mercoledì 2 giugno 2010





A un giovane emo


L’essere mostra il suo splendore e il suo senso, e ciò può avvenire in molte forme: nelle forma delle epifanie divine, o attraverso l’utilizzazione di un semplice espediente tecnico, un’altalena, con l’aiuto della quale si sta sospesi tra cielo e terra, e se si è, altro non si fa se non essere. L’uomo non è gettato o tenuto entro il nulla, dove tutto intorno a lui ‘nienteggia’, bensì nell’essere, dove tutto intorno a lui, anzi in lui ‘natureggia’.


K. Kerènyi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Scritti italiani, 1955-1971, Napoli, Guida, 1993, pp. 120-121.



Caro giovane emo,


1. so che probabilmente la definizione è sbagliata, e che tu e i tuoi amici non siete degli ‘emo’, che è è un’etichetta giornalistica priva di spessore che vi siete trovati appiccicata addosso con quel tanto di stereotipico che hanno tutte le rappresentazioni del nuovo. Oppure no, la definizione è giusta e tu e i tuoi amici siete degli emo, anche in senso ‘emico’ e siete fieri di esserlo perché è così che vi definite nei vostri blog, su facebook, su my space, in chat e chissà dove ancora io non riesco neanche a immaginare. Da lì viene la vostra esistenza umbratile, simile al riflesso che la luce dei laptop proietta sulle facce di chi sta al computer, sornione nel suo taggare il mondo di sé oppure miagolando nel buio nel comunicare la sua angoscia digitale.

Quale che sia la vostra natura o denominazione, tu e i tuoi amici, prima solo una vaga descrizione sociologica spigolata su qualche rivista, siete diventati veri e vi ho incontrati nella mia città. Più precisamente nel suo cuore, il negletto parco dei giardini reali di Torino, dove da mesi sciamate in branchi, sulla collina vicino all’Auditorium, nei prati e sulle panchine da cui si vede la Mole, finendo per rotolare giù nella sgraziata area bimbi che tutti ricordano per il sole a picco d'estate e l'umidità residua al suolo nelle altre stagioni. È qui che io, la mia piccola Caterina e la sua mamma, passiamo le ore migliori della giornata e intratteniamo relazioni con i nostri simili sapiens sapiens in questa fase di poco seguita alla riproduzione: Caterina con i piccoli gattonatori, instabili bipedi ed esploratori del nuovo mondo-ambiente, io e la mia compagna con i nostri pari per genere/specie, neo-genitori di provenienza più o meno alternativa, con cui si affrontano e condividono le delizie della genitorialità e le croci della ritrovata dimensione familiare. Ma non è di questo che voglio scrivere.

Parlerò piuttosto della collisione tra il giovane emo e il giovane padre – siamo tutti giovani in questo paese, non è straordinario? – ; questo è quanto avviene quando in un parco giochi per bimbi da 0 ai 6 anni, io con la mia unenne in braccio mi ritrovo a far la coda per le altalene con dei sedicenni androgini con ciuffi biondo platino in calzamaglia.


2. Non cadrò nel tranello in cui cascano le mamme che hanno paura di voi, delle punte nei capelli e degli strappi nei giubbotti, delle sigarette insistite e delle birre pomeridiane; sono scene che ho già visto e appartengo a quella generazione che ricorda ancora molto bene come si mima la sfrontatezza dell’adulto cattivo con accurata messinscena: conosco quel codice dal retrogusto amaro, rivolto ai propri simili, con il suo sottotesto di angoscia e di solitudine, di percepita inconsistenza di sé. In ogni caso, non ho paura di te, giovane emo, perché riconosco ancora i tratti infantili del viso e una certa goffaggine nello scegliere e indossare i vestiti.

