martedì 22 febbraio 2011

Contro la cultura di destra. La primavera è in arrivo?








Scrivo poco sul blog perché sto scrivendo molto altrove e sono stato molto felice di presentare il lavoro su Jesi in contesti differenti. Circolo dei lettori a Torino, Bartleby a Bologna sono le due anime di una cultura che Jesi ha attraversato e che nella sua mente, nella mia mente, nella nostra mente non sono affatto distanti ma comunicano e dicono la stessa urgenza di stare nelle cose in modo diverso.
Revolution starts at home preferably in the bathroom mirror, scrivevano gli Hüsker Dü nel 1987.



http://bartleby.info/content/bologna-è-antifascista-verso-il-18-febbraio


e intanto Jesi è viralizzato su youtube.

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3209

Poi altri segnali di nuova stagione si apre per la cultura In Italia e il modo di diffonderla,




Di seguito invece il testo di un intervento tenuto durante il convegno dedicato a Giordano Bruno e al Pensiero nomade che si è tenuto nella mia scuola. Storia, memoria ed eredità culturale del Nolano nelle periferie ferite della città, dove tutto è più difficile.


Una attualizzazione di Bruno. La critica dei miti dell'antisemitismo e dell'antiziganismo

Enrico Manera

Antisemitismo e antiziganismo, l’odio per ebrei e zingari, sono fondati e alimentati da veri e propri miti. L’accusa di omicidio rituale praticato dagli ebrei o del rapimento di bambini da parte dei rom sono invenzioni che servono a indirizzare l’odio verso gruppi percepiti come diversi: rientrano nella logica di disumanizzazione che rende legittima la violenza del gruppo culturalmente dominante sulle minoranze e che contribuisce a istituire, alimentare, rafforzare l’ideologia della differenza assoluta tra il Sé (posto come bene) e l’Altro (posto come male). Come lo studio comparativo dei genocidi ha messo in luce, quando la forma mentis che produce e stabilizza le identità procedendo per differenziazione e separazione diventa ossessione della purezza e timore del contagio, la sistematica demonizzazione del diverso può legittimarne l’esclusione, che è il primo livello di una escalation dell’odio le cui tappe progressive (marginalità, segregazione, deportazione, sterminio) sono storicamente interconnesse.
1. Nel mio intervento di oggi intendo partire da alcuni aspetto dell'eredità culturale lasciata da Bruno per poterla attualizzare e trasformare in prassi, per restare anche fedele al tema del pensiero nomade, che seminato da qualche parte mette radici anche a distanza e in altri contesti.
Innanziutto l’eredità di Bruno, che sintetizzerei con il concetto di autoaffermazione.
Autenticità, coerenza. Non nascondere la verità di fronte al rischio della morte e come Socrate rendere significativo il proprio gesto, per questione di integrità.
