato che Roma e il Governo Italiano cadano in mano germanica, e che le truppe italiane dell'Italia Centrale siano messe fuori causa.
Il disorientamento della Nazione e delle rimanenti truppe sarebbe grave, e l'aiuto da parte italiana nella susseguente lotta in comune ne sarebbe decisamente compromessa. È interesse invece per gli angloamericani che la Capitale rimanga in mano italiana, che rimanga in funzione lo stesso Governo che ha richiesto l'armistizio, che tutto il Paese e le truppe, italiane siano concordi al cento per cento, nella lotta contro i tedeschi (Iniziativa delle ostilità da parte loro) e che tutto l'organismo governativo e militare italiano sia subito in condizioni di intraprendere una collaborazione attiva, organizzata, ed in forze colle truppe alleate".
Ore 12 Il re riceve l'ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, il quale ricorderà l'incontro e le parole del sovrano:
"L'Italia non capitolerà mai"(...) Al termine della conversazione, il re ha sottolineato di nuovo la decisione di continuare sino alla fine della lotta a fianco della Germania, con la quale l'Italia è legata per la vita e per la morte".
Ore 12.30 Castellano ritenendo di poter ancora persuadere il governo a mantenere fede agli impegni, spedisce il seguente telegramma:
Mancanza nell'annunciare per radio l'armistizio alle ore 18.30 di questo pomeriggio sarebbe considerata dal comandante in capo come mantenere l'impegno solenne già firmato stop Se l'annuncio dell'armistizio non venisse fatto all'ora fissata tutti gli accordi verrebbero a decadere alt Comandante in capo dichiara che mancato annuncio potrebbe avere conseguenze disastrose per l'avvenire dell'Italia stop".
Dopo una rapida consultazione con Roosevelt e Churchill, Eisenhower decide "che quanto era stato previsto per l'annuncio doveva essere attuato". Un aereo viene inviato per prelevare Castellano e portarlo al quartier generale alleato a Cartagena. Dopo mezz'ora di attesa in piedi nel cortile della palazzina, Castellano e l'interprete Montanari sono introdotti in una grande sala dove sono presenti Eisenhower, Alexander e Cunnigham e un imponente numero di generali e ammiragli. Al saluto dell'inviato italiano nessuno risponde. Eisenhower legge il comunicato di Badoglio, afferma di non poter accettare quella richiesta - l'annuncio dell'armistizio sarebbe stato dato ugualmente - e sottolinea il suo fermo disappunto nel caso in cui il capo del governo italiano non avesse fatto lo stesso; in quel caso, aggiunge apostrofando Castellano, riterrebbe che "il governo italiano e voi abbiate giocato una brutta parte". Viene dato a Castellano un messaggio per il governo italiano. Giungerà a Roma solo alle 16.30.
Ore 15 Giunge il telegramma di Eisenhower che autorizza i generali Rossi e Taylor, incaricati di gestire l'operazione militare su Roma, a raggiungerlo alle ore 19 a Tunisi.
Ore 16.30 Radio New York anticipa la notizia dell'armistizio italiano. Le truppe tedesche iniziano i rastrellamenti dei soldati italiani e l'occupazione dei punti strategici, delle aree industriali e delle vie di comunicazione. Giunge al governo a Roma il telegramma di risposta di Eisenhower, intimante l'annuncio dell'armistizio. Il testo afferma quanto segue:
"Dal comando in capo alleato al maresciallo Badoglio. 8 settembre 1943 N. 45
Intendo trasmettere alla radio l'accettazione dell'armistizio all'ora già fissata. Se Voi o qualsiasi parte delle Vostre forze armate mancherete di cooperare come precedentemente concordato io farò pubblicare in tutto il mondo i dettagli di questo affare. Oggi è il giorno X ed io aspetto che Voi facciate la Vostra parte. Io non accetto il vostro messaggio di questa mattina postici- pante l'armistizio.
Il Vostro rappresentante accreditato ha firmato un accordo con me e la sola speranza dell'Italia è legata alla Vostra adesione a questo accordo.
Secondo la vostra urgente richiesta le operazioni aviotrasportate sono temporaneamente sospese. Avete intorno a Roma truppe sufficienti per assicurare la momentanea sicurezza della città, ma io richiedo esaurienti informazioni secondo le quali disporre al più presto per l'operazione aviotrasportata. Mandate subito il Generale Taylor a Biserta informando in anticipo dell'arrivo e della rotta dell'apparecchio. I piani sono stati fatti nella convinzione che Voi agivate in buona fede e noi siamo stati pronti ad effettuare su tale base le future operazioni militari. Ogni mancanza ora da parte Vostra nell'adempiere a tutti gli obblighi dell'accordo firmato avrà le più gravi conseguenze per il Vostro Paese. Nessuna Vostra futura azione potrebbe più ridarci alcuna fiducia nella Vostra buona fede e ne seguirebbe di conseguenza la dissoluzione del Vostro Governo e della Vostra Nazione. Generale Eisenhower".