Sia chiaro: le culture giovanili esistono, per fortuna, e mutano in continuazione, servendosi del continuo riutilizzo di materiali preesistenti a formare un nuovo codice che lentamente emergerà con il suo tratto specifico, secondo quanto Lévi-Strauss ha sapientemente scritto sul pensiero mitico in quanto bricolage: nei colori dei vostri vestiti, nei tagli di capelli, nell’ambiguità sessuale ricercata, c’è del punk, del dark, del metal, del gotico, qualcosa di new-romantic, tanto manga, elementi pop camp, spruzzate di anacronismi vintage variamente declinati e tante altre cose convergenti in qualcosa, la dimensione emozionale, che dovrebbe dire qualcosa riguardo la vostra sensibilità speciale.

Il che è perfetto per circoscrivere l’adolescenza contemporanea: emozione, sensibilità, diversità, anticonformismo, incomprensione, solitudine, angoscia, alienazione, confusione, ribellione, trasgressione, ironia sferzante, épater le bourgeois, stile civettuolo, sensualità sono le coordinate che il vostro stile cerca di trasformare in segno. E, a essere sinceri, ci sono tutti gli elementi che potrebbero indurmi ad apprezzare il gesto: soprattutto se l’alternativa sono i fascisti da discoteca (con pantaloni strettissimi e corti e i cappelli di una taglia più piccola che stanno sulla cima della testa rasata) che si ritrovano da McDonald, centro metri più su dei giardini reali. In particolare potreste la corrente emo potrebbe anche dire qualcosa sui diritti degli omosessuali o dei transgender, che in un paese come questo non è cosa da poco; ma non sono convinto che ne siate consapevoli, né che ne abbiate la forza. C’è qualcosa che non funziona e che ha a che fare con l’altalena.

Provo a immaginare: tu vuoi stare con i tuoi amici, con cui condividi una ricerca del senso della vita che sia diverso dalla noia borghese e mercantilistica del tardo capitalismo avanzato; vuoi trovare i tuoi spazi, esprimere la rabbia e sperimentare la trasgressione, vincere la timidezza e sciogliere le contraddizioni che ti impediscono di comunicare e magari anche avere relazioni sessuali con chi ti piace e scoprire le cose della vita perché adesso tocca finalmente a te; se è solo questo, perché avete scelto proprio un posto in cui apparite fosforescenti di fronte a mamme e papà con prole, nonne e nonni con discendenza? E se siete tutti così sensibili perché nessuno di voi dà l’impressione di non aver mai sentito parlare di Wilde o Rilke o Pavese o Hesse o Rimbaud, e perche non vedo mai nessuno leggere punto? Detto altrimenti, perché scegliete la visibilità estrema al posto del nascondimento e della segretezza? Perché al posto di essere al cimitero monumentale a passeggiare tra simboli funerari neoclassici e statue di donne velate liberty, o a limonare nel segreto di un bosco dei tanti parchi della città, voi siete qui a mostrare tutta la vostra sfrontatezza a mamme e bambini, e, in definitiva a fare la coda per l’altalena a fianco di mia figlia?

Perché cicche spente, bottiglie vuote, strusciarvi, dire arditezze lascive e ammiccanti ad alta voce sembrano darvi piacere non tra di voi ma di fronte a bimbi, nonni, mamme e papà?

Queste le domande che mi passano velocemente in testa quando vedo voi emo saltellare allegramente su per il parco, nel momento in cui sto per sfiorare tangenzialmente il vostro mondo. Oltre l’indignazione del neo padre trentaseienne in svolta reazionaria il senso di quello che sto dicendo è: voi volete farci credere che siete più sensibili e ve lo ripetete insistentemente nei vostri blog in cui postate le foto fatte con il cellulare alle panchine, con le quali misurate l’arditezza della vostra trasgressione a centimetri di frangia, sbavatura del trucco, vodka alla pesca il sabato pomeriggio. Così, mi sembra, l’andare in altalena insieme ai bambini, rientra in una competizione non si sa bene con chi per il premio di chi è più strano e al contempo intende provocare un’irritazione, ma vi tradisce nel cercare la sponda in qualche cosa che vi appartiene ancora. Parlo dell'infanzia.


