spesso gli studiosi tendono a essere ombelicali, credono che ciò che studiano sia IL problema principale da cui tutto dipende. Eppure. I recenti risultati elettorali che sono stati da più parti commentati testimoniano che l'approccio dei cittadini/elettori al voto è tutt'altro che razionale.
In altri termini: bisogna studiare il mito, che è sempre politico, in funzione critica, per disinnescarne l'effetto incantatorio.
Su Doppiozero GG Ricuperati (http://www.doppiozero.com/materiali/david-bowie/elezioni-fare-caos-ovvero-accendere-la-luce) sostiene che il berlusconismo/leghismo (incomprensibile e incondivisibile) e il grillismo (comprensibile ma incondivisibile) sono accomunati da «una visione cieca e manichea della realtà»; il M5S in particolare avrebbe un'«aura seduttiva», «particolare tipo di piede di porco che ha scatenato energie formidabili nella fragile democrazia italiana».
Si pensa in termini palingenetici ma è un «manipolo di istintivi di massa».
Ecco questo è quello che io chiamo 'mito politico', che va combattuto con gli strumenti della ragione; ma poiché senza miti non si vive, bisogna che la mitologia politica sia sostituita da una narrazione dell'immaginario sociale in grado di parlare e unire.
Come non so,non così come è stato fatto ora, di certo.
Molto bello il film di Roberto Andò, Viva la libertà, con un consueto magistrale Servillo. Che parla di questo.
Di seguito un Malera, entry level sul tema, recentemente a grande richiesta a Palazzo Nuovo per un intervento.
(non questo, che è un Burri, quello sotto)
Funzioni pratiche del mito nel Novecento.
Tecnicizzazione del discorso mitico e macchine identitarie
0.
termini
Mito e mitologia, sono parole familiari, ma in
realtà vaghe e polisemiche. La prima cosa che ci viene in mente è
il grande patrimonio della tradizione epica dell’antichità, greca
in particolar modo: quella che riguarda le «opere di uomini e dèi
degne di ricordo» (Odissea I, 338). Una
definizione di ‘mito’, che si trova in Esiodo, Platone e Plutarco
è quella di «racconto che riguarda dèi, demoni, eroi, cose
dell’Ade» (Repubblica, 392 a, 3-8).
Alla domanda che tutti i mitologi evitano come il
fuoco - «Che cos’è il mito?» - si può rispondere con le parole
di un importante studioso contemporaneo:
«esso
si presenta sotto forma di racconto venuto dalla notte dei tempi e
che esisteva già prima che un qualsiasi narratore iniziasse a
raccontarlo. In questo senso il racconto mitico non dipende
dall’invenzione personale né dalla fantasia creatrice, ma dalla
trasmissione e dalla memoria» (Vernant 1999).
Tale
definizione mette in luce la provenienza remota, pre-istorica di un
patrimonio culturale che si è conservato per via orale e trasformato
nei millenni ed è venuto a costituire una memoria culturale, cioè
una summa
di conoscenze e pratiche omogenee e note a tutti, articolate in
varianti e versioni multiple, mai definitive e anzi spesso
contraddittorie, che si definiscono per contrasto con il racconto
storico (di cui non hanno l’esattezza) e che mantengono un ambiguo
rapporto con dimensione letteraria (perché non c’è una dimensione
autorale).
Occorre non dimenticare che, se tutti questi
racconti ci sono noti, è perché sono stati scritti, ovvero
snaturati nel loro essere flusso continuo e mutevole e fissati in
modo arbitrario dalla scrittura, congelati nella consegna alla
tradizione dalla filologia ellenistica che aveva bisogno di
canonizzarli e unificarli in una biblioteca.
Nei
racconti mitologici lo storico ricerca in una mitologia lo sfondo
intellettuale di cui la
narrazione è testimonianza: in essi sono depositate tracce di quella
che Georges Dumézil chiama «ideologia», intesa come una concezione
delle grandi forze dominano il mondo, gli uomini, la società e li
rendono «ciò che essi sono». In questo senso ‘ideologia’
significa concezione del mondo, della storia, della vita, che non
sono valutabili in termini di vero o falso, ma esprimono interessi,
bisogni, aspirazioni dei diversi gruppi sociali.
La
mitologia, come patrimonio di narrazioni mitiche, appare così come
l’articolazione narrativa di una forma di pensiero, declinato nella
storia, nella quale si incontrano forme sociali arcaiche, politiche,
giuridiche, religiose e rituali come riflesso dell’immagine del
mondo di chi le ha espresse. Una sorta di pensiero sociale di
carattere obbligatorio, che agisce a livello inconscio: «una maglia
di tela di ragno» (Mauss, 1923), che innerva di significato la vita
di una comunità.
