giovedì 27 marzo 2014

Sullo 'strutturalismo diacronico' in Jesi


Recupero dalla tesi di dottorato i paragrafi finali, in cui si parla di Jesi e il post-strutturalismo, e anche Foucault, sollecitato da un dialogo sorto tra amici dell'immaginario, con cui ci si legge ogni giorno e ci si vede molto  meno di quello che si dovrebbe. 

In sintesi, Jesi cita una sola volta Foucault direttamente, presumibilmente riferendosi alla Storia della follia, proponendolo come un modello per una storia della cultura e delle idee che tenga conto delle interazioni tra i saperi condivisi all'interno di una società. Da interviste con chi ci ha lavorato sappiamo che ne conosceva i testi e il valore politico.

Il resto dipende molto dallo sviluppo teorico che ne ha fatto Agamben. Bidussa sottolinea molto la somiglianza con il lavoro e il metodo di Georg Mosse; personalmente credo che molto dipenda anche da Barthes, da una lettura meditata di Lévi-Strauss, dalla semiotica militante legata alla riflessione politica (Rossi Landi, Eco) e da qualcosa di impalpabile ma profondamente diffuso e leggibile in tutta un'area e un periodo.

A margine, mi piacerebbe sapere - e proverò a indagare - nello specifico se Jesi avesse commentato con qualcuno la rivoluzione islamica in Iran nel 1979, che Foucault seguiva per il Corriere della sera (cfr. Belpoliti, 2014, link sotto), per il rapporto tra religione e politica, senza contare l'uso del mito e del martirio della specifica religio mortis sciita che è alla radice del 'recupero' del terrorismo suicida. Fosse rimasto vivo dopo il 1980 l'avrebbe visto, ne sono sicuro.


http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2123

http://www.doppiozero.com/materiali/anteprime/la-chiave-del-paradiso






5.6 Memoria e violenza
Ogni società nasce ai propri occhi nel momento in cui si dà la narrazione della sua violenza. […] La narrazione agisce e cambia l’azione stessa mentre la racconta. La narrazione agisce sulla sua azione raccontata. Per tale motivo, cambiando ciò che essa racconta, essa cambia se stessa raccontando. La narrazione come oggetto che cambia, e che cambia il suo oggetto: ecco il prima assioma, o la serie assiomatica da cui si dovrà procedere1.

