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venerdì 12 novembre 2010

Miti e gamberi



Ritorno alla programmazione alta.
Sul sito di «Riga» sono disponibili alcune anteprime del numero su Jesi, con articoli su di lui vecchie e nuovi molto rari, e un paio di inediti.

http://www.rigabooks.it/

Di seguito uno dei più gustosi tra i miei pezzi, che riprende un intervento di Jesi a un convegno del 1975 a Urbino, poi pubblicato nei 'Materiali mitologici'.



La cucina del mitologo

Negli scritti della metà degli anni settanta la preoccupazione di natura epistemologica è in Jesi preponderante, per poi venire progressivamente sostituita da un’intensa attività saggistica in cui l’operatività della macchina mitologica viene studiata in azione all’interno di determinati ambiti testuali, come Rilke, Mann, Canetti, ma anche la cultura di destra che caratterizza molta tradizione letteraria europea.

Per Jesi la macchina mitologica produce mitologie, forme di sapere che promettono un rapporto con un presunto oggetto “mito” e dunque surplus di significato, i cui effetti sono osservabili: in ogni aspetto della vita sociale del mondo antico, nella religione e nel culto in particolare; nella produzione letteraria di ogni tempo, in quella moderna come sopravvivenza secolarizzata; nella dimensione politica di cui le tecnicizzazioni sono l’aspetto più evidente; nelle opere dei mitologi le cui teorie sono una continuazione del lavoro sulla realtà che il loro oggetto, il mito, compie rendendola comprensibile.

Sorto dalla necessità di comprendere in modo razionale fenomeni culturali che sembrano irrazionali, “l’elaborazione e l’uso della ‘macchina mitologica’ si rivela uno strumento gnoseologico in grado di neutralizzare gli effetti fascinatori del mito”: parlare di macchina mitologica e non di mito ha il preciso intento di evitare “il rivoltarsi della stessa macchina contro lo studioso che incautamente ne vuole svelare il segreto: lo strumento gnoseologico corre il rischio di trasformarsi in pseudo-epifanie”[i]. A questo tema Jesi dedica il saggio Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina lanimale di un bestiario[ii], una versione rielaborata della conferenza La machine mythologique, pronunciata in francese il 14 luglio del 1975 al Colloque sur l’analyse mythologique del Centro internazionale di semiotica di Urbino: qui il critico torinese, oltre a esprimersi in modo più coinciso, usa tonalità ironiche che costituivano un aspetto della sua personalità[iii]. Il punto di partenza è la discussione contemporanea sui modelli teorici in uso nelle scienze umane: già in Lévi-Strauss “la scienza sociale non si edifica sul piano degli avvenimenti” avendo come scopo quello “di costruire un modello, di studiare le sue proprietà e le sue diverse reazioni [...] per applicare poi quanto si è osservato all’interpretazione di ciò che avviene empiricamente”[iv]; così Kuhn, con la nota teoria dei paradigmi, aveva descritto ogni modello teorico nei termini di “caselle prefabbricate e relativamente rigide” in cui vengono collocati i loro oggetti, non senza “elementi di arbitrarietà”[v]. La “macchina mitologica” è definita da Jesi come un modello che serve a “configurare sia gli oggetti storicamente verificabili, sia gli oggetti storicamente ipotetici che stanno sulla tavola della cosiddetta scienza del mito o della mitologia”, e che, in quanto tale, non riesce a sottrarsi pienamente al rischio di fare della mitografia:

I materiali mitologici che si incontrano nella storia presentano quasi sempre una tendenza vivissima a farsi modelli, immagini esemplari; e ogni operazione gnoseologica che miri a metterli in rapporto fra loro senza distruggerne le presunzioni, può conferire nuovo ardore a questa tendenza. Composti, combinati insieme in un modello, i materiali mitologici cederanno la qualità esemplare, che si arrogano, al modello stesso che li riunisce tutti. In questo modo lo strumento gnoseologico che il modello dovrebbe essere diviene esso stesso un materiale mitologico. La “macchina mitologica” risulta così mitologica perchè rientra fra i materiali della mitologia, non perché serva a conoscerli[vi].

Ciò premesso Jesi riconosce come il suo modello presenti una certa “utilità”, in quanto consente di

risolvere i problemi epistemologici circa i rapporti fra il mito e i materiali mitologici: fra l’oggetto latente, che non è verificabile nella storia (il mito) [...] e gli ho oggetti che ho chiamato “materiali mitologici” (cioè la mitologia o le mitologie, di cui troviamo testimonianze nella storia). Il modello macchina mitologica presenta il vantaggio di non porre la domanda “che cos’è il mito?”, o almeno di dichiarare questa domanda mal posta, falso problema, poiché non è possibile dire cosa sia l’oggetto che si annienta da sé quando si dichiara la sua esistenza o la sua non-esistenza[vii].

