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elementi di filosofia post-metafisica del mito
Il mito «è sempre stato oscuro ed evidente al tempo stesso, e si è sempre distinto per la sua familiarità che lo esime dal lavoro del concetto»[1] e, indipendentemente dal sistema in cui la sua peculiare verità trova collocazione, esso fornisce una prestazione fondamentale ed elementare di rapporto con il mondo nel senso del suo padroneggiamento e della sua domesticazione. Già il romanticismo, da cui deriva la passione del pensiero contemporaneo per la mitologia fino allo strutturalismo, ne colse e ne valorizzò il valore di conoscenza simbolica in senso etimologico: il mito presenta riuniti e permette di cogliere intuitivamente aspetti della realtà altrimenti separati e scomposti: organizza, pur seguendo logiche della fantasia, una narrazione coerente articolata in sequenze narrative di per sé autosufficienti. Come scriveva Schlegel, «un gran privilegio ha la mitologia. Ciò che altrimenti fugge eternamente la coscienza, qui è possibile contemplare in maniera sensibile spirituale, e tenuto fermo, come l’anima nel corpo che l’avvolge e attraverso il quale essa riluce al nostro occhio, parla al nostro orecchio»[2].
Il pensiero mitico riconnette il processo costituivo dell’intersoggettività umana assimilandolo alla natura e rendendo intellegibile la vita nel suo fluire misterioso: il mito «è esattamente l’incanto che fa sorgere un mondo e nascere una lingua, che fa sorgere il mondo con la nascita di una lingua»[3]. Raccontando le identità esso istituisce la comunità e gestisce i rapporti degli uomini con il loro spazio e il loro tempo, definisce i confini interni ed esterni, dentro la comunità sancendo i vari status e fuori da essa indicando rapporti di amicizia e inimicizia rispetto ad altre forme di vita e di materia che lega a sé tracciando rapporti di simpatia e repulsione. In conformità alla linea di pensiero che accomuna Lévi-Strauss, Vernant, Detienne, il ‘mito’ va inteso come «mitologia-quadro, il sistema di pensiero che ingloba l’insieme dei racconti essenziali della società»[4], che mediante la trama di continue trasformazioni e richiami interni mobilita credenze, valori, saperi, senso comune; ogni repertorio di narrazioni deve essere letto come «sistema di codificazione sociale, complesso e differenziato, caratteristico di una cultura ben definita, [...] inserito in una serie di altri codici, che costituiscono altrettanti livelli diversi di interpretazione a loro corrispondenti»[5]. Si tratta di un sistema organizzato su «serie combinate» di opposizioni come fitta trama di segni da cui emerge «un significato fondamentalmente sociale: esso dice come un gruppo umano, in determinate condizioni storiche, prenda coscienza di se stesso, definisca le condizioni della sua esistenza, si collochi in rapporto alla natura e alla sopranatura»[6].
'Mito' è dunque il nome di una rete intricata di strutture portatrici della memoria, basate su una «logica dell’ambiguo, dell’equivoco, della polarità [...] che non sia quella binaria del sì o no, di una logica diversa dalla logica del logos»[7] ma che è allo stesso modo prodotta dalla ragione. È dunque la razionalità, indagabile solo attraverso se stessa e nelle sue manifestazioni storicamente realizzatesi, a essere in questione nello studio e nella critica del mito.
Come pensare ciò che eccedendo la regolarità del logos, la sua legge, la sua naturale e legittima genealogia, non appartiene, stricto sensu, al mythos? [...] Come pensare la necessità di ciò che dando luogo a questa opposizione come a tante altre sembra talvolta non più sottomettersi alla legge di ciò che essa situa?[8]
Queste sono alcune delle domande poste dall’intersezione contemporanea di antropologia, storia e filosofia a cui Jesi ha cercato di rispondere in quegli anni: egli, se non ha precorso i tempi nell’ambito dello studio della mitologia, è stato a sincrono con quanto succedeva nella riflessione contemporanea, e ha applicato allo studio della mitologia, in modo rigoroso, la più avvertita riflessione semiotica. In tal senso quanto scrive Eco, è pienamente pertinente alla definizione della «macchina mitologica»:
il linguista o il semiologo in generale non ha il dovere di interrogarsi su cosa siano [...] “presenza” o “assenza”: sono modi di funzionamento del pensiero, o almeno ipotesi su un possibile modo di funzionare del pensiero[9].
Non è possibile nessuna operazione metalinguistica sui meccanismi elementari del linguaggio, perché è in base a questi meccanismi che noi crediamo di parlare dei suoi meccanismi. Studiare il linguaggio significa solo interrogare il linguaggio, lasciarlo vivere[10].
Posto di fronte ai limiti di una ragione che si accorge di non potersi superare e cogliere dall’alto, lo studioso torinese, abbandonando il campo dello studio specialistico del mondo antico, ha scelto di riflettere su come lo studio della scienza del mito ne riveli la funzione comunitaria nel momento della sua difettività, quando cioè essa viene a mancare e si rivela non più possibile. Come scrive Jean-Luc Nancy pochi anni dopo, poiché «noi [l’umanità moderna e post-moderna] non abbiamo rapporti con il mito di cui parliamo, anche quando lo compiamo o vogliamo compierlo», «la nostra scena e il nostro discorso del mito, tutto il nostro pensiero mitologico sono un mito: parlare del mito è sempre stato parlare della sua assenza. La parola ‘mito’ indica anche l’assenza di quel che nomina»[11].