Il cristallo, la pietra o la statua sono le metafore operative di processi culturali che implicano l’uso della grande simbolica pubblica e che indicano i luoghi comuni condivisi nella società di massa, la prima che ha dispiegato l’enorme potenziale comunicativo offerto da nuovi mezzi tecnici: in questo modo Jesi ha potuto contribuire a descrivere i «meccanismi perlocutivi della morte come grammatica generativa del senso di potenza»2, grazie ai quali il nesso tra memoria funeraria e eroismo si ritrova rinsaldato nell’«immaginario collettivo della morte», tanto nella «catena logica dei segni» che la descrivono e quanto nella sua «sintassi perlocutiva (ovvero i modi e le articolazioni comunicative di tali segni)»3. In questa articolazione storico-ideologica rientra anche la nozione del tempo mitico dell’eterno ritorno, fatto valere in chiave comunitaria laddove il riferimento al passato è premessa per un futuro assetto, una nuova versione del valore palingenetico del mito risacralizzato nel politico.
Sulla scorta di Benjamin Jesi ha inteso contrapporre la «politicizzazione dell’estetica» all’«estetizzazione della politica»4: «non solo non si troverà [in lui] l’abbandono della storia del pensiero e della critica ideologica a favore di uno “status estetico” del mito, [egli] si è impegnato per tutta la vita a mettere in guardia dal pericolo ideologico insito in tutte le teorie del mito apolitiche»5. Intendendo la decostruzione della storia del mito e delle mitologie in senso profondamente etico e politico, il senso del suo lavoro culturale si trova ricomposto nel discorso sulla costruzione borghese del passato, che solca la storia della modernità fino alla cultura di massa: ogni riga, dai saggi alle traduzioni alle pagine di enciclopedia, vibra di pedagogia ‘illuminista’ poiché il discorso prima sul fascino dell’antico e poi sull’omogeneizzazione della cultura è anche una critica della divulgazione e della semplificazione, funzionali alle logiche del potere. È in questa direzione, accanto ad altri congegni di ordine sociale e culturale, che la ‘macchina mitologica’ trova la sua ultima collocazione.
5.6.1 La critica del linguaggio
L’ideologia è lo sfondo intellettuale comune a più ambiti della cultura di una società o di un’epoca: ogni forma di sapere, lungi dall’essere neutre, incorporano visioni del mondo e si configura in termini storici come paradigma il cui successo deve essere letto in rapporto al potere dominante, il quale potrà servirsi del monopolio di quel sapere come forma di legittimazione del proprio dominio. Mentre Lévi-Strauss e Dumézil hanno costruito sistemi teorici separando la morfologia della cultura dalla sua genesi e dalla sua funzione di dominio, in un approccio marxista forma, origine e funzione di un’ideologia appaiono sovrapposte e coincidenti: uno dei presupposti della «teoria della riproduzione socio-culturale» è che gli elementi ideologici riproducano in forma larvata il campo sociale in cui sono prodotti, servendo gli interessi dei gruppi che costituiscono la società6.
Si è già visto come nell’indagine sul mito svolta da Jesi siano presenti: la ricerca di una genesi storica dei fenomeni dal dichiarato valore anti-metafisico; la delineazione di una teoria metapsicologica che implica la rielaborazione di materiali cognitivi da parte di soggetti culturali immersi nel dinamismo storico; l’individuazione di una storia della ricezione che ne privilegia la funziona politica. In questo senso Jesi ha elaborato la sua via personale alla sintesi di marxismo e di antropologia che ha caratterizzato i suoi anni sfociando in una semiolinguistica critica il cui intento è stato quello di costruire una «controcultura»7. L’analisi del linguaggio significa critica al pregiudizio naturalistico e conservatore che assuma come ipostasi extrastoriche quelle che sono istituzioni culturali specifiche di una determinata organizzazione sociale8: congiungendo Marx con Sapir e Benveniste la stessa canonizzazione della cultura europea diventa il luogo di trasformazione della metafisica classica in volto necessario della verità. Lo studio della significazione mette capo al valore d’uso dei saperi che si determina storicamente e quindi alla loro decostruzione ideologica: obiettivo è lo svelamento dei presupposti materiali per i quali alcuni significati si sono sedimentati nel codice linguistico di una comunità istituzionalizzandosi attraverso il linguaggio. Contro il sapere che limitandosi alla descrizione della realtà amplifica l’ideologia dominante la teoria critica mette in evidenza i processi di costruzione ideologica associandola alle strutture economico-sociali che ne spiegano la diffusione.
Con il concetto di ‘logotecnica’ Barthes ha designato le categorie costituenti l’impalcatura di un determinato sistema culturale, trasformando tutti i fatti significanti in oggetti della semiotica9: il sistema sociale si regge sugli individui, i parlanti nella cui lingua e nel cui agito i codici prendono vita e si modificano, all’interno di rapporti comunicativi, permettendone la riproduzione. Barthes teorizza una «nuova scienza linguistica» volta a indagare «il progresso della solidificazione», «l’ispessimento lungo il discorso storico» delle parole, che sarebbe stata «sovversiva» nella misura in cui avrebbe mostrato «molto più che l’origine storica della verità: la sua natura retorica, di linguaggio»10. La demistificazione ideologica traccia la specificazione storica dei codici culturali: tematizzare le produzione sociale che li ha originati, mostrandone gli elementi di interesse attraverso l’individuazione dei motivi di canonizzazione. Nonostante tutte le prese di distanza da ogni corrente o prospettiva metodologica e le dichiarazioni di volersi attenere a un basso profilo, la teoria jesiana appartiene al suo tempo. La miticità in un sistema di segni è l’aura di valore prodotta dalla macchina mitologica in virtù della sua circolazione, secondo un processo che politicizza e porta alle estreme conseguenze quanto era implicito nel programma strutturalista: «Tutte le opere individuali sono miti in potenza, ma è la loro assunzione in chiave collettiva che attualizza all’occorrenza la loro “miticità”»11.
Così Jesi in uno degli ultimi scritti:
La scienza del mito nella mia prospettiva tende ad attuarsi come scienza delle riflessioni sul mito, dunque come analisi delle diverse modalità di non-conoscenza del mito. La scienza della mitologia, per il fatto di consistere nello studio dei materiali mitologici in quanto tali, tende ad attuarsi innanzitutto come scienza del funzionamento della macchina mitologica, dunque come analisi della intera e autonoma circolazione linguistica che rende mitologici quei materiali. Uso la parola mitologia per indicare appunto tale circolazione linguistica e i materiali che la documentano. [...] Sono invece convinto che, per me oggi, il modo migliore di collocarmi di fronte ai meccanismi e alle produzioni mie e degli altri, antichi o contemporanei, consista nel riconoscere in alcune di quelle proposizioni un linguaggio non riducibile ad altri, assolutamente autonomo “riposante in se stesso” (Bachofen), dotato di alcune caratteristiche definibili con approssimazioni estremamente vaghe se – com’è inevitabile per definirle – si ricorre ad altro linguaggio12.