3. Ecco il mio surreale colloquio, ma reale, con te, giovane frangiuto emo un po’ butterato in giubbotto tipo pecora e l’occhio truccato con l’eye liner di tua sorella. Io, dopo aver visto l’altalena per bambini di due-sei anni dondolare paurosamente sotto il tuo peso, mi avvicino al vostro gruppo e dico, con tutta la cortesia alla quale mi sono addestrato nell’arco degli anni, che sarebbe il caso che la smetteste, perché state impedendo ai bambini di giocare e oltretutto rischiate di rovinare un gioco, come avviene quasi per tutto in un paese in cui lo spazio pubblico, simbolico e reale, è abbandonato, assegnato al degrado all’incuria, all’alzate di spalle, alla rassegnazione, e al limite custodito minoranze attive e livorose.

I tuoi amici/che annuiscono memori di una qualche legge morale o quanto meno di una traccia di super-ego, e tu che ciondoli, senza malagrazia, perfino con una certa ironia dici che avevi letto sedici e non sei, che sei magro e leggero e che in fondo sei ‘affezionato alla tua altalena, che è la stessa che usavi da bambino’; altrettanto graziosamente ribatto che tutto sommato crescere può voler dire anche staccarsi dai vecchi ricordi e che questo è un buon momento per farlo.

Mentre le oscillazioni dell’altalena diminuiscono e ti prepari a scendere, ribatti dicendo qualcosa del tipo tipo che ‘il fatto di essere ebreo ti discrimina e che quindi non puoi andare in altalena’. Tocco surreale e dada rivolto ai tuoi amici, rispetto ai quali devi salvare la faccia, in fondo un adulto ti ha sgridato e tu mi hai sempre dato del ‘lei’. Parli a loro, dunque, ridacchiate un po’ impacciati e senza aggressività ve ne andate senza lanciare imprecazioni a mezza voce come altri adolescenti fanno quando vengono ripresi. Per me va bene, non raccolgo l’insulsaggine di tirare fuori una cosa seria come l’antisemitismo, non voglio umiliarti e il mio obiettivo è raggiunto: l’altalena è libera, per un po’ non ci saranno danni e nell’immediato i due-seienni possono tornare a giocare, mamme e nonne possono rilassarsi.

Certo, anche loro che scambiano un adolescente truccato e perfino scolarizzato per un delinquente confermano che il sultanato di Silvio I il Panegocrate, che da oltre quindici anni governa questa provincia dell’Impero, ha decisamente modificato la percezione delle persone che ormai vedono nella realtà solo i simulacri di quello che esiste nello spazio dell’etere, che secolarizzandosi, è oramai divenuto digitale terrestre. L’immaginazione, neanche quella buona, è davvero al potere. Ma intanto eccoci qui tutti insieme nel giardino segreto del nostro meraviglioso tempo retto da egolatria e narcisismo, le coordinate antropologiche di un asse percettivo visione-immagine sovradeterminante rispetto al resto.

Provo a mettere a fuoco anni di studi per decostruire l’immagine dell’altalena in alcuni strati della cultura dell’Europa: già nella Lisistrata di Aristofane emerge una connessione delle altalene legate agli alberi con la religiosità agraria e una certa simbologia sessuale che l'ambiente arcaico ellenico assegna alle Korai, le fanciulle in fiore; Kerényi ne fà una metafora della tensione dell’umano tra l’aldiqua e l’aldilà, trasposizione in termini di esperienza percettiva elementare di un’oscillazione tra terra e cielo che stava a indicare come l’umano sia intrecciato con il mondo, a partire dal quale rivolge lo sguardo a ciò che lo fonda, un qualcosa che seppur indeterminato si manifesta in forme determinate. Mann nel Doktor Faustus parla di «stiramento di ventre che il bambino prova sull’altalena lanciata in alto e nel quale si mescolano il giubilo e la paura del volo» (ed. it. 1996 p. 157), per indicare un’analoga esperienza di sete di trascendenza per chi è inchiodato nell’immanenza: qui il romanziere, nemico di ogni indebità profondità sovraumana, trasforma in emozione umana l’inquietudine sacra che l’antichista leggeva in senso metafisico.