Anticonformismo Solitudine come destino di chi è scomodo per il suo tempo. Saper imprimere la propria energia per portare la realtà dalla nostra.
Trovare il proprio significato senza approvazione e consenso altrui. Credere nella propria ragione e azione.
Disincanto, vedere oltre le convinzioni condivise. Ironia sferzante, nei confronti delle false rassicurazioni. Morte di ogni illusione, smascheramento dell’inganno. Critica della credulità e della semplificazione, mai disperata mai nichilista.
Irregolarità, non appartiene a niente di definito. Saper scegliere le situazioni senza consegnarsi totalmente a qualcosa e a qualcuno (chiese, partiti, gruppi). Attraversare i luoghi del proprio tempo riuscendo a esserne parte, senza ridursi a un ruolo o un’appartenenza specifica.
Mutazione Tutto cambia e si trasforma in continuazione. Quella umana non è l’unica forma di vita, animale e terra. Il futuro è aperto, non avere paura di ciò che non si conosce ancora. Pensare che tutto non è per sempre: non disperarsi per ciò che si è perduto, ma serbare la speranza per ciò che deve ancora venire.
Pensare criticamente e assumere posizioni contro il senso comune, contro le opinioni condivise e i ‘miti’ diffusi è oggi, come ieri, difficile. Oggi sorridiamo di fronte alle superstizioni dei nostri antenati, li crediamo ingenui e sciocchi, senza renderci conto che semplicemente abbiamo altri pregiudizi che oggi non vediamo, ma che domani faranno sorridere i nostri pronipoti. Per questo ho intenzione di parlare di due fenomeni di razzismo, collegati a una stessa struttura ideologica della storia europea, che però ha avuto esiti diversi: l'antisemitismo e l'antiziganismo. L'odio nei confronti degli ebrei è oggi antistorico e appannaggio di minoranze fanatiche e ignoranti, un sentimento percepito dalll'opinione pubblica come ingiusto e assurdo; l'odio nei confronti degli zingari pur essendo altrettanto irrazionale è vivo e vegeto e le storie anche più strampalate che girano su rom, sinti e altri 'camminanti' sono credute da molti come vere. Non più di due giorni fa ho assistito incredulo alla seguente discussione: due madame in piemontese all'ufficio postale tra di loro commentavano il recente rogo in cui hanno perso la vita 4 bambini rom e si auguravano che capitasse agli adulti, per poi snocciolare tutta una serie di luoghi comuni falsi quanto odiosi secondo i quali rom, sinti e altri soggetti sarebbero oggetto di privilegio, li manteniamo tutti noi, non lavorano, rubano tutti, e i nostri vecchi chi li aiuta etc etc.
Per la cronaca di sicuro le signore erano pie e devote: personalmente le ritengo moralmente ripugnanti e simili a Göbbels, per la mancanza di pietà che mostrano. Probabilmente si commuovo vedendo La vita è bella, ma in Germania dopo il 1935 non avrebbero mosso un dito.