5.6.2 Essere fatti dalla storia
Bidussa sottolinea come la ricerca sul rapporto tra sapere e potere in Jesi possa essere avvicinata a quella di Foucault, in particolare per ciò che riguarda una interrogazione dei testi intesa come «storia della loro formazione culturale, dei segni in essi contenuti e delle macchine testuali cui essi rinviano, della serialità entro cui si collocano»13. Citando Foucault lo stessi Jesi dichiara la necessità di studiare i processi di conoscenza in relazione alle «interazioni» tra «tutte le componenti della storia sociale, culturale, economica dei gruppi umani»14, sull’esempio di una storia della medicina come quella proposta dal filosofo francese; la loro affinità è anche nel metodo comune che affronta il divenire monumento del documento15. Come scrive Le Goff già il progetto degli «Annales d’histoire économique et sociale» dal 1929 implicava l’allargamento della nozione di documento che si accompagna all’immensa dilatazione della memoria storica; Paul Zumthor nel 1960 rilevava come il passaggio «che cambia il documento in monumento» sia «la sua utilizzazione da parte del potere»16, tale da rendere la funzione di ‘intercomunicazione’ soprattutto quella di ‘edificazione’: «il documento [...] è un prodotto della società che lo ha fabbricato secondo i rapporti di forza che in essa detenevano il potere»17.
Nel 1969 ne L’archéologie du savoir Foucault ha messo in luce l’importanza dell’analisi dell’archivio, ovvero del modo in cui la storia viene collocata e concepita nella sua restituzione:

la storia è un certo modo che una società ha di dare statuto ed elaborazione a una massa documentaria da cui non si separa. [...] la storia nella sua forma tradizionale, si dedicava a “memorizzare i monumenti del passato e a trasformarli in documenti e a far parlare in se stesse quelle tracce, che in se stesse non sono affatto verbali, o dicono tacitamente cose diverse da quello che dicono esplicitamente; oggi invece la storia è quella che trasforma i documenti in monumenti, e che, laddove si decifravano delle tracce lasciate dagli uomini e si scopriva in negativo ciò che erano stati, presenta una massa di elementi che bisogna poi isolare, raggruppare, rendere pertinenti, mettere in relazione, costruire in insiemi. [...] Oggi il problema è quello di costruire delle serie [...] di descrivere i rapporti tra serie diverse, per costruire delle serie di serie, o dei quadri: da ciò il moltiplicarsi degli strati, il loro disarticolarsi, la specificità del tempo e delle cronologie loro proprie18.