Ore 17. 45 L'ambasciatore tedesco Rahn, dopo aver ascoltato l'annuncio della radio sta- tunitense, telefona immediatamente al generale Roatta per chiedere spiegazioni. Questi risponde:
"Questa comunicazione di New York è una sfacciata menzogna della propaganda inglese, che io devo respingere con indignazione".
Ore 18 A Roma i rappresentanti del Comitato delle opposizioni sono riuniti a casa Bonomi. Giunge la notizia che gli Alleati sono sbarcati a Salerno e che la radio alleata ha dato l'annuncio della resa italiana e della conclusione dell'armistizio. Gli antifascisti vengono colti di sorpresa: nei giorni precedenti si era sparsa la voce che l'annuncio dell'armistizio sarebbe stato dato verso il 15 settembre. "L'avevamo tanto atteso che quando venne non ce l'aspettavamo", ricorda Giorgio Amendola. La riunione viene immediatamente sospesa e riaggiornata per le ore 8 del giorno successivo. I militanti, - tra loro Amendola, Longo, Trombadori, Forti, Boccanera, Secchia, Scoccimarro - si mobilitano immediatamente per preparare sedi più sicure, ritirare le armi promesse dal governo, preparare giornali e stampati. Per le strade della capitale i tedeschi sono in agitazione.
Ore 18, 15 Comincia la riunione del Consiglio della corona, a cui partecipano il Re, Badoglio, il ministro della Real casa Acquarone, il ministro degli Esteri Guariglia, i ministri della guerra e delle tre armi, Sorice, Ambrosio, Roatta, Carboni, Castellano e Marchesi.
Ore 18, 30 Il Servizio informazioni militari (SIM) comunica di aver intercettato un messaggio da Radio Londra, che notifica la richiesta d'armistizio da parte dell'Italia e l'accettazione delle medesime dei comandi alleati. Il messaggio intercettato è quello del generale Eisenhower inviato da Radio Algeri che recita:
"Qui il generale Dwight Eisenhower, Comandante in Capo delle Forze Alleate.
Le Forze Armate italiane si sono arrese incondizionatamente. Come Comandante in Capo Alleato io ho accordato un armistizio militare i cui termini sono stati approvati dai Governi del Regno Unito e della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. In questo modo ho agito nell'interesse delle Nazioni Unite. Il Governo italiano ha accettato questi termini senza riserve. L'armistizio è stato firmato da un mio rappresentante e da un rappresentante del maresciallo Bado- glio e diviene effettivo da questo istante. Le ostilità fra le Forze Armate delle Nazioni Unite e quelle dell'Italia sono adesso terminate. Tutti gli italiani che col nuovo accordo aiuteranno a cacciare l'aggressore tedesco fuori dal suolo italiano avranno l'assistenza e l'aiuto delle Nazioni Unite".
Il messaggio viene seguito da un proclama del primo ministro britannico Churchill:
"Le Nazioni Unite informano che l'armistizio concluso dal generale Eisenhower con l'Italia è strettamente militare e non com- prende nessuna clausola di natura politica, economica o altra. Queste clausole verranno determinate a suo a suo tempo. Di conseguenza, gli articoli dell'armistizio non verranno per ora pubblicati e nemmeno comunicati al parlamento inglese. Si può dire, comunque, che, per effetto dell'armistizio, il maresciallo Badoglio si obbliga a respingere con le sue forze qualunque attacco da qualsiasi parte provenga".
Dopo aver preso conoscenza dell'annuncio alleato la riunione del Consiglio della corona riprende con un breve riassunto della situazione fatto dal generale Castellano; subito il generale Carboni e il ministro Sorice definiscono inqualificabile l'atteggiamento degli alleati e propongono la denuncia dell'armistizio. Prende la parola il maggiore Marchesi che sostiene invece con forza l'opportunità di procedere con quanto previsto dalla firma, supportato anche da Castellano e Guariglia. Sentite le posizioni il Re toglie la seduta, trattenendosi con Badoglio. Dopo pochi minuti il capo del governo esce dalla sala. Il sovrano ha scelto l'armistizio.
Si legge nei Taccuini di Benedetto Croce:
"Alle 18.30 tornavo a casa da una piccola passeggiata quando Adelina mi ha detto di aver udito alla radio che è stato concluso l'armistizio con gli angloamericani".
Ore 19 L'ambasciatore Rahn si reca al Ministero degli esteri su invito di Guariglia che gli comunica:"Devo dichiararvi che il Maresciallo Badoglio, vista la situazione militare disperata, è stato costretto a chiedere un armistizio". L'ambasciatore tedesco risponde: "Questo è tradimento della parola data". Guariglia ricorderà in seguito: "Io sono convinto che, se anche Rahn riteneva inevitabile l'uscita dell'Italia dal conflitto, egli fu sorpreso dalla notizia dell'armistizio perché sperava di poter assecondare per parecchio tempo ancore il giuoco di quei capi militari tedeschi, che intendevano guadagnare tempo per rafforzare maggiormente il loro dispositivo difensivo in Italia". Alla stessa ora Rossi, accompagnato da Taylor, giunge a Tunisi e conferisce con Eisenhower, ripor- tando il punto di vista di Badoglio: "Il maresciallo giudica impossibile l'aviosbarco della divisione per la notte fra l'8 e il 9 e chiede di ritardare di pochi giorni l'armistizio per rendere possibile detta operazione. Rassicura il comando alleato dei suoi sentimenti di collaborazione e di lealtà e prega di voler richiamare il gen. Taylor per rendere meglio edotto il Comando alleato della situazione".
Ore 19,30 Giunge a Roma il telegramma del generale Eisenhower a cui Badoglio risponde:
"La mancata ricezione del segnale d'azione convenuto per radio e il dilazionato arrivo del vostro n ̊ 45 non ha consentito di radiodiffondere la proclamazione all'ora convenuta. La proclamazione avrebbe avuto luogo come richiesto anche senza il vostro messaggio, essendo per noi sufficiente l'impegno preso. L'eccessiva fretta ha effettivamente trovato i nostri preparativi incompleti e causato ritardo".