Il solo nominare la macchina mitologica, come qualsiasi altra prospettiva sul mito, suscita una vera e propria “fame di miti”, un desiderio di sapere che invoca il riferimento alla trascendenza che ha garantito al mito come oggetto culturale, pur mutante, di conservare inesausta vitalità nella cultura europea grazie alla sua capacità di alludere, anche quando la nega, alla capacità di celare verità dotate di un’aura di superiore genuinità e distinzione.

Rivolgersi al mito vuol dire farsi trascinare in territori che hanno a che fare con il non-dicibile, calarsi storicamente in una sfera che necessariamente rinvia a se stessa, con il risultato di distogliere lo sguardo dal non-detto che la sorregge e dalla inevitabile generazione di nuovo e altro senso che scaturirà da quell’approccio. Lo studio del mito evoca inevitabilmente il suo “ectoplasma” ed è descritto

come una cerca, non solo capace di distruggere, ma obbligata a distruggere il suo oggetto: come una crociata che non potrà conquistare il suo Santo Sepolcro senza averlo prima distrutto. Il modello “macchina mitologica” è innanzitutto la macchina da guerra che conquista mentre distrugge, il marchingegno che conosce il suo obiettivo annientandolo.

A partire dall’idea-forza per cui ogni ricostruzione è una distruzione si sviluppa un’argomentazione basata sulla metafora gastronomica che sorregge l’intero testo:

Aver fame di miti: vuol dire prepararsi a mangiare i miti quando deporranno le loro corazze. Poiché altrimenti sono immangiabili. Si tratta di sgusciare dei gamberi, già bolliti al fuoco della cerca affinché assumessero cuocendo il colore rosso che è l’oggetto vero della nostra fame. Questo colore rosso è il colore di ciò che è morto e, morendo, assunse il colore di ciò che è vivo, maturo piacevolmente commestibile. Lo scopo della moderna scienza del mito [...] è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole[viii].

L’immagine kerényana della distanza dal passato, superabile in termini creativi solo nell’esperienza artistica, viene qui modulata nei termini di una “invenzione” del passato, o meglio di una costruzione del contenuto dell’oggetto perduto della propria ricerca paragonato all’arte culinaria, capace di ridare colore a qualcosa che altrimenti sarebbe respingente, come appunto il gambero. Desiderato per il suo colore rosso che assume solo attraverso la cottura, che implica la sua morte, in realtà questo, quando è vivo, è grigio, esattamente come il mito: oggetto culturale del passato e appartenente alla sfera del diverso questo non è conoscibile quando è vivo o si rivela ripugnante quando osservato nei “selvaggi”, per diventare interessante e disponibile alla comprensione solo dopo il trattamento a cui è sottoposto attraverso la scienza.

Il modello “macchina mitologica” [...] è una ricetta utile per rendere i materiali mitologici gradevolmente morti, irrorati del colore della vita, squisitamente commestibili, [...] è la ricetta per preparare i materiali mitologici affinché compaiano sulla nostra tavola scientificamente ben morti, ma anche molto appetitosi[ix].

Il movimento della macchina mitologica è la ricetta che il cuoco/mitologo applica sui propri materiali: così Jesi si serve per la sua descrizione della coincidenza tra le regole che compongono il modello della macchina mitologica e la preparazione dei gamberi secondo una celebre guida gastronomica[x]; indipendentemente dalla particolarità della ricetta e degli elementi che daranno il gusto definitivo al piatto, ciò che non manca mai è la fase del “ben lavare”, la cui parte più delicata è il “castrare”, nel senso letterale di liberare il gambero dal “boyau intestinal”, in modo tale da evitare che questi conferisca al cibo gusto “amaro” (amertume): in questa operazione di pulizia che preoccupa così tanto il cuoco, Jesi vede l’eliminazione del “fango delle ipostasi storiche”, che erano invece il suo interno. Il mito è dunque come il gambero: cibo pregiato e appetitoso, per poter essere mangiato deve essere bollito, sottoposto al trattamento che lo renderà ricercato e diverso da ciò che era. Attraverso il lavoro dell’ermeneuta, che è lo stesso della macchina, il “materiale mitologico” diventa “mito”: le tracce di memoria divengono coerenti solo perché all’interno del processo di ricezione.

La critica jesiana alla moderna scienza del mito ha un’indubbia consonanza con il dibattito aperto da Marcel Detienne con la pubblicazione de Linvenzione della mitologia, intenso lavoro di 2decostruzione di un sapere apparentemente immediato e legittimo” che ha proposto, anche molto provocatoriamente, l’idea di una “mitologia senza mito”, ove esso appare come una “specie introvabile, oggetto misterioso dissolto nella acque della mitologia”, creato di volta in volta dagli intellettuali che se ne sono occupati[xi]. Come mostra la digressione nelle pagine che seguono sulla “cucina medievaleggiante” del “laboratorio filologico del XIX secolo”, al centro della dissacrante ironia di Jesi c’è il sapere sui miti e sulla cultura a esso correlata che rivela la sua natura di “interpretazione molto saporosa secondo la ricetta borghese” che cercava nel suo passato forme ideologiche di legittimazione del presente. Si tratta di una lettura della realtà che continua a rimanere culturalmente dominante, in virtù della quale si persevera in ogni rapporto con il mito nel guardare all’introvabile “motore immobile della macchina”, invece di “guardare da vicino i prodotti e il produttore”[xii] dei materiali mitologici.