L’archivio di Foucault, come i materiali studiati da Jesi, prende l’aspetto di «corpo dinamico relativo alle regole della sua costruzione», il cui fuoco è la «macchina generativa» che fornisce l’unità del suo oggetto a partire dal modo «in cui questo viene descritto e raccontato»19: la storia delle idee è un’impresa di ricostruzione interessata al contesto, ovvero all’individuazione delle cause che hanno portato determinati autori a sostenere un certo tipo di idee; ma è anche studio della ricezione nel tempo, ovvero del modo in cui le idee sopravvivono a loro stesse e retroagiscono su epoche successive e diverse, diventando altro.

Il documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un montaggio, conscio o inconscio, della storia dell’epoca, della società che l’hanno prodotto, ma anche delle epoche successive durante le quali ha continuato a vivere, magari dimenticato, durante le quali ha continuato a essere manipolato magari dal silenzio. Il documento è una cosa che resta, che dura e la testimonianza, l’insegnamento [...] che reca devono essere in primo luogo analizzate demistificandone il significato apparente. Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella immagine data di se stesse. Al limite, non esiste un documento-verità. Ogni documento è una menzogna. Sta allo storico non fare l’ingenuo20.

La canonizzazione storica che ogni epoca produce ricostituisce il passato in una forma strutturata di sapere che è solidale con il presente, in senso inevitabilmente ideologico e fondazionale. Ciò che si presenta come Verità deve essere inteso dunque come la convergenza delle linee differenti che costituiscono il dispositivo sociale della comunicazione. Accanto alla storia come disciplina scientifica che perfeziona continuamente il suo metodo, il sapere contemporaneo deve tenere conto che la storia in quanto storiografia è anche una versione mitologica del passato: la macchina mitologica sta al centro di un’indagine di fenomenologia dell’agire collettivo – ovvero sulla trasposizione del mito in atti percepiti e pensati come loro traduzione coerente – che come quella foucaultiana riguarda il

nesso tra le strategie di istituzionalizzazione (le modalità attraverso cui gli individui soggettivano la norma, la riferiscono a se stessi e se ne impossessano) e le forme di soggettivazione (la formazione di uno stile di vita; altrimenti l’analisi di come si produce la personalità etica, ovvero le regole che fondano la soggettività)21.

La cultura socialmente condivisa interviene a costituire l’identità dell’individuo, senza sovradeterminarla, ma sorreggendola e orientandola, con modalità che sulla base del livello di intensità potranno essere più o meno performative. Il dispositivo culturale comunica i suoi contenuti, e nello stesso tempo metacomunica le forme della sua espressione, nel mito particolarmente performative: il “linguaggio delle idee senza parole” di ogni mitologia moderna può esprimere attraverso la forma in cui i significati sono veicolati l’idea stessa di appartenenza e di intuizione, saltando la mediazione intellettuale e spingendo all’azione.

Il mito è il montaggio del testo: più precisamente: la condizione che permette a un testo di presentarsi e accreditarsi come verità. Per questa via il mito non è il racconto, ma è la condizione del raccontare, poi diviene le metafore in esso contenute, infine il reticolo immaginario che lo sostiene e che lo fa apparire come logico. In altri termini ciò che egli chiama mito è una condizione testuale, un vincolo che lega sia chi costruisce il testo, sia chi lo riceve attraverso una mediazione fondamentale: chi detiene il potere, come arbitro o gestore del rapporto presente/passato, della memoria, della sua formalizzazione, del reticolo gerarchico che in essa si struttura, della forma discorsiva con cui esso si comunica. [...] Il mito non è solo, né principalmente un racconto che rende digeribile il presente, ma è il modo in cui una comunità riconosce se stessa e comunica la sua sostanza all’interlocutore con cui entra in rapporto o in conflitto22.