2. L’accusa del sangue

Andiamo ai fatti storici, avvicinandoci alla recente riflessione sulla Shoah, che è l’ultima estrema conseguenza di una catena logica che, prima pensata, viene poi attuata in modo stringente. Parlare di ‘accusa del sangue’ signfica parlare del mito antisemita dell’ebreo sacrificatore di vite cristiane[1]. ‘Accusa del sangue’ è l’espressione ebraica che designa ellitticamente l’accusa rivolta agli ebrei di usare il sangue dei cristiani come ingrediente di cibi e delle bevande prescritti per le feste pasquali.
Si tratta di un cavallo di battaglia del repertorio antisemita, il ‘tratto invariante’ di un’associazione tra ebrei e la categoria simbolica ebrei/vampiri/streghe, destinato a ricomparire sulla base di un medesimo prototipo in diversi momenti storici.
Il primo caso di accuse rivolte ad ebrei di aver ucciso bambini cristiani si ha in Inghilterra nel XII secolo, ma è notissima la vicenda leggendaria del piccolo Simonino da Trento, poi beatificato dopo la sua uccisione in circostanze misteriose nel 1475: ciò che è più sorprendente è che non mancano i casi moderni come a Damasco nel 1840, Kiev nel 1913, Kielce in Polonia nel 1946! In tutti i casi legati a presunti rapimenti di bambini ci furono persecuzioni e violenze collettive sugli ebrei, vero e proprio capro espiatorio, prototipo del ‘diverso che vive fra noi’ a cui si imputano i crimini peggiori. A tali accuse, che seguono da vicino quelle che accusavano gli ebrei francesi di diffondere la peste già nel 1348, seguivano puntualmente pogrom. Inutile dire che tutti i processi erano basati su accuse false: la stessa idea è frutto di un’immagine negativa di un popolo diverso, considerato malvagio per natura.
Pensare che gli ebrei impastassero il sangue dei bimbi con la farina delle azzime di Pesah è una fantasia che presenta i tratti dell’elaborazione in ambito cristiano. Attraverso rovesciamenti, riletture e fraintendimenti avvenuti sulla base di una mentalità pregiudizialmente informata dalla nozione dell’ebreo ‘infido’ e ‘perfido’, il sangue di Cristo diventa nell’immaginario antisemita il sangue di un cristiano di cui gli ebrei si nutrirebbero in modo cannibalistico per volgere a proprio vantaggio il potenziale salvifico (si mangia il nemico per inocularne la forza). Il «ribaltamento in negativo dell’eucarestia» si vedrebbe nell’immagine secondo cui gli ebrei, contrapponendo Pesah alla Pasqua, celebrerebbero riti in cui pane azzimo e vino sono mescolati con «sangue cristiano», pervertendo ulteriormente il senso del rito cristiano, rendendo delittuoso e magico ciò che è mistico e santo; allo stesso modo la tipica accusa dell’infanticidio celerebbe la reversione dell’immagine dell’agnello di Dio e del bambino Gesù.
Scrive Levi della Torre: «c’è una mentalità cristiana, che assimila a sé l’ebraismo per poi respingerlo come imitazione degenerata»[2]. «“Diverso” per eccellenza, l’ebreo acquistava così la fisionomia precisa dell’essere umano simmetricamente opposto al cristiano: non solo [...] l’ebreo praticava culti bizzarri, risibili, turpi, bensì esso faceva esattamente il contrario di ciò che facevano i cristiani. Ed è noto che queste precise simmetrie, queste coppie di opposti, sono peculiari del funzionamento della “macchina mitologica”»[3].
All’antigiudaismo ‘classico’ derivato dal pensiero cristiano si associa l’immagine moderna del vampiro prodotta dalle società tradizionali: qui il vampiro è interpretabile come fantasma della modernità da parte dei soggetti che subiscono il trauma sociale seguito alla rivoluzione industriale[4]. Studiare l’immaginario antisemita significa affrontare la performatività del «fatto mitologico»: «un prodotto della macchina mitologica il quale concentra in un sol punto, extratemporale, extraspaziale, le luci che vengono dal passato e dal futuro»[5].
La macchina mitologica antisemita nel dodicennio nero della storia tedesca è la macchina della propaganda congeniata da Göbbels, a partire dalla quale un nuovo incantamento, creazione di realtà a partire da una mitologia, è diventata possibile: Himmler si interessò moltissimo del Jüdische Ritualmorde, preoccupandosi di fornire materiale, con la più ampia diffusione possibile, a quanti fossero implicati direttamente nella “questione ebraica”.
La mitologia antisemita del nazismo era una rigorosa manifestazione della retorica del nemico interno. Ma perché? L’antisemitismo è una cartina di tornasole del rifiuto della modernità che si manifesta nell’emancipazione degli ebrei[6] e avviene sulla base della stessa mentalità che accompagna l’ideologia della violenza e giustifica il colonialismo nazionalista. La storia degli ebrei nell’Europa moderna, prima oggetto di una politica di sottomissione e poi protagonisti di un disegno di cambiamento in senso progressista, in un contesto di stabilizzazione delle identità etniche, culturali, nazionali e ‘razziali’ determina l’ossessiva insistenza dell’antisemitismo nel mettere la raffigurazione dell’ebreo al centro di ogni discorso[7].

