in attesa della neve, dopo giorni molto duri, incomincio a respirare.
che sia un natale lento.
Pensare la catastrofe. Walter Benjamin e le Tesi di filosofia della storia
0.
Per il suicidio del profugo W.B.
Brecht
Ho saputo che hai alzato la mano contro te stesso
prevenendo il macellaio
Esule da otto anni, osservando l'ascesa del nemico, spinto alla fine a un'invalicabile frontiera.
Imperi crollano. I capibanda
incedono in veste di uomini di stato. I popoli non si vedono più sotto le armature.
Così il futuro è nelle tenebre, e le forze del bene sono deboli.
Tutto questo tu hai veduto
quando hai distrutto il torturabile corpo.
Nella notte del 25 settembre 1940 a Port Bou lungo il confine franco-spagnolo moriva, suicida, il critico letterario e filosofo Walter Benjamin. Stava cercando di fuggire dall'Europa, su cui era si era serrata la tagliola nazista: del 1940, nel tentativo di sfuggire alla probabile cattura da parte della polizia di frontiera spagnola e alla conseguente espulsione dalla Spagna verso il territorio francese, ormai in mani tedesche, Benjamin ebreo e antifascista, decide di togliersi la vita ingerendo dei sedativi, forse morfina. Prima di partire da Berlino aveva diviso con il romanziere e drammaturgo Koestler, altro grande esule, un pacco di circa sessanta pastiglie, pare di morfina, di cui fare uso in caso di bisogno.
2.
Benjamin è una figura di intellettuale irregolare, disinserito nel sistema, oppositore della società, eversivo e sperimentatore in ogni cosa. Straordinario per ampiezza di visione e capacità di scrittura, Benjamin si interessava di una vastità di temi impressionante, dalla letteratura alla cultura materiale, divoratore di libri, saggi e riviste, è stato anticipatore di molti temi oggi al centro del dibattito filosofico, ma ebbe sempre una vita poco serena e decisamente travagliata. Linguaggio, arte, storia, e filosofia della cultura sono i suoi temi principali, ma sarebbe riduttivo. Oggi la sua produzione andrebbe rubricata tra l’estetica e la sociologia della cultura.
Dopo la laurea, sul Concetto di critica nel romanticismo tedesco, e l'inizio di una carriera intellettuale si troverà a essere escluso dall'Università, nel 1925 con una dissertazione dal titolo Il dramma barocco tedesco, che all'epoca fu stroncato per la difficoltà e l'oscurità, a causa della miopia dell’accademia tedesca, che lo considerava uno stravagante, per di più ebreo. Lo stesso libro, pubblicato nel 1928, fu riscoperto dopo gli anni cinquanta, ed è considerato un capolavoro dell’antropologia della letteratura e della storia della critica per stile e profondità di analisi. Nonostante l'esclusione dall'Università Benjamin godeva di una certa fortuna tra gli addetti ai lavori e le sue opere, apprezzate da Hugo von Hoffmanstahl, venivano pubblicate soprattutto in ambito franco-tedesco. La sua condizione economica fu sempre precaria, così come la salute, l’umore e la vita privata.
Un esempio. Tra il 1929-32, oltre alle molte recensioni e collaborazioni, tiene una serie di radioconferenze, circa ottanta per pubblico di bambini fra i dieci e i quindici anni, alla radio di Berlino e di Francoforte: «lavoro che mi dà da vivere», «scarti delle mie ricerche», «lavoro per la sopravvivenza». In quelle pagine, che addirittura la Gestapo si preoccupò di sequestrare nell'appartamento berlinese, Benjamin mostra molto di quello che lo ha reso noto, a partire dalla riscoperta.
Si tratta di affascinanti escursioni fra i relitti di un mondo di sogno, raccolte di francobolli, burattini e vecchi giocattoli, abbecedari, le stesse «merci squalificate», oggetti kitsch e desueti[1] ,che in Une saison en enfer Rimbaud metteva in una lista, elementi del mondo infantile si sovrappongono a immagini in stile «Magasin Pittoresque». Come scrive Caillois, questi non appartengono al mondo umano e non hanno nulla a che fare con la legge e la consuetudine.