5.6.3 La macchina mitologica come dispositivo
Numerosi sono gli elementi che inducono a vedere nel funzionamento della macchina mitologica, in particolare per come è articolato nei testi più recenti, una forte analogia con ciò che Foucault ha chiamato «dispositivo». Nel 1977 il filosofo francese definiva con questo termine

un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è la rete che si stabilisce fra questi elementi [...] di natura essenzialmente strategica, il che implica che si tratti di una certa manipolazione dei rapporti di forza, di un intervento razionale e concertato nei rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli, o per fissarli e utilizzarli. Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso, e nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati23.

Secondo la definizione di Deleuze un dispositivo è una «matassa, un insieme multilineare, composto di linee di natura diversa» che «tracciano processi in perenne disequilibrio», tali da concatenarsi in maniera differente e costituire il plesso «Sapere, Potere e Soggettività»24. Per Agamben dispositivo è la rete che si stabilisce tra gli elementi di un insieme eterogeneo, includente elementi di cultura materiale e immateriale, dotata di «una funzione strategica concreta» inscritta in una «relazione di potere» e come tale risultante «dall’incrocio di relazioni di potere e relazioni di sapere»25. Il sistema culturale di una società in un determinato momento storico risulta costituito da più dispositivi: al centro dell’indagine è «la relazione fra gli individui come esseri viventi e l’elemento storico, intendendo con questo termine l’insieme delle istituzioni, dei processi di soggettivazione e delle regole in cui si concretizzano le relazioni di potere»26. La nozione di dispositivo – «il modo in cui sono disposti i pezzi di una macchina o di un meccanismo e per estensione, il meccanismo stesso»27 – «nomina ciò in cui e attraverso cui si realizza una pura attività di governo senza alcun fondamento dell’essere»28 e descrive così le modalità «di prassi, di saperi, di misure, di istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini»29.
In un recente saggio sull’argomento Nicola Bucci fornisce una lettura della macchina mitologica in sostanziale continuità con questa:

se il mito è il prodotto di una macchina antropologica e non una sostanza reale, allora non esiste mito o mitologema che non sia tecnicizzato (in questo senso, si potrebbe leggere la ‘macchina mitologica’ esattamente nel senso di quei dispositivi sottesi alla costituzione stessa del soggetto che Foucault chiama tecnologie del sé). [...] Una macchina mitologia è un dispositivo, esattamente nell’accezione foucaltiana, che articola una molteplicità di pratiche discorsive dalle quali, in una certa misura, dipende l’antropogenesi del soggetto30.

