sabato 26 ottobre 2013

70 anni di Shoah. La razzia del ghetto di Roma


altri materiali di archivio dal mio lavoro all'Unità dei primi 2mila


La deportazione dal Ghetto di Roma

Gianluca Garelli


Con la nascita della Repubblica Sociale, il destino degli ebrei italiani – già duramente provati dalla legislazione razziale in vigore dal novembre del ’38 – è segnato, in vergognoso ossequio all’alleato tedesco e sulla base dell’antisemitismo proprio di certe frange fasciste. Due mesi dopo, il 30 novembre, il Ministero dell’Interno avrebbe imposto l’arresto di tutti gli ebrei presenti nel nostro Paese, considerati “nemici” dell’Italia, e il sequestro dei loro beni. È previsto un premio per ogni ebreo catturato.
Comandi da eseguire? Non è così: la giustificazione, se mai può esservene una, proprio non regge. Nel marzo del ’43 il ministro bulgaro Dimitar Pesev aveva avuto il coraggio di imporre al proprio governo e al re Boris III, alleato con la Germania nazista, la revoca dell’ordine di deportazione di 48.000 ebrei, verificando personalmente che i prefetti avessero cura di astenersi dal commettere un’atroce barbarie per volere di Hitler.
In Italia, invece, lo zelo e l’impazienza dei nazifascisti hanno addirittura preceduto l’ordinanza del Ministero di una ventina di giorni. All’inizio di ottobre era stato accolto nella capitale un gruppo d’intervento delle SS sotto la guida dal capitano Theodor Dannecker – l’ufficiale che dal 1940 al ’42 aveva organizzato la deportazione degli ebrei francesi, ed ora si apprestava a occuparsi di quelli italiani. Dannecker si avvale della schedatura degli ebrei residenti in Italia che il regime monarchico-fascista aveva attuato a partire dal ’38, nonché dell’indirizzario completo degli ebrei romani raccolto con ogni cura da una squadra di agenti della questura (al comando del commissario Cappa).
La mattina del 16, i poliziotti tedeschi sanno dunque a quali porte bussare. Gli arresti durano dalle 5,30 alle 14. I catturati sono 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini, provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare. Gli uomini vengono immediatamente separati dalle donne e dai bambini. Dopo minuziosi controlli, all'alba del 17 vengono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, e quanti al momento della retata si erano trovati per caso nelle case dei ricercati – nell’insieme 237 persone. Delle 1022 persone rimaste, una sola non è ebrea: si tratta di una donna che non intende abbandonare un orfano malato che le era stato affidato. Morirà con lui nel lager.
Il 22 il treno giunge ad Auschwitz-Birkenau. A nessuno è permesso scendere fino al giorno successivo. Poi incomincia la selezione: 839 prigionieri sono destinati immediatamente alla camera a gas (gli anziani, i bambini, quasi tutte le donne). Gli altri 183 vengono utilizzati come lavoratori schiavi. Alla liberazione del campo, solo 17 sarebbero risultati ancora in vita, tra i quali una sola donna.


Domenica 26 settembre 1943, ore 18 I presidenti della Comunità Israelitica di Roma e dell’Unione delle comunità italiane sono convocati dal Maggiore delle SS Herbert Kappler all’ambasciata tedesca e invitati a consegnare 50 Kg d’oro entro un giorno e mezzo (si otterrà poi la proroga di qualche ora). In caso contrario è minacciata la deportazione di 200 ebrei.

Martedì 28, ore 18 Secondo le istruzioni di Kappler, l’oro richiesto viene consegnato in via Tasso. Seguono estenuanti controlli per il sospetto infondato dei nazisti che il quantitativo fosse inferiore al previsto.

Mercoledì 29, mattina reparti delle SS asportano archivi, documenti, registri e 2 milioni di denaro liquido dai locali della Comunità Israelitica. Non trovano gli arredi del Tempio e gli oggetti di pregio, messi precauzionalmente in salvo.