Ore 19, 42 Dagli altoparlanti delle radio di tutta Italia - nei locali pubblici, nelle piazze, nelle strade, nelle case - si diffonde la voce del capo del governo. Il maresciallo Badoglio legge l'armistizio:

"Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell' intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".

Il nome del comandante alleato pronunciato da Badoglio suona "Aisenover".
Ore 21 Il re Vittorio Emanuele III, la regina Elena, il figlio Umberto, l'aiutante Puntoni, gli ufficiali di ordinanza, un cameriere e una cameriera, giungono al Ministero della guerra entrando dall'ingresso secondario.

La reazione dell'ex duce. Mussolini, custodito a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, viene informato dal maresciallo Antichi dell'armistizio. Secondo la testimonianza del militare, alla notizia
"era scattato in piedi gesticolando; aveva scaraventato via, lontano da sé il libro che stava leggendo, poi si era messo ad accusare Badoglio di tradimento. Subito aveva preannunciato rappresaglie tedesche. "Questo è un gran brutto giorno per l'Italia" urlò "vedrete ora i tedeschi cosa faranno!" poi scuotendo la testa aveva aggiunto: "non tollereranno mai questo tradimento!".
Si prepara la repubblica di Salò. Nella notte su un treno speciale allestito appositamente, in Prussia orientale, vengono radunati i gerarchi fascisti presenti in Germania. Göbbels spiega:
"Pavolini, Ricci e il figlio del duce sono ora al quartier generale a prepara- re un appello al popolo italiano e alle forze armate italiane. Sono stati scelti per formare un Governo neofascista che agisca in no- me del duce. Dovranno prendere residenza nell'Italia settentrionale non appena le condizioni si siano là consolidate (...) Farinacci deve arrivare nel corso del pomeriggio per integrare l'opera di questo triumvirato".
La situazione delle forze alleate. In Calabria le forze Alleate si trovano, dopo cinque giorni dallo sbarco, a 160 Km a nord di Reggio Calabria e non hanno praticamente incontrato resistenza.
L'ambivalenza del governo. A Roma nella notte il generale Carboni, sulla base di accordi presi in precedenza con il Comitato delle opposizioni per armare la popolazione contro i tedeschi, fa consegnare a Luigi Longo due autocarri contenenti delle armi, che sono scaricate e immagazzinate in luoghi diversi da Guido Carboni, figlio del generale, Felice Dessì, monarchico e confinato politico, da Longo stesso e da altri militanti comunisti. Poco dopo la polizia, evidentemente ben informata, circonda alcuni depositi e sequestra gran parte delle armi, fucili e bombe, e delle munizioni.
Le reazioni popolari. Andrea Damiano, sfollato da Milano, si trova a Montalto Pavese; nel suo diario racconta come ha vissuto la notizia:
"Oggi verso sera due ragazzotti che passavano per la strada dissero alla mezzadra, uscita ad attingere acqua: "Hanno fatto la pace". Mia cognata, che era fuori anche lei, mi guardò con due occhi tramortiti. "Hai sentito?" Corremmo alla radio. Un disco inciso ripeteva le parole con le quali Badoglio comunicava la notizia dell'armistizio. Mia moglie era giù nella vigna con mio suocero e i figli. Corsi giù a dar loro la nuova. Trovai mio suocero che saliva su per l'erta, appoggiato a una lunga canna, seguito dagli altri. Gli grido da lontano: "Armistizio, la guerra è finita!" Egli sostò appoggiato alla canna, facendo gli occhi piccoli e aggrottando la fronte per intendere le parole che gli gridavo. Poi capì, e riprese a salire a capo chino. Mi dissi: "Guarda come è apatico". Poi mi avvidi che ero apatico come lui. Mia moglie accolse la nuova con una faccia grave. Risalimmo tutti e tre il pendio fino alla costa, in silenzio. Badoglio ha concluso il suo messaggio con parole oscure, o fin trop- po chiare: "Qualunque tentativo di aggressione, da qualunque parte venga, sarà respinto con le armi". Da chi può venire questa aggressione, se non dalla Germania? Chi giubila è l'uomo dei campi. Mentre scrivo giungono dal paese echi di canti: sono tutti all'osteria. Il popolino è felice, noi no. Perché? Non volevamo la pace anche noi? Ma stasera la plebe non ha coscienza dell'abisso nel quale siamo precipitati. O forse ce l'ha fin troppo, ma non gliene importa. Pace, tutti a casa, ciucche alla domenica, e regni chi vuole. "A Nadal se spusamma!" mi gridò uno, sfrecciando in bicicletta, giubilante. In questo giubilo c'è la rivoluzione di domani. Brucia più scorie questa gioia, pronta a tramutarsi in furore rivoluzionario, che le nostre benpensanti doglie. Notte calma. Poc' anzi sono uscito sull'aia e ho guardato il cielo, vuoto sotto le stelle. Non più rombi di apparecchi incursori. Attorno al cadavere della patria è un gran silenzio".