“C’è al centro della macchina mitologica, una camera segreta: quella che si trova nei sogni, e che molto probabilmente è vuota”, scrive Jesi; un luogo da cui escono continuamente “camerieri”, che fingono di essere tali “sebbene siano verosimilmente dei cuochi”[xiii]. I produttori di materiali mitologici, destinati ai consumatori di questa merce pregiata, sono coloro che fingono di essere solo i mediatori mentre producono l’inganno che rende “miti” i “materiali mitologici”.

In chiusura della conferenza Jesi dichiarava che la macchina mitologica

può essere utile come modello gnoseologico poiché traspone al livello del suo inganno meccanico, del suo inganno funzionale, normativo nella sua esistenza, l’inganno che K. Kerènyi chiamava la “tecnicizzazione del mito”. Così facendo, la macchina mitologica pone nelle nostre mani, nello stesso tempo, un modello gnoseologico e uno specchio del nostro inganno[xiv].


[i] C. Fiore, “Il mito e la macchina mitologica”, in «La critica sociologica», n. 54, estate 1980, pp. 161-2.

[ii] F. Jesi, Materiali mitologici (1979), Einaudi, Torino, 2001, pp. 174-182.

[iii] Tra le tante testimonianze del tratto ironico e sarcastico del suo eloquio cfr. il commento di Margherita Cottone (“Furio Jesi: vampirismo e didattica”, in «Cultura tedesca», 12, 1999, p. 43) che parla dello Jesi docente universitario come di un “sapiente ‘Trickster’”, figura che lo stesso Jesi definiva “‘imbroglione’ divino, [...] ‘gabbamondo’ che mentre imbroglia fa ridere”.

[iv] C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 56.

[v] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1969, pp. 44, 23.

[vi] F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 174.

[vii] Ivi, p. 175.

[viii] Ivi, p. 176.

[ix] Ivi, cit., p. 177.

[x] Si tratta di A. Escoffier, Le guide culinaire. Aide-mémoire de cuisine pratique, Flammarion, Paris, 1921

[xi] Detienne M., L’invenzione della mitologia (1981), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1983, pp. 8, 161. Cfr: I. Strenski, Four Theories of Myth in Twentieth Century History: Cassirer, Eliade, Lévi-Strauss and Malinowski, Iowa City, 1987; C. Grottanelli, “Problemi del mito alla fine del Novecento”, in «Quaderni di storia», 46, 1997, pp. 183-206; C. Ginzburg, “Mito. Distanza e menzogna”, in Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 40-81; I. Chirassi Colombo, “Il mito e il novecento”, in Interrompere il quotidiano. La costruzione del tempo nell’esperienza religiosa, (a cura di N. Spineto), Jaca Book, Milano, 2005; M. Cometa, “Mitocritica”, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, (a cura di R. Coglitore, F. Mazzara), Meltemi, 2004, Roma, pp. 290-302.

[xii] F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 180.

[xiii] Ivi, p. 181.

[xiv] Ivi, p. 182.

giovedì 28 ottobre 2010

Frammenti di un dialogo sul mito






Se sono stato un po' lontano dal blog è perché sono stato molto impegnato nella vita quotidiana. Per me ogni giorno c'è una guerra a bassa intensità che si combatte in silenzio, innanzitutto contro se stessi e prosegue nelle vicende più minute e apparentemente insignificanti del mio stare al mondo.



«il mio supplizio è quando non mi credo in armonia», dice l'Ungaretti dei Fiumi

Ma nel frattempo ho avuto modo di partecipare a un bellissimo scambio di idee con Wu Ming 1, che conosce Jesi molto bene e soprattutto lo applica con rara intelligenza, e la comunità di Giap, davvero straordinaria per lucidità e competenza,
su temi come il mito, la narratività, la nuova epica, la comunità che manca.