Come nelle scatole dei tesori dell’infanzia, «l’immaginazione anticipa la realtà, [...] quei pezzi di vetro, quelle gocce di mercurio, quei dadi da gioco, immagini elementari della fortuna, quelle piccole e risibili scoperte, quelle fiale senza valore, rifiuti e scarti della attività degli adulti, ma splendenti, rari e così difficili da conquistare, educano l’animo infantile e gli insegnano una prima forma di fedeltà a se stesso [...]: è se stesso che conserva così gelosamente»[2].
Frammenti di vita del passato e anacronistici che Benjamin riproponeva per sfidare l'inaridimento moderno, l' irreversibile impoverimento dell'esperienza quotidiana, riecheggiando lo stile di Rimbaud o Baudelaire, poeti e filosofi ‘maledeti’ che Benjamin amava e contrapponeva alla cultura 'ufficiale' e ‘per bene’ dell'epoca, soprattutto per la loro capacità di fotografare la realtà e la modernità, in tutti i suoi aspetti negativi e positivi.
Benjamin amava la modernità e ne era affascinato, ma allo stesso tempo odiava il fascismo e credeva nella rivoluzione proletaria con sincero trasporto. Dai campi di battaglia della Grande guerra «la gente tornava ammutolita […] più povera di esperienze partecipabili», a causa della guerra, inflazione, fame, dispotismo. Nel 1922 scrive:
«Una generazione, che era andata a scuola con il tram a cavalli, stava in piedi sotto il cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole e, al centro, in un campo di forza di correnti distruttive ed esplosioni, il fragile e minuscolo corpo umano».
Il primo conflitto mondiale e il fascismo europeo avevano portato a compimento «su scala planetaria quella forma moderna di connubio nichilistico e perverso con le potenze cosmiche, capace di trasformare “il letto nuziale” del creato “in un mare di sangue».
La distruzione della comunità intellettuale ebraico-tedesca segna l’inizio della sua fine. Dal 1933, l’anno in cui «la Primavera trafisse la Germania come una coltellata» è a Parigi, frequenta i profughi dell’emigrazione politica e intellettuale. Collabora con l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, ormai trasferito negli Stati Uniti dove c’è Adorno, e spera di ottenere un contratto che gli valga un visto di emigrazione. Ma non è facile, lui non è un uomo risoluto, non riesce a rendersi indispensabile e allo stesso modo non ha il coraggio di seguire l’amico Scholem in Palestina. Benjamin è figlio della dispora, è un uomo di altri tempi, precocemente invecchiato, riflessivo e impacciato oltremodo nella vita quotidiana. È divorato dalle sue passioni intellettuali, rimane nella sua amata Parigi, la «capitale del XIX secolo» frequenta la Biblioteca nazionale, dove ha il suo posto fisso, continua a lavorare a una monumentale opera sui passages parigini, le prime forme di galleria commerciale coperta, che si svilupparono enormemente nell'Ottocento in connessione con l’aumento della popolazione urbana e con lo sviluppo dei processi di industrializzazione. Li studiava per comprendere il mondo moderno, come oggi si studiano gli ipermercati.
Oggi I «passages» di Parigi, editi per la prima volta nel 1982 pur in versione frammentaria, sono considerati uno dei testi fondamentali sulla vita delle città per comprendere la tarda modernità. Nati per esporre le merci, i passages mostravano nel tessuto urbano le modificazioni della vita umana, e nel rapporto tra passato e futuro, nella commistione di stili e l’emergere di nuovi materiali e nuovi modi di vivere, Benjamin mette a fuoco quella che F. Jesi definisce una
«fenomenologia dell’essere nel mondo del dominio: la borghesia capitalistica ha abolito i residui di apparente autonomia del soggetto e ha trasformato gli uomini in merci la cui sopravvivenza è legata alla propria circolazione nel mercato».
Figlio di un antiquario, Benjamin era appassionato delle cose, piccole cose quotidiane di cui è intessuta la nostra esistenza, per la vita che si cela in esse. Benjamin elabora una filosofia dei “rifiuti della storia”, delle scorie, degli elementi del rimosso collettivo: gli oggetti quotidiani conservano la traccia di chi li ha usati e non c’è più: sono segni, scarti dell'esistere che mostrano la loro resistenza al culto del mercato e all’egemonia economico-produttiva, oggetto di tanta critica da parte della scuola di Francoforte. Al critico e allo storico, attraverso l'interpretazione, spetta la restituzione delle cose-rovina a una vita nuova e diversa, contro la macina del tempo che precipita nell'oblio le vite che dietro di esse si possono ancora intravvedere: l’interpretazione e l’immaginazione ridanno nuova vita a ciò che altrimenti andrebbe perso per sempre.