Il priore di San Giusto a Montalbini, in Toscana descrive l'evento così:
"La sera dell'8 settembre 1943 si vedono in lontananza tanti fochi come per la vigilia di S. Giovanni. E poi comincia da tutte le chiese uno scampanio a festa che riempie l'aria di un'insolita allegria. Cosa c'è? Dopo poco "la galena" ci annunzia l'armistizio. Io non suono le campane. Sulle sciagure della patria non si gioisce, ma si piange. Io non suono le campane. Comprendo che la guerra non è finita, comprendo che i tedeschi sono "diavoli"; sono ostinatamente tenaci e quindi, avendoli in casa, la guerra non è finita ".
L'«Avanti!», giornale del Psiup, prepara il comunicato ufficiale dal titolo: "La guerra fascista è finita. La lotta dei lavoratori continua". Un sintetico articolo informa sui fatti e sull'annuncio dell'armistizio; "Nel nome dei morti i vivi promettono" una rinascita del paese nel nome di chi ha combattuto. Un Appello ai soldati tedeschi in Italia invita alla diserzione e all'"affratellamento" con gli italiani, a "rendersi indipendenti dal fascismo, dall'oppressione nazista, da Hitler" per una "pacifica ricostruzione dell'Europa". Il foglio si chiude con La parola d'ordine del partito:

"Lavoratori. L'Armistizio con le Nazioni Unite è stato firmato. (...)Difendete la Pace contro chiunque e con ogni mezzo! Via i nazisti dall'Italia! (...)Via il re fascista! (...). Esigete un governo popolare che ridia la libertà e che avvii alla vostra suprema aspira- zione: la repubblica Socialista!". 

un articolo

da l'Unità 25 aprile 2003

Resistenza, la disobbedienza come responsabilità civile


Enrico Manera

Ha scritto Claudio Pavone nella sua fondamentale opera del 1991 Una guerra civile, ancora oggi non correttamente recepita dai più, che con la scelta resistenziale “per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in forme varie una esperienza di disobbedienza di massa”. Il senso di tale affermazione investe l’intero assetto della Resistenza nella molteplicità delle sue manifestazioni, assumendo il senso di un clima generale che accompagna interamente quei circa venti mesi che separano l’Armistizio dalla Liberazione.
Proprio dall’8 settembre bisogna partire per ritrovare le tracce di un primo significato di ‘libertà’ nella scelta resistenziale: il suo essere un atto di disobbedienza, non «a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione», ma «a chi aveva la forza di farsi obbedire» (Pavone).
Il totale vuoto di potere creato dall’abbandono di ogni responsabilità da parte del Re e dei generali in fuga verso Brindisi, aprì uno spazio di libertà che per tutti si trasformò nell’esigenza di scegliere da che parte stare. Massimo Mila descrive questa situazione parlandone come di una “rivelazione a se stessi”, una nuova possibilità di vita scaturita da scelte che venivano compiute spesso in solitudine e la cui radicalità veniva modulata in base alla situazione contingente, alla possibilità e alla determinazione. Nei testi di Mila, di Ada Gobetti, di Franco Venturi, di Roberto Battaglia, di Pietro Chiodi, emergono a questo proposito espressioni come ‘gioia’, ‘infanzia’, ‘incoscienza’, ‘entusiasmo’, ‘fervore’, ‘energia’. Parole che testimoniano, oltre la tragicità degli eventi, l’ebbrezza della libertà. Una realtà di grande rilevanza educativa per una generazione, cresciuta negli apparati totalitari del regime, che nella scuola elementare aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: “quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza”.
Connessi alla recuperata libertà furono, da subito, il senso di responsabilità a cui si era chiamati e la dimensione collettiva del fenomeno. Fin dal settembre 1943 si assistette a manifestazioni di solidarietà e di aiuto della popolazione offerto agli sbandati e ai fuggiaschi, in un clima diffuso di ‘resistenza passiva’. I macchinisti rallentavano i treni o si fermavano per permettere ai soldati di scappare; contadini e ragazze portavano cibo a ragazzi in fuga e senza le idee chiare, tutti offrivano abiti borghesi. Cominciava da lì quella resistenza civile che Anna Bravo ha definito un “maternage di massa”, una gigantesca mobilitazione soprattutto di donne tale da configurare un “enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sia sul piano materiale sia spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti”.
Una tale rete di supporto fu la base su cui si erse la “resistenza attiva”, i cui primi nuclei si sarebbero venuti a formare di lì a pochissimo. Uomini di diverso orientamento politico, vecchi antifascisti liberati o tornati dal confino, militari sbandati, giovani renitenti alla leva, studenti e contadini, fecero la scelta, collettiva e non individualista, di diventare “banditi”. Una scelta fatta nella consapevolezza di essere portatori di una legittimità e di una giustizia ormai scomparse dall’orizzonte storico del tempo.
La disobbedienza è, di per sé, il primo atto di una scelta responsabile, nata all’interno di un ripristinato ‘stato di natura’, in cui tutti, potenzialmente, sono contro tutti. Eppure nei luoghi della Resistenza tra il 1943 e il 1945, sulle montagne, nelle città, nelle fabbriche, nei campi di concentramento, nelle case e nelle cantine, nelle osterie dopo l’orario di chiusura, si ridefinivano i ruoli e i rapporti tra le persone. Rinasceva la democrazia come confronto diretto e dialogo aperto, beninteso anche con scontri e divergenze drammatiche di natura politica e organizzativa. Non si dimentichino la fame, la povertà e le condizioni proibitive in cui versava la popolazione di un paese in guerra, frequentemente bombardato e con una rete di spionaggio e di repressione durissima e violenta.
In questa situazione la facoltà di critica e il rimpadronirsi di sé si riaffacciavano nella vita degli individui per diventare lo spazio mentale e sociale su cui si sarebbe rifondato il Paese. La disobbedienza della Resistenza diventa dunque sinonimo di responsabilità civile, capacità di ridare dei significati alle azioni e alle scelte dopo un ventennio di eterodirezione delle coscienze e di un apparato totalitario retorico, pacchiano e tronfio che aveva reso ridicolo il senso stesso delle istituzioni. Mentre le maiuscole del littorio romano e dell’impero si sprecavano, i soldati al fronte male armati ed equipaggiati erano stati i primi a scoprire quanto ci fosse di drammaticamente falso nelle trite formule del credere-obbedire-combattere e in difesa della patria a guardia dei bidoni di benzina.
Se le drammatiche condizioni della ritirata di Russia avevano spazzato via ogni dubbio, così l’8 settembre fu il momento, percepibile da tutti, del vuoto di potere assoluto e del crollo delle isituzioni. Non “morte della patria”, come vuole certo revisionismo nostrano, ma crollo definitivo del misero edificio costruito da una dittatura che in vent’anni aveva eroso le già fragili fondamenta di uno Stato in cui il processo di Nation Building era tutt’altro che compiuto. Moriva la patria monarchica e fascista, bisognosa di fondarsi su valori altisonanti e ideologici perché incapace di esprimerne di autenticamente umani. Ma lo Stato italiano era morto ben prima, nel 1938, quando Mussolini con l’avallo della monarchia aveva instaurato le leggi razziali, stabilendo la fine dei diritti più elementari per i cittadini italiani di origine ebraica. O, addirittura nel 1924 insieme a Giacomo Matteotti, senza che i senatori liberali del Regno avessero fatto alcunché per ripristinare lo stato di diritto; o il 28 ottobre 1922 quando con la passeggiata romana in camicia nera, l’incapacità delle élites liberali di rapportarsi con le emergenti masse popolari decretò l’affidamento del potere a Mussolini da parte della monarchia.