Noi non
incontriamo mai il ‘mito’ al singolare: ma piuttosto alcune
concrete manifestazioni della mitologia, miti al plurale, o meglio
«materiali mitologici» (racconti, figurazioni, simboli, resti di
culto, citazioni letterarie ma anche teorie che li spiegano).
Il
singolare ‘mito’ è piuttosto usato dagli studiosi per indicare
la funzione che può assumere: il mito come fattore culturale
efficace e unificante, sul terreno dell’immaginario collettivo
«serve, non solo a vedere, leggere e interpretare, ma anche a
ordinare e perfino a costruire la realtà» (Di Donato, Un
mondo mitico, p. 81).
Una
mitologia nel mondo antico è costituita da racconti e immagini,
espressioni di una visione del mondo che si riverbera in riti e
pratiche quotidiane. L’immaginario collettivo di un gruppo umano
costituisce il nucleo simbolico fondamentale che innerva di
significato la totalità della vita delle comunità che in essa si
riconosce.
1.
funzioni
L’incontro
di oggi vuole mettere in luce la funzione sociale del mito, partendo
dal presupposto che prima di chiedersi ‘cosa’ il mito ‘è’,
bisogna chiedersi ‘a cosa serve’: in quanto modalità di
conoscenza veicolata dal linguaggio e dalla scrittura, forma di
razionalità pre-scientifica e pre-filosofica, assolve funzioni
teoretiche di orientamento generale, nello spazio e nel tempo. Il
patrimonio di racconti mitologici, storia sacra, già per gli antichi
aveva un valore di fondazione, permetteva di spiegare in modo
elementare la genesi del mondo (ad esempio in Esiodo il fatto che le
cose derivino dal Chaos e da lì arrivino fino all’epoca degli
uomini in una vicenda di ordine progressivo e orientato); servivano a
riconoscere antenati comuni che fossero eroi fondatori di una casata
o di una famiglia reale (es Teseo per Atene, Cadmo per Tebe); ogni
realtà locale aveva suoi ‘patroni’ e storie capaci di collocare
il luogo e la comunità in un epos
più complesso, divino e umano al tempo stesso.
Soprattutto la memoria mitologica permetteva ai
Greci di sentirsi tali: i cicli omerici, mediante la grande
narrazione di una guerra degli Achei, costruirono l’unificazione
culturale e religiosa oltre la dimensione politico-amministrativa
delle città stato. La loro forma di memoria culturale fu
scritturale, e funzionò per unire tutti i popoli che si sentivano
greci, parlanti la stessa lingua e devoti alle stesse figure divine.
La
rete della mitologia, riflesso della vita religiosa, permetteva a
ogni individuo di costruire
la propria ‘identità’:
ovvero di riconoscersi consapevolmente in un cosmo, in un popolo, in
una comunità, in una famiglia, mediante il riferimento a un sapere
condiviso, a una storia comune, e al patronato che diverse divinità
gli offrivano a seconda del suo mestiere, del suo ruolo sociale,
della sua età e del suo genere.
Le
funzioni che il mito svolge sono simultaneamente teoretiche
(riguardano il cosa
del sapere), pratiche (riguardano come
agire)
e coesive (riguardano il noi),
sviluppano cioè il legame sociale, senza cui l’individuo non può
essere ciò che è.
Roger
Caillois, sviluppando gli insegnamenti del suo maestro Marcel Mauss,
sociologo e antropologo, propone una interessante etimologia della
parola ‘religione’. Il termine deriva da religere,
‘tenere insieme, collegare’: anticamente religiones
tramenta erant (Festo),
letteralmente «le religioni erano dei nodi di paglia», ovvero con
quel termine si indicavano i nodi di paglia che tenevano le travi dei
ponti. Dai tempi di Numa Pompilio il sacerdote più importante di
tutti era il pontifex,
il pontefice, letteralmente colui che supervisionava la costruzione
dei ponti, una violazione dell’ordine di natura immane (unire ciò
che è separato), un sacrilegio che richiedeva quindi la celebrazione
di rituali esorcistici adeguati per placare gli dei e rimettere ‘le
cose al loro posto’.
Così
il pontefice è colui che veglia sull’ordo
rerum, sull’ordine delle
cose, la disposizione dell’ordine dell’universo, mediante il
controllo sulle pratiche rituali, dai sacerdoti alle preghiere, dalle
feste agli oggetti liturgici. Perchè per gli antichi il sacro non è
separabile dal profano, è ciò che tiene insieme tutti i pezzi
altrimenti dispersi e frammentati del mondo naturale e sociale. Da
questa importante funzione deriva il fatto che il mito continui
ancora oggi a presentarsi come la voce del sacro. Qualcosa del mito,
nuovi modi di pensarlo e nuovi significati continuano a funzionare
nel legare insieme le persone intorno qualcosa, simile ai nodi che
tengono le travi.
