dalla tesi di dottorato, a volte ritornano.
5.3 Potere (visivo) della letteratura
«Una grande entelechia con inclinazione
mitologica, anzi con indole mitologica, che è lecito considerare
come vera e propria forma fondamentale, con i tratti maliziosi di un
essere ermetico»1.
L’importanza che Thomas Mann ricopre per Jesi si trova compendiata in questa descrizione del praeceptor Germaniae fornita da Kerényi, nella quale la dimensione mitologica appare centrale, e dalla quale si ricavano importanti considerazioni di ordine teorico: il romanziere è il paradigma della macchina mitologica della scrittura, capace di produrre materiali durevoli, cioè ad alto tasso di significatività, e di generare il sentimento dell’eterna presenza che costituisce la qualità principale della ‘miticità’.
L’importanza che Thomas Mann ricopre per Jesi si trova compendiata in questa descrizione del praeceptor Germaniae fornita da Kerényi, nella quale la dimensione mitologica appare centrale, e dalla quale si ricavano importanti considerazioni di ordine teorico: il romanziere è il paradigma della macchina mitologica della scrittura, capace di produrre materiali durevoli, cioè ad alto tasso di significatività, e di generare il sentimento dell’eterna presenza che costituisce la qualità principale della ‘miticità’.
Così Jesi:
La
tecnica della citazione servì [...] a Thomas Mann per contrapporre
alla storia [...] la sua scrittura
stessa, in sé e per sé come il virtuosismo del violinista non
rinvia al pezzo eseguito e tanto meno a ciò che il pezzo potrebbe
comunicare, ma tende in fondo a distogliere dal pezzo per rinviare
alla tecnica del suonare il violino2.
L’autore con «freddezza ascetica»,
«mediazione manieristica», «operata dalla scrittura di un virtuoso
fra i materiali storici dell’io», diventa una macchina letteraria
che ricompone e ricombina frammenti di natura eterogenea, trovati
nella miniera della tradizione e della sua memoria. «Begeisterung»3
(‘ispirazione’) coincide con l’«involontaria citazione di
luoghi comuni», che il critico potrà anche riconoscere, ma il cui
valore e significato appaiono nuovi a partire dal contesto della loro
riproposizione e dal loro accostamento. Jesi ha continuamente
professato il valore della tecnica ‘per citazione’, in base alla
quale la creazione si presenta come ricezione e rielaborazione
inconscia e ‘automatica’: si veda questo commento sulla propria
esperienza poetica, in cui è possibile riconoscere lo stesso
approccio del critico.
Analoga
situazione di “esilio” [ Jesi si riferisce alla «tradizione
culturale e religiosa ebraica» n.d.c.] in termini di religione di
cultura, di morale si configura nel linguaggio e nelle metrica di
queste poesie. Nei confronti dei ritmi e degli stilemi tradizionali,
l’atteggiamento del poeta ‘in esilio’ non è solo di parodia:
egli si permette di usare i luoghi comuni di una tradizione composta
di echi, brandelli e parole-chiave della poesia degli ultimi
centocinquant’anni (o di proporne dei nuovi, coniati per imitazione
e “simpatia”), al fine di entrare in contatto con l’unica
poesia moralmente lecita durante l’ “esilio”: la poesia che è
nella voce umana recitante secondo un determinato rituale e secondo
una cadenza rituale, alcuni luoghi comuni.
A
The
Waste Land
(per citare un esempio illustre) T. S. Elliot fece seguire sette
pagine di note, denunciando almeno una parte delle innumerevoli
citazioni intrecciate del poema. L’esilio
non ha alcuna nota poiché l’autore intende sottolineare
l’usufruibilità
di ogni precedente poetico quale repertorio
di anonimi luoghi comuni
– i quali possono apparire bizzarrie estremamente soggettive, ma in
realtà sono proprio luoghi comuni di una koiné che – in termini
cronologici – principia con Ugo Foscolo e si chiude con Ezra
Pound4.