Qui lo scambio che è ancora in corso

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1533&cpage=1#comment-2213

sotto l'estratto del mio intervento:

Io dico:
credo che la ‘macchina mitologica’ sia un concetto teorico più raffinato di quello di mito genuino/tecnicizzato, perché include quella dicotomia ma la porta a un livello più alto con gradazione più sensibili e su quella soglia di oscillazione di cui si parlava nel post di WM 1.
La ‘macchina mitologica’ traspone a livello della coscienza individuale l’inganno in cui si cade quando si prende per genuino un mito tecnicizzato, scrive Jesi 1975 in Gastronomia mitologica (nei Materiali mitologici, Einaudi, 1979).
Ciò vuol dire che in qualche modo ogni mito è sempre tecnicizzato, anche il più antico e comunitario; ma anche le mitologie personali sono forme di tecnicizzazione perché perché ogni conoscenza è una modalizzazione di materiali inerti precedenti che ogni ricezione rivitalizza e trasforma in vissuti emotivi, simboli portatori di senso che è anche corpo e rapporti materiali.
Le identità si costruiscono attraverso diverse “macchine mitologiche”, serie testuali di immagini sedimentate, condivise e risemantizzate, documenti che si trasformano in monumenti e che determinano le memorie culturali e le strutture connettive dei gruppi umani. Sono vettori emozionali che costruiscono intersoggetività.
Per dirla con Calvino, che è molto vicino all’ultimo Jesi in nome di una comune sensibilità post-strutturalista, ciascuno di noi «è una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture e di immaginazioni», «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».
In altri termini, ognuno è una macchina mitologica;
questo probabilmente spiega perché una stessa esigenza di miticità e comunione passi attraverso l’interpretazione e il vissuto di ognuno, soggettiva prima che intersoggetiva, e quella felicità calda che uno prova con i manowar io la trovassi ad esempio nei fugazi, per stare nello stesso mood esplosivo; e oggi ancora di più nei national, che hanno un’epicità la cui intensità viene da un rigore spettrale dalle tonalità crepuscolari.
pace.

Inoltre credo che in qualche modo Lévi-Strauss sia stato forse troppo criticato e forse ingiustamente da molti.
La critica di aver neutralizzato la storia, rifiutato contenuti e negato valore ai fatti che nella loro contingenza sarebbero inferiori alla forma, sembrano oggi eccessivamente severe. A conferma di ciò sta la fusione di strutturalismo e marxismo: a proposito del «potere polemico del metodo strutturale» si è espresso anche Barthes. «La descrizione sincronica delle strutture, condotta in un certo modo, può risultare anch’essa armata di un efficace potere contro ogni mistificazione: come la Storia, l’idea di Cultura non è forse l’antidoto all’idea di Natura?» (Il grado zero della scrittura).
Nelle Mythologiques (1964-1971) Lévi-Strauss ha proposto un’analisi dei patrimoni mitologici in modo che sia possibile tornare da un certo mito verso un altro da cui si erano prese le mosse: l’analisi strutturalista permette cioè di smontare e rendere criticamente apprezzabile i miti presentandoli in forma di elementi nel loro stato disaggregato.
Si tratta del procedimento inverso all’uso politico dei miti, che sono il caso estremo di manipolazione di un materiale linguistico o iconografico: lì si vede l’intervento in virtù del quale elementi sintagmatici sono resi operativi dalla violenza esecutiva che separa il linguaggio dalle pratiche sociali in cui era inserito in un determinato punto della sua storia e diviene altro, simbolo caricato di un aumentato potere performativo in un momento della sua ricezione. (cfr. J. -P. Faye, Violenza, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino, 1981, pp. 1098 ss.).
Ora il fatto che LS non abbia analizzato il calore del mito, non vuol dire che non lo riconoscesse o che ne negasse l’importanza, semplicemente lo dava per sottinteso e ne cercava le condizioni di possibilità: ancora nel 2002, in una bella intervista di Massenzio, ha detto: «Ma un mito, in che cosa consiste? di che cosa è fatto? come viene elaborato? In altre parole, prima di interrogarmi sul ruolo che il mio orologio svolgerebbe nella mia vita emotiva [...] ho scelto di aprire l’orologio, smontarne gli ingranaggi e di chiedermi: come funziona?».
Jesi, ritorno lì perché quello ho fresco in questo momento, riconoscendo il magistero di LS ha cercato di rendere ‘caldo’, storicamente dinamico, quello che LS ha inteso raffreddare fino a ipotizzare che dietro a una serie mitologica si potesse individuare il mito come stuttura nella forma fantasmatica dell’algebrizzazione. Questo è un suggerimento di Belpoliti, che ho trovato molto fecondo.
In sintonia con Dumézil (che però LS ha sempre considerato analoga alla propria per l’approccio storico-morfologico), Jesi ha verticalizzato in senso diacronico gli elementi statici, orizzontali e sincronici che lo strutturalismo illustra nella loro disponibilità, in conformità alle indicazioni originarie di de Saussure che vedeva nella linguistica tanto lo studio della coesistenza simultanea dei fenomeni, quanto il mutamento dei valori da una fase storica all’altra.
Che poi LS cercasse la mente e noi – questo mi commuove – invece cerchiamo la comunità possibile nonostante tutto questo è vero.
C’è in LS una sorta di melancolia post-umana e misantropica, a suo modo struggente: «La mia analisi mostra dunque il carattere mitico degli oggetti: l’universo, la natura, l’uomo, che per migliaia, milioni, miliardi di anni non avranno dopo tutto fatto nient’altro che dispiegare, come un vasto sistema mitologico, le risorse della loro combinatoria prima di invilupparsi e annientarsi nell’evidenza della loro caducità». (L’uomo nudo, 1971).
Eppure è quando vedo più forte lo stigma della morte su di noi umani che sento il bisogno di comunità, di immortalità e di memoria.

di seguito la bellissima risposta di Wu Ming 1:
  1. io sento la fortissima esigenza di distinguere tra le ricombinazioni affettive di materiale mitico che ciascuno di noi compie e la manipolazione collettiva e organizzata dei miti a fini politici, operata sfruttando apparati di consenso etc.
    Distinguere, cioè: non usare la stessa parola per entrambe le cose (“tecnicizzazione”).