Un
patrimonio mitologico, teologico prima e narrativo poi, assolve
funzioni fondamentali per gli individui e le comunità, ripondendo a
bisogni di conoscenza e di azione, di coesione sociale e di
legittimazione dell’ordine e del potere che lo rappresenta.
2.
mito, voce del verbo ‘naturalizzare’
La
condivisione di una mitologia ha una importante funzione nella
fondazione di un legame sociale e nella legittimazione del potere: in
virtù del suo potenziale
emotivo e della sua capacità comunicativa può fornire risposte alle
domande generali sulla realtà e plasmare, in modo inavvertito, le
coordinate elementari di senso del mondo in cui si vive. Fin
dall’antichità il mythos
è qualcosa che si presenta con l’autorevolezza della verità,
realizza e consolida delle autoevidenze altrimenti arbitrarie
facendole apparire ‘naturali’: esso significa «parola, discorso»
ma anche «progetto, macchinazione, rivolta», è parola concreta,
efficace che evoca il tempo trascorso ed ha l’autorevolezza di un
passato consacrato (Jesi, 1973).
Come
mostrano le teoria antropologiche, ogni cultura opera in modo da
occultare quanto di arbitrario c’è nel nostro modo di vivere,
presentandolo come il modo naturale di vivere, l’unico possibile.
Non ci dice che tra tutti i possibili modi di vivere noi ne abbiamo
uno qualunque: lo stato elementare di una cultura naturalizza e rende
ovvi norme, valori, istituzioni, interpretazioni del mondo e della
vita: le rende invisibili, trasformanandole in ordine intrinseco e
senza alternative.
Così opera la cultura, tanto quella antica quanto
quella moderna, in base a una doppia finzione: prima ‘finge’,
modella, gli uomini in un certo modo, poi finge che quella non sia
una costruzione culturale, ma sia vero. (Remotti, Prima lezione di
antropologia, pp. 135-136).
Per
fare questo il mito diventa progressivamente nella storia la voce del
sacro, qualcosa di indispensabile alle religioni organizzate man mano
che aumenta la complessità politica delle comunità di riferimento:
il monoteismo sembra comportare in questo senso un salto di qualità
nella legittimazione del potere tramite il riferimento al sacro
quando nasce lo ‘stato’. Le religioni dell’antico Egitto e del
mondo semitico vicino orientale sembrano aver elaborato forme di
teologizzazione dell’ordine sociale (Assmann), mediante
l’istituzione di un asso verticale tra terra e cielo: il faraone,
figlio e sacerdote del sole, è il garante dell’ordine universale e
della giustizia (Maat).
Duplicare in cielo l’ordine terrestre significa oggettivarlo,
riprodurlo mediante una riflessione mimetica, garantire la tenuta di
un ordine politico immanente. Una
‘religione politica’ è nella storia delle idee politiche quel
tipo di religione costituito da una proiezione delle strutture di una
comunità politica nella realtà divina: ogni comunità politica è
sempre incorporata nel contesto dell’esperienza del mondo e di Dio
da parte degli uomini. (Vögelin).
Semplificando,
si possono portare differenti esempi che avallano questo schema
elementare di connessione tra etnogenesi e politica tanto nel
politeismo (Numa Pompilio
a Roma, gli Oracoli di Delfi e Dodona nell’Ellade),
quanto nel monoteismo (Akenaton in Egitto, Jahwe
in Israele, il cristianesimo per Costantino, la diffusione dell’Islam
nella penisola arabica).
Il
mito è un dispositivo sociale che produce cultura, ovvero struttura
connettiva che garantisce identità: per fare questo si presenta come
discorso di verità efficace, perché si mostra come ‘vero’ da
sempre, ponendosi come origine e fondazione si sottrae a ogni domanda
su di sé e occulta la sua artificialità, arbitrarietà e
infondatezza.
3.
mitodinamica e macchina
mitologica
Ogni
cultura, indipendentemente dai contenuti delle proprie narrazioni
mitologiche, si costruisce sul mito, racconto di storia sacra
variamente inteso: esso ha un potere performativo molto elevato,
genera significato e significatività, produce ‘senso’. Così
ogni società, antica o moderna,
comporta una qualche forma di mitologia: il
‘mito’, o meglio la circolazione
di materiali mitologici
svolge una funzione fondamentale nella tessitura e nel funzionamento
della struttura connettiva di una società.