Quando era nata, la Repubblica di Salò aveva ripristinato un ordine costituito con tanto di costituzione (quella carta di Verona che annoverava gli ebrei come nazione nemica) eppure per la maggior parte della popolazione era chiaro che la giustizia non stava da quella parte. Anche chi non amava i partigiani li preferiva di gran lunga ai tedeschi e ai fascisti perché sapeva benissimo chi era stato a scatenare la guerra. La rete di solidarietà di cui godettero i partigiani testimoniano al contrario una istintiva identificazione con la giustizia e con la legittimità che rendeva non solo possibile, ma anzi doveroso praticare la Resistenza.
Una delle ragioni della differente qualità etica tra la scelta resistenziale e quella fascista repubblicana (tra la ‘vita’ e la ‘bella morte’) sta nel fatto che l’opzione salodiana per la Rsi non avvenne alla luce della critica, ma in quella della continuità con un regime di cui si conoscevano i programmi e le efferatezze. Il più delle volte, nei processi dopoguerra la scelta per la Rsi e la commissione di crimini efferati furono giustificate dai fascisti con la frase: “l’ho fatto perché mi è stato comandato”. Per non parlare di quella citata da Pietro Chiodi che si sentì dire da un marò della X mas “ che gli è sempre piaciuta la marina” e che “nei partigiani non c’era”.
Le giustificazioni incentrate sulla difesa e sull’onore della patria non reggono se si pensa che oltre il 95% degli ufficiali tra gli internati militari italiani, arrestati e deportati in Germania dopo l’8 settembre rifiutarono di farsi reintegrare nell’esercito saloino, non in quanto antifascisti (o, peggio ancora, ‘comunisti’), ma proprio in quanto ufficiali dell’esercito di una patria di cui difendevano l’onore.
Come ha detto Claudio Pavone, in un ragionamento semplice e autoevidente, profonda è stata la differenza etica che ha diviso chi ha fatto la scelta resistenziale da chi ha scelto per la Rsi: da un punto di vista collettivo e politico da una parte si combatteva per la libertà e la democrazia, dall’altra si combatteva per un regime totalitario e autoritario, al di là della buona o della cattiva fede nell’uno o nell’altro campo.
A chi oggi mette in discussione l’importanza del 25 aprile e il suo valore collettivo per lo Stato e la società italiana, ricordiamo la gioia di chi cinquantotto anni fa visse la Liberazione dal nazifascismo. È Ada Gobetti, la vedova di Piero -lucidissima intelligenza stroncata dalla violenza fascista nel 1926- a ricordare l’aprile 1945 e il sentimento comune e condiviso: «Ebbene? – gridai loro – rallentando la bicicletta. E tanta era in quei giorni l’identità dei sentimenti e dei pensieri che essi intesero benissimo il senso della mia domanda e, benché non mi conoscessero come io non li conoscevo, risposero con un gesto allegro della mano: – Se ne sono andati!».