Sabato 9 ottobre Vengono arrestati parecchi ebrei segnalati in precedenza per attività antifascista.

Lunedì 11 Un ufficiale SS, nonché cultore di paleografia, con scorta armata irrompe nelle biblioteche della Comunità Israelitica e del Collegio Rabbinico e fa asportare libri antichi e preziosi codici manoscritti, che su carrozzoni merci saranno portati a Monaco di Baviera.

Venerdì 15, sera Una donna ebrea, da Trastevere, diffonde nel Ghetto la notizia che i tedeschi possiedono una lista di 200 capi-famiglia ebrei e intendono portarli via con tutte le famiglie. Nessuno dà credito all’informazione.
Ore 23 All’albergo Vittoria (al di fuori del Ghetto) viene arrestata una coppia di ebrei triestini
Ore 24 circa Nel Ghetto, drappelli di soldati tedeschi iniziano a sparare in aria, poi a lanciare bombe a mano, e proseguono per più di tre ore, per impedire a chiunque di uscir di casa.

Sabato 16, ore 5,30 circa Le SS (reparti specializzati giunti a Roma da poche ore) dispongono sentinelle agli angoli delle strade del Ghetto; in base a vari elenchi dattilografati di nomi, salgono poi nelle case e bussano agli appartamenti corrispondenti; sfondano le porte che non vengono loro aperte e prelevano tutti gli abitanti (compresi gli ammalati gravi), concedendo loro 20 minuti per preparare il necessario per il “trasferimento”, secondo le istruzioni fornite in un apposito foglio. Le famiglie rastrellate, incolonnate per strada e percosse col calcio dei fucili, sono radunate in un’area di scavi vicina ai resti del teatro di Marcello.
Ore 13 Nel Ghetto ha termine l’operazione, che si è svolta intanto con le stesse modalità, anche se più rapidamente, negli altri quartieri dell’Urbe. Tutte le vittime vengono caricate in camion e poi ammassate nel Collegio Militare di Via della Lungara.

Lunedì 18, all’alba I prigionieri sono condotti in autofurgone alla stazione Tiburtina e stipati su carri bestiame.
Ore 13, 30 Il treno viene consegnato al macchinista e parte mezz’ora dopo.


Il rastrellamento del Ghetto di Roma nel racconto di Giacomo Debenedetti
di Bianca Danna


Giacomo Debenedetti (1901-1967), critico letterario, sfuggì alla deportazione nascondendosi in casa di una vicina. Nel giugno ‘44 si unì alle formazioni partigiane attive sull'Appennino toscano.