Nell’ambito
della teoria della cultura Jan Assmann (n 1938), studioso
contemporaneo di mondo antico, ha elaborato in modo particolarmente
chiaro il concetto di mitodinamica
(Mythomotorik): il mito è un
ricordo del passato che produce immagine di sé e speranza per
obiettivi dell’agire, ha un riferimento narrativo al passato che
lascia cadere luce sul presente e sul futuro.
Esso ha:
- funzione fondante, pone il presente sotto
la luce di una storia che lo fa apparire dotato di senso, necessario
e immutabile. (Es: il mito di Osiri in Egitto, l’Esodo per l’antico
Israele, il ciclo troiano per Roma; il Golgota per il Cristianesimo
originario).
- funzione controfattuale, a partire da
carenze del presente evoca un passato eroico, che rende palese la
frattura tra ‘un tempo’ e ‘adesso’: il presente è
relativizzato rispetto a un passato migliore. In epoca di oppressione
e impoverimento si possono sviluppare forme di messianismo e
millenarismo. (Es: il ciclo omerico viene canonizzato con la
decadenza di un sistema cavalleresco che si trasforma nella polis,
celebra un tempo eroico precedente a quello della comunità
democratica e dei sui rischi; la Repubblica romana nell’età
imperiale, come regno della virtus e dei boni mores; il
libro di Daniele per i Maccabei, immagine della purezza religiosa
come resistenza a motivazione religiosa contro i tentativi
ellenistici di assorbire il giudaismo).
La definizione del mito diviene così pertinente
al suo significato e alla sua funzione in un determinato contesto di
ricezione e di uso politico, ovvero quella di formare l’immagine di
sé e guidare l’agire nel presente: la mitodinamica è la forza
orientatrice per un gruppo a partire dai suoi bisogni, in particolare
le emergenze che richiedono un ‘di-più’ di significato. «Il
mito non ‘è’ qualcosa. Qualsiasi cosa può diventare un mito».
(La memoria culturale, p. 51-52).
Più
che di miti si parlerà allora di una ‘macchina’ che genera i
significati condivisi sotto forma di «materiali mitologici», i
quali operano nella stabilizzazione delle identità individuali e
collettive, ovvero le appartenenze consapevoli a un gruppo o a una
società.
Nella
teoria di Furio Jesi (1941-1980) la «macchina mitologica» è il
dispositivo risultante dall’incrocio di relazioni di sapere e di
potere, che fabbrica mitologie, produce forme di conoscenza come se
fossero verità indiscutibili: essa è articolata in funzioni (il
ruolo svolto nel processo di elaborazione e ricezione), mediatori (i
soggetti attivi in tale processo) e depositi (i luoghi e il
‘patrimonio’ di idee e immagini veicolate).
I
«materiali mitologici» sono i prodotti delle macchina in forma di
racconti, opera letteraria, documenti, monumenti e qualsiasi forma di
testo o traccia riconducibile all’operare della macchina. Di per sé
neutri, essi sono resi mitologici dalla circolazione linguistica.
Assistiamo
così a uno spostamento dell’asse, nella definizione del ‘mito’
dal contenuto dei racconti, il ‘cosa’, alla modalità del
raccontare, il suo ‘come’. Il verbo mythologheuein
(= mitologizzare, in Detienne, p. 107) era già presente nell’Odissea
con il significato di «raccontare di nuovo»: questo dettaglio
suggerisce il carattere ripetitivo del luogo comune, del cliché,
come pratica mnemotecnica. La ripetibilità è un requisito
fondamentale di ogni immagine mitica e simbolica (Bachofen, 1859 e
Blumenberg, 1979): stabile e immobile appare sovratemporale e come
tale in grado di essere riattivata in ogni circostanza, producendo a
seconda dei casi la rinascita periodica che si verifica nel rito e
quell’effetto di rassicurante stabilità e di naturalizzazione del
mondo.
Perciò
‘mitologie’ sono le storie raccontate da sempre e riprese di
continuo: «le raccontavano una volta e le racconteranno ancora»
(Platone, Politico,
268 e 4-10). Vecchi e bambini adorano ripetere e sentire ripetere le
storie: se i primi hanno bisogno di stabilizzare la memoria di una
vita che se ne sta andando, i secondi hanno bisogno di fermare e
rendere coerenti una massa multiforme di sensazione, pensieri e
immagini che diventeranno la realtà che condividiamo. Con la stessa
dinamica, dai tempi più antichi e mutatis
mutandis fino all’età
contemporanea, a forza di sentire ripetere qualcosa gli esseri umani
adulti finiscono per considerarla ovvia, come un pezzo di natura.