3. Il Rapimento dei bambini

Sui Rom e sulle loro caratteristiche negative esiste una simile mitologia: si tratta di un gruppo etnico di origine indiana, fatta oggetto di schiavizzazione e relegata ai margini della scala sociale nel lavoro umile, e fin dall’inizio una minoranza guardata con sospetto: nomadi, artisti e acrobati a Bisanzio e in Euopa Centrale.
Dall’enciclopedia Treccani nel 1937: “Erano indovini e chiromanti, specialmente le donne; manipolavano polveri e decotti per ogni sorta di male, spacciavano filtri d’amore e ricette e amuleti contro il malocchio… Tutte queste pratiche, che in generale, perché riuscissero ad abbindolare meglio gl’ingenui, gli Zingari circondavano di mistero…misero in circolazione la voci che essi fossero in comunicazione col demonio e in segreto consumassero riti tremendi. Si accusarono di rapire i bimbi per sacrificarli in certe loro circostanze, di cibarsi di carne umana. E allora si cominciò a dare loro la caccia come a ‘razza maledetta’”.
Una minoranza etnica e religiosa, senza terra e legata al nomadismo, si ritrova nell’Europa sedentaria che dal XV secolo ha orrore dei mendicanti al centro di racconti che li condannano di: non aver soccorso Giuseppe e Maria in viaggio verso l’Egitto, aver detto a Giuda di tradire il Cristo, essere discendenti dei responsabili della strage degli innocenti voluta da Erode. Esiste anche un racconto, sul fabbro zingaro che forgiò i chiodi della croce… Esaminiamo i pregiudizi. I nomadi si presentavano come pellegrini per reclamare ospitalità alle genti dei territori su cui transitavano, erano diversi, nei costumi, nella lingua, nei lavori, attirarono l’astio delle popolazioni residenti: se si eccettua la curiosità e la simpatia per le attività circensi subentra una diffidenza verso usanze e mentalità mal conciliabili con le società disciplinari che gli Stati moderni iniziano a organizzare.
“Turbatores socialitatis” (nemici del genere umano) vennero immaginati sempre coinvolti in oscure trame: ben più gravi dei furti di bestiame o delle frodi, che erano un genere comunque ampiamente praticato da molti europei.
II colorito scuro, i vestiti bizzarri e sgargianti, probabile reminiscenza delle origini indiane, il modo di vita e il linguaggio incomprensibile, li collocava tra gli stranieri di cui diffidare. La mendicità praticata da donne e bambini, costituiva nelle persone superstiziose repulsione e ostilità.
Ma l’accusa principale mossa dei gagè (i non rom) è, accanto alla mendicità, il furto. D’altronde il pregiudizio e lo stereotipo si diffondono non solo attraverso la proiezione popolare delle proprie paure e dei propri timori irrazionali, ma anche attraverso canali letterari assai sofisticati che nel tempo costituiscono solidi modelli culturali di riferimento per cogliere i tratti ritenuti essenziali di una popolazione misteriosa.
Nella “Gitanilla” di Cervantes la trama si fonda sul rapimento di una bimba da parte di una vecchia gitana. La bimba rapita verrà educata alla danza e ai mille trucchi per ciurmare le genti, ma il colpo di scena finale sarà quello di scoprire che la giovane gitana è in realtà una nobile fanciulla che potrà così sposare un nobiluomo di cui era perdutamente innamorata. Questo tema sarà utilizzato in seguito anche in altri paesi europei: in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Italia. Sempre il medesimo tema viene ripreso alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX sia in opere letterarie che nel melodramma. Anche in Victor Hugo in “Notre Dame de Paris”, Esmeralda è la figlia di una povera donna rapita dagli zingari che avevano lasciato al suo posto una bimba mostruosa, figlia di qualche “egiziana datasi al diavolo”.
Il rapimento dei bambini non è stato solo un tema letterario, ma era ed è ancora una leggenda profondamente radicata nelle popolazioni sedentarie. In realtà storicamente esistono pochissimi casi di rapimento e nessuno pare autentico, sia nel passato che nel presente. Una fonte tedesca del 1500 è straordinaria: una donna zingara per vendicarsi di altri zingari, li accusa di aver rapito un bambino per venderlo agli ebrei che l’avrebbero sacrificato al loro dio. Per uno storico delle mentalità sembra una barzelletta: l’associare Zingari ed Ebrei la dice lunga sulle menzogne, pregiudizi e stereotipi che nel tempo i due popoli dovettero subire.
