domenica 4 gennaio 2015

Enrico Manera. Elementi per una teoria del mito in Hans Blumenberg
in «L’Ombra. Tracce e percorsi a partire da Jung», 7/8, V, 1999/2000, pp. 95-123


[Prometeo ad Eracle] “Ma ricordati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che ti incutono. Così è degli dei. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dei spariranno”. 

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò

1. Elaborazione del mito, lavoro del mito
1.1 L’Elaborazione del mito (Arbeit am Mythos) di Hans Blumenberg, preceduta dal saggio Wirklickeitbegriff und Wirkungspotential des Mythos, contributo che ha inaugurato il dibattito contemporaneo sul mito del gruppo di studio di Poetik und Hermeneutik, è stata definita come “la più complessa e monumentale sintesi sul mito del secondo Novecento”, un’opera che “non è solo una riflessione sul mito e sulla mitologia”, ma è soprattutto una moderna “filosofia della mitologia”. Nel pensiero di Blumenberg, che si muove in una dimensione estetica e antropologica al tempo stesso, il mito non viene definito, se non a partire dalla sua funzione che è quella di “depotenziare”, distanziare, esorcizzare e anche obliare la realtà e il suo carattere assoluto costituito dalla violenza della legge evolutiva. Il raccontare storie — miti, appunto — sembra essere la presa di distanza dell’angoscia senza nome connessa all’esperienza del mondo fatta dall’essere umano fin dal suo primo apparire sul pianeta; la razionalizzazione del puro dato fenomenologico nell’emozione articolata della paura che può diventare, dopo, anche bellezza.
La metafora e il mito, sono modi originari di rivolgersi, orientarsi e disporsi nei confronti della realtà, come atteggiamenti indeducibili che si assumono ancora prima di ogni posizione riflessiva; essi “sono sempre al “lavoro”, costituiscono l’orizzonte di intellegibilità dei problemi nuovi, aiutano a passare oltre gli imbarazzi della mancanza di senso” e a condensare infondate autoevidenze. Nel pensiero blumenberghiano la metafora si configura come quadro tropico di riferimento del pensiero e il mito si rivela opera del logos; entrambi sorgono dal retroterra del “mondo-della-vita” (Lebenswelt) e ne sono indissolubilmente connessi. L’Elaborazione del mito ci parla del compito urgente connesso da sempre alla vita umana come “essere-nel-mondo” che consiste nel distanziare la nuda realtà, dotandola di qualcosa che da sola sembra proprio non avere: un senso.

1.2 Come evidenziava Gianni Carchia nell’introduzione a Elaborazione del mito la riflessione blumenberghiana si pone contro ogni visione illuministica che colga nel mito solo ‘oscurità’ e ‘accecamento’ della razionalità, così come contro ogni posizione romantica che veda nel mito solo ‘gioco’ e ‘poesia’. Contro il presupposto comune a queste due posizioni, ovvero che si dia una originarietà del mito con possibilità di accesso immediato alle sue fonti, Blumenberg si colloca in un orizzonte ermeneutico: a fronte dell’impossibilità di risalire alle origini, non si può far altro che muoversi ermeneuticamente nella “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte) in cui nel processo di ricezione storica ogni dato d’origine si rifrange, si complica, si distorce.
La linea madre dell’analisi filosofica del mito si snoda sul doppio significato di Arbeit, “lavoro”, che il mito compie, depotenziando l’effettività del reale, distanziato, esorcizzato e posto in condizione di non nuocere; è in questo senso che si può parlare di Aufklärung, nel suo senso originario di “rischiaramento”, in Blumenberg: il logos attraverso il mythos svolge la funzione di dare un ordine al caos. Con il lavoro del mito si conquista la distanza dalla paura (Terror), situazione emotiva della coscienza umana posta di fronte alla realtà dei primordi. Carchia ha definito la posizione di Blumenberg una radicale “metacritica dell’illuminismo”, in quanto il rischiaramento della condizione umana non passa attraverso la demitizzazione, impossibile e inaccettabile, quanto piuttosto attraverso l’identificazione della stessa “attività rischiaratrice con il processo di autonomizzazione della sfera mitica”.
Il termine Arbeit è fatto valere anche nel senso di “elaborazione”, che è il modo di essere del mito, che vive del e nel suo essere continuamente ricevuto e rielaborato in una incessante produzione di qualcosa di sempre nuovo, anche se non completamente estraneo: la produzione non è che ricezione articolata e poietica. Contrassegno del mito è la “rinarrabilità” di tutte le storie, la peculiarità di offrirsi alle molteplici interpretazioni ed esserle tutte perfettamente: il suo altissimo livello di significatività permette di poter fornire senso sempre nuovo e diverso. La narrabilità di un mito implica una certa stabilità del suo nucleo, che coincide con la possibilità di riconoscerlo, ma la realizzazione del processo di “ricezione produttiva”, che è la vita stessa di ogni mitologema, è garantita da un buon margine di variabilità; schematicamente possiamo indicare come caratteri della struttura di un mitologema la costanza iconica del nucleo e la deformabilità degli elementi secondari.
Raccontare miti significa, per utilizzare una terminologia musicale, ‘variare sul tema’, con implicazioni importantissime per quanto riguarda la creazione di nuovi schemi e la sperimentazione di mezzi, tanto più originali quanto più personalizzate sono le modifiche apportate alle storie; con questo Blumenberg conferma la sua tesi sulla inesauribilità delle energie dell’immaginazione mitica. La pregnanza ricava benefici dal tempo e le significazioni del mito sono arricchite da correzioni, inversioni di segno, metamorfosi di senso: l’Ulisse-Bloom di Joyce non è estraneo all’Ulisse omerico, come all’Ulisse dell’allegoria plotiniana e all’Ulisse di Dante.
Il mito si autoalimenta, il suo senso originario diventa il senso della sua ultima ricezione. “La ricezione non si aggiunge al mito e non lo arricchisce, ma il mito ci è tramandato e ci è noto solo nel fatto di trovarsi già nel processo di ricezione”.

1.3 Le metamorfosi interne del nucleo del mito e la polisemia della metafora arricchiscono il linguaggio, ne esaltano la funzione euristica e formano la base della condivisione di una cultura. Il mito e la metafora sono sempre al lavoro e sono il prodotto di quel horror vacui che sembra accompagnare da sempre il cammino dell’essere umano: entrambi sono sintomo e cura del disagio provocato dalla mancanza di senso (Sinnlosigkeit), in quanto il senso del mondo non è dato dalla realtà ma è inerente all’esistenza umana. Il mito è ciò che, per eccellenza, può essere eternamente riempito di senso, a partire dalle direzioni che sono già da sempre espresse nei nostri modi di riferirci al mondo, ovvero le metafore. Il mito ‘lavora’ soltanto nella misura in cui è elaborato; offre senso solo se gli si concede di offrirlo. Allo stesso tempo, però, la condizione imprescindibile per lavorare sul mito è quella di “avere già dietro di sé il lavoro del mito”, ovvero rendersi conto che tutto ciò che conosciamo è il mito che è già entrato nel processo di ricezione. In virtù di questo carattere di sfondo sempre presente, contrassegno dell’insieme dei mitologemi, sembra impossibile la realizzazione di un mito ‘ultimo’, che esaurisca il potenziale della forma: non si darà mai, dunque, ‘un mito della fine di tutti i miti’. A sancire l’impossibilità di una fine del mito concorre l’idea blumenberghiana che esso sia, per intero, opera del logos; fino a quando vi sarà la necessità di depotenziare lo strapotere della realtà ci sarà il mito; finché l’essere umano cercherà spiegazioni per l’inspiegabile racconterà delle storie. Blumenberg dimostra come i linguaggi della metafora e del mito non siano affatto più poveri di significato rispetto al codice scientifico-descrittivo; non si avverte un incremento di chiarezza e di intelligibilità qualora si usi il linguaggio della scienza piuttosto che quello mitico o metaforico, poiché non esiste una transizione da un presunto, confuso mondo-della-vita a una distinta e salvifica teoria, ma piuttosto resta valida l’ipotesi di una fruttuosa coesistenza. Non bisogna pensare il rapporto tra mito e ragione in termini di complementarità in quanto il mito non è quel serbatoio di colore da cui la grigia ed esangue ratio scientifica attinge per restituirsi brillantezza e vigore concettuale; il mythos non è l’opposto del logos ma è una sua particolare e indipendente manifestazione.
Lontanissimi dall’essere strutture pre-categoriali provvisorie, metafora e mito costituiscono quel substrato che è l’estremo limite dell’insondabile, sul quale poggiano saldamente tutte le altre manifestazioni dell’essere umano in quanto dotato di autocoscienza.
La filosofia della storia sottesa dalla storia della metafisica ci ha consegnato nella formula “dal mythos al logos l’idea del mito come la prima tappa di un percorso che dall’irrazionale infanzia dell’umanità arriverebbe fino al suo opposto, ovvero una ragione adulta e matura, incentrata sulla scienza e sulla filosofia, come razionalità dispiegata che da Cartesio si spinge fino all’illuminismo come momento più aggressivo e critico. Nella sua autocoscienza moderna e razionalista “il logos presenta il mito come qualcosa che ha compreso e catalogato, come se già esistesse il museo”; esso “ha addomesticato la realtà arcaica anche nel tempo e la amministra come un antiquario”. La presunta antitesi di mito e ragione è una “tarda e cattiva invenzione” che rinuncia a considerare la funzione del mito nel superamento dell’estraneità arcaica della realtà come una funzione razionale.