La
mitologia è frutto di una macchina identitaria che non funziona da
sola, ma come strumento di comunicazione efficace al servizio delle
idee. Tutte le narrazioni e i saperi pubblici hanno sempre un
contenuto ideologico e vivono nella ricezione, sempre storicamente
situata. La loro presunta autonomia è sempre relativa e negoziata: i
miti non sono mai non-pensati.
4.
mito tecnicizzato: la
modernità e le masse
All’origine
della riflessione sul mito come modalità di conoscenza vi sono le
riflessioni portate dall’uso del mito fin dal primo Novecento.
L’età contemporanea ha conosciuto il volto oscuro del «mito
tecnicizzato», quell’elaborazione strumentale di immagini che
punta al conseguimento di determinati obiettivi servendosi del mito
come strumento di incantamento.
Il
padre nobile di tali studi può essere considerato Karoly Kerényi
(1896-1973) che ha proposto la distinzione tra «mito genuino» e
«mito tecnicizzato»: il primo è forza che «afferra e plasma» la
coscienza dell’uomo arcaico, forma spontanea e disinteressata della
psiche, sorta di griglia trascendentale e di facoltà immaginativa
costituente dentro la quale si compongono gli elementi della realtà
di un gruppo sociale. Esso riguarda l’antico, è perso per sempre e
non ci è dato conoscerlo.
Viceversa
il «mito tecnicizzato» utilizza e
strumentalizza un processo
mitodinamico per ottenere degli effetti concreti di azione o
mobilitazione politica, quando nell’età contemporanea, a partire
dalle riflessioni sulla società di massa, si pone il problema di
riconsolidare forme di dominio e di comunicazione.
Il
Doctor Faustus
di Thomas Mann elabora esplicitamente la questione, così come era
posta nelle Riflessioni sulla
violenza di Georges Sorel
1906: «nel secolo delle masse la discussione parlamentare doveva
risultare assolutamente inadatta a formare una volontà politica (…),
bisognava sostituirvi un vangelo di finzioni mitiche destinate a
scatenare e a mettere in azione le energie politiche come primitivi
gridi di battaglia. La rude ed eccitante profezia del libro era in
sostanza: che i miti popolari, o meglio fabbricati per le masse
sarebbero diventati il veicolo dei moti politici: fiabe, fantasie e
invenzioni che non occorreva contenessero verità razionali o
scientifiche per fecondare, per determinare la vita e la storia, e
dimostrarsi in tal modo realtà dinamiche».
Il
libro di Sorel ebbe un’enorme diffusione e effetti notevoli.
Il fascismo europeo del Novecento ha fatto largo uso del mito in
Germania con la razza ariana, il germanesimo, la lotta e la potenza,
il sangue e il suolo. Ma se estendiamo il ragionamento alle modalità
di propagazione e all’uso sistematico della persuasione anche in
Italia possiamo parlare di mitologia, con la romanità o con la
giovinezza, la prolificità e l’impero, o più banalmente con il
mussolinismo. Analoghi ragionamenti possono essere fatti per
esperienze simili di cui i fascismi europei sono stati veri e propri
laboratori.
George
L. Mosse ha chiamato «nazionalizzazione delle masse» (1974) questo
processo di direzione dell’agire collettivo delle masse, il nuovo
soggetto emergente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento, sulla base dell’ideologia come «arte di dirigerne
l’immaginazione», per creare una comunità di fede e di sentire.
Furio
Jesi in Cultura di destra
(1979) identifica nelle
«idee senza parole» (espressione di Spengler, l’autore de Il
tramonto dell’Occidente) il
fulcro di un sistema di tecnicizzazione del mito, ovvero di quella
strumentalizzazione politica del linguaggio volta a costruire un
apparato rituale per coinvolgere gli individui nella comunità
vivente della nazione all’interno di un progetto totalitario.
Tale
abuso del sistema di ‘produzione della verità’ serve realizzare
l'omogeneizzazione culturale di un gruppo attorno alla dicotomia
‘amico/nemico’, ‘noi/loro’, con la santificazione di un
modello di dover-essere a cui tendere e la demonizzazione dell'altro,
il diverso, il nemico interno, sul quale vengono proiettati tutti gli
aspetti negativi: così l’uniformazione della cultura, l’uso dei
sistemi di comunicazione di massa e l’inquadramento della
popolazione mediante gruppi omogenei di età e ruoli possono servire
i progetti di edificazione dell’ ‘uomo nuovo’.