Era venerdì, la sera del 15 ottobre. Ogni venerdì, «all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del sabato». Erano già tutti in casa. Ma l’angoscia irrompe, turba il tempo del rito. «Una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia», è la prima figura umana che vediamo nel Ghetto. È venuta di corsa da Trastevere, con il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha in mano «una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con tutte le famiglie». Nessuno vuole crederci, molti ridono. «Credetemi! scappate, vi dico! - Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli! - Ve ne pentirete! Se fossi una signora mi credereste». Nemmeno Cassandra, secondo Omero, fu creduta quando annunciava la sventura della sua città, benché figlia del re. Qui però l’Autore non intende scrivere epica o tragedia, ma cronaca fedele ai fatti. E ha rintracciato molti testimoni di quella sera, convinti che la «poveraccia», la «pazza» si confondesse con un pericolo ormai scongiurato, vecchio di una ventina di giorni.
A fine settembre, infatti, le SS di Kappler avevano minacciato di deportare duecento ebrei - italiani doppiamente colpevoli, è il pretesto: traditori dopo l’8 settembre e da sempre nemici della Germania per razza - se la Comunità Israelitica di Roma non avesse consegnato 50 chili d’oro. In un giorno e mezzo si raccolse l’oro, con la vigilanza della Questura italiana, l’offerta ufficiosa di aiuto del Vaticano (gradita ma poi non accolta) e l’imbarazzata, ma generosa donazione di molti «ariani»; si portò l’oro in via Tasso, a un certo capitano Schultz, maniacale nell’accertare che gli ebrei non avessero frodato il Reich. Così non era, ma l’indomani (29 settembre) i reparti di Kappler ripulivano i locali della Comunità del denaro liquido, e l’11 ottobre la sua Biblioteca, nonché quella del Collegio Rabbinico, di libri, manoscritti, codici e pergamene. Finiscono così a Monaco di Baviera, forse sugli stessi carrozzoni merci che serviranno cinque giorni dopo per caricare i deportati, «le fonti autentiche di tutta la storia, fin dalle origini, degli ebrei di Roma, i più vicini e diretti discendenti dell’antico giudaismo». «Generazioni che parevano passate su questa terra veramente come la schiatta delle foglie, attendevano dal fondo di quelle carte che qualcuno le facesse parlare».
Qui, nel commento al furto della memoria storica del Ghetto, Giacomo Debenedetti lascia intendere il senso più alto, più toccante che il suo resoconto, e forse la letteratura intera, può assumere. Restituire, attraverso un paziente vaglio di testimonianze, le voci di chi fu costretto al silenzio. Farci rivedere ciò che videro, risentire ciò che udirono.
Spari verso la mezzanotte, bombe a mano sui marciapiedi del ghetto, grida colleriche di soldati, per due, tre ore (Così nessuno penserà di uscire, prenderanno tutti). I mamonni, gli sbirri, verso le 5 del sabato 16 ottobre bloccano strade e case del Ghetto. Da una casa della stretta via S. Ambrogio, la signora Laurina S. sente lamenti e grida. Si affaccia e vede passare in mezzo alla via del Portico le famiglie rastrellate, spinte avanti col calcio dei mitragliatori. In una scena corale - la cui regia, avverte il narratore, era «nelle cose stesse» - «le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini»; «i ragazzi cercano negli occhi dei genitori (…) un conforto che questi non possono più dare».
Passano vecchie inferme, giovani donne che implorano i soldati e ricevono percosse, un paralitico portato a braccia (finirà scaraventato sul camion «come un mobile fuori uso»). Laurina stessa, ascoltati gli ordini incomprensibili del caposquadra SS, leggerà ai vicini il biglietto che porta scritte a macchina, in tedesco e in italiano, le indicazioni per il “trasferimento”: hanno venti minuti per prendere con sé viveri per almeno 8 giorni, carta d’identità, eventuale valigetta con effetti personali, denaro e gioielli. Gli ammalati, anche gravissimi, non possono restare indietro. «Infermeria si trova nel campo».
Insomma, «il biglietto parlava chiaro». Eppure le ultime parole che Ester P., allora dodicenne, ricorda della zia («torna a casa, se no poi papà mi strilla») dicono come Loro continuassero «a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima». Del resto la salvezza di Laurina, grazie alla sua gamba ingessata, e quella degli uomini in fila per la distribuzione di sigarette, che nessun tedesco ebbe lo zelo di cercare, fanno ritenere a Debenedetti che la brutalità delle SS fosse, quella mattina, professionale più che sadica, malgrado le eccezioni: contava consegnare ai mandanti «un certo numero di ebrei», un migliaio circa, numero non solo raggiunto ma anche superato. Come scrisse Moravia in una sua introduzione a 16 ottobre 1943, «Il razzismo è un'ideologia di massa; e le sue vittime (...) sono anch'esse massa».
Li portano dapprima nella fossa di un’area di scavi, ai piedi della palazzina delle Antichità e Belle Arti, poi, sui camion, nel Collegio Militare, dove separano donne e uomini, «i più ben portanti (…) col capo volto verso il muro»: questo e altro, compreso il divieto, quasi sempre, di raggiungere le latrine, rende subito evidente «il proposito di umiliare». Si attende l’alba del lunedì per stivare tutti su carri bestiame, che lasciano la stazione di Roma-Tiburtino alle 14. La ricerca dell’esattezza fa registrare ancora il nome e la relazione del macchinista (a Orte, tentativi di fuga, repressi con le armi; a Chiusi, si scarica il corpo di una deceduta). Fino al termine della cronaca, l’accuratezza dell’indagine (il “metodo filologico”) rivela un “abito morale”, un “metodo umano”: quello che il Debenedetti saggista, pochi anni dopo, avrebbe teorizzato parlando delle Lettere di Gramsci (“Tener conto di tutti i fattori che compongono l'uomo; non sentirsi mai il diritto, o l'arroganza, di trascurarne alcuno”). Il rigore impersonale del resoconto, in 16 ottobre, non attenua mai la pietas di chi vorrebbe, e non può, sottrarre all’oblio altri particolari, altre impressioni: il viso di una bambina, dietro la grata del vagone piombato, che a una viaggiatrice su un altro treno era parso di riconoscere; il viaggio dopo che quel macchinista smontò; il nome dei nati nel cortile del Collegio Militare, il sabato notte: non certo “pellegrino in terra straniera”, come chiamò Mosè il figlio della schiavitù: «i due nati in quella notte senza Mosè erano pellegrini verso le camere dei gas».


