venerdì 20 settembre 2013

Cefalonia. 7tantaResistenza


i miei archivi, sulla strage di Cefalonia. c'è la scuola media intitolata ai suoi caduti nel quartiere da dove vengo.




Cefalonia, 14-24 settembre 1943

Gli avvenimenti di Cefalonia


Enrico Manera

Quando l’8 settembre 1943 viene reso noto l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, il paese e le forze armate precipitano nel caos. Di fronte al tergiversare delle autorità italiane, che continuavano a rinviare l’annuncio dell’armistizio, la notizia è diffusa da Radio Algeri (controllata da angloamericani e da francesi degaullisti) alle 18,30. Solo in serata, dopo ore di silenzio, Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, in fuga verso Brindisi, fanno diffondere dalla radio un comunicato in cui l’armistizio è confermato. Alle forze armate e agli apparati amministrativi dello Stato non vengono date indicazioni di comportamento, se non quella di cessare in ogni luogo le ostilità contro le forze angloamericane e, ambiguamente, di difendersi contro attacchi provenienti «da qualsiasi parte» (sono le cosiddette ordinanze OP 44 e 45). Privi di direttive precise, i reparti del regio esercito iniziano a sbandarsi. Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre le unità dell’esercito tedesco, calato in forza nel paese dopo il 25 luglio, cominciano a disarmare le truppe italiane e a occupare punti strategici, aree industriali e vie di comunicazione. Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle opposizioni, comunica la costituzione del Comitato di liberazione nazionale, lanciando un appello alla lotta e alla resistenza, senza nascondere la richiesta di sostituzione del governo in carica, della fine della monarchia e dell’istituzione della repubblica.
Per le truppe italiane fuori dal territorio nazionale, incapsulate dai reparti tedeschi che ne avevano praticamente accerchiato la maggior parte nelle settimane successive la caduta di Mussolini, la situazione diventa drammatica. Nell’isola di Cefalonia, nel mar Ionio, occupata dal regio esercito dalla primavera 1941, dopo la resa della Grecia di fronte all’aggressione italogermanica, è stanziata un po’ più della metà (11 700 tra soldati ed ufficiali) della divisione «Acqui», assieme al suo comandante, il generale Antonio Gandin; il resto (circa 10 000 uomini) è sulla vicina isola di Corfù. Il 14 settembre 1943 i militari italiani a Cefalonia, dopo una consultazione interna che coinvolge ufficiali e soldati, rifiutano di obbedire all’ordine dei tedeschi di consegnare le armi e di arrendersi, e si apprestano a resistere con le armi (non senza, nel frattempo, aver fucilato cinque greci che avevano manifestato in pubblico contro l’occupazione italiana che si protraeva da oltre due anni). Di fronte al rischio di un collegamento tra le truppe britanniche che nel frattempo hanno raggiunto Brindisi e le unità italiane che continuano a tenere diverse isole del Dodecaneso, i comandi tedeschi decidono di attaccare Cefalonia e Corfù e di applicare l’ordine, emanato il 10 settembre dal Comando supremo della Wehrmacht (OKW), secondo il quale gli ufficiali italiani che avessero dato ordine di resistere dovevano essere fucilati. La battaglia che ne segue si conclude tra il 22 e il 24 settembre: 1300 soldati e ufficiali italiani muoiono durante negli scontri, oltre 5000 vengono fucilati dopo essersi arresi, altri 1400, fatti prigionieri e caricati su alcune navi, scompaiono in mare. Dei circa 4000 sopravvissuti, 2500 verranno trasferiti nei campi d’internamento militare in Germania, mentre gli altri saranno utilizzati a Cefalonia come manovalanza coatta al servizio dei tedeschi fino allo sgombero dell’isola da parte della Wehrmacht, nel settembre 1944. Solo un piccolo gruppo di ufficiali e soldati riuscì a sottrarsi alla cattura e ad unirsi alle forze della Resistenza greca operanti nell’isola.