1.4 Partendo dalla nozione di “forma simbolica” e dal relativo concetto di “funzione” formulato da Ernst Cassirer, si incontrano le influenze sull’opera di Blumenberg che sembra voler costruire “una nuova filosofia delle forme simboliche che unisce il mito al logos, le metafore ai concetti [...] in una storia della cultura che si presenta solcata da miti di lunga durata”. Per Cassirer e per Blumenberg, mythos e logos assolvono la stessa funzione di strutturazione della realtà, ovvero danno senso, spiegano il mondo e la vita; ma per la filosofia neokantiana, il mito è lo strumento più adatto per resistere in un mondo in cui la teoria non ha fatto ancora la sua comparsa; il mito è “il vicario di una ragione che non può accontentarsi di questa prestazione, e che alla fine la giudica con le categorie con le quali la scienza comprende se stessa nello stadio della propria maturità”. In questo modo si finisce per confermare la tradizionale opposizione di mythos e logos riproponenendola come antitesi di mito e scienza. Per Cassirer il pensiero mitico ha come “schema” lo “spazio”, è ancorato a una sfera primitiva di sensazione, intuizione di sentimento e affetto, di cui il mito come racconto è espressione nel tempo; è un evento temporale che presuppone un dispiegarsi evolutivo, un progressivo svincolarsi dalla forma sensibile fino allo spirito creatore. La scienza risulta superiore, in quanto ultimo grado di perfezione, poiché il suo avere come schema il “tempo-numero” garantisce l’emancipazione dalla sensibilità; è per questo motivo che il mito risulterebbe ancora un qualcosa di fermo allo stadio arcaico che presuppone il bisogno di una successiva obliterazione rispetto alla sfera della sensibilità che lo ha costituito.
È inesistente in Blumenberg una dimensione di sviluppo progressivo interno in stadi; il mito non ha quel carattere primitivo presente anche in Lucrezio e Vico. La falsa alternativa mythos/logos è affermata in modo decisamente più radicale nei termini di un grave equivoco dalle gravi conseguenze; il mito non è che una particolare e indipendente manifestazione dello stesso logos, che di fronte al mondo-della-vita compie perfettamente la stessa funzione della scienza, differenziandosi nel suo linguaggio e nella precisione connessa alla previsione di fenomeni. La capacità apotropaica della teoria capace di rendere l’osservatore libero dal mondo in virtù di un certo distacco — che garantisce sicurezza — è il frutto dell’indatabile e interminabile lavoro del mito.
Con la possibilità della previsione, come capacità di trasformare lo straordinario in ordinario, la scienza non fa altro che rioccupare posizioni identiche a quelle mitiche. Mythos e logos hanno la stessa dignità e hanno radice comune nella meraviglia e nello stupore primigenio; ma se il mito conserva e custodisce in sé l’immemoriale per aprirsi al futuro e alla trasformazione, la scienza si è rivolta sempre in avanti e nel fare ciò ha distrutto il suo stesso passato e cancellato le tracce della sua genesi.
Cassirer non si allontana di molto dalla concezione ingenua del mito come ‘essere dell’origine’, mentre la prospettiva blumenberghiana risulta invece rovesciata e il suo interesse è volto non tanto a un’origine, che come tale non si dà mai, ma alla sua ricezione; la presunta origine del mito rivela solo cosa diventa possibile per la prima volta, nel momento in cui è superato. Se Cassirer dunque considera il mito dal punto di vista del terminus ad quem, per Blumenberg, per comprendere la qualità originaria del lavoro del mito, esso deve essere descritto dalla prospettiva del terminus a quo; il criterio dell’analisi del suo funzionamento diventa allora l’“allontanamento-da” e non l’“avvicinamento-a”. “Produzione e ricezione sono equivalenti, dal momento in cui la ricezione sia stata capace di incominciare ad articolarsi. Il problema non è dunque affatto quello di “riconquistare un senso perduto”; si corre altrimenti il rischio di cadere in un mito della mitologia. L’originario resta un’ipotesi, la cui sola base di verifica è la ricezione”.
Il tema dell’immemoriale ci rimanda all’influenza su Blumenberg di Jacob Burckhardt, il quale ha sostenuto che i miti possono sorreggersi e dispiegarsi in forza della dimenticanza della loro origine. Il mito sorge dalla forza dell’oblio e svolge la sua funzione distanziante e depotenziante verso la realtà come risorsa di un’umanità che nel percorso “dall’orrore alla bellezza”, ha voluto dimenticare il significato primitivo delle figure con cui ha tratteggiato il reale, esorcizzato, allontanato e posto nella condizione di non nuocere.
Analoghe considerazioni, ancora più radicali, possono essere fatte sull’opera di Schelling, contraddistinta in tutto il suo arco dall’interesse per il mito. Le strutture mitiche non possono essere pensate in termini di invenzione; “esse non discendono da un’elaborazione artistica, da un lusus ingenii, ma da una necessitas, ovvero da una coalescenza insopprimibile al linguaggio e alle forme di vita”. La mitologia in Schelling appare come un corpo di rappresentazioni che emergono in modo compulsivo nella coscienza, sorprendendo la ragione, “affetta” e “invasa” dalla divinità, colpita da una sorte di stupor. “La soggezione al mito ha perciò qualcosa di inconcepibile per la coscienza, è la conseguenza non voluta e non prevista di un movimento che essa non può revocare. La sua origine risiede in una regione cui, una volta strappata da essa, la coscienza non ha più accesso. Il primo evento accaduto, l’accidentale, si trasforma in necessario e assume subito la forma dell’ineludibilità”. La parola tedesca Unvordenkliches, che è resa in italiano con ‘immemoriale’, deriva da unvordenklich (letteralmente ‘imprepensabile’), ed è estremamente significativa su due piani; sia per quanto riguarda il tempo, per cui le figure mitologiche risultano irriducibili al ricordo, sia per quanto riguarda l’antecedenza alla riflessione e al pensiero nella dinamica di soggezione teopatica. “Unendo questi due strati di senso, Schelling definirà la mitologia “la religione immemoriale, ossia antecedente al pensiero, del genere umano””.
Il mito prima di essere una “forma simbolica” è una “forma in generale” della determinazione dell’indeterminato” e, in senso antropologico, una forma dell’autoconservazione e della stabilità del mondo.

1.5 Mito e culto appaiono da sempre reciprocamente connessi e se annosa è stata la questione di quale fosse la causa e quale l’effetto è legittimo chiedersi se siano effettivamente separabili; per quanto la ricerca attuale tenda a escluderlo è possibile comunque distinguerli e articolarli in sequenze temporali di segno inverso. Secondo Schelling, Lévi-Strauss, Durkheim e Cassirer esisterebbe un “pensiero selvaggio” pre-mitologico, con un bassissimo grado di simbolizzazione e differenziazione, di tipo “sostanzialistico”, dominato dall’idea di partecipazione immediata alla sfera del sacro, e legato alle nozioni, classiche quanto discusse, di tabù, magia, totemismo.
Il mito ha invece una struttura “bipolare”, perché ricollega (re-ligit) qualcosa di dato a qualcosa che non lo è, tende a legittimare e a giustificare un polo profano mediante il ricorso a una fondazione superiore e soprannaturale, ovvero collegandolo a un polo sacro; nella forma linguistica il racconto mitico ha carattere narrativo e distanziante di cui va sottolineato l’aspetto esorcistico. 
L’aspetto decisivo sembra però essere l’azione, l’atto simbolico rituale, il culto come presenza immediata e come partecipazione attiva alla sfera del sacro. Blumenberg cerca di interpretare la genesi dei culti sulla base della biologia evoluzionistica, in cui l’uscita dallo stato animale si configura come passaggio dalla natura alla libertà: la sicurezza un tempo fornita all’uomo dagli istinti, sospesi nell’uomo ‘libero’, deve essere compensata per mezzo di azioni simboliche. L’istituzione di un rapporto con la natura mediante azioni libere coincide con il sorgere della cultura.
Il rito sarebbe quella forma di controllo della realtà esterna, in cui la trasformazione simbolica non raggiunge ancora il livello del linguaggio, diventando trasposizione dei processi di natura ritmica, sia dell’essere umano che della natura, in atti rituali ordinati, azioni corporee e/o linguistiche; una gamma di manifestazioni che va dai movimenti di danza a vere e proprie liturgie più complesse. Il primo accesso all’affidabilità dell’ambiente fu il ritorno quotidiano e annuale dell’identico; l’affidabilità trovata nella ripetizione fu reinventata nella ripetibilità.
Il mito presuppone il linguaggio e in quanto bipolare-distanziante è escluso dalla partecipazione diretta poiché gode di quella distanza conquistata. Come tale non sarebbe che un “secondo utero” destinato a proteggere per qualche tempo l’essere umano, nato troppo presto e ancora immaturo: se il rito in quanto azione è contatto diretto con il sacro, il mito articola nel tempo, attraverso il linguaggio e la narrazione di storie, ciò che nel simbolo è atto vivente.
Blumenberg e altri autori, tra cui Cassirer, tendono però a non tracciare un confine così netto tra strutture “magico-sostanziali” e “mitico-bipolari”, “in quanto il primo strato della tradizione orale e letteraria risale a quel periodo in cui il mito si impadronisce della forma intuitivo-sostanzialistica, dando così origine a forme miste”. Questa è la fase di passaggio in cui, seguendo Blumenberg, si prepara la “divisione arcaica dei poteri”, in cui le divinità cominciano a differenziarsi; l’azione simbolica — la festa, l’atto cultuale — comincia a ricoprirsi di discorsi destinati a commentarla; ne è un esempio il mito del ratto di Persefone, in cui si rispecchia la natura periodica del rituale; qualcosa di esistente viene messo in relazione a un evento del lontano passato.