In una lettera inedita ad Andrea
Zanzotto, lo stesso tema emerge laddove Jesi individua per la
scrittura
il
dovere di esaurire la tradizione poetica fino a ridurla a una
combinazione di luoghi comuni nel pieno rispetto delle sue
intrinseche linee storiche di metamorfosi, e la convinzione del
valore estetico del luogo comune in sé e per sé: del luogo comune
lessicale, metrico, fonico, ecc. ridotto alla cosa passiva che
effettivamente è. Si tratterà poi di sfruttarlo per il giusto
verso5.
Se la macchina mitologica funziona nelle
creazione, essa è operativa anche nella ricezione: ogni critico
letterario ha di fronte sempre tutta la letteratura universale in una
«sorta di solidarietà universale tra i documenti letterari»6.
La macchina opera dunque nello spazio dell’immaginazione
letteraria: «Bisogna supporre [...] l’esistenza di una sorta di
“specchio” in cui si riflette tutta la letteratura universale per
cui un critico, anche quando si occupa di una sola poesia, ha
idealmente davanti tutta la letteratura prodotta nel mondo, che lo
specchio gli riflette»7.
Questo mondo, che pare sovraumano e
dietro il quale affiora la tentazione del tout
se tient, è il più umano
che ci sia: la letteratura è cosa di uomini e donne che condividono
esperienze simili e che imparano a conoscere se stessi e gli altri
attraverso i libri: significatività è anche trovare in un testo ciò
che si è letto in altri, concependolo come luogo ideale, un altrove
che mitologicamente qualcuno potrà assimilare al mondo archetipico o
all’eterno ritorno dell’uguale8.
Il linguaggio mitologico implica l’ipotesi della solidarietà
universale tra tutti i documenti letterari e tra tutto l’avvenuto,
perché l’immaginazione è indissolubile dal linguaggio mitologico,
ma senza che per questo si dia il mito-sostanza, presunto «motore
immobile del meccanismo del linguaggio mitologico»9.
Muovendo da questo
considerazioni e in virtù della sua attenzione per l’immaginario
collettivo e l’inconscio culturale, Jesi può essere ancora una
volta avvicinato alla critica post-psicanalitica e
post-strutturalista. In questo senso negli anni ottanta Deleuze,
scegliendo il cinema come paradigma, avanzava l’idea di «automa
spirituale», termine che definisce un pensiero che procede per
innesco automatico su base inconscia e che mette in crisi la presunta
completa autotrasparenza del soggetto10.
Su questa concezione della
narrazione-immagine Gianni Celati scrive che
non
esiste nessuna immagine che si chiuda in sé, nella propria
oggettività realistica; dietro ogni immagine ce n’è un’altra,
che a sua volta si collega ad altre già viste; e ciò che forse
determina la loro durata d’effetto, è la permanenza di una loro
riconoscibilità, in cui si concentrano ere di figurazioni
immaginative11.
I testi scritti con la sistematica
pratica del montaggio e della citazione creano un’analoga rete di
rimandi, di rinvii e di connessioni ad alto potenziale di
significato, che implica un’attivazione dell’interpretazione di
grado superiore a quella presente nella comunicazione,
decodificazione e lettura ‘tradizionali’. Sono qui portate alle
estreme conseguenze le premesse di Benjamin, «l’attualità di
Proust, Kafka, Brecht, ma anche del surrealismo e del cinema»
relativamente alla riflessione sugli «effetti anacronistici di
conoscenza»12:
con conseguenze valide per ogni ‘testo’ nella sua nozione più
ampia, nel contemporaneo l’«immagine-movimento
sembra essere in se stessa un movimento fondamentalmente aberrante,
anormale» ma al contempo l’unica fondazione possibile, in quanto è
«il montaggio stesso a costruire il tutto e darci in tal modo
l’immagine del
tempo»13.