Del 1936 è un altro testo considerato fondamentale per la riflessione sulle nuovi arti, come la fotografia e il cinema, che Benjamin è stato uno dei primi a prendere sul serio come oggetto di analisi. Capiva che il cinema avrebbe cambiato per sempre il modo di vedere la realtà, è che ogni uomo moderno «sarebbe diventato una macchina da presa», ha detto di lui Sanguineti. L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica è un breve saggio di grande attualità incentrato sul cambiamento di percezione della realtà che avviene attraverso l’uso delle macchine. La macchina è al centro della riflessione di questo testo; cinematografia e fotografia sono modi diverso di esplorare la realtà che si spacciano per la realtà vera ma non ne sono che un parziale montaggio; l’adeguamento di questo nuovo modo di percepire la realtà rispetto ai linguaggi artistici porta Benjamin a occuparsi di arte d'avanguardia, con particolare riferimento al surrealismo e al dadaismo, non a caso le correnti più rivoluzionarie e militanti sorte dalla rivolta post-bellica. La consapevolezza della mutazione delle capacità nel mondo moderno di comunicare esperienza, dopo la Guerra, rispetto alle forme tradizionali si basa sulla consapevolezza del flusso incessante di informazioni che aggrediscono il soggetto attraverso i mezzi di comunicazione; così come l’opera d’arte trova la sua caratteristica nella sua infinita riproducibilità seriale, segno al tempo stesso del mondo fabbrica e della sua commercializzazione, come avrebbe realizzato la Pop art di Andy Warhol, molto dopo negli anni sessanta, ma portando a compimento intuizioni già dadaiste e surrealiste.
Questi sono sono alcuni dei motivi di interesse per cui Benjamin è al centro di una continua riscoperta, che hanno portato in Italia dagli anni sessanta oggi alla pubblicazione e ripubblicazione delle opere complete.
3. Veniamo all’argomento centrale di questa sera. Nella primavera del 1940 Benjamin scrive le Tesi sul concetto di storia, che sono considerate una sorta di testamento spirituale, pubblicato la priva volta a Los Angeles nel 1942. Il testo è folgorante, oscuro, oracolare, magnetico, abbacinante nella sua bellezza ed è un promemoria che condensa anni di riflessione; a queste Benjamin teneva moltissimo (benché non volesse ancora pubblicarle), considerava fondamentale non andassero perdute e raggiungessero gli amici all’estero.
In una delle sue ultime lettere, indirizzata a Gretel Adorno, Benjamin scrive: «La guerra, e la costellazione che l'ha portata con sé, mi ha condotto a mettere per iscritto alcuni pensieri che posso dire di avere tenuto per almeno vent'anni custoditi in me, anzi preservandoli pure da me stesso».
Scritte in uno dei momenti più cupi della seconda guerra mondiale – Benjamin aveva pure subito un periodo di detenzione in un campo di concentramento francese in quanto apolide con passaporto tedesco – le Tesi sono una drammatica riflessione sulla catastrofe nella storia, il momento in cui eventi epocali e sconvolgenti sembrano cancellare ogni significato al mondo precipitandolo nel caos e nell'orrore; ma al tempo stesso sono un manifesto del bisogno di giustizia sociale e una luminosa testimonianza del «lancinante desiderio di felicità» (Schiavoni) che anima tutti gli scritti dello studioso berlinese.
Si è già detto come Benjamin fosse marxista, e questo breve saggio acquista la sua urgenza proprio dalla dalla delusione e dall'indignazione nei confronti del comunismo sovietico, nel quale aveva sperato prima delle purghe staliniane e il patto russo-tedesco; ma allo stesso tempo attacca la «cieca fede nel progresso» con gli annessi miti della produzione, del lavoro, della fiducia ingenua nel futuro che avevavo caratterizzato la socialdemocrazia europea, il riformismo dei socialisti moderati, che si era accontentata di poche bricole di benessere rinunciando alla ricerca della giustiza e della felicità pubblica e comune.