Per Jesi ciò che del mito è delineabile, con il tratto leggero e revocabile di uno schizzo a matita, è la «macchina mitologica» che lo produce e che insieme produce se stessa; essa è in questo senso un modo di descrivere l’«interruzione del mito [...] causata dalla dissoluzione del nesso finzione-fondazione»[12], quando cioè il mito del mito, prima prodotto e poi scoperto dalla sua scienza, si rivela una riconferma dell’«ontologia della finzione o della rappresentazione».
Il mito è insomma l’autofigurazione trascendentale della natura e dell’umanità, o più esattamente l’autofigurazione – o l’autoimmaginazione – della natura come umanità e dell’umanità come natura. La parola mitica è dunque il performativo dell’umanizzazione della natura (e/o della sua divinizzazione) e della naturalizzazione dell’uomo (e/o della sua divinizzazione). In fondo il mythos è l’atto di linguaggio per eccellenza, la performatività del paradigma, così come il logos se la finge per proiettarvi l’essenza e il potere che pensa suoi[13].
Rivolgersi a ciò che resta dopo la crisi della metafisica della presenza e dell’identità – critica, letteratura, testi, scrittura – e interrogarsi sulla loro capacità di costruire mondi, mostrando il come della loro invenzione, significa accettare il gioco della scomposizione dei materiali con cui lo stesso sistema della realtà si è costruito[14].
[1] T. W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, (1947), cit., p. 6.
[2] F. Schegel, Frammenti e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Sansoni, Firenze, 1967, pp. 197; cfr. anche le pagine di Lotito (Mito e filosofia, Mondadori, Milano, 2003, pp. 163-165) su Christoph Jamme e sulla capacità del mito di articolare comunicativamente valori storicamente condizionati in termini di simbolicità trascendentale.
[3] J.-P. Nancy, La comunità inoperosa, cit., pp. 111 ss.
[4] M. Detienne, Postfazione (1989), in Id., I giardini di Adone (1972), Milano, Cortina, 2009, p. 165. Id., La scrittura di Orfeo (1989), ed. it. Laterza, Bari-Roma, 1990, pp. 185-186.
[5] J-P. Vernant, Un’interpretazione, in M. Detienne, I giardini di Adone, cit., p. 172.
[6] Ivi, p. 173.
[7] J-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia (1974), ed. it. Einaudi, Torino, 2007, p. 250; cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1958), ed. it. «Forse un giorno scopriremo che è la stessa logica a funzionare nel pensiero mitico come nel pensiero scientifico, e che l’uomo ha sempre pensato altrettanto bene. Il progresso [...] non avrebbe in tal caso come teatro la coscienza, bensì il mondo, in cui un’umanità dotata di facoltà costanti verrebbe a trovarsi, nel corso della sua lunga storia, continuamente alle prese con oggetti sempre nuovi», p. 259.
[8] J. Derrida, Chòra (1993), trad. it. in Id. Il segreto del nome, Jaca Book, Milano, 1997, p. 47.
[9] U. Eco, Prefazione in Id., La struttura assente (1968), Bompiani, Milano, 1994, p. XIII.
[10] Ivi, p. XXII.
[11] J.-L Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 112.
[12] L. Lotito, Mito e filosofia, cit. p. 196: oltre alle pagine su Nancy, (pp. 196-200) cfr. p. 10 in cui Jesi e Nancy sono affiancati nel connubio tra «mito e nulla».
[13] J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 117.
[14] Per il post-strutturalismo e la nascita del discorso neo-nietzscheiano, come rifiuto dell’origine e filosofia della differenza ontologica: M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), Rizzoli, Milano, 1967; J. Derrida, Della grammatologia (1967), Jaca Book, Milano 1968/2006; cfr: M. Ferraris, Tracce. Nichilismo moderno postmoderno (1983), Mimesis, Milano 2006.
In verità, anche perché il Dalai Lama di crucci ne avrebbe parecchi, l'uomo considerato più felice del mondo è un altro buddhista, Mathieu Ricard, figlio del famoso filosofo liberale Jean-Francois Revel e amico e interprete del Dalai Lama(http://www.repubblica.it/2007/02/sezioni/persone/monaco-felice/monaco-felice/monaco-felice.html). Lo si vede anche nel film di Herzog, e ha partecipato agli incontri con Varela e il Dalai Lama.
RispondiEliminaRiguardo all'ignoranza dei discenti, il discorso sarebbe lungo ma una cosa è certa: se non sanno chi è Gandhi è perché nella nostra società non c'è spazio per lui se non nell'immaginario pubblicitario.
D'altra parte educare e istruire dovrebbe avere un presupposto fondamentale: insegnare il disprezzo della televisione e il farne a meno precocemente.
Diversamente, certo, Gandhi, è vivo e vegeto sullo schermo, e avrebbe bisogno di comunicare con TIM.