martedì 8 giugno 2010


Dopo solo neanche una settimana il pungiglione velenoso dello scorpione della melancolia (naturaliter dell'uomo di genio) riprenda a inoculare il suo tristo veleno; noi studiosi di filosofia post-scritturalisti criptoromanzieri siamo creature lunari, sofisticate e malinconiche.
Ma è il momento buono per tirare fuori alcune riflessioni ossianiche e cimiteriali accarezzate nel tempo parallelo alla scrittura della tesi.
A puntate, che mi dicono che l'ultimo post era un po' troppo lungo.





Metaarcheologia del sé. La tesi di dottorato come autoanalisi


«Mi sento intriso di un'intellegibilità profonda

dentro la quale i secoli e gli spazi riecheggiano,

comunicando tra loro con un linguaggio finalmente comune».

C. Lévi-Strauss


Alle origini del mio interesse per il passato e il mito posso individuare alcuni fatti biografici, apparentemente insignificanti, ma tali da restare nella memoria di lungo periodo, per chissà quanto e credo destinati ad affiorare qui ora, mentre mi accinge a chiudere un cerchio, durante la stesura di un lavoro pluriennale sul mito, sulla mitologia e sulla scienza che ne se occupa.


1. Novembre, fine anni settanta e primi anni ottanta. I santi, il giorno della visita a chi non c'è più è per me la sensazione di avere i piedi freddissimi, la felicità di un viaggio verso la campagna, quella campagna piemontese che un giorno avrei imparato a leggere attraverso Pavese, ma che era già così allora. Ma soprattutto è il cimitero che conta: incassato nella valle tra il fiume Tanaro e le colline di tufo che segnano l'ingresso vero e proprio nel territorio della Langa, quel cimitero è per me il passato, è il simbolo di qualcosa che non c'è più ma che ha lasciato dei segni materiali. Cinta di mura basse, colori tenui, una piccola campana e un cancello sempre aperto. Lungo le lapidi interrate vedo scritte cancellate dal tempo con date di secoli passati, qualche famiglia benestante ha eretto cripte antiche ed eleganti ricoperte di edera e di segni inequivocabilmente remoti e alieni nella loro ambiguità: angeli e donne velate si alternano alle onnipresenti croci attestati in tutte le variabili ortodosse di marmo, pietra e legno. Poi i loculi nel marmo bianco: progressivamente vecchie foto in bianco e nero, da cui nonni mai conosciuti mi sorridono circondati da una schiera moltitudine di loro solidali. Qualche cognome riecheggia il mio e nel giro di saluti, intimidito nel discorso mentale che accompagna la preghiera rituale – l'eterno riposo è sempre stata la mia preferita, insieme all'angelo custode – non posso fare a meno di contare le date e calcolare il tempo che mi separa da queste vite, di uomini con grandi baffi e donne, alcune giovani e molto belle. In un'ala apposita i morti bambini, quelli inaccettabili a cui si destina un posto speciale, testimoni muti di un'era in cui la mortalità infantile era orrore quotidiano e diffuso. E poi i segni della guerra: morti partigiani, tanti, foto in divisa e segni di pietas civica di quando la resistenza voleva dire qualcosa, soprattutto rapporto con i luoghi e con la dignità offesa da riscattare. Dispersi in Russia, resti di caduti sempre più remoti, la siepe esterna di cinta coronata, come grani di rosario, dei morti della grande guerra, a circondare tutto come a dire che il Novecento nasce da lì, è la Grande guerra il contenitore di tutto con il suo correlato di morte addizionale, quella che va oltre il già inaccettabile trascorrere nel non più dato. Lì c'è il mio zio più caro di quando ero bambino, un tumore all'intestino lo ha portato via nel 1980, avevo sette anni. Lì c' è mia madre, un mieloma la ha portata via nel 1998, quando avevo venticinque anni; lì ci sono altri cugini, zii e conoscenti che mi hanno portato in braccio e seduto sulle ginocchia, mostrato animali e cose di un mondo, quello della mia famiglia da secoli – la terra – che da bimbo di città non sapevo. Anche loro persi e diventati memoria postuma.


Quel cimitero è per me l'altro, la distanza da colmare, la luce abbacinante del ritorno e di qualcosa da trovare. L'inizio di una volontà di sapere che arriva fino a qui.


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