Proverò a riprendere alcune delle tesi e a commentarle, che è un po’ l’unico modo per affrontare Benjamin.
tesi 1. teologia e materialismo storico
È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l'illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c'era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l'altro non deve lasciarsi vedere.
Qui vibra una critica all’ottimismo della Seconda e terza internazionale dei lavoratori ovvero, quei socialisti che assumono la stessa concezione del tempo della borghesia, che implica uno sviluppo garantito e inarrestabile.
Ma si tratta di un pessimismo che non ha niente a che vedere con la rassegnazione fatalistica e con il pensiero reazionario e antimoderno (Kulturpessimismus) tedesco, conservatore e prefascista di Stefan George, Carl Schmitt e Oswald Spengler: il pessimismo è qui al servizio dell'emancipazione delle classi oppresse, è un pessimismo attivo, «organizzato», pratico, teso interamente verso l'obiettivo di impedire, con tutti i mezzi possibili, l'avvento del peggio. Benjamin sta dicendo che il materialismo storico ha bisogno della teologia!
La collisione tra teologia e marxismo è proprio la caratteristica di Benjamin, che molti hanno ritenuto fallimentare: egli è stato definito un vero e proprio «teologo della rivoluzione» (Habermas) o «teologo trasferito in campo profano» (Scholem), e il suo pensiero appare come un «marxismo restituito al suo intrinseco significato religioso e profetico, capace di contrastare la religione cultuale del capitalismo» (p. 10). Tra marxismo e teologia ebraica, intesa come avvento di un regno di giustizia c’è un rapporto. La società senza classi è un’idea che nasce dalla secolarizzazione del tempo messianico.
Qui è enfatizzato l’aspetto utopico del marxismo, che delineava un’ideale a cui tendere, un obiettivo alto, anche nei termini come dirà Sorel di un mito, una mitologia rivoluzionaria che deve sorreggere l’azione e la speranza (Sorel).
Tesi 2. il rinvio alla redenzione.
Nell'idea di felicità risuona ineliminabile l'idea di redenzione. Ed è lo stesso per l'idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è cosi, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto.
Qui incomincia ad emergere un concetto di tempo differente da quello dello storicismo, della tradizione filosofica tedesca da Dilthey a Meinecke, che abbiamo ereditato anche noi tramite l’illuminismo e Hegel. Ovvero l’idea di un tempo sempre nuovo in cui il presente distrugge il passato, un tempo sempre ‘moderno’ che è collegato all’idea di progresso. In questa concezione errata di un continnum storico fatto di attimi sempre identici e lineari la storia è concepita come un tranquillo movimento incessante verso il trionfo e l’ottimismo. Si tratta di una storia come un ‘corteo trionfale’, ma anche storia come «bottino esibito dai vincitori», in cui «neanche i morti saranno in pace».
È una «denuncia» dell’ «ottimismo progressista dello storicismo relativistico e spesso positivistico del tardo Ottocento e del primo Novecento. La dichiarata razionalità della storia si rivela, ai suoi occhi, apologia del presente e di ogni presente contrassegnato dalla mitologia e dalla giurisprudenza di un «vincitore» (Jesi), in cui c’è in ballo la memoria, il ricordo del passato che verrà raccontato secondo la versione dei vincitori, i potenti di sempre.
Studiare il passato significa in altri termini riconoscere la «tradizione degli oppressi» – i vinti della storia, i milioni uomini e donne senza nome e volto macinati dalla storia fatta dagli 'eroi' – e venire a conoscenze delle 'profezie' di un possibile futuro diverso, materiali per l'utopia che si riaccende nel presente capaci di parlare alle comunità che verranno. Benjamin immagina l’incontro nella memoria, la nostra memoria di uomini di oggi, tra comunità dei trapassati e dei viventi. Noi dobbiamo redimere l’infelicità dei nostri nonni cha hanno patito la fame e la guerra. La storia come maestra del mai più, insomma.
Quello di Benjamin è un marxismo umanista, in cui non esiste felicità individuale senza felicità sociale, è un marxismo che aggiorna l’originario proramma illuminista, che sia la Rivoluzione americana (che proclamava la «ricerca della felicità») che quella giacobina (Saint Just: «la felicità è un’idea nuova in Europa») hanno tradito, la primo annegandola nell’individualismo, la seconda soffocandola nel Terrore e dell’imposizione della virtù.