Se Cefalonia è il caso più noto, nella convulsa fase di sbandamento caratterizzata dall’assoluta assenza del re Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali in fuga (è il caso di ricordare che la mancata dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo italiano fu presa a pretesto dalle autorità civili e militari tedesche per dichiarare «franchi tiratori», e perciò passibili di fucilazione, quei militari italiani che avessero rifiutato di cedere le armi), gli episodi di resistenza che hanno come protagonisti membri dell’esercito italiano sono stati numerosi, da Corfù (anche in questo caso per opera degli uomini della divisione «Acqui») a Lero, a Scarpanto, a Spalato, a Barletta, al Moncenisio.
Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti di Cefalonia hanno promosso attivamente una mobilitazione per ottenere giustizia nei confronti dei 31 militari tedeschi responsabili dell’eccidio, che a Norimberga era stato definito «una delle azioni più arbitarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato». In quella sede il generale Hubert Lanz, comandante del XII corpo d’armata da montagna, in cui erano inquadrate le unità responsabili della strage di Cefalonia, era stato condannato a 12 anni di carcere, di cui però solo cinque scontati. Le pressioni poc’anzi ricordate indussero all’inizio degli anni Cinquanta il Tribunale militare territoriale di Roma ad aprire un duplice procedimento, per «omicidio di prigionieri di guerra» contro gli ufficiali della Wehrmacht, ma anche, per «cospirazione e rivolta», contro 28 ufficiali italiani sopravvissuti che erano stati tra coloro che più attivamente si erano adoperati per convincere Gandin a resistere! Nel 1957 questo secondo gruppo fu assolto con formula piena, ma di una sentenza analoga avrebbero beneficiato, nel 1960, i tedeschi. L’andamento del processo fu pesantemente influenzato dalla situazione politica internazionale, che indusse le autorità politiche occidentali a sostenere la tesi di una Wehrmacht sostanzialmente immune da responsabilità nelle stragi naziste, totalmente addossate alla SS ed alla Gestapo, per favorire il riarmo della Germania in funzione antisovietica. Furono in particolare due ministri del governo Segni nel 1956, il liberale Gaetano Martino e il democristiano Paolo Emilio Taviani a impegnarsi in tal senso. Recentemente Taviani, intervistato da «l’Espresso», ha ricordato che «la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise […] l’Unione Sovietica stava invadendo l’Ungheria con tutte le ripercussioni che chi ha vissuto in quel periodo conosce bene».
La rivalutazione del caso Cefalonia da parte del presidente della repubblica Ciampi costituisce solo l’ultimo dei segnali di attenzione verso quei drammatici avvenimenti da parte della storiografia antifascista, dell’associazionismo democratico di ogni colore e di chi aveva combattuto per la Liberazione.

