giovedì 30 agosto 2012

eventi biochimici che avvengono nel cervello e significano qualcosa









Un posto senza stagioni. Sulla storia della malattia di Alzheimer



Enrico Manera


«Molto presto mostrò perdite di memoria in rapido aumento; non si orientava in casa sua; spostava oggetti da una parte all’altra, si nascondeva, a volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare. Durante il ricovero i suoi gesti mostravano una completa incapacità. Era disorientata nel tempo e nello spazio. Ogni tanto diceva che non capiva niente, che si sentiva confusa e totalmente persa. A volte considerava l’arrivo del dottore come una visita ufficiale e si scusava per non aver finito il suo lavoro, ma altre volte urlava, avendo paura che il dottore la volesse operare; oppure capitava che lo mandasse via indignata pronunciando frasi che indicavano la sua paura che il dottore volesse approfittare di lei. A volte completamente delirante; spostava le lenzuola da una parte all’altra chiamando suo marito e sua figlia e mostrando allucinazioni uditive. Spesso urlava per ore e ore con una voce orribile. Dato che era incapace di comprendere ogni particolare situazione, si innervosiva ogni volta che un dottore la voleva esaminare. [...] Soffriva di seri disordini percettivi. Quando il dottore le mostrava alcuni oggetti per prima cosa lei dava loro il giusto nome, ma immediatamente dopo si era scordata tutto. Quando leggeva ometteva frasi, pronunciava le lettere di ogni parola oppure leggeva senza intonazione. In un testo scritto ripeté spesso le stesse sillabe, omettendo le altre, e divenne confusa e assente. Nelle sue conversazioni usava spesso frasi confuse, singole espressioni parafrastiche (come «lattiera» invece che «tazza»), a volte smetteva del tutto di parlare. Evidentemente non capiva molte domande. Non si ricordava l’utilizzo di oggetti particolari».

Così Aloysius Alzheimer nel 1906 descrive lo strano caso di demenza di una paziente di 51 anni, con una precisione che chiunque abbia incrociato la malattia riconoscerà facilmente. L’incontro fra il dottor Alzheimer e la signora Auguste D. avviene in un momento storico di sviluppo delle scienze biologiche, psichiatriche e mediche: in lei il medico tedesco riscontrava una forma di decadimento mentale talmente anomalo da dedicarle uno studio approfondito, il primo caso di quella che nel 1910 nell'VIII edizione del manuale di psichiatria di Emil Kraepelin sarebbe diventata Alzheimerische Krankheit.
Storia della malattia di Alzheimer (Bologna, 2012) di Matteo Borri, ricercatore di storia della scienza, ricostruisce con perizia una vicenda di storia della scienza e chiarisce attraverso i dibattiti e la comunicazione intrascientifica i processi di definizione di una malattia di pressante attualità, sesta causa di morte nel mondo, con costi sociali ed estremo disagio psicologico ed economico per familiari e care givers.
Una dovuta premessa: da qualche anno mi confronto con difficoltà con la malattia di mio padre Pietro. Questa storia mi sollecita, affrontarla nella sua attualità mi sembra una strategia di difesa coerente con la mia storia.

Se ogni epoca ha una 'propria' malattia che assume particolare significato in relazione alla storia di un periodo per una determinata società (come è stato nel tempo ad esempio per la peste, la tisi, il cancro), la sindrome di Alzheimer è la malattia dell'estrema contemporaneità. Un morbo non è solo una etiologia o una serie di sintomi collegati ma diventa nella rappresentazione sociale una misteriosa entità intorno alla quale si coagulano storie individuali, immaginario, sentimenti, angosce; la medicina contribuisce a questa costruzione nel definire la nosografia, delineare le procedure di cura e intervento, comunicare a specialisti e non le scoperte.
“L'Alzheimer” è una malattia della memoria, del linguaggio, del comportamento, in altri termini una malattia dell'identità, in cui la coscienza si fa intermittente e la complessità dell'agire umano implode su sé stessa inesorabilmente, trasformando gli individui in fantasmi del sé precedente e dando vita a nuove identità che mostrano automatismi inceppati, ripetizioni aberranti e mancanze continue, fatte di frammenti, lampeggiamenti e involuzioni su un piano sostanzialmente inclinato. È una malattia che si caratterizza per un danno cerebrale a cui corrisponde una alterazione della personalità; in essa si rispecchia la contemporanea sensibilità di tipo materialista che interpreta sempre più i fenomeni alla luce degli aspetti biochimici, dei tratti genetici, delle vicende adattative dell'evoluzione dell'umano.