2. Il mito come depotenziamento dell’assolutismo della realtà
2.1 I primordi della vita del genere umano sono caratterizzati dal presentarsi di un “assolutismo della realtà”, ovvero come lo stato di cose per cui “l’uomo quasi non controllava le condizioni della propria esistenza e, ancora più importante, semplicemente credeva di non controllarle”.
Sulla base delle più recenti e accreditate teorie sull’antropogenesi si può parlare di un “salto situazionale” che spinse i primi uomini, avvantaggiati dal poter stare eretti su due gambe, ad abbandonare una forma di vita più protetta per sfruttare fino in fondo la nuova possibilità di orientarsi nel mondo: l’orizzonte lontano, prima celato e accuratamente evitato, si trasforma nel “permanente stare-in-attesa di cose fino a quel momento sconosciute”. La conquista della posizione eretta e della verticalità coincide con un sottrarsi alla specializzazione e con il naturale coalizzarsi dei ‘cacciatori’ e delle ‘madri’; la foresta viene abbandonata per la savana soddisfacendo l’esigenza di procurarsi il cibo, la caverna diviene un riparo sicuro per tutto ciò che a che fare con l’abitabilità. Caratteristica dell’essere bipede è l’aumento di visibilità e percepibilità, sia nel senso soggettivo che oggettivo, come esposizione al rischio della vita. Alla necessità di far fronte all’intero orizzonte della realtà, ai suoi pericoli e alla sua ambiguità, l’uomo risponde con un atteggiamento di attesa e di tensione: vive nell’“angoscia” (Angst). Se l’animale reagisce agli stimoli puntuali fuggendo, ora invece l’essere umano si trova dinanzi a infinite fonti di paura (Terror), il cui carattere di permanenza come “la totalità delle direzioni dalle quali qualcosa può sopraggiungere” rende indispensabili mezzi più efficaci della fuga. L’angoscia prodotta dall’indeterminatezza e dalla non-specificità del pericolo non risulta sostenibile per periodi lunghi, la tensione del sistema organico deve essere “razionalizzata in paura”. Nominare l’innominabile, spiegare l’inesplicabile, familiarizzare con il non-familiare sono gli espedienti utili a mitigare la pura arbitrarietà della realtà; l’estraneità dell’altro viene eliminata dalla metafora, il suo significato è reso accessibile raccontando storie. “Il carattere della realtà è il suo strapotere (Übermächtige)”, di cui il mito è abbattimento (Abbau).
L’arte di vivere non è altro che l’arte di dare ordine e nome a ciò che per natura non si presenta specificamente ordinato: il mondo. Qualcosa di quest’arte è ciò che Blumenberg vuole descrivere sotto il titolo Elaborazione del mito
Riempire l’orizzonte sconosciuto è un’attività vitale per allentare l’angoscia esistenziale che domina l’essere umano: di fronte alla totalità di possibilità che possono sopraggiungere è necessario anticipare, prevenire, costruirsi un margine di sicurezza, “razionalizzare in paura” appunto. L’anticipazione, però, è possibile soltanto sulla scorta della presunzione, nella sfera dell’immaginazione e del desiderio; l’“homo pictor, col suo immaginario, nasconde l’inaffidabilità del proprio mondo e nella vita magica delle sue pitture rupestri, dalla sua caverna “raggiunge e occupa il mondo”. Si contrappone, allora, all’assolutismo della realtà, l’assolutismo delle immagini e dei desideri, il puro dominio del soggetto come tentativo di opporre resistenza al terrore con forze rigorosamente spirituali. Tuttavia, sebbene operino con buona efficacia, queste forze non sembrano in grado di liberare totalmente l’uomo dal pericolo — ma anche dal desiderio — di tornare in quella fase arcaica di paralizzante terrore. La capacità di dominare il mondo, acquisita attraverso le conoscenze e l’esperienza della propria storia, si rivela per l’uomo sempre insufficiente di fronte allo strapotere della realtà: la sensazione è quella di poter raggiungere un punto critico nella storia umana, in cui si realizzi la totale supremazia del soggetto, la sconfitta irreversibile dell’altro. La costante presenza del lavoro del mito e sul mito sembra avere come brama segreta non solo l’abbattimento dello strapotere della realtà ma il rovesciamento del rapporto tra uomo e dio; da questo punto di vista la filosofia della religione sembra ripercorrere il medesimo percorso di quello compiuto dal mito, nel senso che se le teorie di Rudolf Otto spiegano e ripropongono la divisione dei poteri tipica di ogni politeismo, il rovesciamento in chiave antropologica del cristianesimo, operato da Feuerbach, è la realizzazione della posizione di dominio dell’uomo.
Ma la peculiarità della fase arcaica della storia dell’uomo sembra essere l’irraggiungibilità dell’emancipazione, sicché il ritorno alla condizione dell’abbandono “a potenze alle quali non si può contraddire” rimane una possibilità sempre praticabile. L’essere umano, secondo questa visione, è costitutivamente costretto in una condizione esistenziale di oscillazione tra assolutismo della realtà e assolutismo delle immagini: il dominio cela l’impotenza, il terrore segna un punto distanziabile, ma sempre, ineluttabilmente, troppo vicino. Non è un caso che si possa pensare il risultato di una combinazione tra il primo assolutismo col secondo come magia o culto. La volontà di dominare la realtà, ben oltre il limite documentato dalle proprie possibilità, e l’impotenza di fronte alle sue forze — la magia si serve sempre di distanze e di sostituti significativi — fondano ogni attività magico-rituale; il sogno sembra essere parte della medesima dinamica, in quanto impotenza rispetto al sognato, ai desideri che vi sono espressi, candidandosi a essere il prototipo di tutte le delusioni.
Conquistare la distanza dal terrore è ciò che si realizza mediante l’elaborazione del mito e l’indispensabile oblio che l’accompagna, come condizione fondamentale di tutto ciò che è diventato possibile al di qua dell’assolutismo della realtà, ma anche come ciò che genera nostalgia per qualcosa che si vorrebbe riavere: l’irresponsabilità dei primordi, il ritorno a una esistenza di totale abbandono al mondo.

2.2 Il lavoro specifico del mito è quello di abbattere l’assolutismo della realtà distribuendo un blocco di opaca potenza in zone di influenza, secondo una molteplicità di forze in conflitto tra loro, fino all’annullamento reciproco.
Si tratta del confinamento di una qualità diffusa di estraneità spaesante e incontrollabilità in enclaves dai confini rigorosamente sanzionati, riconoscibili anche dopo molto tempo nella permanenza del tabù: sanzione forte, sfumatura di ostilità, esagerazione puntuale dell’indisponibilità e dell’avversione con cui un tempo il mondo aveva fronteggiato l’essere umano; il quale, però, non traeva soltanto vantaggio dalla possibilità di proteggersi da una di queste forze mediante il ricorso a un’altra, ma anche dalla constatazione del fatto che ognuna di esse era “dall’inizio dei tempi, occupata e intrigata con un’altra”. Gli dei epicurei in questo senso sono la piena realizzazione del depotenziamento della realtà: la condizione di imperturbabilità che li caratterizza, la non-curanza di ciò che accade nel mondo e di ciò che riguarda la sua costituzione, rappresentano la libertà più estrema da ogni forma di assolutismo della realtà, poichè questa è del tutto indifferente.
La caratteristica principale della storia mitica è il suo essere tesa a esplorare il limite di accostabilità di queste stesse forze inaccessibili, potenzialmente fonti inesauribili di angoscia; il mito rende riconoscibile il confine oltre il quale la potenza diventa inaffidabile. Uno dei modi fondamentali di riferirsi agli dei — oltre all’adorazione — è la sfida, il topos classico della hybris, di cui Prometeo è l’icona più nota. Il culto è sempre anche uno schema per la sua inversione, come la venerazione lo è per la provocazione; bisogna saggiare l’estremo limite oltre il quale le potenze diventano vendicative e le ritorsioni inevitabili, per allargare il più possibile la sfera di realtà mitigata entro cui il sentimento umano più diffuso sia la serenità. Spostando il margine si conquista la distanza.
L’‘altro’ diventa ‘un altro’ quando acquista nome e viene sottoposto a un lavoro di tipizzazione fisiognomica: l’estraneo acquista le caratteristiche e i comportamenti della figura con cui lo si rappresenta, con lo scopo specifico di renderlo familiare. L’enorme campionario di dei-animali offre un esempio assai significativo di questo lavoro di familiarizzazione con il numinoso. L’‘altro’ è, per forza di cose, tra gli ‘altri, ma non può esistere confusione sui caratteri degli dei, perchè altrimenti non sarebbe garantita la loro unicità. L’essenza di ciascun dio è ciò che lo rende assolutamente unico e, in altri termini, è il contratto che possiamo stipulare con lui, il suo culto, ma soprattutto è ciò che “esclude la possibilità di raccontare su di lui un’altra storia oltre a quella di cui è responsabile e che ha scelto”.
Oltre ad assumere il carattere della “sovrapotenza” la divinità può assumere anche un atteggiamento amorevole nei confronti dei suoi eletti. Una linea d’interpretazione che va da Wilhelm Wundt a Rudolf Otto sostiene che il mito sia “affetto” (Affekt) convertito in rappresentazione e azione: Blumenberg suggerisce che l’intenzionalità sia lo stato di “aggregazione “raffreddato” di quelle iniziali prestazioni della coscienza che avevano condotto fuori da quel concatenamento di stimolo e reazione”. La sfera del numinoso si riempie di nomi, figure, storie, rituali, pratiche in cui si rende necessario un rapporto fondato sull’incondizionata accettazione degli uomini da parte del proprio dio, tale da garantire la salvazione; da questo punto di vista il sacrificio cristologico è la prova suprema dell’interesse assoluto della divinità nei confronti della condizione umana.