lunedì 2 settembre 2013

Memory, violence, utopia








In Unità di crisi, Krisis /Orientation, Milano, 2013, pp. 289-295,

http://www.unitadicrisi.org/krisis/


Memory, violence, utopia. The myth as a means of orientation


Enrico Manera

Anatomy of the myth

The myth is a generator of identity and orientation. But the statement is likely to be vague and somehow mythical, when it tends to escape the embarrassing question of what is a myth, or worse yet, the myth. I don’t believe I’m exaggerating when I affirm that the problem goes along with the history of philosophical thought, that precisely in the supposed separation of mythos from logos wanted to see one of its own acts of foundation. The question that everyone avoids – What is the myth? – can be answered initially with the words of Jean-Pierre Vernant, inevitably starting from ancient Greece: “it presents itself in the form of a story from the mists of time and that already existed before any narrator began to tell it. In this sense, the mythical story does not depend on the invention of the personal or creative imagination, but on transmission and memory” (Vernant 2000).
Of remote origin, a cultural heritage that has been preserved and transformed orally in the millennia, it comes to constitute the cultural memory of a community that shares it, a compendium of homogeneous knowledge and practices known to all, articulated into multiple variants and versions, never definitive and often contradictory, which are defined by contrast with the historical narrative (of which they lack the accuracy) and that maintain an ambiguous relationship with the literary dimension (in the absence of a clear authorial stamp).
A first paradox is that all these stories are known and have become mythology because they were written, that is, distorted, in their being a continuous flow and fixed arbitrarily by the written form, frozen by philology that needed to canonise them. The crystallisation of literature makes it possible to retain every myth and modify it at the same time: for this reason many scholars, above all Claude Lévi-Strauss and Károlyi Kerenyi, think that we should take into account all the possible versions of a mythologem, a term by which its minimum core of recognition is defined.
This is true for the entire legacy of sacred history of ancient populations, for whom we use the notion of myth.
The second paradox is that Greek mythology first, and the Jewish-Christian after, have maintained a privileged relationship with the truth that other mythologies have not been granted. But once the scholar jumps out of the bounds of the “white mythology” of his or her, own tribe (Derrida 1972), in the twentieth century the myth becomes a field of knowledge in which to research the intellectual background of which narration is testimony: traces of the “ideology” are deposited in stories (Dumézil 1982), the conception of the great forces rule the world, mankind, society and make them what they are. Conceptions of the world, of history, of life, that cannot be evaluated in terms of true or false, and that express interests, needs and aspirations of the different social groups. Mythology is than the narrative articulation of a form of thought declined in history, in which social, political, legal, religious and ritual forms meet: a strongly determining thought that acts on an unconscious level and gives meaning to the life of a community.
Third paradox: we do not ever meet the myth, but rather some concrete manifestations of mythology, mythological material – stories, figures, symbols, remains of worship, literary quotations but also theories that explain them. The singular “myth” can be then used at the most to indicate the function that such a cultural object can assume: a unifying factor in the field of collective imagination to interpret, arrange, stabilise, build reality.

Fictions of the myth
The question then is: what is the use of a myth? Knowledge conveyed by language and writing, a form of rationality that is pre-scientific and pre-philosophical, it performs functions of general orientation in space and time. The heritage of the ancient mythological stories had a value of foundation for ancient populations, it allowed to explain in an elementary way the genesis of the world; to recognise common ancestors, heroes who were founders of noble houses, royal families, patrons of local realities. They were stories able to set the place and community in a more complex epic, divine and human at the same time. The network of mythology, in its indistinctness between politics and religion, allowed each individual to build their own identity. It was thus possible a conscious self-recognition in a cosmos, in a population, in a community, in a family, by reference to a shared knowledge and a common history, then further differentiating in accordance with the social role, age and gender.
The functions that the myth plays are simultaneously of theoretical orientation (what we know), practical (how to act) and of cohesion (who we are), that is, they develop social bonds, without which the individual is not such. By virtue of its emotional potential and its ability to communicate the myth provides answers to general questions on reality and shapes the elementary coordinates of the world in which we live. But none of this happens outside of history. Sharing a mythology is (always has been) an instrument of legitimation of power and justification of social stratification. Since ancient times mythos comes with the authority of truth, consolidates otherwise arbitrary self-evidences making them appear obvious and natural (Blumenberg 1991), it indicates “speech, story”, but also “project, machination”, it’s a word that evokes the real and effective elapsed time and has the authority of an anointed past (Jesi 1973).
Every culture operates so as to conceal the arbitrary in its way of life, presenting it as the only one, possible. The elementary state of a culture makes norms, values, institutions, interpretations of the world obvious: it makes them the invisible, transforming them into a necessary order without alternatives. The culture, the ancient as well as the modern, operates based on a double pretence (fictio): first it models men in a certain way, and then it pretends that it is not a construction, but the truth. (Remotti 2000).
So the myth continues to this day, despite the end of “its” time, to present itself as a sacred voice of ulteriority. New meanings of myth and new ways of thinking about it continue to bind people together. But above all, what we call myth should not be thought of as a simple fact, autonomous and self-referential, but as the result of a complex social mechanism that produces culture, that is, a connective structure that guarantees identity. And to do it, it presents itself as true as ever, as the origin, avoiding any question about itself, hiding its artificial, arbitrary and groundless nature.