Poiché i simboli sono operanti anche se non ne siamo consapevoli (soprattutto se non ne siamo consapevoli) su queste basi posso immaginare che allora il giovane emo sia attratto dalle altalene perché è un essere immaturo e implume che cerca un modo di manifestare il disagio della trasformazione del suo corpo in una cornice estetica che enfatizza l’infantilismo, almeno quanto il dark-goth enfatizzava il primitivismo e la sacralità cruenta: un’altra spia è il riferimento ai manga nelle capigliature e nei pantaloni stretti al fondo (che radicalizzano un tratto già tragicamente ‘80), secondo un modello pansessuato ma in realtà asessuato in quanto bidimensionale, in una sorta di rovesciamento dello stereotipo angelicato del bimbo pre-freudiano. Questo, esagerato ed eccessivo, non farebbe che alimentare la desublimazione repressiva di cui parlava Marcuse inserendola già nel prodotto per la preadolescenza, secondo un processo che riempie la scena di immaginario sessuale per cancellarla dalla pratiche reali.

L’altalena allora potrebbe essere il richiamo dell’adolescente alla sua infanzia, di chi cerca di seminarla senza che si veda cosa altro si potrebbe diventare. Ma anche il vagheggiamento regressivo di un modo diverso di vivere rispetto a ciò che si è, qualcosa che si porta dietro la traccia di un’emozione antica di meraviglia dell’essere, simile al canto, al mito e alla danza. Circa centomila anni prima della cassa dritta in quattro quarti.


5. Vediamo cosa non mi hai detto giovane emo nel nostro colloquio: vuoi tornare bambino, non solo quando vuoi andare in altalena ma quando persino ti giustifichi con il ricordo di infanzia; un’altra giovane madre che ha recentemente sgominato una banda di finti-punk che occupavano il girello si è sentita rispondere, anche lì con gentilezza: - è che in fondo ci sentiamo bambini. Per la cronaca è andata peggio a un terzo giovane padre che doveva affrontare di mattina giovani italomagrebini in botta da hashish, ma questo è un altro discorso e i problemi di un boeur italiano rispetto al permesso di soggiorno, lingua, sradicamento, emarginazione e quant’altro non sono quelli di un esponente della classe media in crescita (l’esponente, non la classe media) che cerca visibilità e riconoscimento in un mondo pensato a forma di facebook.

Rispetto alla dichiarazione di magrezza, un’ossessione di cui si può morire, non hai perso l’occasione per rimarcare ai tuoi amichetti quanto sei fragile e passerotto, e sensibile nel non prendere peso, così da poter sfoggiare i tuoi pantacollant estremi, che ti rendono simile al personaggio dei fumetti tanto bisex. Stupisce sempre quanta crudeltà e violenza ci siano nei discorsi adolescenziali sul peso, sul sesso, sull’avvenenza e sulla popolarità; stupisce che dopo averli visti nei telefilm americani siano diventati reali anche da noi. A proposito, i Simpson sono nati come un raffinato progetto di critica alla società dello spettacolo, non come modello di emulazione di cui andare fieri: intendo dire Homer e Bart non sono un un modello, erano lo specchio crudele ma non privo di compassione, non la via per la distruzione nell’individuo di ogni forma di super-ego.

Quando poi, giovane emo, per uscire dall’impasse del quadretto in cui io-adulto sgrido te-giovinastro, dici di ‘essere ebreo’ e quindi discriminato, ti tradisci involontariamente di nuovo: perché tu ti senti veramente discriminato e incompreso in quanto giovane, indipendentemente dal fatto che tu abbia addestrato i tuoi adulti di riferimento a soddisfare diversi tuoi bisogni.

Quello che mi colpisce è come tu stia veramente lanciando un messaggio agli adulti, di cui riconosci l’adultità e l’autorità ma senza metterla in discussione. Di cui cerchi, se non la comprensione un rapporto fosse anche sottoforma di repressione, che è quello che vedo fare a tutti gli studenti, che nel mio ruolo di insegnante di scuola superiore (sorpresa!) mi sforzo di trattare come esseri dialoganti e pensanti, e che invece invocano un approccio comportamentista duro. Trasgressione-punizione.