2.3 Ciò che segna l’esordio di ogni elaborazione del mito è l’“irrompere del nome nel caos del senza nome”; la pratica esorcizzante della denominazione è il primo passo dell’estenuante opera apotropaica di confinamento del terrore. L’aspetto del mito che Blumenberg sicuramente privilegia è quello esorcistico: le storie vengono raccontate per scacciare tempo, ma soprattutto la “paura arcaica”, non di ciò che ancora non si conosce (Unerkannt), ma di ciò che è sconosciuto (Unbekannt); lo sconosciuto è ciò che ha bisogno di un nome che realizzi la sua presenza e, quindi, la sua invocabilità, come possibilità di esorcizzarlo o di intaccarlo magicamente: la paura indefinibile è tanto più potente quanto più è “terrore senza nome” (Entsetzen). Se la ripetizione nella natura prescrive al rito la sua ripetitività come garanzia di affidabilità, dalle esclamazioni fonetico-linguistiche si passa ai nomi, che sono il massimo della ripetibilità, permettendo di annullare il caso e rispondendo con la produzione di determinatezza all’indeterminatezza della realtà. L’effetto immediato del dar nome è l’“invocabilità” (Appelationsfähigkeit) della potenza: per Erodoto, secondo cui i nomi delle divinità greche derivano dall’Egitto — da sempre il luogo più antico in cui è riposta la sapienza — il nome è accessibilità al dio.
L’intenzionalità dei nomi è già il correlare le parti in un tutto, attribuire agli oggetti proprietà e posizioni in un mondo. Sono i nomi che, intrecciandosi in storie, creano familiarità con le potenze chiamate in causa; la fiducia nel mondo, la prima forma di addomesticamento di ciò che è immediatamente ‘altro’ inizia con l’imposizione di nomi per l’indeterminato e con il relazionarli in storie.
Cercare di spiegare le modalità del processo di imposizione dei nomi è un tentativo vano che oscilla tra proposte la cui scelta rimane indeterminata come indeterminate sono le prove con cui si sostengono sia la tesi dell’originarietà di “dei istantanei”, formulata di Hermann Usener, che quella della provenienza “allegorica” dei nomi. Gadamer ha sostenuto l’assoluta indissolubilità di “parola e cosa in cui l’uomo parlante vive sempre”; fenomenologicamente il nome esprimerebbe l’essenza del dio che si manifesta alla coscienza.
Il nome come espressione di una facoltà o di una caratteristica, specie se attribuito a un dio, è una conquista tarda, la sua funzione primitiva e unica fu, probabilmente, quella di fare in modo che l’essere umano potesse chiamare la divinità con un mezzo la cui efficacia fosse sanzionata dalla sua appartenenza all’estraneo e dal riconoscimento del nome stesso da parte di questo. Tutto ciò risulta più chiaro se si considera che “la propensione per un sapere occulto si collega durevolmente soprattutto col principio che di fronte alla divinità c’è appagamento dei desideri solo per chi conosce tutti i nomi”; il compito di dare i nomi che Dio dà ad Adamo nel Paradiso Terrestre ne è espressione, così come avviene per ogni forma di magia, culto e per gli inizi della scienza; per Blumenberg, l’età moderna è caratterizzata dall’aver trovato un nome per ogni cosa, descrivendo il successo della scienza come possibilità di conoscere tutte le cose e in ciò ricoprendo la funzione del mito.
La possibilità di chiamare nuovamente ciascuna cosa con il proprio nome sarebbe la possibilità del ristabilimento del Paradiso, in cui escatologicamente la storia si configura come “attuazione del nome”: tutto ciò che aveva origine nel nome — il Verbo — torna al suo proprio nome.
L’importanza dei nomi all’interno dei miti è testimoniata dal fatto che essi costituiscono l’unico elemento di determinatezza della loro struttura: il mito, infatti, rifiuta la collocazione nel tempo e nello spazio, l’unica successione temporale che sopporta è quella dovuta al processo di enumerazione dei nomi all’interno di una genealogia. I cataloghi dei nomi, le lunghe genealogie esiodee e bibliche non sembrano essere nient’altro che il risultato dell’ancestrale inquietudine del mito per gli spazi vuoti e per le omissioni: la recita di questi lunghi cataloghi, pur con l’eccesso e l’invenzione dei nomi, doveva riempire il tempo e metterlo in relazione con il divino, per produrre sull’ascoltatore un effetto rassicurante e soddisfacente, colmando ogni lacuna e rendendo familiare ogni estraneità.
Effetto primario dell’imposizione dei nomi è rendere tangibile (greifbar) l’inafferabile, momento ineludibile per poterlo rendere comprensibile (begreifbar); il nome organizza l’indiviso istituendo la “divisione dei poteri”, mette ordine nel mondo in cui regna sovrana la confusione e l’indeterminatezza aprendo la possibilità di avere dei punti di riferimento, di orientarsi costituendo il proprio habitat. Da lungo tempo ormai è nota agli storici l’importanza dello studio della toponomastica, perché è una traccia arcaica che permette di individuare i primi orientamenti dell’abitabilità.

2.4 “Il mito è un modo di esprimere il fatto che il mondo e le potenze che dominano in esso non sono abbandonate alla pura arbitrarietà”.
Per meglio spiegare questo concetto Blumenberg si diffonde sull’importanza della nozione di cosmo e sui nomi dei pianeti, da sempre tautegoricamente identificati con gli dei; l’idea di eliminazione dell’arbitrio resta nell’uso che la scienza continua a fare — non senza una certa ironia — dei nomi mitologici: pianeti di recente scoperta hanno ricevuto nomi che tradiscono in maniera evidente le loro più peculiari caratteristiche. Plutone, dio degli inferi, è anche il pianeta più lontano dal sole e la sua fida e oscura luna non poteva non essere chiamata Caronte. In piccolo, probabilmente questo è la prova di un’inesauribile processo di rimitizzazione (il ritorno — eterno? — dei nomi): alle origini questi nomi erano serviti a eliminare l’arbitrio dell’assolutismo del mondo, secoli dopo sono stati utili a eliminare l’arbitrio dell’assolutismo del cosmo.
Con il mutare e il progredire della cultura sembra farsi avanti anche la consapevolezza del carattere inconcludente del sistema di denominazione-familiarizzazione, che si riduce alla fine a un semplice enumerare e connettere nomi; l’imbarazzo dell’intera mentalità mitica è espresso dalla celeberrima sentenza di Talete — “tutto è pieno di dei” — e non è certo per caso che proprio a lui per primo fu attribuito l’uso di un mezzo molto più efficace per indebolire terribili e straordinari fenomeni cosmici: la teoria.
L’aneddoto secondo cui Talete avrebbe predetto un’eclisse di sole è un tributo scientifico che sembra essere ancora miticamente significativo, poiché sembra mostrare proprio l’avvenuto avvicendamento tra mito e teoria; per la prima volta c’era qualcosa che permetteva un dominio totale dell’uomo su fenomeni cosmici fino ad allora soverchianti e in questo modo lo spazio di realtà mitigata si faceva più ampio. La teoria, con i suoi calcoli e pronostici, ha la capacità di rendere ordinario ciò che appariva straordinario. Tuttavia, puntualizza Blumenberg, gli oggetti della filosofia non sembrano essere stati definiti dal mito; semmai la funzione di quest’ultimo era stata quella di fissare uno standard di risultati al di sotto dei quali alla teoria non era lecito ricadere. L’epoca immediatamente post-mitica si doveva far carico delle domande a cui il mito aveva dato le sue risposte, ponendosi così in un atteggiamento critico-correttivo rispetto all’epoca precedente, ma applicando un metodo di sostituzione assai poco fruttuoso per un incremento del bagaglio conoscitivo; non faceva altro che rioccupare posizioni identiche a quelle mitiche in un diverso immaginario. Rimane inspiegabile il vanto dell’età moderna di aver eliminato miti e dogmi, sistemi concettuali e autorità, ovvero qualsiasi tipo di pregiudizio; l’errore di ogni illuminismo, secondo Blumenberg, è quello di attribuire a se stesso un atteggiamento finalmente serio, mancando di riconoscere il forte carattere di serietà implicito nelle offerte di sicurezza che provenivano dal mito. La filosofia si è cimentata nella critica distruttiva (Destruktion) nei confronti di contenuti mitici facili da colpire, ma proprio perciò essa ha misconosciuto i bisogni intellettuali ed emotivi che questi contenuti avevano il compito di soddisfare, e in alcuni casi si è servita ipocritamente delle interpretazioni allegoriche per sbandierare una rinnovata vitalità concettuale.
Se il bene più prezioso che una mitologia può offrire è la sua distanza dall’origine,  allora ci si deve accontentare di ciò che si può constatare dopo secoli di lavoro del mito, ovvero dell’ovvietà che caratterizza il fatto di avere e dare nomi; il che è un enorme contributo alla costituzione del nostro mondo-della-vita.
3. Dimenticare e riempire
3.1 Blumenberg tende a rifiutare la possibilità di parlare di origini; come indicazione storica preferisce l’espressione “passato remoto” e, per quanto riguarda la nascita dei mitologemi, la sua analisi verte sulle concezioni che nella storia si sono succedute relativamente all’origine e al carattere del mito. I concetti più sfruttati — sebbene siano antitetici — per descrivere ciò che originariamente caratterizzava il mito sono probabilmente quelli di “paura”, Terror, e “gioco”, Spiel: “All’inizio si trova l’esuberanza immaginativa dell’appropriazione antropomorfa del mondo e dell’accrescimento teomorfo dell’uomo, oppure la nuda espressione della passività dell’angoscia e del terrore dell’ammaliamento demoniaco, dell’impotenza magica, della dipendenza assoluta”.
La concezione di una primitiva fase poetica dell’umanità si presenta in una tradizione che va da Vico a Herder a Friedrich Schlegel; si tratta di salvare qualcosa di quei primi tempi in cui realtà e sogno non si distinguevano, qualcosa che l’illuminismo aveva voluto distruggere e che il romanticismo vorrà trasformare nella rivelazione originaria.
Proprio nel Discorso sulla mitologia di Schlegel, Blumenberg intravede un’idea del tutto simile a ciò che egli stesso intende esprimere quando parla di “distanza” conquistata dal primordiale “Terror. Elaborare “l’originaria tensione emozionale” provocata da questa irrefrenabile paura in qualcosa la cui presenza e concretezza sia immediatamente verificabile è una delle funzioni del mito; l’aspetto poetico nell’ipotesi sulla realtà originaria del mito è evidente nella figura di muse, ninfe, driadi almeno quanto è chiara la presenza dell’aspetto terrificante nelle immagini delle gorgoni, di Medusa, delle Arpie o delle Erinni. L’inavvicinabilità e l’insopportabilità di ciò che atterrisce l’uomo nel mito greco sono state concentrate nella dimensione visiva, con l’esclusione totale di quella tattile: lo sguardo di Medusa uccide pietrificando.
Per Goethe , l’altorilievo della Testa della Medusa di Palazzo Rondanini a Roma è il trionfo del classicismo, il superamento del terrore della preistoria attraverso l’arte; l’estetizzazione è centrale nel percorso che va dall’“orrore alla bellezza”. Ma l’estetizzazione è già un fenomeno tardo, reso possibile e fondato da quel ‘prima’ da cui il mito scaturisce e su cui è fondato, bloccandone poi ogni accesso.
Il rito sembra situarsi ‘prima’ nel processo di elaborazione del terrore; infatti, il rituale è quel momento in cui il numinoso viene fatto oggetto, viene mostrato, toccato, portato in processione. 
Il sacro di Rudolf Otto è interpretazione primaria della potenza sentita e postulata da un uomo che non è signore del proprio destino, ma è il caso di sottolineare che il numinoso è gia sempre e comunque “interpretazione e non la cosa stessa che è interpretata” e noi non possediamo nessuna realtà se non quella che abbiamo interpretato; il rito e il mito sarebbero interpretazioni ulteriormente secondarie che si collocano a livelli successivi.
La qualità del numinoso viene ripartita e distribuita, secondo lo schema tipico del politeismo, tra oggetti, persone, direzioni; il terrificante viene trasferito su ciò che partecipa di questa qualità e successivamente diviene istituzione regolata, con il dono a capi e sciamani di avere a che fare con ciò che agli altri è precluso.
Le due concezioni semplificate nella formula “paura e gioco” sono fondate su “proiezioni a ritroso” che presuppongono l’esistenza di versioni tarde del mito: l’errore delle mitologie filosofiche tradizionali consiste nel recidere la possibilità di una connessione “tra la storia documentabile dei mitologemi e la loro forma originaria prima di ogni storia”. Questa è una conseguenza inevitabile della rigidità di una filosofia della storia che assegna il mito a una sua propria epoca, mentre tutto quello che viene dopo può essere solo una specialità della storia letteraria e artistica. Il prodotto di una simile filosofia della storia non può che essere stagnazione del pensiero sul problema, in realtà inaccessibile, dell’origine del mito; se esso ha la sua epoca e non vive nel suo essere radicato nelle epoche, allora immediata si pone la falsa questione del suo stato originario, dimenticando così la totalità di una storia della ricezione-rielaborazione del mito “capace di sottrarsi alla semplicistica alternativa posta dagli estremi Terror e Spiel
Solo se si prende in considerazione la storia del mito — e non la sua inaccessibile preistoria — sarà per noi facilitata la comprensione delle forme mitiche di concepire le cose: queste — sembra — competono, senza affatto sfigurare, con le forme teoretiche, dogmatiche e mistiche, e possono ancora offrire un fondamentale appagamento di prospettive.