La tecnicizzazione fascista
mostra in maniera macroscopica ed evidente come i contenuti della
propaganda fossero una mitologia, artificiale e fraudolenta, capace
di surrogare la violenza nelle fasi di consolidamento del regime con
la mobilitazione della cosiddetta ‘zona grigia’: in una
costruzione ideologica ciò che è importante non è il suo grado di
verità, ma il suo livello di integrazione e omogeneità, in altri
termini la sua efficacia performativa, che deriva la sua forza
dall’immediatezza del simbolo e dalla sua capacità di semplificare
la realtà. Oltre alla violenza della repressione esiste la capacità
di creare consenso attraverso la persuasione, grazie all’ideologia
come forza motrice dei sistemi totalitari. Il culto del leader nella
stabilizzazione del potere dei regimi totalitari avviene con il salto
di qualità dovuta alle nuove tecnologie di massa e all’uso sempre
più spregiudicato della dimensione fabulatoria, pensata per un
«popolo bambino» (Gibelli) che, fin dai soggetti in più tenera
età, aveva ‘bisogno’ di rude paternalismo, sapiente menzogna e
continua blandizia.
Tecnicizzare
il mito significa intensificare consapevolmente un processo
mitodinamico, partendo da una posizione di potere, per ottenere degli
effetti concreti di azione o mobilitazione politica servendosi
del dispositivo della comunicazione, modulandone ritmo e intensità,
contando sulla reiterazione dei cliché e sulla capacità di
costruire luoghi comuni e parole d’ordine in forza della sola
frequenza e pervasività, come avviene nella gestione totalitaria dei
mezzi di comunicazione di massa.
5.
tarda modernità: economia e
politica
Ci
allontaniamo sempre di più dall’antichità per una breve e
impressionistica panoramica delle direzioni che lo studio della
mitologia ha preso nel Novecento. A partire dalla necessità di
demistificare l’ideologia, dalla riflessione sulla fotografia,
sull’immagine, sull’illusione di verità e sulle strategie di
persuasione, Roland
Barthes (1915-1980) ha inaugurato una fortunata stagione di studi
sulla mitologia come modo
di espressione e come processo continuo di semiotizzazione: con
Mythologies
(1957) ha mostrato che
ogni cosa può diventare un ‘mito’, arrivando a individuare nuove
forme di mitologia in territori completamente desacralizzati.
Si può parlare di mitologia
all’interno delle moderne democrazie, con la pianificazione di
campagne ideologiche e pubblicitarie. Gli Stati Uniti fin dagli inizi
del XX secolo sono stati i pionieri del modello economico capitalista
e di sviluppo fordista, e quindi dell’industria culturale, che ha
dato luogo a nuovi modelli culturali.
Come
non vedere almeno un pallido riflesso della funzione di creazione
delle identità in tutte quelle forme di narrazione di consumo o di
genere di cui gli esseri umani sembrano non stancarsi mai? Dai
fumetti alla letteratura di genere, dai colossal
cinematografici fino alle fiction
televisive, il nostro mondo, i nostri pensieri e la nostra cultura
sarebbero impensabili senza questa nuova dimensione mitologica.
I mass
media sono da tempo riconosciuti come potenti fattori di
socializzazione: producono informazione e modelli di pensiero,
veicolano rappresentazioni collettive, omologano stili di pensiero e
di vita, naturalizzano la realtà e come si è visto, possono
renderla funzionale al potere. Qualsiasi critica dei mass media non
può essere separata da considerazioni sul mercato, sulle logiche
dell’induzione al consumo, che a partire dalla pubblicità sono
inseparabili dall’industria culturale. In tutto il mondo
‘occidentale’ dal secondo dopoguerra in poi la propaganda, un
tempo definita persuasione occulta, ha accompagnato la storia del
costume e dell’immaginario, dando vita a quella situazione in cui
dimensione politica e di consumo appaiono sempre più inseparabili.
La macchina mitologica contemporanea da tempo è quella del potere
dell’immaginazione pubblicitaria: le mitologie del quotidiano vanno
ricercate ad esempio nell’estetizzazione e nell’ossessione
stilistica che accompagna i nostri consumi. Automobili, abiti, creme
di cioccolato, zainetti, prodotti per l’hi fi e dispositivi
tecnologici, ma perfino cibi biologici e libri, sono merci corredate
da un sovrappiù di significato che celebra e rende onore al dio del
mercato, il vero trionfatore dell’epoca della globalizzazione.
La
critica di origine marxista e di impronta francofortese si è spinta
ancora oltre, e le stesse categorie possono tornare a essere utili
per una riflessione sulla politica contemporanea e sulla crisi di
legittimazione della democrazie parlamentari.