Tesi 6. il tempo pieno e discontinuo
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del passato nel modo in cui s'impone imprevista nell'attimo del pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. […] Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
«Articolare storicamente il passato» non può risolversi nel conoscere il passato «come è stato davvero», secondo l'ottimistico programma storicista, ma comporta il bisogno di impossessarsi di un ricordo «come esso balena nell'attimo del pericolo». Come quando, si dice, prima nell’attimo prima di un incidente tutta la nostra vita importante ci passa davanti.
È la significatività – l’importanza, la rilevanza, che ha per una comunità, – il criterio del rapporto con la storia, il ricordo di ciò che è vitale, urgente e attuale. Studiare il passato serve per capire il presente e per evitare di esserne travolti: c’è continuità tra un momento storico, un testo, un evento, e la realtà sociale che lo riceve. Ogni storico è un’interprete che mosso da un inter-esse, ogni essere umano è suo modo uno storico.
Egli trasforma «la propria pagina» nello «spazio tristemente privilegiato entro il quale il passato diviene nella sua ‘cosità’, versione interlineare del presente»[3]. Quando noi fissiamo un’immagine del passato, in controluce possiamo vedere il profilo sfigurato del presente.
Bisogna dunque strappare la tradizione al conformismo, riattizzare nel passato la scintilla della speranza: passato come profezia di un futuro diverso, la stessa utopia che torna ad accendersi ogni volta, oggi come ieri. «Possiamo conoscere il passato come profezia di un futuro diverso, solo perché il futuro diverso è in noi: l’utopia è in noi, e il “balenare del ricordo” che determina la sua epifania è un fattore maieutico»[4].
Quando ci rivolgiamo al passato, è un passato che abbiamo già scelto perché parla del nostro presente.
Ogni interpretazione presuppone un fondo impenetrabile, opaco, non esauribile di interesse che pertiene alla dimensione personale, di cui lo stesso soggetto non è in grado di rendere pienamente ragione e che rinvia alla costellazione collettiva memoria-narratività-testimonianza-rappresentazione storica. La storia è il nostro inconscio, che come diceva Lacan è fuori.
Tesi 7. storia critica e materialista: spazzolare il pelo lucido della storia
«A proposito del chiedersi con chi si immedesimi lo storiografo dello storicismo: "La risposta non può non essere: con il vincitore. Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre. L'immedesimazione con i vincitori torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. […] Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come patrimonio culturale,[il quale] rivela una provenienza che non si può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. non è mai un documento della culturasenza essere insieme un documento della barbarie. […] Il materialista storico, quindi prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo».
Ancora sulla tradizione degli oppressi, sui milioni di senza nome che fanno la storia con la loro carne e il sangue e sono dimenticati, mentre nei libri rimangono solo gli eroi e i geni. Brecht della Domande di un lettore operaio (1935), che si chiedeva:
«il giovane Alessandro conquistò l'India. Lui solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco? Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta fu affondata. Nessun altro pianse? Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi vinse oltre a lui?»
Spazzolare la storia contropelo, «spazzolare contropelo il manto troppo lucido della storia» (nella versione francese delle tesi), significa rifiutare la storia degli avvenimenti e delle classi dominanti, la storia politica e militare come unica chiave di spiegazione della realtà, come nel pensiero hegeliano e la sua ricaduta sulla cultura tedesca.
Decostruire, comprendere perché ‘i documenti’ diventano ‘monumenti’: nella storia trovano cittadinanza solo quegli eventi che hanno un esercito e un passaporto, verrebbe da dire parafrasando Chomsky.
La storia che noi facciamo a scuola è spesso sintesi, narrazione di altre narrazioni più o meno vaste, che implicano come la pratica storica sia una «poetica», un «montaggio – non scientifico – del sapere», o «una retorica del tempo esplorato[5]; da un punto di vista di filosofia della cultura, la storiografia storicista è una mitologia della cultura borghese, la quale se ne serve (anche) per costruire la propria identità: nella narrazione storiografica il passato in una «decantazione paradossale che consiste nel sottrarre al tempo passato la sua purezza», per diventare ‘memoria culturale’, la memoria che ha voluto raccontare chi aveva il potere culturale di farlo. È la memoria che lo storico convoca e interroga, non propriamente il “passato”. La storia può solo essere rammemorativa o mnemotecnica [...] perché la memoria è psichica nel suo processo, anacronistica nei suoi effetti di montaggio, di ricostruzione o di “decantazione” del tempo[6].