3.2 La caratteristica del mito che lo fa interagire con scienze, religione o ideologie è, con la mutuazione di un termine diltheyano, la “significatività” (Bedeutsamkeit), con cui si vuole intendere quell’“essere-apportatore-di-senso”, ciò che fa la differenza tra il mondo storico, culturale dell’uomo, organico e sintetico della finitudine dei soggetti, e un mondo oggettivo, scientifico, meccanico, analitico dove invece, secondo la formulazione del “principio di significatività” di Erich Rothacker, “l’investimento soggettivo di valore nei fenomeni tematizzati tende di norma a zero”. D’altra parte nella significatività l’elemento soggettivo può essere prevalente rispetto a quello oggettivo ma non può escludere del tutto quest’ultimo: se il mito non possedesse un riferimento oggettivo con la realtà — che non significa assolutamente una prova empirica — la sua significatività si dileguerebbe.
Il riferimento alla realtà che concorre a costituire la significatività è “lo stile-delle-cose” che ha la forma dell’ovvietà, della familiarità, dell’“è-sempre-stato-così”, non deve infatti avere l’obbligo di presentarsi come mondo scientificamente oggettivato. Ciò è un vantaggio enorme per la variazione di vecchi miti e per la simulazione di nuovi: un seguito nuovo o diverso delle vicende prometeiche non aggiunge o toglie nulla alla credibilità della figura di Prometeo; è una verità fondata sull’indecidibilità a proposito dell’esistenza o meno di questa figura, ci si deve accontentare del fatto che “è-sempre-stata-così” e che è quindi, indiscutibilmente, reale. Non è un caso che il nuovo mito simulato si serva di un repertorio consolidato, come nel dionisismo tedesco di Klages o in tanta parte della nuova spiritualità New Age, in cui talvolta si raggiunge un insostenibile livello parodistico che sa di cattiva letteratura.
Blumenberg non sembra essere lontano da Heidegger in Essere e tempo, in cui la significatività si trova associata all’“appagatività” (Bewandtnis) dell’essere-nel-mondo; l’apertura del “ci” dell’esserci è l’istituzione della significatività e costituisce il mondo umano nella sua multiforme varietà contrapposta all’obbligatoria uniformità della scienza.
La “significatività” è connessa alla “pregnanza” (Prägnanz) di cui l’uomo dota il suo mondo-della-vita, è risultato del suo inconsapevole “imprimere” (Prägen) valenze alla sua esistenza e a ciò che la contorna. Significativo, in questo senso, è il lavoro della storia quando fa grande la nostra meraviglia, offrendoci trovate alla cui possibilità non avremmo mai pensato. Ciò che è “pregnante” è ciò che si oppone alla caducità e alla dispersione, spesso al tempo. La pregnanza non sembra, d’altra parte, subirne le ingiurie, piuttosto ne ricava benefici: correzioni, inversioni di segno, ritocchi al senso del mito rinvigoriscono e arricchiscono la dimensione delle sue significazioni, il Sisifo ‘felice’ di Camus o la nuova caratterizzazione di Mefistofele in Valéry sono dei validi esempi.
Blumenberg elenca alcuni dei mezzi con cui opera la significatività: i modi della “simultaneità”, dell’“identità latente”, della “circolarità”, del “ritorno dell’uguale”, della “reciprocità di resistenza” e “intensificazione dell’esistenza” o “isolamento di una cosa”, dell’“intensificazione” e del “depotenziamento”.
Il tratto comune risiede nella “simmetria”, configurazione che esclude il caso. Gli eventi acquistano la loro significatività quando ci si presentano come inattese coincidenze, come il chiudersi di un cerchio dove tanto più la mancanza di senso è sconcertante quanto più l’investimento di significatività è maggiore: in natura, ad esempio, i casi di perfetta simmetria sono improbabili, ma alla loro presenza è difficile attribuire un carattere casuale e la tentazione di conferire un senso alla loro eccezionalità è molto forte. Anche “il ritorno all’identico” ha la caratteristica di appartenere a quel genere di cose che, accompagnate sempre da straniante ineffabilità, si presentano come ciò che è semplicemente evento.
Di nuovo, la mancanza di senso che accompagna la circolarità degli accadimenti è talmente incredibile che nasce l’insopprimibile sospetto che, invece, ci sia una straordinaria pienezza di significato: il risultato è la produzione di pregnanza.
Il fatto che una meta acquisti tanto più valore quanto più è ostacolato il cammino per conseguirla è una di quelle cose che appartengono al sostrato di ovvietà su cui è costruita la nostra esistenza; così la significatività può essere prodotta anche sotto le forme di valore e la resistenza che l’ostacolo pone è il mezzo con cui si realizza. L’immaginazione mitica, come sempre, opera con estrema raffinatezza nel dispiegare gli elementi che popolano il nostro mondo-della-vita: il tormentato ritorno di Odisseo è immagine di ogni possibile percorso difficile e accidentato e la meta da raggiungere, la patria Itaca, è il valore accresciuto proporzionalmente alla difficoltà del suo conseguimento.
Lo schema della circolarità riflette, secondo Blumenberg, un atteggiamento umano di fiducia nel mondo, dove tutte le vie sono ugualmente affidabili, perché — seppur ostacolate — sono sempre praticabili e realizzabili: il soggetto, nel raggiungere il suo obiettivo, chiude il cerchio con se stesso e la sensazione è quella del compimento, della finale realizzazione.
La struttura circolare dello svolgimento, che il mito ha prescritto tanto alla tragedia quanto alla commedia, fa sì che nel percorrere il circolo il soggetto si veda per così dire da dietro — sottratto di conseguenza all’identificazione, finché non ha raggiunto se stesso”. La chiusura del cerchio nel mito di Edipo si ha quando questi si scopre colpevole: il senso, che era chiaro sin dall’inizio, ma incompleto, si realizza presentandosi agli occhi dello stesso Edipo — ironia della sorte mitica — nella forma di una raggelante insensatezza. Anche nel caso del mito edipico abbiamo di fronte a noi, soprattutto nella versione che Freud ne ha fornito, qualcosa il cui rinnovamento si è dimostrato un ottimo servizio alla sua significatività: la teoria freudiana sul complesso edipico, con le sue idee dell’atto sessuale come ritorno nell’utero e della “pulsione di morte” come desiderio del ritorno, che si collocano nell’idea del nostos in uno stato originario nella sua più ampia accezione, ha in sé quella nuova “molteplice significatività che favorisce ogni allargamento” e la rende molto simile a una “cosmologia di livello finale” restituendo al mito il suo antico vigore. Blumenberg, d’altra parte, non può fare a meno di constatare che il successo dei miti freudiani si spiega anche col fatto che essi sono “perfette istruzioni per formulari di giustificazione”.
4. Distanze
4.1 Il mito offre alla coscienza umana la sicurezza che ciò che la soffocherebbe nel terrore è sepolto per sempre; non ha nulla ha che fare con il concetto di progresso, ma è invece il risultato di un processo orientato nel guadagno di spazio, in cui il mondo acquista l’aspetto di una sicura dimora quando si estinguono i mostri che lo popolavano. “Il mito rappresenta un mondo di storie che localizza la posizione dell’ascoltatore nel tempo in modo tale che il repertorio del mostruoso e dell’insopportabile decresce quanto più ci si avvicina a questa posizione”.
In questa dinamica si realizza la transizione dal teratomorfismo, il più lontano, al teriomorfismo, combinazione di estraneità e familiarità, verso l’eidos umano, l’immagine fisiognomica più familiare che vi possa essere; la forma umana è il risultato di un lungo processo di mitigamento, di riduzione delle minacce di cui l’uomo è il beneficiario. Le terribili generazioni arcaiche di dei discendono dal Chaos, da Nyx, da Okeanos, tutte figure dell’informe, poco raccomandabili e rispetto a cui Zeus appare, tutto sommato, mite e benevolo al punto tale da far sorgere il sospetto che alcune figure siano una tarda invenzione proprio per dare lustro al dominatore dell’epoca degli uomini. La funzione di rendere il mondo abitabile è svolta dal fatto che le figure del mito sono divenute antropomorfe, anche se una linea mortale separa gli dei dagli uomini, e la sorte di chi vede un dio o una dea è inesorabilmente segnata da una tragica fine. L’epifania del divino presso i greci predilige la forma animale e anche in figura umana il dio ha un’eco teriomorfa, soprattutto per quanto riguarda gli occhi che sembrano brillare di un bagliore trucemente ferino; il largo uso degli epiteti in Omero lascia ancora indeterminato se si possa parlare di paragone o di metamorfosi. È estremamente interessante notare che quando un dio non vuole essere riconosciuto prende un aspetto umano, e rientra nella categoria dello straniero, tanto temuto quanto rispettato dalle leggi dell’ospitalità.
Gli aspetti più originali della religione etrusca, quel nucleo più antico a cui si sovrapposero influenze elleniche fin dal ix sec. a.C., ci parlano di “una primitiva mentalità religiosa, centrata sulle forze elementari della natura e della riproduzione e in qualche modo condivisa dalle altre popolazioni dell’Italia antica”: le poche testimonianze iconografiche relative all’immaginario religioso protostorico registrano l’esistenza di una rappresentazione teratomorfica e terrifica delle potenze divine. Le numerose divinità connesse con la morte hanno un aspetto terribile e animalesco, e questi caratteri, insieme all’ambiguità sessuale, si conserveranno a lungo nella cerchia dei demoni dell’epoca più recente grecizzata, come nel caso dei molteplici ‘Caronti’, del tutto ignoti nella loro straordinaria pluralità al mondo ellenico.
Il monoteismo ebraico appare caratterizzato dalla paura della regressione al culto animale, l’Esodo sembra essere una quarantena contro la contaminazione egizia, e Mosé è talmente duro con gli adoratori del vitello d’oro da farci sospettare che la fine dell’idolatria non fu un evento facile, né rapido; il precetto dell’invisibilità di Dio e il relativo divieto di farsene un’immagine rientrano pienamente in un’ottica di totale censura e repressione in cui il rapporto con Dio passa solo attraverso il possesso del Nome e della Legge.