The technicisation of the myth
The deepest reflection on the myth is bound to the time when the explosion of modernity and mass society gives rise to a new form of mythology, the nationalistic, which shares its language with, propaganda and advertising: from the Great War, to fascism and national socialism, the relationship with the past becomes crucial. The myth became the hub of a culture of the archaic and primitive, vital and pristine, within a short circuit between knowledge and power that sees the intellectuals at the forefront in the service of the triad violence, authority, power (Gewalt in German). “The claim of authenticity, the archaic principle of blood and sacrifice, already has something of the bad faith and the shrewdness of dominion typical of the national renewal that today uses prehistory as advertisement” (Adorno and Horkheimer 1966).
The term “technicised myth” stands to indicate the instrumental processing of images as a means of enchantment to achieve certain goals. Kerenyi (1964) has distinguished it from a “genuine myth”, understood as a force that “grabs and shapes” the archaic man's consciousness: a spontaneous form uninterested in the mind, a sort of constituent, imaginative faculty inside which elements of the reality of a social group are formed. It is concerned with the ancient, it is lost forever and we cannot really know it. On the other hand the “technicised myth” is aimed at achieving specific effects of political action, especially in these times, with the loss of the fundamental connection to the sacred that had been guaranteed for a long time, it raises, then, the problem of reconsolidating forms of legitimisation.
Thomas Mann's Doctor Faustus, masterful novel of exile and great allegory of the relationship between German culture and Nazism, explicitly address the issue: “in the century of the masses, parliamentary debate had to be completely unsuitable to form a political will […], it was necessary to replace it with a gospel of mythical fictions designed to trigger and put into action the political energies like primitive battle cries. […] The popular myths, or rather myths fabricated, for the masses, would become the vehicle of political movements: fairy tales, fantasies and inventions that need not contain scientific or rational truths contained to inseminate, to determine the life and history, and thus prove themselves dynamic realities”. Here, there’s the twentieth century in a nutshell.
The relationship between knowledge and power is decisive: there is a more or less unconscious cultural sub-layer of European culture, particularly German, who thinks about the myth as the “voice of being” and it turns to it when there is the need find the ideal resources for a world crisis of meaning and legitimacy. Scholars such as Schelling, Bachofen and Nietzsche have contributed, at times unintentionally, to the development of an Dionysian and pagan-like irrationalism, active in the Germany of Wilhem II, for example in the circle of the poet George, and then in the coarse Nazi mythology of Rosenberg and Goebbels. It is therefore within the German area – the history, philosophy and literature – that forms the “myth of mythology”, that in the face of the uncertain origin of myths, it makes the origin of humanity or the nation. A real religio mortis, explicit in the fascist thanatophilia (fascination with death), has been going along with European culture from the moment Schiller placed poetry under the melancholic sign of loss and Nietzsche announced the death of God. Since then large areas of culture are turning to the past as space of death, absence and opacity, as a symbol that can revitalise the pre-modern society, conceived as a golden age compared to modern decadence.
The totalitarian mechanisation, that concerns itself, in addition to right wing movements, also with Stalinism or other experiences with other statements, is the extreme case that shows how propaganda is an artificial and fraudulent mythology able to substitute violence in the early stages of consolidation of a regime. In an ideological construct what is important is not its degree of truth, but the level of integration and homogeneity, and its performance efficiency derives from the immediacy of the symbol and its ability to simplify reality. To mechanise a myth means to reinvent a tradition, starting from a position of power and making use of the device of communication, modulating its rhythm and intensity, counting on the repetition of clichés and on the ability to construct common attitudes with frequency, seduction, pervasiveness. As it happens, in the world of mass communication.

Myth Dynamics and mythological machine
Every culture, irrespective of the content of their mythological narratives, is built in part on the narrative: storytelling has a high performance power, it generates meaning and produces sense. So every society, ancient or modern, involves some form of mythology: the circulation of mythological materials plays a major role in the texturing of the connective structure of a society.
Jan Assmann has developed the concept of “myth dynamics” (Mythomotorik), according to which the myth is a thing of the past, which produces a self-image and hope for targets of action, and has a narrative reference of the past that sheds light on the present and the future. It can play a fundamental role, placing the present under the light of a history that makes it look endowed with meaning, necessary and immutable. Otherwise it can have counterfactual function, evoking, from deficiencies of the present, a heroic past, so as to reveal the gap between “time” and “now”. The present is in this way relativised with respect to a better past and, in a period of oppression and impoverishment, forms of messianism and millenarianism can develop.
The definition of myth is so relevant to its meaning in a given context of reception and political use, responding to the function of forming a self-image and of leading the action in the present: the myth dynamics is the guiding force for a group starting from its needs – and in particular the emergencies that require more meaning. “The myth is not a thing. Anything can become a myth” (Assmann 1997).
More than of myths we shall then speak of a mechanism that generates shared meanings in the form of “mythological materials” acting in the stabilisation of individual and collective identities which are aware of belonging to a group or a society.
Furio Jesi (1973) has defined the “mythological machine” as the device resulting from the intersection of relations of knowledge and power, that makes mythologies and produces forms of knowledge as if they were unquestionable truths. It is structured into functions (the role played in the process of elaboration and reception), mediators (actors in this process) and deposits (the places and the heritage of ideas and images that are conveyed).
The “mythological materials” are the products of the machine in the form of short stories, literary works, documents, monuments: any form of text that can be referred to the function of the machine. But at this point it does not make sense the idea of a genuine myth that would be later mechanised: in the layers of history involved in the life of a textual corpus (orality, writing, canonisation, philological moment) the mythological stories of all time are always at least in part technicised, as the result of economic and social structures and of the need to organise power and establish the law. All narratives have a material life, they live in the reception of history and therefore have an ideological content. Their autonomy is always relative: to have the myths appearing as authentic, not designed and independent from history, is the main goal of every form of power, starting from the political theology of the ancient world and ending with the modern democracies. What is at stake is the very foundation, in a metaphysical sense, of reality.