Diversi osservatori contemporanei sostengono che
la stessa nozione di ‘cultura’ è usata in modo mitologico: il
recente dibattito sul relativismo culturale e sul cosiddetto ‘scontro
di civiltà’ teorizzato da Huntington sembrano confermarlo. Le
differenze tra gruppi umani vengono esasperate fino a far sparire gli
individui per servire politiche economiche e strategie globali
(quelle dell’amministrazione repubblicana degli Usa) che
necessitano di accettazione pubblica, dimenticando però che le
culture non sono sostanze che sovradeterminano gli individui, ma sono
descrizione idealtipiche “buone per pensare” continuamente
mutevoli e rinegoziate (Aime).
Nella stessa direzione va il potente ritorno alla
legittimazione localistica e alle comunità inventate: è ormai
diventato un case study significativo l’uso retorico che la
Lega Nord fa della cosiddetta Padania, una vera e propria «invenzione
della tradizione» pensata per servire gli interessi regionalistici
ed economici di alcune fasce di comunità regionali. Ma non è che un
esempio di una costellazione di fenomeni in cui l’identità
culturale, con annesse mitologie, viene brandita come una clava per
servire interessi politici. L’integralismo islamico si serve
sostanzialmente delle stesse logiche, additando la purezza di un
Islam ideale e immaginario, che nella storia non si è mai dato, ma
il cui potenziale di riscatto si dimostra nella forza di propagazione
in aree geografiche che versano in situazione di grave crisi
politica, culturale ed economica.
Con l’età della globalizzazione i movimenti di
spossessamento dell’identità (integrazione transnazionale
politica, economica, culturale) sembrano provocare per reazione una
chiusura di segno uguale e contrario che spinge a una torsione sulle
pratiche identitarie, intese come miti unificanti e riti di legame
per servire dinamiche politiche bisognose di legittimazione.
Studiare le teorie contemporanee del mito può
fornire spunti di analisi dei meccanismi di definizione delle
appartenenze e delle pratiche condivise nelle società globalizzate e
aiutare a svelare le tecniche di retorica della manipolazione
veicolate dai mass media.
6.
Mitologia della ragione
Un
altro aspetto del dibattito filosofico recente viene dalla Germania
negli anni settanta ed è noto come Mythos
Debatte: riguarda la
possibilità di ‘salvare il mito’, a partire dal suo potenziale
umanistico, emancipativo e rischiaratore, non necessariamente
compromesso con l’irrazionalismo ma anzi portatore di una forma
propria di razionalità.
Platone
era stato il primo a voler usare miti educativi e funzionali allo
stato ideale (Repubblica,
Leggi)
contro la degenerazione della talassocrazia ateniese, così come il
movimento dei pre-romantici di Tubinga e Jena sognava una nuova
«mitologia al servizio delle idee» (Das
älteste System-programm des deutschen Idealismus)
in grado di risanare la frattura tra Stato e Società tipica del
moderno. Fin
dall’antichità è noto il valore del mito e la sua capacità
umanistica di «guarigione» dalle crisi di senso che il nichilismo,
il «più sgradevole degli ospiti», sembra portare con sé.
Nei due
esempi citati vi sono sullo sfondo due differenti crisi
etico-politiche, l’Atene del IV secolo o l’Europa
post-rivoluzione francese: in entrambi i casi vecchie fedi subiscono
erosioni e perdono legittimità sotto gli effetti di nuove dinamiche
economiche e nuove prospettive culturali, così le antiche memorie
vengono riattivate e rinnovate da filosofi che vogliono usare il mito
come ‘utopia della ragione’. Ma è stato osservato che in
entrambi i casi vi sia il rischio di fornire idee alla
tecnicizzazione del mito: Platone è stato accusato di essere il
padre dei totalitarismi e il romanticismo tedesco la culla del
nazismo. Al di là della radicalità o della effettiva validità di
certe ipotesi storiografiche, la conquista del potere è
effettivamente in grado di sfigurare e rendere mostruose anche la più
sincera della intenzioni, e ciò che sembra buone per gli
intellettuali nella prassi politica si trasforma in un precipitato
differente, sfigurato e semplificato.
Sembra
così, secondo autori come Blumenberg, Frank, Marquard, che l’unico
modo di far valere la mitologia nel novecento sia nella letteratura e
nelle varie forme di narrazione.
Che
la letteratura sorga da forme di secolarizzazione di contenuti
mitologici è noto ed accettato: dai tempi di Apuleio e del romanzo
ellenistico, fino alla modernità occidentale e al romanzo borghese,
la narrazione dell’interiorità, quella dell’autore che si
rivolge alla riflessione sull’interiorità percorre questa strada.