«l’Unità», 11 maggio 2001



La memoria di Cefalonia e la malafede del centrodestra


Brunello Mantelli

«I soldati che combattevano nella divisa, con le stellette, e sotto la bandiera del Regio Esercito, per fedeltà a un giuramento e alla Patria, non avevano i requisiti del Partigiano che si batteva contro questi valori, e magari per altri non meno nobili, ma «di parte», come del resto diceva la sua qualifica, non di patria. Ecco perché i caduti di Cefalonia non potevano entrare nel sacrario della Resistenza. Ne avrebbero inquinato il Dna e il blasone». Così, il «Corriere della Sera» del 1° marzo 2001 commentava la visita di Ciampi a Cefalonia, sostenendo che «in Italia se n’era ogni tanto – ma ogni tanto – parlato come di cosa imbarazzante, perché politically uncorrect». La tesi viene ribadita il giorno successivo, sempre sul «Corriere», là dove si afferma che il presidente avrebbe «corretto la storiografia antifascista», espressione di una «sinistra che pretese subito di egemonizzare la Resistenza, escludendo» i militari. Il 4 marzo Ernesto Galli della Loggia, noto commentatore del quotidiano milanese nonché professore di Storia contemporanea all’Università di Perugia, rincara la dose sostenendo che eventi come Cefalonia sarebbero «stati dimenticati o "addomesticati" per anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra». Si innesca così un dibattito che coinvolge anche altri quotidiani e che, quasi sempre, non contesta l’assunto di partenza: la resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia come episodio ignorato dalla storiografia e assente dai libri di scuola. Tale «rimozione» sarebbe da ricondursi all’egemonia della storiografia antifascista, tesa a privilegiare la resistenza dei partigiani rispetto a quella dei militari.
Ma chiediamoci: il punto di partenza di queste affermazioni è vero? Facciamo qualche controllo. Quasi mezzo secolo fa, nel 1953, esce la Storia della Resistenza italiana, pubblicata da Einaudi. La scrive Roberto Battaglia, storico dell’arte, partigiano, comunista. All’eroica resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia che rifiuta, con un «tumultuoso plebiscito in cui tutta la divisione si pronuncia per la lotta contro il tedesco», di arrendersi alla Wehrmacht sono dedicate due fitte pagine, in cui le coordinate essenziali dell’evento vengono lucidamente tratteggiate: la pressione esercitata dagli ufficiali inferiori e dai soldati sul generale Gandin, comandante dell’unità, perché venisse respinto l’ultimatum tedesco; il già ricordato «plebiscito», che porta alla stesura di un comunicato in cui si risponde ai tedeschi che: «per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione “Acqui” non cede le armi»; il successivo attacco della Wehrmacht che, vinta la resistenza degli italiani, sfocia in un massacro indiscriminato dei prigionieri. La ricostruzione, sintetica ma esaustiva, di Battaglia influenza non pochi libri di testo: «i reparti dell’esercito all’estero lottano eroicamente ma sfortunatamente contro i tedeschi, come a Cefalonia e a Lero». Così il Corso di storia per i Licei e gli Istituti magistrali pubblicato nel 1973 da Petrini, di cui è autore Guido Quazza. Come Battaglia, Quazza è personaggio emblematico: storico, antifascista e partigiano, negli anni Settanta succede a Ferruccio Parri nella carica di presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Rappresenta perciò autorevolmente la storiografia antifascista.
«L’esercito si disgregò immediatamente e solo pochi reparti non si sbandarono: a Cefalonia, dopo alcuni giorni di combattimento, la guarnigione italiana fu costretta alla resa e poi completamente massacrata». È la sintesi di altro manuale largamente diffuso negli anni Settanta: il Corso di Storia per le scuole medie superiori steso da Franco Gaeta e Pasquale Villani e pubblicato nel 1974 da Principato. Paradossalmente, a non far cenno al rifiuto opposto da migliaia di soldati ed ufficiali alle profferte di resa della Wehrmacht sono invece i libri di testo di orientamento moderato (se non francamente conservatore). Se dai manuali passiamo alle sintesi, lo spazio dedicato a Cefalonia aumenta: «A Corfù e Cefalonia gli episodi più tragici e gloriosi: i reparti italiani si rifiutarono e ingaggiarono battaglia [...] I nazisti, sopraffatte le truppe italiane in durissimi scontri […] procedettero alla fucilazione della maggior parte dei superstiti. […] A Cefalonia la decisione di resistere con le armi [fu] assunta con un plebiscito tra ufficiali e soldati», così la Storia d¹Italia 1860-1995 pubblicata nel 1996 da Bruno Mondadori e scritta da Alberto de Bernardi e Luigi Ganapini, entrambi esponenti autorevoli degli Istituti storici della Resistenza. Per quanto riguarda gli studi specialistici, mi limito a citare il fondamentale La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi e pubblicato da Mursia nel 1993. Frutto di un convegno promosso dalla città di Acqui, che – retta allora da una giunta di sinistra – aveva istituito in ricordo della divisione martirizzata a Cefalonia un premio di storia, il volume raccoglie in 349 pagine nove saggi di studiosi italiani e tedeschi (tra cui Mario Montinari, dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, e Gerhard Schreiber, dell’omologo Ufficio storico della Bundeswehr).
Pare sufficiente a dimostrare che raffigurarsi una Cefalonia dimenticata dalla storiografia antifascista è una menzogna detta per ignoranza o per malafede. In entrambi i casi con lo stesso risultato: diffondere un senso comune che, attribuendo alla sinistra e alla storiografia a essa vicina rimozioni, censure e distorsioni della verità storica (non importa se del tutto inventate, come in questo caso) punta a sminuirne il ruolo nella lotta di Liberazione e nella costruzione della Repubblica democratica.
Un ultimo appunto: forse è fatica sprecata indignarsi perché giornalisti, anche autorevoli, scrivono senza documentarsi, è purtroppo costume diffuso nella categoria; ma da personaggi come Ernesto Galli della Loggia, da anni nei ruoli del ministero dell’Università, si deve pretendere che – prima di impugnare la penna – vadano a controllare le fonti. In questo caso bastava dare un’occhiata al vecchio e ben noto Battaglia.

«l’Unità», 11 maggio 2001

Nessun commento:

Posta un commento