4.2 Nel processo in cui l’uomo trasforma la realtà in un mondo il topos dell’eliminazione dei mostri, “vale a dire intelligenze chiuse in un corpo deforme e bestiale”, riveste la medesima importanza della transizione tra animale e uomo per quanto riguarda le immagini. “Il mito mostra l’umanità impegnata nell’elaborazione di qualcosa che la incalza, che la mantiene in stato di inquietudine e agitazione” e ciò che rende vitale la funzione del mito non è la spiegazione dei fenomeni, quanto il loro distanziamento. Il mostro, con le sue caratteristiche terrifiche, un rapporto di discendenza sempre inquietante e una triste fama, rappresenta perfettamente il carattere assoluto del mondo; si potrebbe dire che è la personificazione del terrore dei primi tempi.
I mostri non sono divini, ma sono estremamente vicini agli dei, nella maggior parte dei casi discendono alla lontana da divinità arcaiche e remote come Okeanos e Nyx, Echidna, Tifone e da essi ereditano quell’oscurità e quella forma di estraniante commistione di più elementi animali. La loro collocazione è in genere in qualche luogo remoto della terra che sembrano custodire, la cui conquista passa attraverso la loro eliminazione. 
Le storie connesse con la distruzione dei mostri hanno come protagonisti gli eroi, che potremmo definire come esseri intermedi tra l’uomo e il dio; essi abitano uno spazio e un tempo non dissimili da quelli umani e pur senza essere nella storia hanno una “storicità”. L’eroe ha una “quasi esistenza” su cui cade “la luce del divino”, “stranamente mescolata con l’ombra della mortalità”, e non è casuale che il culto loro tributato abbia molte relazioni con quello con cui erano onorati gli dei inferi. Gli eroi e il loro culto sono legati alla fondazione di città, a famiglie regnanti, a stirpi nobili in quanto con le loro gesta essi hanno reso possibile tutto ciò, hanno preparato il mondo per gli uomini, loro discendenti; a loro è assegnata una determinata epoca, propriamente intermedia, tra quella divina e quella umana, al termine della quale la terra sarà finalmente sicura e abitabile.
Ci soffermeremo su un caso estremamente significativo che assurge al ruolo dell’esemplarità, parlando dell’eroe più celebre e popolare, Eracle, che ha dato vita a un ciclo di racconti, in perpetua evoluzione dall’epoca pre-ellenistica alla tarda antichità. La sua figura ha tutti i tratti comuni a ogni eroe: l’origine divina come figlio di Zeus, una nascita complicata, un’infanzia e una giovinezza segnati da prodigi, un’ingiustizia da cui riscattarsi per recuperare il posto che gli spetta, una serie di straordinarie imprese, una discesa agli Inferi, e infine la divinizzazione. Il tratto più caratteristico di Eracle è il compimento delle dodici fatiche, in sottomissione al cugino-usurpatore Euristeo, che consistono fondamentalmente nell’eliminazione o nella cattura di pericolosi mostri: il leone di Nemea, l’idra di Lerna, il cinghiale di Erimanto, la cerva di Cerinea, gli uccelli del lago Stinfalo, il toro di Creta, le cavalle di Diomede, i buoi di Gerione, il cane infernale Cerbero; rimangono fuori da questo schema solo la pulitura delle stalle di Augia, il recupero del cinto di Ippolita e dei pomi d’oro delle Esperidi, tutte avventure in cui comunque Eracle ha a che fare con qualcosa di adeguato alla sua natura. Kerényi propone di leggere le sue imprese come la lotta dell’eroe contro le epifanie della Morte, che si conclude con la discesa agli Inferi e il diritto di portare l’appellativo di “Callinico”, “dalla bella vittoria” e cita l’usanza di appendere sulle porte delle case delle invocazioni al figlio di Zeus, affinché allontanasse ogni male.
Per ritornare a uno sguardo più generale, è interessante notare come originario non sia l’annientamento del mostro da parte dell’eroe, ma il suo autoannientamento in conseguenza della prima esperienza di inefficacia. La sfinge chiude la propria carriera dopo le sagaci risposte di Edipo, le sirene vengono neutralizzate dallo stratagemma di Ulisse di tappare le orecchie dei naviganti con la cera. “I mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che ti incutono”.