    Jesi era nel giusto individuando il presupposto comune nell’impossibilità, per noi moderni, di accedere al mito genuino, quindi sì, anche quella individuale è una sorta di “tecnicizzazione”, più sfumata e meno finalizzata.
    Ma se “tecnicizzazione” deriva da
    techne, io ricordo che lo spettro semantico del termine greco include una dimensione di consapevolezza: techne è un “manipolare intenzionale secondo una regola”. Non ricorro all’etimo gratuitamente: Kérenyi scelse l’attributo “tecnicizzato” avendo ben presente quel significato.

    Ancora una volta, ricorro a un esempio: io sono cresciuto ascoltando (anche) Alan Stivell, i Lyonesse, i Planxty, i Chieftains, insomma il folk “celtico”, e sicuramente il mio approccio a quei suoni e a quell’immaginario era una ricombinazione affettiva di materiali mitici eterogenei. Tuttavia, non era una tecnicizzazione in senso proprio, nell’accezione usata da Kérenyi e dallo Jesi degli anni ’60. Al contrario, l’uso cialtronesco e razzistico di un immaginario “celticheggiante” da parte della Lega Nord (tendenza che comunque negli ultimi anni mi sembra un po’ in calo) è tecnicizzazione in senso proprio. Quell’immaginario viene trasformato intenzionalmente in uno strumento offensivo.

    La Lega tecnicizza: è mito tecnicizzato il filmaccio di Martinelli su Barbarossa, è mito tecnicizzato l’ampolla con l’acqua del “Dio Po” (che per me è solo una bestemmia monca) etc.

    Per questo il concetto di “mito tecnicizzato” mi sembra ancora fecondo, e in questi anni ho mantenuto l’antitesi genuino / tecnicizzato. Sempre tenendo presente che sono due polarità di un’oscillazione.

    Il concetto di “macchina mitologica” può essere molto utile, se teniamo presente che la macchina mitologica operante nella coscienza del singolo è diversa dalla macchina mitologica sociale mantenuta in funzione da tecnicizzatori ben consci dei loro scopi.

    Su Lévi-Strauss: L-S è un autore che non disdegno, è solo che l’approccio del “prima cerco di capire razionalmente e solo dopo cercherò di cogliere emotivamente” mi sembra limitato, almeno nel caso del mito, nel senso che – di questo sono convintissimo – se non mi faccio coinvolgere dal suo calore, dalla sua carica emotiva, dalla sua natura “fusionale”, non lo capirò nemmeno razionalmente.
    [Da questo punto di vista, credo che Lévi-Strauss avesse ancora quella che Lakoff chiama "a 18th century mind": il
    cogito, la dicotomia ragione-emozione etc. Una "21st century mind" è quella che, forte anche delle acquisizioni delle neuroscienze, comprende che non può esserci raziocinio senza emozione.]

    Qui (sperando di non complicare troppo) ricorro a una triade concettuale che usa a volte Umberto Eco: tipo cognitivo, contenuto nucleare e contenuto molare. Sono tre espressioni bruttissime e poco intuitive, ma i concetti sono semplici.
    Primo livello: ognuno di noi ha un “tipo cognitivo” della parola “mito”, nel senso che nell’intimo sappiamo cos’è un mito, come sappiamo che quello che attraversa la strada in questo momento è un gatto e non un cavallo;
    Secondo livello: il “contenuto nucleare” della parola “mito” è quello che ci scambiamo tra noi quando facciamo degli esempi: Re Artù, Che Guevara, Orfeo ed Euridice… Esempi eterogenei, ma aventi in comune la riconoscibilità in quanto miti;
    Terzo livello: è la conoscenza allargata del mito da parte degli esperti. “Allargata” nel senso che include più caratteristiche, anche non indispensabili al riconoscimento percettivo.
    La sempre maggiore conoscenza di un concetto si muove dal primo al terzo livello. Nel caso del mito, il “tipo cognitivo” si forma grazie alle emozioni che il mito suscita; il “contenuto nucleare” è scambiato tramite la comune esperienza di quelle emozioni; il “contenuto molare” è la “scienza del mito”, la razionalizzazione operata dal sapere specialistico.
    Ecco, la mia impressione è che Lévi-Strauss cercasse di compiere il percorso inverso: definire nel modo più preciso possibile il “contenuto molare” del mito prima di dedicarsi al “tipo cognitivo”.