La Carta di Verona, costituzione della Rsi

Tra il 14 e il 16 novembre 1943 il Partito fascista repubblicano si riunisce in cogresso a Verona:
“È stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti, ha chiesto l’abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà! Ci potremmo chiedere, con ciò, perché abbiamo, per vent’anni, lottato coi comunisti! Secondo questi ‘sinistroidi’, potremmo oggi addivenire all’abbracciamento generale anche con loro. Da tutte queste manifestazioni verbose si può facilmente arguire quanto pochi siano i fascisti che abbiano idee chiare in materia di fascismo…”. A parlare è lo stesso Benito Mussolini (peraltro assente) riferendo a Giovanni Dolfin dell’andamento del Congresso. Quella che avrebbe voluto essere una vera e propria Costituente, per “consacrare” con il mandato popolare un programma finalizzato a sconfiggere “sul piano delle idee e dell’adesione spontanea” (Frederick Deakin) il governo Badoglio al Sud e la nascente resistenza al Nord diventa un’assemblea caotica la cui unica conseguenza sarebbe stata l’inasprimento della politica antisemita, dei contrasti nell’Italia Settentrionale, e quindi l’accelerazione della guerra civile. A interrompere i lavori è addirittura la spedizione punitiva a Ferrara dove era stato ucciso il “camerata” Igino Ghisellini, molto probabilmente per una faida interna allo stesso Pnf. L’episodio diventa il pretesto per un’azione contro ebrei, antifascisti, comuni cittadini. Le squadre fasciste nel giro di poche ore rastrellano ottantaquattro persone, e per rappresaglia uccisidono undici ferraresi.
Parlare di costituente è alquanto improprio: nella nascente Rsi, stato fantoccio in mano ai tedeschi, sarebbe stata del tutto inconcepibile una dialettica fra partiti diversi. Come ha osservato Luigi Ganapini, una costituzione è un patto, “scaturisce da un accordo tra i cittadini. Ma c’è spazio per accordi o dibattiti nella Repubblica delle camicie nere? Partito – il partito fascista repubblicano quale si delinea dopo il trauma del tradimento – e Costituente non sono forse agli antipodi?”.
L’assemblea di Verona approverà senza discuterlo un manifesto, steso con l’interessatissima collaborazione dei tedeschi qualche giorno prima, e sottoposto bell’e pronto dal segretario Pnf Alessandro Pavolini al congresso. Si tratta di una carta in 18 punti, in cui lo spreco di slogan è pari soltanto alla quantità di contraddizioni. Rivendicando in termini piuttosto generici la natura “sociale” della costituenda repubblica, la carta proclamava fra le altre cose il cattolicesimo religione di Stato, attestando formale rispetto per gli altri culti non in conflitto con la legge e affermando all’art. 7, che “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica” (formulazione, pare, dovuta al ministro Preziosi). Nella sostanza, si trattava dell’ennesima tappa di un cammino incominciato esplicitamente negli anni precedenti il conflitto e nello specifico, con le leggi razziali del 1938 nella cieca, incondizionata e zelante accettazione delle politiche tedesche.
Il congresso di Verona rappresentò un confuso teatro di incontro e scontro di temi e slogan che avevano caratterizzato oltre vent’anni di regime; un dibattito, a tratti convulso, fra generazioni di fascisti, divise fra istanza di rinnovamento impossibile e nostalgici appelli per un ritorno allo squadrismo degli anni Venti, accompagnato da parole d’ordine vagamente anarcoidi e antiplutocratiche: è ancora Mussolini a commentare “E nessuno, dico nessuno di questi che hanno un bagaglio di idee da agitare, viene da me per chiedermi di combattere. È al fronte che si decidono le sorti della Repubblica… e non certo nei congressi!”.
Il manifesto di Verona avrebbe mostrato, a quanti desiderassero in qualche modo la restituzione di una parvenza di convivenza civile nell’Italia dilaniata dalla guerra e dal Ventennio, in che misura un tale disegno non fosse realizzabile attraverso la scelta di Salò.