4.3 La funzione del mito consiste nella possibilità di raccontare il terrore, proprio perché ormai neutralizzato e distanziato, superato nella celebrazione della sicurezza, in un processo reso possibile proprio dall’oggettivare, raccontando, la realtà. 
L’attacco di Wilamowitz al giovane Nietzsche andava ben oltre la filologia, celava un enorme disprezzo per l’idea di eliminazione dei mostri, in quanto il grande vecchio della filologia classica non poteva tollerare l’idea di un’oscurità originaria che velasse la serenità olimpica della grecità; la scoperta di una grecità sotterranea e lacerata caratterizzata dal “dionisiaco” è il primo passo verso la scoperta del fondale arcaico della realtà, ma è costitutivo della possibilità di vivere tranquilli il fatto che l’uomo tenda a dimenticare, se non a negare un passato che era un insieme di condizioni in cui non si poteva vivere. Il lavoro del mito ci conduce a considerare tutto il processo mitologico come la storia di un instancabile oblio, in un percorso che rende possibile all’uomo il fatto di avere un mondo.
Il popolo greco “ha voluto dimenticare il significato primitivo delle figure, ma non il risultato della sua domesticazione nel mito, gli dei con i quali si poteva vivere, sottomessi al fato non meno degli uomini (…)”.
L’oblio si configura come punto estremo della capacità di distanziare la realtà dei primordi e il suo carattere oppressivo.
Il concetto di distanza ha un’importanza capitale nella descrizione delle procedure mitiche e ha sicuramente un precedente nel concetto greco di teoria come osservazione distaccata e imperturbata degli eventi. In quest’ottica l’esperienza della catarsi aristotelica non sarebbe null’altro se non un passaggio attraverso gli orrori omeopaticamente dosati della tragedia con il loro conseguente, tranquillizzante, superamento.
La metafora lucreziana del “naufragio con spettatore” ha dato il titolo a un’opera metaforologica di Blumenberg, e candidandosi a essere un “paradigma per una metafora dell’esistenza” che illustra i rischi della vita umana, può essere letta nel senso di una pacificante teoria; il mare in tempesta rappresenta la natura e la società, “frutto di un’incessante lotta tra gli elementi dove il nuovo si genera con il vecchio, servendosi della sua materia e delle sue forme come di rottami di grandi naufragi”; il naufragio è l’evento tragico, il fallimento nella “navigazione della vita”. La gioia dello spettatore che contempla un naufragio non deriva dalla rovina degli altri, bensì dal fatto di essere ben distanti dalla tragicità degli eventi, così come il filosofo epicureo, simile agli dei negli intermundia, contempla imperturbato l’universo del caso atomistico. Un fondamentale contributo alla costituzione del nostro mondo-della-vita è la possibilità di osservare con tranquillità il mondo attraverso la teoria scientifica come risultato del lavoro del mito che rende la realtà finalmente avvicinabile.
Il fatto che il mito sia costituito principalmente dalla sua ricezione ci dice che anche i più antichi mitologemi sono già un prodotto del lavoro sul mito e da questa fase preletteraria “lo stesso processo di ricezione si è trasformato nell’esposizione delle modalità di funzionamento del mito”. La distanza è anche quella degli dei dall’uomo, e in questo senso vale la pena di notare come in Omero ed Esiodo il mito non sia affatto antropocentrico, in quanto l’uomo appare a margine delle storie degli dei: la realizzazione perfetta di questo processo è rappresentata dagli dei di Epicuro che non sospettano neanche l’esistenza degli uomini.
Le condizioni di familiarità sono create con l’umanizzazione, la frivolezza e la non serietà ma soprattutto abbassando il livello di potere degli dei e mitigandone la capricciosità. L’attenuazione dello “strapotere” degli dei è operata con la divisione dei poteri, ovvero il fatto che un dominio specifico sia, da sempre, assegnato al dio che ne ha, in modo tautegorico, tutti i caratteri; la divisione cosmologica concerne i regni, divisi dopo la detronizzazione di Crono, dei tre fratelli della generazione regnante, Poseidon, Ades e Zeus; e forse non è superfluo sottolineare che i primi due sono i più ostili e i più lontani per gli uomini. Ma non dimentichiamo che per la spiritualità greca ogni aspetto del reale era caratterizzato dalla presenza di divinità, anche minori; se vogliamo contare anche soltanto i figli di Oceano e Teti, i Fiumi e le Oceanine arriviamo a seimila.
L’attenuazione del potere passa attraverso l’esclusione dell’onnipotenza: gli dei sono sempre impegnati in contese, rivalità, coinvolgimenti in affari, gelosie e invidie reciproche e il tutto viene complicato dal pensare per territori e ambiti di competenze, dall’intricata selva di trasformazioni, ipostasi, successori; ma soprattutto ogni dio ha il suo punto debole su cui far leva: così gli invulnerabili semidei Achille e Sigfrido il Nibelungo possono essere uccisi se si sa dove colpirli e nei miti gnostici, nel risalire i vari livelli dell’Heimarménè cosmica, l’arconte preposto vi farà passare al pianeta successivo se saprete incantarlo con la parola giusta. C’è sempre una possibilità di salvarsi, basta sapere quale.
La distanza temporale, in ambito mitico, offre alle storie un’attendibilità incontestabile, non fosse che per l’impossibilità di verificarle; il mito non ha cronologie di alcun tipo, la sua struttura temporale è soltanto sequenziale: ciò non toglie che all’interno dei mitologemi sia ben avvertibile un cambio di stati e di situazioni, che avviene su una particolare linea di tempo. Il trascorrere mitico del tempo non è altro che il passaggio attraverso “la massa di materiale che separa gli avvenimenti più antichi da quelli più recenti”; la sensazione di distanza è data allora dal fatto di avere a che fare con personaggi ed eventi mitici la cui configurazione ci sembra il risultato di un lunghissimo sviluppo, in quanto antichità reale dei miti e antichità mitica tendono a sovrapporsi, creando un effetto di incolmabile lontananza.
“L’allontanamento è anche il procedimento per ottenere la soppressione o lo sviamento dell’interrogabilità. I miti non rispondono a domande; le rendono indomandabili”.
Il mondo ha bisogno di essere spiegato, ma ciò che spiega la sua origine non tollera domande sulla propria. Ogni pretesa di spiegazione risulta vana, se richiede di sapere ciò che è impossibile vedere; Chaos, nel linguaggio della Teogonia esiodea, non è altro che la metafora assoluta per l’aprirsi di un abisso che non tollera localizzazioni o distinzioni di sorta, è solo ciò che è “spalancato”, lo “spazio cavo” da cui si levano le forme, e solo successivamente con la teoria dei quattro elementi venne a significare “confusione e mescolanza”. Le storie riguardo alle origini del mondo raccontano del Chaos, di Okeanos e Teti, di Nyx, dell’Uovo Cosmico, ma in questo modo non spiegano nulla riguardo a quello che tutti vorrebbero sapere; in Genesi 1, 2 si informa il lettore che “prima” lo spirito di Dio aleggiava sulle acque e si allude a una terra informe deserta e a tenebre che ricoprono “l’abisso”, come se fosse scontato per tutti quello di cui si sta parlando. L’inizio semplicemente è spostato un po’ più indietro, poi dopo vaghe allusioni il tutto viene ricoperto di storie. “L’orizzonte del mito non coincide con i concetti-limite della filosofia; esso è il margine del mondo, non il suo limite fisico”. Il mito non parla dell’inizio del mondo, la sua ingegnosa procedura per neutralizzare il bisogno di spiegazioni consiste nel generare oscurità e nel renderla così fitta e impenetrabile da scoraggiare ogni tentativo di illuminazione; l’ambiguità e l’indeterminatezza dell’inizio nel pensiero mitico sono espressione del suo modo di pensare.

4.5 Se i processi generativi delle potenze mitiche sono quanto di più contrario ci sia al principio aristotelico secondo cui il simile genera immancabilmente il simile, e, quindi, se tutto può discendere da tutto, quale spiegazione allora è possibile richiedere? Ciò che ci rimane — e per Blumenberg non è affatto poco — è il racconto.
Le mille e una notte, uno dei capolavori della letteratura mediorientale, è costituito da storie dentro la storia della bella Shahrazàd, figlia del visir, che notte dopo notte intrattiene il terribile re Shahriyàr con i suoi meravigliosi racconti. Per salvare la vita propria e quella di altre giovani segnate da un triste destino sacrificale la fanciulla non argomenta, né si difende, ma semplicemente racconta, distrae e alletta il re — delectare è il verbo latino che ha in sé questi significati —, fino a portarlo a concepire un nuovo sentimento verso la vita e a mutare i suoi crudeli costumi; la ragazza addirittura diventa la sposa felice del re e madre di tre figli, grazie alle sue storie di vita e di morte, capaci di allontanare il terrore originario e garantire la vita. Le storie non devono arrivare a conclusioni, devono solo non finire.
In questo senso il mito si può permettere varianti incompatibili senza risentire della contraddizione e dell’antinomia. “Nel mito nessuna storia lascia tracce nella storia successiva, per quanto perfettamente in seguito esse siano state intrecciate l’una con l’altra”. Ciò è reso possibile dall’identità degli dei, intesa come omogeneità di caratteristiche ed effetti collegati a determinate competenze, ed è per ciò che gli dei producono le storie, ma non hanno una storia.
I modi di procedere del mito sono caratterizzati da varie forme di “complicatezza” (Umständlichkeit); gli dei non sono affatto onnipotenti, per avere ciò che desiderano devono ricorrere a mezzi tortuosi, escogitare astuzie, travestimenti, compromessi. La dilazione delle azioni delle potenze superiori e il loro complicarsi spostano ogni volta il loro contatto con l’uomo, contatto che garantisce sempre e comunque terrore. La divisione dei poteri è attenuazione del potere: l’umanità può tirare un sospiro di sollievo per il fatto che ciò che la trascende deve attenersi a “procedure”, le quali impediscono, complicandone indefinitamente la realizzazione, ogni tipo di arbitrio.
Procedendo in questo modo il mito produce stabilità, dona quiete alla coscienza contro il carattere spaesante del mondo e i suoi risultati sono ottenuti in buona parte grazie all’epos e ai suoi procedimenti estetici: “chi soffre per mano degli dei è Odisseo, che da lungo tempo è ritornato in patria, non il cantore, che fa competere gli dei tra di loro a proposito di Odisseo”.