Ora, l’assassinio di bambini è un’accusa ricorrente contro ogni gruppo odiato fin dal mondo antico, dagli ebrei fino ai comunisti che essendo atei mangiano bambini.
Guardiamo i dati reali dei minori scomparsi in Italia nel periodo 1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni): ci sono bambini “portati via” da uno dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di bambini stranieri, casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a istituti, bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi irreperibile assieme al figlio. Per quanto riguarda i minori di età tra i 10-14 anni e tra i 15-17 anni, si tratta di ragazzi allontanatisi volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono presenti tra gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in cui i minori sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori. I media, però, negli ultimi anni hanno trasformato in senso comune quello che prima era solo una becera leggenda urbana montando veri e propri “casi” intorno a presunte vicende di rapimenti – mai avvenuti – di bambini da parte di “zingari”: recentemente a Lecco dove un giudice ha aperto un fascicolo per tentato rapimento d’infante avvenuto in condizione a dir poco ridicole, come rivelerà l’inchiesta. Due donne rom fanno l’elemosina e si avvicinano a una signora con passeggino, la donne le vede e dà in escandescenze insultandole, senza che neanche si siano avvicinate al bambino. La donna attira l’attenzione delle forze dell’ordine che procedono automaticamente all’arresto, un avvocato d’ufficio fa patteggiare alle donne un’ammenda per un reato che non esiste e che le due donne rom firmano senza aver capito di cosa sono accusate. Il mito diventa realtà per chi ci crede: la suggestione di una neomadre, il pregiudizio delle forze dell’ordine e il cinismo di un’avvocato che sa che la parola di una rom contro quella di una cittadina italiana non vale niente.
Cito un articolo di F. Merlo che commenta il presunto tentativo di rapimento: «gli zingari sono dei profughi apolidi, gente che non sta da nessuna parte. Non ci piace la retorica che li beatifica, ma non sono ladri di bambini. Nelle statistiche del ministero degli Interni non c´è un solo precedente. È vero che non esistono statistiche serie sui furti di bambini, che rimangono una specialità della malavita organizzata: per il commercio sessuale, per la prostituzione, per il traffico delle adozioni. In Italia c´è un´antica tradizione orale che attribuisce agli zingari tentativi di sequestri nei mercati, per la strada, dalle macchine. E c´è anche la leggenda che i rapimenti stiano alla base dell´industria di espianti e impianti di organi, con elicotteri a motore acceso e svelti camioncini adibiti a sala chirurgica volante per rapire e subito consumare. La verità è che non ci sono dati reali e non ci sono neppure sospetti sui nomadi nelle sparizioni che tutti conosciamo»[8].
4.
E allora da cosa nasce questo mito tenace? Già a partire dal XVII secolo, “secolo dei lumi”, in Europa furono attuate politiche di integrazione nei confronti di rom e sinti che prevedevano l’assimilazione forzata e che fallirono miseramente. 1768, Maria Teresa d’Austria con ottantamila zingani. Carlo III di Spagna negli stessi anni crea nelle città, su modello del ghetto ebraico, le “gitanerie”. I metodi furono violenti e coercitivi senza alcun rispetto per la cultura romanès. Il rifiuto di questa assimilazione aumenta le condizioni di persecuzione ed oppressione, molti bambini furono sottratti ai loro genitori e riassegnati in campi di lavoro e rieducazione: in tutta l´Europa centrale, per tre secoli decreti e leggi pretendono di "liberare" i bambini dai loro genitori naturali, in una escalation che culmina nella soluzione finale nazista, internamento di adulti e bambini “irrecuperabili” come gli ebrei. Oltre cinquecentomila le vittime del Samudaripen, chiamato spesso erroneamente Porajmos.
Fino al 1973 In Svizzera i bambini vengono affidati forzatamente a istituzioni cattoliche; nel mondo ex-sovietico si ricorre all’assimilazione forzata degli zingari e si continua a praticare la sterilizzazione delle donne dopo il parto in ospedale, senza nessun consenso.
Nel pregiudizio così antico e radicato c’è forse una rimozione storica per mettersi in pace con la propria coscienza di gente che ama i bambini e la famiglia: Merlo scrive «eravamo noi a rubare i loro bambini e invece nel fondo oscuro dell´immaginario collettivo da più di tre secoli sono loro a rubare i nostri». Un ennesimo ribaltamento e gioco di proiezioni per semplificare questioni difficili.