Other mythologies
Hence, we need to redefine the historical path that from the myth would go towards reason and from the sacred towards the profane, recognising that there is no progressive linearity, but the staging of an opposition between mythos and logos that is necessary for the mutual identification and placement. The traditional dimension of the sacred in modernity falls short and appears impossible in front of a relative disenchantment and a transformation of the mythical in two different directions. On one side it can be continuous re-mythification, while on the other it becomes utopistic reference to the future, regulatory of a political act. Hence, social groups, large or small find themselves living immersed in a simplistic mythological dimension that they will call reality; or critical personalities – aware of the importance of myth – coexist with it, with its inevitability, aware of its lack of metaphysical depth, and of its lightness, that shall have the characteristics of an “unfounded foundation”. In other words, the loss of traditional paradigms and the resulting disorientation may signify risk of re-enchantment or possibility of a re-orientation.
In the twentieth century the study of myth becomes analysis of the mythical forms of their production, analysis of the mechanisms of definition of belonging and of the shared practices in globalised societies, starting from the unravelling of the rhetorics of manipulation conveyed by mass and new media. From the reflection on photography, image, illusion of truth and strategies of persuasion, a generation of intellectuals have engaged in a successful series of studies on modern mythopoesis, on mythology as a way of expression and as an on-going process of re-sematisation: since the late fifties Roland Barthes (1994) has shown that indeed anything can become myth, coming to identify forms of mythology in desecrated territories, such as those of advertising, consume, lifestyles. In contemporary societies, new mythologies are all narratives: from comics to genre fiction, from blockbuster films to TV dramas, and to personal symbolic recombination decorating the personal profiles of users of social networks and that redefine their identity through the visualisation of plots and of diversified and intricate textual networks. Such media devices are powerful factors of socialisation that produce information and thought patterns, convey collective representations, approve styles of thought and life, naturalise reality.
The contemporary mythological machine is that of public(itary) imagination: mythologies of everyday life are to be found, for example in the aestheticization and stylistic obsession that accompanies consumption. On the other hand, the very notion of “culture” is used in a mythical way: the debate on cultural relativism and the “clash of civilisations” seem to confirm this. The differences between human groups are sharpened to the point of making individuals disappear and to serve economic policies and global strategies that require public acceptance. However, we forget that cultures are not substances that overdetermine individuals, but typical and ideal descriptions, constantly changing and always, renegotiated (Aime 2004). With globalisation, the movements of identity divestment (transnational political, economic, cultural integration) cause, as a reaction, a closure of an equal and opposite sign that leads to a twist on the practices of identity, understood as the unifying myths and binding rituals to serve political dynamics in need of legitimisation.
Nationalistic Stereotype, anti-Semitic, xenophobic – and more generally, any simplified image of reality – are “Community myths” that provide simplified answers for societies that are in crisis; they cross the distance with continuity, regardless of the political sign on the surface. Fascism, real socialism and religious fundamentalism, but also post-modern democracies – albeit with different degrees of intensity and on contents of very different sign as well – from the point of view of the theory of culture they can operate in the same way in defining with antidemocratic authority ideals models and identity crystallisations (Manea 1995).

Utopia
In the crucial relationship between myth and politics, defined by the presence of the “grand narratives”, what is at stake is the question of the legitimisation of modern democracies, since, besides the necessary critics of a way of communicating that is mystifying, authoritarian and violent, one that keeps on, lacking is one that may be critical, clear and persuasive at the same time, without being mythological and simply the reverse of the other. Sapiens cannot do without narratives, eminently political events that are able to redefine future scenarios and guarantee the legitimacy of the collective action. On the other hand, as Jesi (2002) wrote, the use of the myth by the political propaganda is “by its very nature a reactionary element”, even when its aims are progressive. If emotion-stimulating subjects are evoked, as mythological images are, critical rationality is thrown out of the game. “How is it possible to induce people to behave in a certain way – thanks to the force exerted by appropriate mythical evocations – and then to get them to a critical attitude towards the mythical motive of the behaviour?.
Between the sixties and seventies, intellectual critics meditated on the necessary “de-mythicisation” of the politician by proposing, in the wake of Mann, Brecht, Benjamin, Adorno, that the artistic discourse was the only possible “genuine” mythic experience, capable of speaking to the community in the “respect for mankind”. The radical de-mythicisation is impossible, since the sole administrative and analytical, rationality does not seem able to overcome the dryness of nihilism, paving the way for unexpected re-enchantments, fundamentalist and dogmatic. The myth must be upheld, deconstructed and humanised without underestimating meanings, images and emotions, that if denied end up feeding conservative and identitarian nostalgia. The unamendable meaning of the myth in the definition of cultural memories and of political identities invokes a possible legitimate use for the definition of the horizons, of the problems and frames of reference: the myth-utopia, narrative that is both reflection to the service of a conscious rationality and responsible. Once again, it comes to supporting the “politicisation of art” vs. the “aestheticization of politics” practised by the right wing – meaning, by this terms, all neo-mythological powers – avoiding falling in the traps generated by the short circuit between myth and power (Nancy 1986; Citton 2010).
This involves thinking about a discursiveness, textual and visual, that articulates ideas and images in sequences and that cools them down compared to the irrational warmth of the myth presented in its organic structure: in other words, we have to create auto-demythicisating narratives in new forms of irony and alienation. The condition not to fall into new fascist, mercantilistic and neo-conservative technicisations seems to lie in the ability to enter the sphere of myth without stopping to reflect, in “waking state” on the emotion that it generates. A new mythos, that is at the same time metacritical of the self and declaration of mistrust towards every myth, antidote of his participating into a fetish for the communities that in it search each other (Wu Ming 2009).
From the crisis of orientation and the need to put together our own scenario with the broken pieces of the previous ones unexpected answers are born every time for the ransom from loneliness, anonymity and poverty of imagination. From a moment of economic crisis, moral and political as the one we are experiencing nowadays, change may unexpectedly arise. The possible mythology, the return of narratives that are able to speak to the community in a progressive sense, must coincide with a light conscious mythopoesis. This comes as an unfounded story, that shows the signs of the author's work and the human dimension of myth, through editing, citation and a practice of writing in which the language exposes the gap between reality and imagination, between the self and the mythical object. This can happen to the extent that the myth is returned to its origin of story that remains at the place of origin of every appearance of phenomena to consciousness. As Philippe Lacoue-Labarth wrote “metaphysical tightrope-walking without a metaphysical parapet. Or if you prefer metaphysical experience that is emptied, pure exposure to nothing”.

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