Quando Jesi descrive il funzionamento della macchina mitologica intende mostrare come mitopoiesi sia anche l’istituzione di saperi attraverso cui gli uomini nel tempo costruiscono un mondo dotato di senso e di significato31 che include stratificazione sociale, rapporti di subordinazione e logiche di dominio. Accanto alla necessità della critica Jesi ha posto l’impossibilità di uscire dal circuito della macchina mitologica: la denuncia politica della manipolazione del linguaggio è anche la constatazione teoretica dell’impossibilità di uscire da esso. L’uso dei codici culturali da parte di un soggetto implica la loro ri-produzione e messa in circolo; ogni analisi della soggettività trascendentale si scontra con l’impossibilità di uscire dal linguaggio che da quella stessa soggettività è prodotto. I processi culturali si verificano all’interno di un dispositivo sociale linguisticamente determinato nel quale gli individui sono immersi e da cui risulterà il «il sé» come «processo di individuazione che si esercita si gruppi o su persone» ma tale anche da potersi «sottrarre ai rapporti di forza stabiliti come pure ai saperi costituiti»32. Le medesime forme del sapere/potere espresse da un’epoca sono al tempo stesso la condizione per il cambiamento e l’innovazione: la dimensione pragmatica del linguaggio non coincide con una nozione di strumentalità totale, esattamente così come la langue fonda la possibilità che si dia la parole, già per Saussure: se la prima è il sistema di segni collettivo e universale che l’individuo trova disponibili e non può creare né modificare, la seconda è l’aspetto creativo del linguaggio. Questo dipende dal singolo individuo, poiché è l’«atto di volontà e intelligenza» che ognuno può rielaborare in modo creativo a partire dai materiali cognitivi di cui dispone33. Il linguaggio è «la più collettiva di tutte le istituzioni» ma «anche la più privata»34.
Il mito o simbolo, nell’accezione in cui Jesi l’ha inteso, può essere dal punto di vista teoretico un atto inventivo ‘originario’ solo perché emerge dalle macerie del pregresso, nei termini di un’«improvvisazione che si appoggia a una sapere implicito e ubbidisce a regole inconsce»: «affermando che il simbolismo è un dispositivo cognitivo [...] ci troviamo di fronte a un dispositivo autonomo che partecipa della costituzione del sapere e al funzionamento della memoria insieme ai meccanismi della percezione e al dispositivo concettuale»35. Applicando questo principio all’interno di una teoria antropologica della cultura moderna, che include il modo in cui il sapere storiografico interagisce con i saperi del tempo presente, si ha così nell’opera di Jesi la pratica di una teoria della ricezione in cui l’archeologia del sapere come «storia critica» diventa una sorta di «terapia mirante al recupero dell’inconscio inteso come “rimosso” storico»36 che ricorda da vicino il progetto benjaminiano di restituzione del passato a nuova vita. Come per il critico berlinese, si tratta di una «tendenza, allo stesso tempo distruttiva e ricostruttiva» che «si fonda su una facoltà mimetica intenta a stabilire connessioni e similitudini straordinarie tra le cose (citazioni, oggetti, parole, concetti e idee) sottratte alle rovine del loro originario contesto funzionale di appartenenza»37.
In questo senso il concetto di macchina mitologica permette di riconoscere come gli stessi meccanismi di nominazione e comunicazione che operano nella sfera dell’immaginario collettivo e sociale siano «spia indiziaria del meccanismo associativo della mente»38. «L’‘io’ non è un’entità presupposta, depositaria di un segreto ontologico, ma coincide con la sua storia, col racconto che egli fa. Il soggetto non è altro, in questa prospettiva, che il prodotto della macchina mitologica, in quanto essa è in prima istanza autobiografica»39.
Il soggetto pensante si rapporta alla propria cultura come a un archivio o un repertorio, la cui difettività o intermittenza è colmata dalla coscienza che coglie la realtà nella continuità del pensato: dispositivo è anche il sistema teorico elaborato dal pensatore come fabbricatore di concetti o dallo scrittore come produttore di immagini che appartiene al più ampio dispositivo culturale della cultura, o delle culture, di un epoca. Ogni essere umano non può che essere il risultato della catena di ricezione di discorsi, idee, immagini e dei ‘testi’ che lo hanno preceduto: la macchina mitologia-individuo interagisce con la macchina mitologica-cultura.
Rifiutando esplicitamente di elaborare una teoria generale della cultura, Jesi l’ha però intensamente praticata e implicitamente tratteggiata in modo ampio e diffuso. In questo senso la sua personale ermeneutica può essere definita

un modo molto mascherato di comporre per citazioni una sorta di autoritratto paradossale, fluido nel gioco di “commozione” e “distanza”, che caratterizza altresì il suo approccio al mito. Scienza del mito, critica letteraria e pedagogia costituiscono cioè un intreccio solidale che caratterizza la sua immagine di studioso e di “sapiente”40.

Nel 1980, in una lettera privata, scriveva di non confondere la propria reticenza teorica con una forma di nichilismo: «non è una semplice copertura di “valorismo”, ma è preoccupazione di non sciupare valori stringendoli dentro le gabbie delle definizioni e degli apparati operativi». La pratica della riflessione condivisa e della scrittura, la critica e l’ermeneutica, erano per lui un «parlare con gli altri che è un confonderli-illuminarli-metterli in crisi» del tutto simile al proprio «confondersi-illuminarsi-mettersi in crisi». Da questa condizione di confusione-illuminazione-crisi si genera ogni rapporto personale con i significati, secondo un’idea di interpretazione che, pur essendo «già una formula», ha come senso ultimo la perorazione di una «non formula, l’emozione, il vivere-uomini permanente»41.