estratto dalla “Carta di Verona”
Il primo rapporto nazionale del Partito Fascista Repubblicano: leva il pensiero ai caduti del Fascismo repubblicano sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle “foibe” dell’Istria e della Dalmazia, che si aggiungono alla schiera dei martiri della Rivoluzione, alla falange di tutti i morti per l’Italia; addita nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone fino alla vittoria finale e nella rapida ricostituzione delle Forze Armate destinate a operare accanto ai valorosi soldati dal Fuehrer le mete che sovrastano a qualunque altra in importanza e urgenza.[…]
In materia costituzionale ed interna

1. - Sia convocata la Costituente, potere sovrano, di origine popolare, che dichiari la decadenza della Monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la Repubblica Sociale e ne nomini il Capo.
2. - La Costituente è composta dei rappresentanti di tutte le associazioni sindacali e di tutte le circoscrizioni amministrative, comprendendone i rappresentanti delle provincie invase, attraverso le Delegazioni degli sfollati e dei rifugiati sul suolo libero […]
[…]
5. - L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica.
Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’Idea Rivoluzionaria.
La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico.
6. - La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.
7. - Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.
In politica estera
8. - Fine essenziale della politica estera della Repubblica dovrà essere l’unità, l’indipendenza, l’integrità territoriale della Patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla Storia; termini minacciati dal nemico con l’invasione e con le promesse di Governo rifugiato a Londra. Altro fine essenziale consisterà nel far riconoscere la necessità dello spazio vitale, indispensabile a un popolo di 45 milioni di abitanti, sopra un’area insufficiente a nutrirlo.
Tale politica si adoprerà inoltre per la realizzazione di una "comunità europea" con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti princìpi: a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro continente; b) abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali; c) valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto assoluto di quei popoli, in ispecie musulmani, che, come l’Egitto, sono già civilmente e nucleamente organizzati.
(…)
18. - Con questo preambolo alla Costituente, il Partito dimostra non soltanto di andare verso il popolo, ma di stare con il popolo. Da parte sua il popolo italiano deve rendersi conto che vi è per esso un solo modo di difendere le sue conquiste di ieri, oggi, domani: ributtare l’invasione schiavista delle plutocrazie anglo - americane, la quale, per mille precisi segni, vuol rendere ancor più angusta e misera la vita degli Italiani. Vi è un solo modo di raggiungere tutte le mete sociali: combattere, lavorare, vincere.