E’ vero che molti campi rom sono luoghi di degrado e povertà, in cui si perpetuano crimini, violenze e cose innaccettabili per una cultura dei diritti; sono luoghi di emerginazione programmata in cui ogni emancipazione è fortemente ostacolata; ma non è questo che all’opinione pubblica da fastidio. Allo stesso modo per cui sono completamente ignorati gli aspetti positivi di un’umanità che non vogliamo vedere, se non da pochi che alimentano un mito dello zingaro libero e felice, altrettanto falso e mitologico ma di segno inverso. La cultura rom è una scheggia di contraddizioni nel cuore della post-modernità, non esiste più il mondo in cui si è formata ed appare irriducibile alla vita delle nostre città, a cui si avvita nella crisi culturale, morale, economica. La distanza è sempre più grave e aggravata dal pregiudizio. Questi sono i problemi da risolvere. Fuori dalle confuse elaborazione mitologiche e dalle semplificazioni da sagoma cartonata.
5. Arriviamo alle conclusioni dei due casi che seguono uno stesso schema logico, c’è una infanzia ‘nostra’ colpita dagli altri, i diversi.
Si tratta di miti moderni, il codice retorico dell’accusa di omicidio rituale così come quello del rapimento dei bimbi, che rientra nella logica di demonizzazione del diverso e di «disumanizzazione che rende legittima la pratica di sterminio»[9] poiché contribuisce a istituire, alimentare, rafforzare l’«ideologia della differenza assoluta tra il Sé (posto come bene) e l’Altro (posto come male)»[10]: come lo studio comparativo dei genocidi ha messo in luce, quando la forma mentis che produce/stabilizza le identità procedendo per differenziazione e separazione diventa ossessione della purezza e timore del contagio, la sistematica demonizzazione del diverso può legittimarne l’esclusione, che è il primo livello di una escalation dell’odio le cui tappe progressive (marginalità, segregazione, deportazione, sterminio) sono interconnesse[11].
Il pregiudizio lavora sulla credulità, il sentito-dire e l’insinuazione, modalità che sono tipiche della diffusione di voci e delle cosiddette leggende metropolitane. La violenza è prima di tutto dentro un linguaggio che evoca anche l’immaginario del complotto[12]. Lo stile paranoico che si manifesta in età moderna con la fobia del complotto (società segrete, tentativi di colpi di stato, delazione, cospirazioni) è mito politico: gli uomini per bene devono difendersi da invisibili cospiratori, iniziati al segreto, dediti a vizi oscuri e abitatori di mondi paralleli. Uscendo dalla fantasmagoria il complotto assume una straordinaria forza d’impatto sulla società e sulle azioni politiche dei suoi attori sociali: a partire dalla fine dell’Ottocento in Europa giudei, frammassoni, stranieri, anarchici e comunisti sono gli elementi di una nebulosa cospirativa tale da costituire il nemico interno rispetto al quale la destra reazionaria prima e quella fascista poi vorranno porre una contrapposizione frontale.
Negli immaginari collettivi contemporanei operano stereotipi che trovano in materiali simbolici e mitici lo spunto per una rivendicazione dell’identità che si impernia sul tema del segreto di cui le «ossessioni della controstoria» care alle culture di destra sono una modalità di espressione[13]: sullo scenario di una mondializzazione sempre più complessa diversi temi intrecciati, che hanno il loro centro nella paura dell’altro, sono miti operativi capace di servire da combustibile per alimentare tensioni e rancori di natura sociale ed economica. Immaginare l’altro nel suo circolo chiuso è funzionale alla determinazione del proprio circolo chiuso, e può mettere in moto fenomeni reattivi e escalation di violenze simmetriche che determinano l’insolubilità di ogni guerra civile.
Quei bambini rapiti, che tanto ci fanno orrore, siamo noi, impauriti e bisognosi di protezione dai ‘cattivi’, chiediamo ordine e regolarità. La realtà è che diminuiscono i crimini, ma la sua rappresentazione mediatica è aumentata e la gente ha paura. Paura di avere paura. Seminare la paura è il miglior modo di governare, la paura genera paura, e chi ha paura non ragiona più. I pregiudizi sono proiezioni di timori irrazionali, personali e collettivi alimentati e oggetto di speculazione: come diceva Einstein, «è più facile disintegrare un atomo che un luogo comune».