Se la tubercolosi era nella Montagna incantata di Mann un'allegoria del trapasso della vecchia Europa al Novecento, la malattia di Alzheimer – non se ne abbia chi come me ha a che fare con la malattia vera – sembra anche rappresentare a livello metaforico la crisi dei paradigmi orientativi, la crisi della memoria collettiva e del linguaggio comune che impedisce di distinguere con chiarezza realtà e finzione. C'è qualcosa di molto contemporaneo nell'egotismo, nell'idiotismo, nel narcisismo, nella paranoia, nell'afasia e nell'irascibilità alternate, nell'incapacità di reggere le frustrazione e di attendere, nella difficoltà di comprendere, comunicare ed empatizzare, nella variabilità degli umori e nell'incostanza che affligge i malati in termini patologici.
Non a caso ne Le correzioni, uno dei più importanti romanzi contemporanei, la malattia è il filo che lega insieme le vicende di una famiglia: Jonathan Franzen, dopo aver creato una straordinaria figura paterna, ha poi raccontato la sua vicenda autobiografica di figlio nel primo saggio di Come stare soli (2003).
In tutto questo la senilità centra fino a un certo punto, non in quanto tale ma per lo specifico significato storico che essa ha assunto: negli ultimi anni nell'osservare pensionati che in un quartiere periferico di una grande città post-industriale ogni giorno sciamano tra le panchine di un giardinetto, le offerte degli ipermercati e le visite ai cantieri, moltiplicando al cubo ogni luogo comune della nostra società, ho avuto l'impressione che tutti avessero una qualche forma di demenza; sarà la lente deformante negli occhi di chi guarda, ma da quando ho imparato a riconoscere le tracce della malattia mi sembra di vederla in sempre più luoghi di questo paese. Mi si sono chiarite molte cose quando un giorno il mio ottuagenario genitore, contraddicendo a sorpresa oltre sessanta anni di convinzioni politiche, ha avuto parole di simpatia per l'uomo sorridente e affettato che ci fissava dai cartelloni pubblicitari. La diagnosi della sua malattia era stata fatta da poco e in famiglia nessuno ha avuto più dubbi. Nota a margine per i politologi: dove significati, amici e parenti sono stati cancellati è riuscita ad arrivare la strategia comunicativa del marketing politico.

La malattia di Alzheimer è di particolare interesse dal punto di vista epistemologico fin dall'inizio per i dubbi e i dibattiti che solleva. Già nel 1907 Giuseppe Muggia (Sulla nosografia delle demenze) metteva in luce la criticità del termine «demenza» e la sanzione di irrevocabilità dell'indebolimento psichico:

«Demenza è una diagnosi di stato: è la cachessia della mente. […] Dove comincia la demenza? Quale è il punto in cui secondo i concetti antichi s’è iniziata la trasformazione della forma, guaribile, nella cronica irrimediabile? E se all’esito vogliam dare, secondo le tendenze oggi prevalenti, un posto preminente nella diagnosi […] quale manifestazione possiamo ritenere espressione di quel minimo grado di dissoluzione mentale che ci consenta di dare a tutta la forma morbosa la denominazione di demenza?».

Da Monaco, dove lavorava Alzheimer, una serie di ricercatori italiani (Perusini, Bonfiglio, Sarteschi) hanno avuto un ruolo chiave nella determinazione della malattia: si consideri che in Italia tra il 1904 e il 1909 la riforma degli istituti manicomiali coinvolgeva le cliniche universitarie nel servizio psichiatrico e determinava nelle facoltà di medicina e negli ospedali l'istituzionalizzazione della neuropsichiatria; si univano così studio delle malattie mentali e problematiche sociali, definizione della malattia e allontanamento dalla società del malato.
Parlare di una specifica demenza e trasformarla in una «entità clinica» significava anche sancire da un lato la sovrapposizione di mente e cervello e dall'altro individuare in essa il fulcro dell'identità personale: come sottolinea Borri tutti gli studi coevi di biologi, psichiatri e neurologi compresi quelli psicanalitici di Freud e di Jung (che pure furono contrastati), convergevano nel far coincidere «la patologia mentale» con «la perdita dell’unità dinamica della personalità». Nella storia delle idee, in un momento in cui la scienza positivista aveva messo in crisi la nozione metafisica di 'anima', 'coscienza', 'psiche' e 'mente' dei filosofi si intersecavano in via definitiva con il 'cervello' dei medici.