martedì 12 ottobre 2010

elementi di filosofia post-metafisica del mito


Prosegue a grandi passi il lavoro di pubblicazione su Jesi, che personalmente vedo come una pagina dell'interminabile guerra dell'intelligenza e della bellezza, contro le forze soverchianti della banalità e della stupidità.
A novembre uscirà uno splendido numero monografico di Riga, la rivista di Marcos y Marcos diretta da Marco Belpoliti e Elio Grazioli, su Furio Jesi, di cui sono co-curatore, con oltre 300 pagine di rarità, inediti, immagini d'archivio, foto, antologia della critica e saggi nuovi: intanto l'aggiornamento del sito con l'indice e l'editoriale, spero di sentirvi/leggervi personalmente con più calma e vi ringrazio per l'attenzione che riserverete alla notizia

http://www.rigabooks.it/index.php?idlanguage=1&zone=9&id=853

La battaglia quotidiana a scuola si trasforma in lotta di retroguardia, ma bisogna resistere, o altrimenti sarà finita. Ecco un piccolo saggio di quello che succede ogni giorno, e non è neanche la cosa peggiore. Io sto spiegando l'etica degli stoici a degli adolescenti che non capiscono cosa avessero gli antichi contro la ricerca del piacere edonistico e l'ignoranza. Parlo di felicità interiore e, alla ricerca della cosa più vicina per farmi capire, dico che il Dalai Lama è considerato "l'uomo più felice del mondo". Allorché un giovane, diciamo la versione periferico-zonale spessa di Beckham, mi dice: che cosa centra Gandhi?!
E io rispondo: ho detto il Dalai Lama, la guida spirituale dei Buddhismo, figura carismatica del Tibet etc etc, e non Gandhi, leader pacifista, induista, ucciso nel 1948 da fanatici religiosi etc etc. E lui mi dice: Ma se ha fatto la pubblicità della TIM! Non era una battuta.
Ecco, su una classe quarta superiore di liceo scientifico di 29 persone, solo in 5 hanno riso.
Confido molto per tirarmi su di morale su Riemen, La nobiltà dello spirito. Elogio di una virtù perduta. e ho attaccato sul mio armadietto un mantra di Henri James, che tutte le mattine mi permette di attraversare la sala insegnanti e entrare in classe più sereno.

Noi lavoriamo nell'oscurità, facciamo quello che possiamo, diamo quello che abbiamo, il nostro dubbio è la nostra passione, e la nostra passione è il nostro compito, il resto è la follia dell'arte.

Qui sotto invece prosegue la pubblicazione del mio Zibald_1 sul mito, che se tutto va bene, un giorno diventerà un libro vero. E poi ho imparato anche a mettere le note anche in formato blog.
C' è stato un lungo momento un cui ho creduto di essere diventato uno gnostico, il mondo mi pareva sempre più lo scherzo di una divinità malvagia, e probabilmente avrei bisogno di dormire qualche settimana di seguito.
Fortunatamente antichi sentimenti cosmico-naturalistici e neoplatonici mi fanno ancora credere nella bellezza, che siano gli occhi di mia figlia o della mia compagna o la curiosità di un allievo o il morbido dormire del gatto Lù o una pagina di Barthes o di una traccia o del nuovo disco dei national.
Solo questa salverà il mondo.

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elementi di filosofia post-metafisica del mito

Il mito «è sempre stato oscuro ed evidente al tempo stesso, e si è sempre distinto per la sua familiarità che lo esime dal lavoro del concetto»[1] e, indipendentemente dal sistema in cui la sua peculiare verità trova collocazione, esso fornisce una prestazione fondamentale ed elementare di rapporto con il mondo nel senso del suo padroneggiamento e della sua domesticazione. Già il romanticismo, da cui deriva la passione del pensiero contemporaneo per la mitologia fino allo strutturalismo, ne colse e ne valorizzò il valore di conoscenza simbolica in senso etimologico: il mito presenta riuniti e permette di cogliere intuitivamente aspetti della realtà altrimenti separati e scomposti: organizza, pur seguendo logiche della fantasia, una narrazione coerente articolata in sequenze narrative di per sé autosufficienti. Come scriveva Schlegel, «un gran privilegio ha la mitologia. Ciò che altrimenti fugge eternamente la coscienza, qui è possibile contemplare in maniera sensibile spirituale, e tenuto fermo, come l’anima nel corpo che l’avvolge e attraverso il quale essa riluce al nostro occhio, parla al nostro orecchio»[2].