1 J. P. Faye, Violenza, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, cit., pp. 1081, 1101. Cfr. D. Bidussa, Epifanie del mito. La funzione del mito nella ricerca di Furio Jesi e di George L. Mosse, testo dell’intervento al convegno Furio Jesi: Mito e antropologia, Ferrara, 10-11 maggio 1991. Atti inediti conservati presso l’Archivio del centro etnografico ferrarese (privi di numerazione).
2 D. Bidussa, La macchina mitologica, In «Immediati dintorni», cit., p. 305.
3 Id., La ricerca storica e la questione del mito, cit., pp. 158. Cfr. A. M. Banti, L'onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande guerra, Einaudi, Torino, 2005, in particolare pp. 377-78, studio, con particolare riferimento alla storia letteraria, sui «dispositivi discorsivi» relativi ai concetti di «nazione» e «discendenza» delle grandi narrazioni nazionali.
4 W. Benjamin, Lopera darte nellepoca della sua riproducibilità tecnica (1936), ed. it. Einaudi , Torino, 2000, pp. 46-48.
5 M. Gigliotti, C. Rapisarda e F. Sepe, Mythenforschung und Ideologiekritik bei Furio Jesi, in F. Jesi, Kultur von rechts, cit., p. 239.
6 Bourdieu, che in tal senso può essere considerato paradigmatico, scrive: «I sistemi ideologici che gli specialisti producono attraverso e in vista della lotta per il monopolio della produzione ideologica legittima, riproducono sotto una forma irriconoscibile, attraverso la mediazione dell’omologia tra il campo di produzione ideologica ed il campo delle classi sociali, la struttura del campo della classi sociali [...]. La funzione propriamente ideologica del campo di produzione ideologica si svolge in forma quasi automatica sulla base dell’omologia di struttura fra il campo di produzione ideologica ed il campo della lotta delle classi». P. Bourdieu, Sur le pouvoir symbolique, «Annales E.S.C.», 1977, 3, pp. 409-410. Cfr. D. Dubuisson, Mitologie del XX secolo, cit., pp. 74 ss.
7Cfr. M. Solimini, Scienza della cultura e logica di classe, Dedalo, Bari, 1974, pp. 10 ss. La premessa teorica di questo progetto diffuso e dai vasti contorni consiste nella concezione per cui la funzione politica della lingua è individuata nel «realizzare una particolare organizzazione del mondo naturale-sociale, di ordinarlo in categorie di oggetti, di distinguerlo in maniera specifica [...] in azioni, funzioni, ruoli, istituzioni» (p. 135).
8 F. Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano, 1968, p. 215-216: «Sostenere che in un soggetto c’è qualcosa di extrastorico significa operare un privilegiamento fondato sul passato» che è il «punto essenziale per l’interpretazione di qualsiasi ideologia conservatrice, o reazionaria. [...] Gli oggetti che vengono detti oggi extra-storici altro non possono essere che oggetti costituiti dall’umanità in qualche fase precedente del suo sviluppo sociale. Sono questi oggetti che si vogliono difendere e conservare – e tanto meglio se il processo storico del momento ha istiuito una macchina sociale che li conserva automaticamente».
9 Cfr. R. Barthes, Elementi di semiologia (1964), ed. it. Einaudi, Torino, 1966.
10 R. Barthes, Il piacere del testo (1973), ed. it. Einaudi, Torino, 1975, p. 42.
11 C. Lévi-Strauss, Luomo nudo (1971), cit., p. 590.
12 F. Jesi, «Così Kerényi mi distrasse da Jung», (auto)intervista su un itinerario di ricerca, in «Alias», n. 30, luglio 2007, p. 21 (Testo inedito parzialmente pubblicata in MM, pp. 365, 367-369).