Tesi 9. l’angelo della storia. La storia come cumulo di rovine
C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l'angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.
Il rapporto con la storia è inteso come «connettere al presente le possibilità interrotte nel passato e riammetterle come strumenti per un futuro possibile: conoscere la storia è “impossessarsi del passato”, ovvero saperlo tradurre in atto politico. In questo senso riscattarlo»[7]. Così Bidussa, lo sguardo dell’angelo della storia «dice che solo dal ricordo dell’oppressione e delle umiliazioni vissute e provate nel passato, si può produrre una forza capace di invertire o rovesciare la logica imperativa del presente. In altre parole, l’angelo della storia guarda indietro – e si rivolge al passato – perché il passato non è passato, perché tutti gli orrori del passato che possiamo anche ritenere lontani e superati, comunque collocati dietro di noi, hanno sempre la possibilità di ripresentarsi. […] La pratica di quello sguardo indietro […] andrà colta come capacità operativa e riflessiva della memoria, ovvero come la possibilità che si mediti sul passato per evitare una sua ripetizione»[8].
Per molti pensatori ebraici, tra tutti Buber, Scholem e Benjamin, il rivolgersi al passato e alla propria storia significa «cogliere il nesso tra catastrofe e redenzione e dunque permettere l’individuazione del principio di catastrofe come luogo generativo di una nuova identità»[9]. Katastrophè è «rovesciamento», «rivoluzione», «mutamento», «trasformazione». La catastrofe, come metamorfosi, racchiude virtualmente delle promessa di un cambiamento che non si può ancora vedere.
Tesi 14 -15. Il tempo dell’adesso.
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell'adesso. Così, per Robespierre, l'antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l'antica Roma esattamente come la moda cita un abito d'altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto di tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un'arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.
La consapevolezza di scardinare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. La rivoluzione francese del 1789 introdusse un nuovo calendario. Il giorno inaugurale di un calendario funge da compendio storico accelerato. E, in fondo, è sempre lo stesso giorno che ritorna in figura dei giorni di festa, che sono giorni della rammemorazione. Dunque i calendari non misurano il tempo come gli orologi: sono monumenti di coscienza storica di cui in Europa da cento anni sembra non si diano più le minime tracce. Nella rivoluzione di luglio è accaduto un episodio in cui questa coscienza si fece ancora valere. Giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili.
La filosofia del tempo e della memoria di Benjamin: non esiste il tempo assoluto, che è sempre la finzione delle classi dominanti; allora si tratta di far valere una diversa concezione della temporalità che il materialiasmo storico assume in senso critico per far valere il punto di vista degli oppressi e dei ribelli di tutti i tempi, i dimenticati, i ‘dannati della terra’: nell’adesso, il momento della conoscenza e della ricezione, passato e presente si uniscono e realizzano una temporalità disomogenea, priva della pacifica linearità processuale e continua, e piena, resa emotivamente carica dalle tensioni e dalle contraddizioni del presente.
Tesi 18 La rammemorazione: ogni attimo è porta entro la quale poteva entrare il messia
a.
Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell'adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico.
La storia come montaggio che deriva da un consapevolezza postuma, che va affrontata in modo critico, affrontando testi e fonti, stressandoli e interrogandoli: bisogna sempre interrogarsi su chi ricorda cosa, perchè e per chi, a quale scopo.
b.
E’ noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall'incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia.
La questione posta da Benjamin con la sintesi tra marxismo e messianismo, che avrà molto seguito negli anni settanta italiani è allora la considerazione, da parte di un ateo, di come con l’ateismo di massa, in nome di una demitizzazione grossolana, si fosse perso ogni contenuto utopico in modo tale da preparare il terreno a nuove rimitizzazioni ‘tecnicizzate’.