Il pensiero mitico riconnette il processo costituivo dell’intersoggettività umana assimilandolo alla natura e rendendo intellegibile la vita nel suo fluire misterioso: il mito «è esattamente l’incanto che fa sorgere un mondo e nascere una lingua, che fa sorgere il mondo con la nascita di una lingua»[3]. Raccontando le identità esso istituisce la comunità e gestisce i rapporti degli uomini con il loro spazio e il loro tempo, definisce i confini interni ed esterni, dentro la comunità sancendo i vari status e fuori da essa indicando rapporti di amicizia e inimicizia rispetto ad altre forme di vita e di materia che lega a sé tracciando rapporti di simpatia e repulsione. In conformità alla linea di pensiero che accomuna Lévi-Strauss, Vernant, Detienne, il ‘mito’ va inteso come «mitologia-quadro, il sistema di pensiero che ingloba l’insieme dei racconti essenziali della società»[4], che mediante la trama di continue trasformazioni e richiami interni mobilita credenze, valori, saperi, senso comune; ogni repertorio di narrazioni deve essere letto come «sistema di codificazione sociale, complesso e differenziato, caratteristico di una cultura ben definita, [...] inserito in una serie di altri codici, che costituiscono altrettanti livelli diversi di interpretazione a loro corrispondenti»[5]. Si tratta di un sistema organizzato su «serie combinate» di opposizioni come fitta trama di segni da cui emerge «un significato fondamentalmente sociale: esso dice come un gruppo umano, in determinate condizioni storiche, prenda coscienza di se stesso, definisca le condizioni della sua esistenza, si collochi in rapporto alla natura e alla sopranatura»[6].

'Mito' è dunque il nome di una rete intricata di strutture portatrici della memoria, basate su una «logica dell’ambiguo, dell’equivoco, della polarità [...] che non sia quella binaria del sì o no, di una logica diversa dalla logica del logos»[7] ma che è allo stesso modo prodotta dalla ragione. È dunque la razionalità, indagabile solo attraverso se stessa e nelle sue manifestazioni storicamente realizzatesi, a essere in questione nello studio e nella critica del mito.

Come pensare ciò che eccedendo la regolarità del logos, la sua legge, la sua naturale e legittima genealogia, non appartiene, stricto sensu, al mythos? [...] Come pensare la necessità di ciò che dando luogo a questa opposizione come a tante altre sembra talvolta non più sottomettersi alla legge di ciò che essa situa?[8]

Queste sono alcune delle domande poste dall’intersezione contemporanea di antropologia, storia e filosofia a cui Jesi ha cercato di rispondere in quegli anni: egli, se non ha precorso i tempi nell’ambito dello studio della mitologia, è stato a sincrono con quanto succedeva nella riflessione contemporanea, e ha applicato allo studio della mitologia, in modo rigoroso, la più avvertita riflessione semiotica. In tal senso quanto scrive Eco, è pienamente pertinente alla definizione della «macchina mitologica»:

il linguista o il semiologo in generale non ha il dovere di interrogarsi su cosa siano [...] “presenza” o “assenza”: sono modi di funzionamento del pensiero, o almeno ipotesi su un possibile modo di funzionare del pensiero[9].

Non è possibile nessuna operazione metalinguistica sui meccanismi elementari del linguaggio, perché è in base a questi meccanismi che noi crediamo di parlare dei suoi meccanismi. Studiare il linguaggio significa solo interrogare il linguaggio, lasciarlo vivere[10].

Posto di fronte ai limiti di una ragione che si accorge di non potersi superare e cogliere dall’alto, lo studioso torinese, abbandonando il campo dello studio specialistico del mondo antico, ha scelto di riflettere su come lo studio della scienza del mito ne riveli la funzione comunitaria nel momento della sua difettività, quando cioè essa viene a mancare e si rivela non più possibile. Come scrive Jean-Luc Nancy pochi anni dopo, poiché «noi [l’umanità moderna e post-moderna] non abbiamo rapporti con il mito di cui parliamo, anche quando lo compiamo o vogliamo compierlo», «la nostra scena e il nostro discorso del mito, tutto il nostro pensiero mitologico sono un mito: parlare del mito è sempre stato parlare della sua assenza. La parola ‘mito’ indica anche l’assenza di quel che nomina»[11].

Per Jesi ciò che del mito è delineabile, con il tratto leggero e revocabile di uno schizzo a matita, è la «macchina mitologica» che lo produce e che insieme produce se stessa; essa è in questo senso un modo di descrivere l’«interruzione del mito [...] causata dalla dissoluzione del nesso finzione-fondazione»[12], quando cioè il mito del mito, prima prodotto e poi scoperto dalla sua scienza, si rivela una riconferma dell’«ontologia della finzione o della rappresentazione».

Il mito è insomma l’autofigurazione trascendentale della natura e dell’umanità, o più esattamente l’autofigurazione – o l’autoimmaginazione – della natura come umanità e dell’umanità come natura. La parola mitica è dunque il performativo dell’umanizzazione della natura (e/o della sua divinizzazione) e della naturalizzazione dell’uomo (e/o della sua divinizzazione). In fondo il mythos è l’atto di linguaggio per eccellenza, la performatività del paradigma, così come il logos se la finge per proiettarvi l’essenza e il potere che pensa suoi[13].