Il giovane umano appartenente alle più recenti generazioni lancia dei messaggi perché oscuramente avverte il bisogno di una relazione, oltre che con l’assente (l’altalena come traccia della nostalgia per il perduto sé e per l'essere) anche con gli educatori? Certo la relazione non c’è o è difficile e interrotta perché la prima cosa che salta è il linguaggio comune, il repertorio di topoi e punti di riferimento a cui attingere, di immagini, conoscenza, storie, sogni, strumenti di comunicazione. Vedo ragazzi che non sanno parlare a qualsiasi altra persona di età differente, si smarriscono nei cioé, ignorano le forme di saluto per rivolgersi o come si gestisca una telefonata, sembrano usciti dall'uovo l'altro ieri, dice Cotzee dei suoi studenti, che di fronte ad Agostino, Dante, Milton scuotono le spalle e ridono.

Un ipotesi: invocate la repressione con un comportamento stolido e irritante, messinscena del fatto che esistiate solo voi, proprio per richiedere un’intervento; e in qualche modo quando voi emo state lì a mettere in mostra la festività della vostra trasgressione, credete di impressionare mamme e nonne, babbi e nonni, mentre state metacomunicando la vostra presenza e chiedete il lro aiuto. Perchè siete dei bambini, davvero.


6. Niente di personale, giovane emo, nei tuoi confronti; probabilmente, fuori dalle maschere che il teatro di sguardi costruisce al parco-giochi, non saresti neanche male come persona. Ma c’è qualcosa che avverto come offesa personale nella collettività che incarnate, simile a branchi di lemming impazziti lanciati verso chissà quale direzione: c’è molto rancore da parte mia perché voi (generalizzo perché la vostra natura è collettiva, il vostro numero legione) perché avete trasformato in brand massificato e avete ridicolizzato, definendola, una costellazione alternative-post-punk indefinita, inchiodandola a una versione macchiettistica e irritante; e con essa quella generazione che, contro ogni fissazione e cristallizzazione ed etichetta aveva fatto del ‘non chiedermi la parola’ il suo tacito codice di comportamento; così, mi sembrate la sensibilità adolescenziale e il dolore di crescere trasformato in barzelletta di cattivo gusto.

Non era già più la mia cosa, eppure quegli anni ottanta di cui evocate il fantasma sono stati molto di più e di diverso da quell’immagine patinata di cui avete colto l’allure, come la luce di stelle morte in altri tempi. Mentre il paese e il mondo cambiavano e la storia accelerava in modo pauroso, in quegli anni ottanta qualcuno ci è morto, quasi tutti vi sono passati attraverso con genuino dolore, molti si sono anche divertiti vivendo la ricerca di una vita che battesse più forte, in una paese che era davvero differente da oggi: Mimì Clementi, una voce che ha saputo parlarmi quando era il mio tempo giusto con i Massimo Volume, ha scritto recentemente di quegli anni in questi termini:

«Così mi compro un basso, imparo a suonarlo, inizio a vestirmi di nero e vado in piazza. Scopro che dentro i dischi c’è la vita che mi manca e comincio una nuova esistenza [...] dove ognuno cerca di nascondere le stimmate di di ciò che gli appartiene. [...] Tutti hanno hanno chiaro in mente che [...] l’Italia tutta è un posto di merda. Così ci tagliamo i capelli a zero, ce li facciamo crescere fino al culo. Ci mettiamo addosso orecchini, borchie, tatuaggi. Ci scoliamo flaconi interi di Zitoxil e scriviamo sui muri: Né stadi, né legge, né eroi. Segni di distinzione che devono far capire che noi non ci stiamo, che è stato il destino a condannarci a un posto del genere. È la consapevolezza di questo che sancisce le amicizie, adesso. Non ci si passa nemmeno a chiamare casa, [...] perchè casa è una parte di quella maledizione» (L’ultimo dio, Fazi, 2004, p. 54).