Il peculiare tratto teorico di Alzheimer consiste in un atto di mapping che correla comportamenti patologici a lesioni cerebrali: durante l’autopsia di Auguste D. lo psichiatra aveva constatato la degenerazione di alcuni particolari tessuti (le neurofibrille), un fatto inusuale da cui ha inferito l'insieme della malattia. Da quel momento la descrizione della malattia seguirà sempre la messa in relazione delle «osservazioni intra vitam» con «i dati anatomici post mortem»; ancora oggi, a rigore, solo l'evidenza autoptica può confermare la diagnosi della sindrome che viene formulata in vita sulla base di Tac del paziente associate a test neuropsicologici (e che per questo viene sempre definita «Sdat probabile»). La ricostruzione del dibattito scientifico mostra inoltre altre criticità: nel lavoro di definizione svolto da Kraepelin il decadimento psichico risulta associato alla senilità, nonostante per Alzheimer questo non fosse evidente: la vecchiaia diventava la specifica condizione della malattia anche contro dati empirici che contraddicevano tale affermazione, quasi a confermare l'idea che l'involuzione del pensiero fosse naturale e non patologica. Nel Novecento la nozione di giovinezza, con i correlati di forza, salute e vigore, sarebbe stata decisiva e con essa il parallelo discredito dell'invecchiamento, che perde per sempre la tradizionale associazione con la saggezza e l'autorevolezza.

Ma che cosa è la malattia di Alzheimer? Nei diversi momenti del dibattito scientifico, oggi aperto e al centro di progetti di ricerca, si sono sostanzialmente confrontate due posizioni: da un lato quella «classica» (riconducibile ad Alzheimer, Perusini e Bonfiglio) per cui la patologia veniva pensata «come una forma morbosa ben definita sia sul piano clinico sia su quello anatomico»; dall'altro l'idea che non si tratti di una malattia specifica ma di una patologia «da involuzione» con caratteristiche generiche. Beninteso: nessuno nega l'esistenza di una serie di sintomi patologici, né sostiene che la malattia sia tout court una creazione dei medici (tale è talvolta la semplificazione di Foucault fatta dai detrattori del post-moderno). Dalle sollecitazioni della storia della psichiatria risultano chiare dinamiche che possono essere estese ad altre situazioni, richiami alla cautela critica nell'ipostatizzazione della malattia che ogni nosografia e ogni protocollo terapeutico portano con sé. In determinate circostanze storiche uno schema diagnostico si è cristallizzato in un'entità clinica: la psichiatria di Kraepelin, che ha fortemente influenzato la medicina europea e nordamericana, si è incentrata con un processo di «astrazione» sulla «malattia» trascurando gli «aspetti dinamici dell'individuo malato». 
In ogni storia della medicina la rilevanza dei malati è dirimente nel mettere una patologia al centro dell'interesse della ricerca: è negli Stati Uniti che dagli anni settanta e ottanta arriva un cambio del paradigma diagnostico e esplode dell'attenzione verso lo status sociale e medico della malattia, lì dove per motivi sociali e statistici, complice l'allungamento della vita e la relativa neutralizzazione di altre cause di morte, si è conosciuto il problema su larga scala prima dell'Europa (il fatto che Ronald Reagan sia stato una malato eccellente pare abbia contribuito non poco alla circolazione del tema. Nota umoristica: che sia un prerequisito fondamentale per i leader repubblicani?). Il momento culminante di questo percorso si ha negli anni Ottanta con la stilizzazione manualistica della malattia attraverso la sua definizione secondo il DSM: di seguito i Criteri diagnostici per la Demenza Tipo Alzheimer:

«Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) deficit della memoria [...] 2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio); b) aprassia (compromissione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l’integrità della funzione motoria); c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l’integrità della funzione sensoriale [...]; d) disturbo delle funzioni esecutive [...]. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e declino continuo delle facoltà cognitive».