13 D. Bidussa, La ricerca storica e la questione del mito, in «Nuova corrente», n. 143, 2009, p. 157. Id., La macchina mitologia e la grana della storia, p. 107.
14 F. Jesi, Cesare Pavese e il mito: dix ans plus tard, in «Il lettore di provincia», nn. 25-26, Ravenna, 1976, p. 7.
15 D. Bidussa, Il vissuto mitologico, cit., p. 214 ss.; cfr. Id. Mito e storia in Furio Jesi, «Humanitas», 4, 1995, p. 589.
16 J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia Einaudi, vol. 5, Einaudi, 1977, p. 44.
17 Ivi, p. 45.
18 M. Foucault, Larcheologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), ed. it. Rizzoli, Milano, 1971, p. 10-11.
19 D. Bidussa, Il vissuto mitologico, cit., p. 218.
20 J. Le Goff, Documento/monumento, cit., p. 46.
21 D. Bidussa, La macchina mitologica e la grana della storia, cit., pp. 107 ss. L’autore riconosce analogo intento a studiosi come Canfora (L. Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici [1982], Laterza, Roma-Bari, 2010) e i già citati Mosse e Ginzburg.
22 D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica, cit. p. 158-159.
23 M. Foucault, Dits et écrits, vol. III, pp. 299-300. La traduzione è di G. Agamben, in Che cosè un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006, p. 7
24 G. Deleuze, Che cosè un dispositivo? (1989), ed. it. Cronopio, Napoli, 2007, p. 11. Si tratta dell’ultimo intervento pubblico di Deleuze all’interno dell’incontro internazionale Michel Foucault philosophe, Parigi, 9-11, gennaio 1988.
25 G. Agamben, in Che cosè un dispositivo? cit, p. 7.
26 Ivi, p. 12.
27 Ivi, p. 14.
28 Ivi, p. 19.
29 Ivi, p. 20. In Agamben il concetto di dispositivo è ulteriormente dilatato: «Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Non soltanto, quindi le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le fabbriche, le discipline, le misure giuridiche ecc, la cui connessione col potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – il linguaggio stesso che è forse il più antico dei dispositivi», G. Agamben, Che cosè un dispositivo?, cit., p. 21-22.
30 N. Bucci, Dispositivi mitogenetici e macchina antropologica, in «Nuova corrente», n. 143, 2009, pp. 131, 138.
31 Per una discussione critica sulla mitologia della scienza e sul rapporto tra tecnicità, sacro e politica cfr. A. Bardin, Individuazione, tecnica e sistemi sociali. Epistemologia e politica in Gilbert Simondon, Tesi di dottorato in Filosofia politica e storia del pensiero politico, Università di Padova, XXII ciclo, 2007-2009 (su Jesi, p. 305).
32 G. Deleuze, Che cosè un dispositivo, cit., p.17.
33 G. Agamben, Lorigine e loblio, in «Risalire il Nilo», cit., p. 156-157.
34 R. Barthes, Introduzione (1959-60) a Il grado zero della scrittura (1953), ed. it. Lerici, Milano, 1960, p. 13.
35 D. Sperber, Per una teoria del simbolismo. Una ricerca antropologica (1974), Einaudi, Torino, 1981, p. IX.
36 E. Melandri, La linea e il circolo (1968), Quodlibet, Macerata, 2004, p. 134, cfr. anche p. 530 dove la teoria di Foucault è definita «teoria strutturalistico-diacronica».
37 G. Cuozzo, Langelo della melancholia, cit., p. 97.
38 D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica, cit., p. 158.
39 N. Bucci, Dispositivi mitogenetici e macchina antropologica, cit., p. 143.
40 M. Cottone, Scienza del mito e critica letteraria. Conoscere per composizione, in «Studi filosofici», XIV-XV, 1991-1992, p. 237.

41 Ivi, pp. 235-236: F. Jesi, lettera a M. Cottone del 2 gennaio 1980.