L’autenticità è sempre l’illusione retrospettiva di una coscienza postuma, la quale invoca il lusso dell’origine che tutti vorremo per noi e per noi solo, così come lo scritto è il tradimento di una presenza che quanto era presente non si dava a conoscere. Tutto dopo appare più chiaro, ci deve essere qualcosa di storto nell’apparato cognitivo di un adolescente che dopo non ci sarà mai più. Per fortuna. Quindi non sarò io a stabilire con certezza chi era autentico e chi non lo è. Ci sono stati veri credenti, atei, opportunisti, mestatori, inconsapevoli, traditori del propria tempo in ogni epoca, luogo e gruppo sociale. Quindi potrei sbagliarmi e voi emo state solo cercando la vostra strada per uscire da un inferno per certi versi simile a quello dei vostri nonni, genitori o fratelli maggiori.

Forse la ruota dell’eterno ritorno macina sempre la stessa materia almeno dai tempi in cui Goethe ha scritto il Werther e qualcuno che ha riconosciuto in esso un modello estetico se ne è servito come veicolo di qualcosa che stava provando, rendendolo ridicolo e trasformandolo mentre credeva di ripeterlo, inventando una cultura giovanile il cui destino è apparire repellente alla generazione che l’ha preceduta.

Ma nulla mi toglie della testa che voi siete soddisfatti del mondo in cui vivete, dal quale cercate visibilità e complicità. Credo che il nichilismo realizzato sia l’assenza totale di noia e di dolore, l’apatia totale, il complesso del Nirvana e la riduzione all’inorganico realizzata per instupidimento e nullificazione del pensiero. Cos’era che potevamo sapere? Cos’era che dovevamo fare? Che cosa potevamo sperare? Nessuno odia più se stesso e nessuno vuole più morire. Chi non capisce di cosa sto parlando è già parte di un problema, prima ancora di esserne vittima.

Detto questo, piccolo emo, non ho soluzioni. Posso solo suggerirti di lasciare il parco ai bambini e andare a passeggiare in un parco con una copia (vado a caso) dell’Antologia di Spoon River in tasca o delle Lettere a un giovane poeta o un Roland Barthes a caso o di qualche altra meraviglia dimenticata che sta nelle bancherelle di via Po, a due passi dalla vostra collina, che ti sceglierai da solo, stregato da una copertina o da una frase ammaliatrice: presa al tempo giusto è roba che salva la vita, il combinato-disposto che può accendere la miscela del più potente e miglior stupefacente, quell’immaginazione che spero porterà mia figlia a cercare un paese diverso.


(Torino, ottobre 2009)


PS Cambio scena. Ieri ho estinto un principio un incendio in un parco periferico, i giardini Crescenzio, che hanno meno bad-vibes dei Reali; certo, non senza aver prima redarguito gli adolescenti sovrappeso, terza media direi a occhio, che lo avevano acceso rischiando pure di ustionarsi.

Un bambino accorso che avrà avuto quattro anni mi chiede: – ma perché quei bambini hanno acceso il fuoco? – Perché volevano fare un dispetto e sentirsi più grandi – dico io – e perché li hai sgridati? – ribatte. – Perché è pericoloso, rischiano di fare male a qualcuno e bruciare tutto il parco, rispondo mentre quello mi guarda tra lo stupito e l’ammirato.

Mezz’ora dopo mi raggiunge allo scivolo dove Caterina scivola e mi chiede: – ma tu sgridi sempre i bambini? E io: solo quelli che fanno cose stupide e pericolose, è che sono un insegnante. Ma l’avresti fatto anche tu con quei ragazzi del fuoco. – Infatti volevo dirgli qualcosa – dice il piccolo. – Stai tranquillo, gli dico, adesso sei piccolo, è normale, quando diventerai grande vedrai che lo farai anche tu. – Forse lo farò, se diventerò furbo, mi dice il piccolo Salomone scuotendo la testa perplesso.

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