Borri mostra come nel periodo 1910-1974 il processo della comunicazione intrascientifica (rilevante per la formazione dei medici), abbia integrato l’analisi delle singolarità dei casi clinici e il «trasporto» dei dati sperimentali «nelle strutture concettuali tipiche del manuale». Il percorso si inverte dal 1980 ad oggi, quando dopo la 'canonizzazione' della malattia «l’istanza conoscitiva si incentra sulla “costruzione” della patologia»: «il caso clinico, i vari casi clinici, acquistano una funzione comunicativa diversa e si caratterizzano sia come documentazione della singolarità dei pazienti sia come momento conoscitivo che deve essere messo in rapporto con i dati acquisiti e condivisi espressi nel Manuale». Si sono inoltre aperte prospettive di studio a livello molecolare, neurochimico e genetico con la possibilità di svolgere indagini del funzionamento del cervello con le tecniche di neuroimaging: questo è un formidabile strumento euristico ma al tempo stesso può essere un rischio di ulteriore riduzionismo se una serie di luci che si colorano su uno schermo diventano l'epifania della malattia.
In un dibattito molto ricco (che supera di gran lunga le mie conoscenze scientifiche) si assiste a una fase di continua revisione critica.
Scrive Peter J. Whitehouse (Il mito dell'Alzheimer, Milano, 2011) con mirabile capacità di sintesi:

«è verosimile che l’Alzheimer non sia il risultato di un singolo fattore biologico e nemmeno il prodotto di una coppia di microscopici “criminali”. Ricordate che, tra gli scienziati autorevoli che conosco, pochi credono nel mito che l’Alzheimer sia una malattia, un processo o una condizione precisa, e molti credono, come lo credo io, che l’Alzheimer sia un’etichetta generica che comprende molti dei processi del normale invecchiamento cerebrale. L’invecchiamento cerebrale è causato dall’interazione di fattori genetici, ambientali e comportamentali. Quindi la traiettoria delle diverse persone lungo il continuum dell’invecchiamento cerebrale varia enormemente».

Da questa discussione clinica risultano conseguenze rilevanti, istanze capaci di influenzare norme e pratiche del settore. Come si è detto in questione nella malattia è l'identità dell'individuo – memoria, linguaggio, socialità:

«Se la trama del nostro linguaggio è intessuta con la storia individuale, con le architetture cognitivo - relazionali di ogni persona, i cambiamenti dapprima solo percettibili e poi sempre più evidenti e severi nel parlare, nel leggere e nello scrivere sono segni di una difficoltà e di una sofferenza non di una parte della persona ma della sua interezza individuale» (Borri).

È decisivo che sia emersa la tendenza di tipo olistico che considera «il cervello funzionante non come un insieme di zone separate ma in modo globale e integrato» contro l'originario «dogma localizzazionista» che pure continua a essere sviluppato. Tra i tanti nomi svetta quello di Luria, notoriamente uno dei Nobel venuti dalla scuola di Levi a Torino ed emigrato negli Usa a causa delle leggi razziali, i cui studi «hanno condotto poi a una visione del cervello come sistema articolato, descritto generalmente con la metafora dell’architettura cerebrale: un disturbo qualsiasi nel cervello chiama in causa non un singolo luogo ma un insieme di luoghi diversi. L’immagine di un complesso architettonico permette di collegare in modo plastico, immediato, il concetto di complessità neuronale con quello di complessità della funzione linguistica». In nome di questa complessità la persona malata (e non la malattia) invoca attenzione e cura, nel senso latino del termine. Scrive ancora Borri:

«Quando è diagnosticata una malattia mentale cronica come la malattia di Alzheimer le persone scompaiono dalla vita sociale. L’individuo e la sua storia attraverso l’etichetta della malattia, resa realtà ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che non ne riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un insieme di sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di Alzheimer scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo. La concezione organicista della malattia non è un’impostazione neutra che si limita a descrivere l’individuo: se la salute mentale è concepita come integrità neuronale, allora tutto ciò che mina questa integrità (placche senili, grovigli neurofibrillari, atrofia progressiva) riduce e infine cancella l’individuo».