Seppure l’immagine e l’emozione
siano temi centrali del suo discorso su letteratura e teatro, Jesi
non fece in tempo, o non volle affrontare la questione del cinema che
era e sarebbe diventata invece oggetto di riflessione sistematica
della critica estetica e politica. Il cinema d’avanguardia,
mostrando la sua artificialità fino a diventare meta-cinema, non fa
che riprendere quella riflessione sulla letteratura: invoca la
necessità di una scrittura ironica, esibisce il segno della sutura e
dell’autorialità, disinnescando così l’effetto ipnotico del
mito-sostanza senza soffocare l’ emozione che l’immagine
suscita14.
__________________________________________________
1
K. Kerényi, Considerazioni
preliminari, in Id.
Felicità difficile,
cit., p. 29, in Jesi, Materiali Mitologici, p. 17. Nelle
stesse pagine Kerényi nel suo «ricordo» associava il «nitore
dolce, quasi tendente all’oscuro» di una statua greca (un Ermes
psicopompo dell’isola di Andros), alla «radiazione»
o «aura» che incanta nei romanzi di Mann; Ivi,
pp. 21-22; in MM, p. 9.
2
MM, p. 206.
3
MM, p. 209.
4
F. Jesi, L’esilio,
nota editoriale,
in «Cultura tedesca», cit., pp. 107-108. Il testo, risalente al
1969, doveva servire, su richiesta dell’editore Silva, da
comunicato stampa per la raccolta di poesie L’esilio,
cit.; di contenuto sostanzialmente analogo la Lettera
a Piancastelli (in «Uomini
e idee», nn. 23-25, Napoli, 1970, pp. 249 ss.) con cui Jesi
interveniva in un ambito dibattito sulla poesia d’avanguardia
suscitato dal direttore della rivista Corrado Piancastelli. Entrambi in Riga 31_Jesi, 2010.
5
Lettera a Zanzotto del 29 ottobre 1970, Archivio privato di casa
Jesi. Ora in Riga, 2010. Cfr. H. Bloom, L’angoscia
dell’influenza.
Una teoria della poesia
(1973), ed. it. Feltrinelli, Milano, 1983, manifesto dei cosidetti
Yale critics e
dell’inevitabilità del
mis-reading nella
ricezione storica e testuale.
6 Jesi, Ermetismo e Linguaggio Mitologico, p. 189.
7
L. Piantini, Furio Jesi:
tempo del segreto e tempo della storia,
in «Il ponte», La Nuova Italia, Firenze, n. 6, giugno 1990, pp.
95-96.
8
Cfr. O. Pamuk, La valigia di
mio padre (2006), ed. it.
Einaudi, Torino, 2007, pp. 19-20, «La mia fiducia viene dalla
convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri
portano ferite come le mie e che quindi capiranno. Tutta la vera
letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti
gli individui si somiglino. Quando uno scrittore si chiude per anni
in una stanza, evoca con il suo gesto l’esistenza di un’umanità
unica, un mondo privo di centro» (ora anche in Id.,
Altri colori,
Einaudi, Torino, 2008, pp. 496-7); si vedano anche le pp. 46 ss. sul
«lettore implicito» e sulla teoria di W. Iser. Cfr. MM, pp. 38-50
sulla stanza del mitologo l’hortus
conclusus che apre mondi.
9
ELM, p. 190.
10
«Il movimento automatico suscita un automa spirituale, cha a sua
volta reagisce su di lui», esso designa «il circuito nel quale» i
«pensieri entrano con l’immagine-movimento». G.
Deleuze, Cinema 2.
L’immagine-tempo
(1985), ed. it. Ubublibri, Milano 1989, pp. 175-176.
11
G. Celati, Quando ho visto
“Nel corso del tempo”,
in «Riga», 28, 2008, p. 124.
12
G. Didi-Hubermann, Storia
dell’arte
e anacronismo delle immagini,
cit., p. 27; cfr. pp. 52-53.
13
G. Deleuze, Cinema 2.,
cit. pp. 48, 51.
14
Cfr. il cap. 2.
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