[1] Recente la pubblicazione del libro di A. Toaff, Pasque di sangue. Ebrei dEuropa e omicidi rituali, il Mulino, Bologna, 2007, a cui è seguito un vastissimo dibattito (tra gli altri, Luzzatto, Ginzburg, Prosperi, Cardini) sull’antisemitismo, sul rapporto mito/storia e mito/rito, sulla libertà di stampa, sulla metodologia storica, sulla responsabilità degli uomini di cultura e dei mezzi di informazione di massa. Cfr. D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica. A proposito di Pasque di sangue e del «mestiere di storico», in Vero e falso. Luso politico della storia, (a cura di M. Cafiero e M. Procaccia), Donzelli, Roma, 2008, pp. 139-172.
[2] S. Levi della Torre, Il delitto eucaristico in «Immediati dintorni», 1, 1989, p. 316.
[3] F. Jesi, L’accusa del sangue, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, pp. 39-41.
[4] D. Bidussa, Retorica e grammatica dellatisemitismo, In F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., p. XVI.
[5] F. Jesi, L’accusa del sangue, cit. p. 17.
[6] «L’antisemitismo moderno è per molti aspetti una risposta all’emancipazione degli ebrei (una non-nazione transnazionale che si libera in mezzo al levitare nazionalistico) prototipo a suo modo di altre emancipazioni civili, sociali e culturali». S. Levi della Torre, op. cit., p. 318.
[7] La storia dei Protocolli dei Savi di Sion è paradigmatica: cfr. D. Bidussa, Retorica e grammatica dellantisemitismo, p. XXXIII ss.
[8] F. Merlo, La leggenda degli zingari, «La Repubblica», 11 febbraio 2005.
[9] Ivi, p. XXXII; cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino, 2007, pp. 97 ss.
[10] P. Portinaro, Genocidio, in Id., I concetti del male, Torino, Einaudi, 2002, pp. 109 ss.
[11] Cfr. F. Remotti, Contro lidentità, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 28-29; M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 27-29, p. 35, p. 39-40, p. 74-75; E. Donaggio e D. Guzzi, A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2010, pp. 13 ss.
[12] Cfr. D. Bidussa, Retorica e grammatica dellantisemitismo, p. XXXIII ss. per il rapporto tra mito moderno e leggende urbane: il «rumore» nel senso di accavallarsi di voci incontrollate riprende il concetto di «brusio dell’Opinione» in Kraus e Canetti; cfr. Id. Macchina mitologica e indagine storica, cit., p. 141-2: «macchina mitologica» è sinonimo di «storia sociale di una credenza», ambito in cui si «incrociano e si sovrappongono immaginario sociale, uso politico dei miti e dei riti, credenze e loro diffusione»; cfr. Id., La ricerca storica e la questione del mito, in «Nuova corrente», n. 143, 2009, p. 151: Jesi è indicato come punto di riferimento per una «storia sociale delle idee».
[13] Cfr. D. Bidussa, La ricerca storica e la questione del mito, cit. p. 153.




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