4.6 La costanza iconica di un soggetto, espressione dell’antichità arcaica, è l’elemento più caratteristico nella descrizione dei miti e ciò che permette varianti e presenze in tradizioni eterogenee, rendendo possibile la straordinaria vitalità del mito; la stabilità assicura la sua diffusione nello spazio e nel tempo, la sua indipendenza dalle circostanze di ogni luogo ed epoca.
I mitologemi sono storie non datate e non databili la cui produzione di significatività compensa questa mancanza: una storia può diventare antica, perché in virtù del suo contenuto di verità gode della protezione della memoria, vera e propria facoltà del significativo.
Quello che preme sottolineare è che il mito non è stato ‘inventato’ ma si è ‘fatto da sé’, in quanto forma di pensiero primordiale che si spinge da se stesso all’esistenza; per usare le parole di Schelling, “le rappresentazioni mitologiche […] si producono con necessità, provengono dalla natura più profonda, intima della coscienza”.
Il mitologema è un “corpo testuale ritualizzato”, il cui nocciolo è costituito da icone capaci di un’inverosimile sopravvivenza, resistente a ogni modificazione, e quando la situazione della ricezione è così mutata unitamente agli elementi periferici del racconto, il nucleo centrale stesso provoca la modificazione sotto forma di nuova interpretazione del senso che può arrivare fino all’inversione totale, alla negazione. 
La costanza dei mitologemi deriva del fatto, solo apparentemente semplice e banale, che “i modelli mitici fondamentali sono così pregnanti, così validi, così coinvolgenti, che ci convincono sempre, che ci si presentano come il materiale più adatto ogni volta che cerchiamo quali siano i dati elementari dell’esistenza umana”. 
L’antropologia culturale a questo proposito parla di survivals, elementi caratterizzati da persistenza in un nuovo stato di società differente da quello in cui hanno avuto origine, o meglio da quello che la documentazione in nostro possesso ci fa apparire più antico. Questa straordinaria capacità di sopravvivenza di icone e canovacci di storie, capaci di ritrovarsi nella tradizione in quanto la costituiscono, ha portato alla formulazione del concetto di “idea innata”, che ricompare anche nella formulazione della nozione di “archetipo” elaborato dalla psicologia del profondo; “la capacità di sopravvivenza di un materiale inventato si trasforma in un pezzo di natura, e quindi in qualcosa che non può essere ulteriormente indagato”.
Per rimanere in una teoria ermeneutica che rigetta qualsiasi forma originaria, o quanto meno la sua conoscibilità, bisogna però liberarsi di un’illusione causata dalla prospettiva temporale e prendere atto del fatto che ciò che nell’ottica dalla storia umana ci appare come primigenio e antichissimo è in realtà, secondo la sua storia immanente, qualcosa di estremamente tardo e cronologicamente vicino a noi; le fonti più antiche di ogni mito a noi disponibili sono scritte da poeti, il che conferma la teoria dell’estetizzazione come difesa dell’uomo, e certo esse sono per noi le più antiche ma, per quanto riguarda il mito, sono le più giovani e soprattutto le più distanti dal passato remoto. 
 Servirsi dei dati paleoantropologici fa sempre un certo effetto: tra i centomila e cinquantamila anni fa circa, ‘qualcuno’ lascia segni tangibili di un comportamento indifferenziato ma che si può già definire religioso ed estetico; la comparsa dell’homo sapiens è da collocarsi all’incirca trentamila anni fa; il Paleolitico termina circa diecimila anni fa con l’uscita dalla fase caccia-raccolta. Una tesi estremamente affascinante quanto discussa è quella ormai classica di Georges Dumézil che, servendosi di un accurato lavoro di comparazione tra mitologemi antichi, ha sostenuto l’esistenza di un patrimonio di storie comune agli indoeuropei, che si sarebbe formato nei primi millenni a.C. e si sarebbe spostato e frammentato seguendo le ondate migratorie indoeuropee, informando di sé elementi religiosi, epici e culturali indiani, iraniani, anatolici, greci, mesopotamici, romani, scandinavi.
Omero ed Esiodo sono per noi l’inizio della tradizione letteraria scritta, ed è paradossale che essi siano, nel loro essere i primi, così maturi, ma il paradosso viene meno se, posti in questa diversa prospettiva, vediamo il mito scritto come il risultato di un processo immemorabile e difficilmente quantificabile. “Omero — chiunque sia stato, e quanti —” trascrisse il meglio della “antica eredità, che forse giudicava in pericolo, delle storie e dei canti che venivano trasmessi da un luogo all’altro”.

4.7 La nostra stessa esperienza del passato in quanto esperienza storiografica crea l’inevitabile distorsione temporale. La scrittura favorisce la costanza, ma essa non ha prodotto ciò che conserva; è la storia scritta che rende possibile alle varianti l’avere un punto di riferimento, creare un qualcosa come una fonte; con le fonti si formano complessi canonici, citazioni obbligatorie, edizioni critiche. Ciò che varia appare come una novità e non prende il posto di ciò che supera ma vi si sovrappone creando la storia letteraria. “La ricezione delle fonti crea le fonti della ricezione”.
Ci troviamo di fronte all’enorme asimmetria tra l’epoca della parola parlata e di quella scritta. La trasmissione orale favorisce la pregnanza di ciò che tramanda, in essa ciò che viene conservato ha il carattere dell’indimenticabilità e si ritrova alla fine di un processo irripetibile di selezione che precede la scrittura. Possiamo immaginare l’aedo, il rapsodo che davanti a un pubblico racconta le migliori storie di sempre cercando con precisione e plasticità di divertire e intrattenere, rimodellando continuamente i mitologemi: il cantore è impegnato in una performance che lo pone in un rapporto di feedback immediato con il suo pubblico, sia quello della piazza del mercato o meglio ancora, quello della corte, di notte, il momento più propizio in assoluto per ascoltare interminabili racconti. Queste sono le modalità della genesi dell’epos, che, in seguito a un processo di selezione e collaudo, è una fase del mito: è “lavoro sul mito che presuppone già il lungo lavoro del mito sul materiale primigenio del mondo della vita”.
 Di tutte le storie raccontate sopravvivono solo quelle che superano un’implicita e nascosta selezione e resistono fino a essere messe per iscritto. La selezione, lunga millenni, opera con diversi criteri su materiale non inventato da nessuno ma conosciuto da tutti, e raccontato da qualcuno estremamente abile. La performance da sola non è sufficiente a far passare determinati contenuti, i quali hanno in sé la loro forza apotropaica che arriva da molto più lontano; il cantore offre divertimento e distrazione, ma anche qualcosa dell’assicurazione e convalida che un giorno si chiamerà “cosmo””. Il raccontare delle origini, di cosmogonie e teogonie non fa che evocare la stabilità del mondo, rassicurando sulla lontananza ormai remota delle minacce, poiché non si parla dell’età primordiale quanto del suo rapido attraversamento e superamento.
Il carattere dell’essere mitico non consisterebbe nell’“essere dell’origine”, come ha sostenuto Cassirer, ma, ribadisce Blumenberg ciò che viene definito origine sarebbe in realtà già un aggregato di contenuti e forme che hanno superato la selezione, provenendo da molto lontano e dimostrando la loro solidità rispetto ai processi di logoramento del tempo; la qualità mitica che viene così riconfermata è la stabilità in esso. Ciò che usualmente viene consumato dal tempo può essere sopravvissuto solo grazie alla sua capacità di imprimersi nella memoria. Blumenberg invita a non confondere la “resistenza agli effetti del tempo” con l’“intemporalità”, ribadendo la netta differenza tra il suo concetto di Zeitindifferenz e quello di Zeitlosigkeit, che caratterizza gli ‘archetipi eterni’ proposti dalle teorie di Jünger e Walter Friedrich Otto, connotate da una idea olimpica e aristocratica del mito e della classicità e inesorabilmente destinate a fare del mito uno strumento in mano alle forze regressive e reazionarie. Una critica analoga può essere rivolta allo strutturalismo di Lévi-Strauss: il fatto di definire un mitologema con uno sguardo diacronico mediante l’insieme delle sue versioni significa escludere il fattore temporale e rendere la verità del mito indifferente al passare del tempo. “All’immobilità antistorica della tradizione, al culto dell’arcaico, dove il tempo non può rappresentare se non entropia e degrado delle significazioni mitiche, Blumenberg ha contrapposto l’idea di una produttività storica del mito quale si realizza […], grazie alle sue continue risemantizzazioni, in quel processo funzionale della Unbesetzung, della rinarrabilità di tutte le storie […]”.
Ciò che ci è rimasto è il “non datato della durata indefinita, la sua indifferenza rispetto all’usura del tempo”, fino a essere “qualcosa di simile alla immortalità”. In questo senso ogni rimitizzazione, come tentativo di simulare il mito è destinata a fallire a causa dell’irripetibilità delle condizioni che presiedono alla genesi di un mito. Il vulcanismo dell’immaginazione produttiva, caro all’estetica idealista, è assolutamente impotente rispetto al nettunismo della selezione ricettiva, che è all’opera da tempo immemorabile e ha già sempre formato le proprie possibilità elementari. Ogni ricerca dell’origine del mito è una posizione errata del problema, è cecità di fronte al fatto che l’intero patrimonio di soggetti e schemi mitici è passato attraverso la ricezione ed è stato ottimizzato dal suo meccanismo di selezione, permettendo la sopravvivenza di quelle storie che più rendono possibile l’istituzione del mondo-della-vita; questa dinamica è indissolubile dal fatto che la scelta delle interpretazioni del mondo e dei modi di vivere sia sempre già avvenuta e costituisca il fatto di avere una storia. Vedere quale sia il volto che il mondo mostra di volta in volta è possibile solo nell’ambito della soggettività comunicata, nella storia raccontata; la trasmissibilità intersoggettiva è una caratteristica del mito che lo rende capace di costituire il mondo-della-vita e che è estremamente vicina alla validità dell’oggettività di cui la scienza sarà foriera. 
La dinamica di ricezione e interpretazione che caratterizza il mito, rientra pienamente in una teoria ermeneutica, trovando pieno riscontro nel concetto di “storia degli effetti”; in questo senso il concetto di selezione ha a che fare con i processi di costituzione di un qualcosa come la tradizione nel fatto che un mitologema non è scomparso con le cose dimenticate. Il mitologo non può che essere un ermeneuta che si trova a fare congetture su decisioni riguardo l’oblio e la sopravvivenza di temi, soggetti e storie, tenendo conto del risultato come somma di alternative sconosciute in cui si è tradotta la civiltà; la coscienza stessa del mitologo è riflessa ed è il prodotto della storia degli effetti agenti da sempre su di lui. Non sembrerebbe azzardato affermare che ogni coscienza umana si è costruita sui miti, o, meglio su “quella versione raffinata di mitologia che sta alla base dell’identità nella coscienza stessa.
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