Per Benjamin la fine della «coscienza storica [...] in Europa» significava anche la perdita del legame sociale che la società illuministico-borghese ha introdotto nel mondo moderno. Un nuovo legame sociale poteva però nascere con la logica di classe: in Benjamin la «solidarietà è l’atto che trasforma la folla in classe», rompendo «i vincoli dell’antagonismo» che sono alla radice della frattura e dell’atomizzazione che caratterizzano la società borghese:
La coscienza di classe proletaria, che è la più studiata, modifica radicalmente la struttura della massa proletaria. Il proletariato dotato di coscienza di classe forma una massa compatta solo dal di fuori, nella rappresentazione dei suoi oppressori. Nell’istante in cui inizia la sua lotta di liberazione, la sua apparente massa compatta si è in verità già allentata. Essa smette di essere dominata dalla semplice reazione; passa all’azione. L’allentamento della massa proletaria è l’opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria viene soppressa la morta, adialettica contrapposizione tra individuo e massa; per il compagno essa non esiste».
W. Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in A.Cavalletti, Classe, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 38.
Tutto questo è un segnale di speranza per le rivoluzioni a venire, in cui nessuno crede più che si possa prendere il potere, ma che sia possibile modificare il modo di vivere e per usare termini ormai fuori moda “cambiare il mondo” o anche solo pensare altri mondi possibili”.
Se è vero che la storia è un cumulo di rovine, è altrettanto vero che è possibile superare il lutto e la melancolia che da questo deriva: la critica radicale dell'esistente è portatrice di una speranza verso una forma immanente e secolare di redenzione. Pensare la catastrofe, oltre il suo significato di distruzione, significa anche progettare il cambiamento, e il riscatto dalla solitudine, dall’anomia e dalla povertà di immaginazione.
Da un momento di crisi economica, morale e politica come quello di oggi, può sorgere inaspettato il cambiamento. È un dovere pensarlo, ho una figlia piccola, sarebbe criminale se non ci sperassi più.
Come? Furio Jesi, studioso di Benjamin: «La redenzione dell’uomo può giungere soltanto da una rottura radicale col passato improntato al dominio e da un recupero della tradizione sacra, messianica. Ma, in mancanza di elementi di fede, come i presupposti della liberazione-redenzione non sono dati, così anche la soggettività liberante attende di essere istituita».
Attesa. Non attendismo.
Benjamin ci invita a pensare ciò che non è ancora stato pensato, magari in tradizioni diverse dalla nostra. Messianismo in termini storico-politici, materialismo messianico.
[1] Alchimie du verbe recita: «J’aimais les peintures idiotes, dessus des portes, décors, toiles de saltimbanques, enseignes, enluminures populaires; la littérature démodée, latin d’èglise, livres erotiques sans ortographie, romans des nos aïeules, contes des fées, petits livres d’enfance, opéras vieux, refrains niais, rythmes naïfs».
[2] R. Caillois, La comunione dei forti (1943), ed. it., Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 80. Cfr. W. Benjamin, Strada a senso unico (1926), ed. it. Einaudi, Torino, 2006, pp. 11-12: i bambini «si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici o di giardinaggio, in quelli di sartoria o di falegnameria. Nei prodotti di scarto riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro, a loro soli. In quanto essi non riproducono tanto le opere degli adulti quanto piuttosto pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo. I bambini in tal modo si costruiscono il proprio mondo oggettuale, un piccolo mondo dentro il grande, da sé».
[3] F. Jesi, Il testo come versione interlineare del commento, in Caleidoscopio benjaminiano (a cura di E. Rutigliano e G. Schiavoni), Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 219.
[4] Lettera a Giulio Schiavoni del 16 marzo 1973, in Carteggio Jesi-Schiavoni, in «Immediati dintorni», cit., p. 332.
[5] G. Didi-Hubermann, op. cit., p. 37.
[6] ivi, pp. 37-38: Cfr. M. Bloch, Apologia della storia, o Mestiere di storico (1949), ed. it, Einaudi, Torino, 1998, p. 20.
[7] D. Bidussa, Uno sguardo senza nostalgia. Walter Benjamin e il suo angelo, in il «manifesto», 27 agosto 2003, p. 10; su Benjamin cfr. anche Id., Mito e storia in Furio Jesi, «Humanitas», n. 4, 1995, p. 589.
[8] Ibidem.
[9] D. Bidussa, Uno sguardo senza nostalgia. cit.