Si tratta di andare verso la scrittura scientifica di una nuova storia dell'invecchiamento cerebrale, dalla malattia verso l'individuo. Credo che una tale prospettiva sia fondamentale non solo per la diade medico-paziente, ma anche per chi è coinvolto personalmente dalla malattia di un familiare. Diversi sono i segnali in tal senso, che alla ricerca scientifica e farmacologica integrano approcci terapeutici relazionali: per la mia famiglia è stato decisivo prendere atto dell'approccio definito «conversazionalista». Si distinguono nel linguaggio la funzione comunicativa, di «inviare e riconoscere messaggi ricevuti», da quella di «scambiare parole più o meno felicemente anche senza capire ciò che si dice, indipendentemente dallo scopo di produrre informazioni» (La conversazione possibile con il malato di Alzheimer, a cura di P. Vigorelli, Milano, 2004; si veda inoltre anche Lai, 1993). Se la prima è progressivamente compromessa al punto da rendere la sua pratica frustrante per tutti, la seconda si mantiene «miracolosamente intatta» per molto più tempo sulla base del rispetto di norme come quella dei turni verbali, la capacità di compiere gesti di cortesia e di pronunciare frasi gentili, competenze che risalgono alla remota età infantile. Come scrive Franzen, «le prima capacità sviluppate dal bambino – alzare la testa, sorridere, mettersi a sedere senza bisogno d'aiuto – sono le ultime a scomparire nella persona affetta da Alzheimer». Se si accetta di rinunciare agli aspetti semantici della comunicazione rimangono integre strutture semiotiche che in qualche modo garantiscono ancora relazione, soprattutto attraverso l'interazione corporea con i propri cari, qualsiasi alterità essi stiano diventando.

Come molti dei trenta-quarantenni di oggi nei primi anni ottanta guardavo una serie televisiva misteriosa e inquietante intitolata nella versione italiana Ai confini della realtà, la mitica Twilight Zone che oggi la critica considera un classico della fantascienza televisiva. Nell'episodio che più mi fece paura, e la serie poteva veramente fare paura, il protagonista in un contesto sereno e bucolico a un certo punto vedeva la sua realtà farsi disturbata, coma attraversata da interferenze di tipo elettromagnetico: i suoi interlocutori ripetevano sempre la stessa cosa, in modo tale che lui si trovasse inascoltato e continuamente dentro a terribili deja vu di cui era l'unico ad accorgersi. Gli spettatori scoprivano poi che il vissuto del protagonista era una simulazione virtuale prodotta artificialmente nella mente di individui, in realtà tumulati in teche e collegati a stimolatori cerebrali, più o meno come in Matrix ma senza interattività: i disturbi erano dovuti al malfunzionamento di una 'macchina della felicità' in un mondo distopico del futuro che non ne aveva più. Ho vissuto finora l'Alzheimer di mio padre come una cosa del genere, una condanna senza scampo destinata a ripetersi senza tregua. Anche dire 'l'Alzheimer di qualcuno' tradisce a livello linguistico la tendenza a pensare a una malattia che diventa il soggetto della storia, una Cosa o Alien che espropria un individuo amato dalla sua identità e ne fa un estraneo non proprio simpatico. Da un po' mi sforzo di pensare che la sua condizione sia una forma di vita poco conosciuta che, in determinate condizioni stabilizzate e almeno fino a un certo punto, un'adeguata cura farmacologica, una famiglia salda e coesa, una meticolosa rete di supporto, una pazienza infinita (e una certa disponibilità economica) possono rendere sopportabile a un figlio non convivente.
Quello che mio padre Pietro vive è per lo più una differente percezione dello spazio e del tempo, anacronica, sfocata e eternamente presente, simile a un momento estatico, in cui quindi l'angoscia della morte, che della percezione del tempo è l'ombra, scompare dall'orizzonte; in questo altrove lo stesso posto può diventare ogni giorno una nuova scoperta e si possono condividere narrazioni, gesti, abitudini e ritualità che, nel loro eccesso di insensatezza, ideologicità e arbitrarietà, hanno il medesimo statuto di momenti ritenuti normali. Un altrove in cui possono aprirsi inaspettate finestre sul sé, di inedita tenerezza per chi rimane dentro al tempo.

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