La creazione diviene sempre più la ricezione articolata e poietica
di un flusso continuo di topoi, figure e tematiche in continua
ridefinizione. Parlare di mitologia in senso di alleggerimento dal
legame con il sacro e dalla funzione fondazionale significa allora
fare appello a quel potenziale
liberatorio e intrinsecamente illuministico del mito, il suo essere
luce dell’utopia, che proprio perché mai venuto alla luce ha
ancora il vantaggio di non essere corrotto. Come il racconto nella
notte dei tempi liberava dalla paura del buio e dall’assolutismo
della realtà, sconosciuta e incontrollabile, così la funzione del
mito sembra essere quella di poter ancora emancipare da nuove forme
di terrore e assolutismo e di rendere più facile la vita per gli
uomini.
Privo
di una dimensione di fondazione metafisica o politica il mito non si
oppone specularmente e in modo ingenuo alla ragione, ma si
fa ragione
esso stesso» (Cometa, Mitocritica).
Le cosidette mitologie
della ragione
appartengono alla ragione, in quanto indagano e riconfermano la
soggettività e l’umano all’interno del discorso mitico che
altrimenti tenderebbe a dissolverla. Si tratta in sintesi di far
valere la contrapposizione tra la Urmythologie
(mitologia dell’origine) e dall’altro la Dichtermythologie
(mitologia
poetica), ovvero la rivalutazione del mito come «sostanza
dell’essere e del suo inveramento nella storia» contro le
mitologie della ragione come riscrittura poetologica delle fabulae
con valenza comunicativo-sociale» (Frank 1982, Cometa 1989).
Rifiutando
il mito come legame con l’essenza religiosa dell’universo e al
già-stato, e come fonte di fondazione di ogni accadere, la
narrazione può essere ancora una sorta di utopia estetica come
occasione d’avventura in territori non strettamente riducibili alla
razionalità, ma altrettanto umani e necessari allo sviluppo armonico
dell’umanità. Così va
inteso l’uso della mitologia, del rapporto con una tradizione
culturale, che viene fatto ad esempio nell’opera di Thomas Mann,
che nel ciclo di Giuseppe si rivolge al mito biblico in modo ironico
o, nell’opera di Brecht, che rilegge le tragedie ma inserisce
l’estraniamento: sono forme che mantengono un equilibrio tra il
veicolare significati forti e la necessaria distanza tra opera e
lettore.
Credo
che vadano in questo senso le riflessioni di Calvino sul romanzo nel
Novecento nelle Sei lezioni
per il terzo millennio, in
modo tale da poter salvare attraverso la qualità della letteratura
il mito. È lo spazio che separa la realtà dalla finzione che
salvaguardia la caduta dell’allegoria in idolatria.
Ogni
opera d’arte (letteratura, cinema, teatro etc) in quanto discorso
comunicativo dovrebbe cercare di stare in equilibrio tra i due
diversi e opposti rischi, quello della caduta nell’irrazionalità
emotiva e nell’immedesimazione che non fa distinzioni e quello
della razionalizzazione didascalica e moralistico-ideologica che
fornisce ricette semplificate. Tale insomma da permettere a chi
ascolta di essere capace di ascoltare le narrazioni, senza mai
smettere di riflettere, in stato di veglia, sull’emozione che il
mito genera. E di lì partire per arrivare altrove, per un modo di
essere alternativo all’agire strumentale della società tecnica,
strategico e subordinato a economia ed amministrazione, come
correlato di una teoria multiculturale della democrazia basata
sull’accordo discorsivo degli interessati, nello spazio pubblico
del dialogo e nelle forme del pluralismo, del rispetto e
dell’ascolto.
La
«macchina mitologica» guidata in modo non ideologico non potrà
generare valori, ma almeno li potrà solo servire. I valori sono già
nella storia e nelle vicende umane che li hanno forgiati: diritti
umani, costituzioni, protocolli sull’ambiente e a favore degli
animali, per una prospettiva democratica e progressiva in senso
ecologico e planetario. Ora si tratta di salvaguardarli.
Si
tratta insomma di pensare che la mitologia possa ancora affermare il
primato del non essente
su ciò che è,
nelle forme di un’etica dell’irrealtà che dice ciò
che potrebbe essere.
Se il mito è dappertutto è perché non
possiamo farne a meno. Nel rifiuto della dimensione metafisica che
sottostava al mito, l’unico modo possibile per accostarsi alle sue
forme contemporanee e forse servirsene sembra essere riconoscerne la
sua significatività, per farla vivere in modo leggero, ironico e
critico: come materiale per la produzione di arte ‘dell’uomo
sull’uomo’ allora il mito potrà ancora conservare una dimensione
critica, mostrando nel presentarsi quanto di costruito c’è al suo
interno, opera e backstage al tempo stesso.
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