Rivolgersi a ciò che resta dopo la crisi della metafisica della presenza e dell’identità – critica, letteratura, testi, scrittura – e interrogarsi sulla loro capacità di costruire mondi, mostrando il come della loro invenzione, significa accettare il gioco della scomposizione dei materiali con cui lo stesso sistema della realtà si è costruito[14].


[1] T. W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, (1947), cit., p. 6.

[2] F. Schegel, Frammenti e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Sansoni, Firenze, 1967, pp. 197; cfr. anche le pagine di Lotito (Mito e filosofia, Mondadori, Milano, 2003, pp. 163-165) su Christoph Jamme e sulla capacità del mito di articolare comunicativamente valori storicamente condizionati in termini di simbolicità trascendentale.

[3] J.-P. Nancy, La comunità inoperosa, cit., pp. 111 ss.

[4] M. Detienne, Postfazione (1989), in Id., I giardini di Adone (1972), Milano, Cortina, 2009, p. 165. Id., La scrittura di Orfeo (1989), ed. it. Laterza, Bari-Roma, 1990, pp. 185-186.

[5] J-P. Vernant, Un’interpretazione, in M. Detienne, I giardini di Adone, cit., p. 172.

[6] Ivi, p. 173.

[7] J-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia (1974), ed. it. Einaudi, Torino, 2007, p. 250; cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1958), ed. it. «Forse un giorno scopriremo che è la stessa logica a funzionare nel pensiero mitico come nel pensiero scientifico, e che l’uomo ha sempre pensato altrettanto bene. Il progresso [...] non avrebbe in tal caso come teatro la coscienza, bensì il mondo, in cui un’umanità dotata di facoltà costanti verrebbe a trovarsi, nel corso della sua lunga storia, continuamente alle prese con oggetti sempre nuovi», p. 259.

[8] J. Derrida, Chòra (1993), trad. it. in Id. Il segreto del nome, Jaca Book, Milano, 1997, p. 47.

[9] U. Eco, Prefazione in Id., La struttura assente (1968), Bompiani, Milano, 1994, p. XIII.

[10] Ivi, p. XXII.

[11] J.-L Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 112.

[12] L. Lotito, Mito e filosofia, cit. p. 196: oltre alle pagine su Nancy, (pp. 196-200) cfr. p. 10 in cui Jesi e Nancy sono affiancati nel connubio tra «mito e nulla».

[13] J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 117.

[14] Per il post-strutturalismo e la nascita del discorso neo-nietzscheiano, come rifiuto dell’origine e filosofia della differenza ontologica: M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), Rizzoli, Milano, 1967; J. Derrida, Della grammatologia (1967), Jaca Book, Milano 1968/2006; cfr: M. Ferraris, Tracce. Nichilismo moderno postmoderno (1983), Mimesis, Milano 2006.

giovedì 16 settembre 2010

mito. proposizioni elementari




Il mito ha un senso che va cercato in esso
Il mito appartiene alla tradizione orale
Il mito vive nel suo essere ricevuto e rielaborato
Il mito è oralità ma senza scrittura non vivrebbe
Il mito esprime un programma di azione
il mito è un produttore di identità culturali
il mito è un oggetto di valore
il mito è la sua aura, autorevolezza
il mito è macchinazione, autorità
il mito è un produttore di identità politiche
il mito produce senso
il mito esorcizza l'assolutismo della realtà
il mito tesse reti di significato
il mito è strato profondo e deformato della realtà storica
il mito è qualcosa che fa credere di essere ciò che non è
il mito vive nel processo di ricezione/elaborazione
il mito sorge nel sacro, con esso tramonta e rinasce secolarizzato nella letteratura
il mito ritorna nella politica e nella comunicazione pubblica
il mito è quasi sempre l'immagine che di essa hanno voluto dare i diversi mitologi
il mito è colto al meglio dalla storia della storiografia
il mito è l'invenzione addomesticata dei filosofi, che ne hanno fatto l'ombra della ragione
il mito è un documento che diventa monumento
il mito è una forma di pensiero e una costruzione linguistica
il mito è l’aura di miticità
il mito antico potrebbe essere coincidenza di significato e significante
il mito 'moderno' è risignificazione di un significante precedente
tutti i miti che conosciamo sono moderni
il mito non esiste, esistono solo i materiali mitologici
il mito non è eco della storia: è la storia che si risolve nel mito, nel senso che il mito ha sempre un significato storico

il mito per gli uomini preistorici è immagine della realtà
il mito per gli uomini antichi è un'esperienza del sacro
il mito per il periodo classico è il canone di un'etnografia identitaria
il mito ellenistico è una koiné cosmonaturalistica universalizzante
il mito neoplatonico è un un simbolo dell'Uno
il mito cristiano è allegoria della rivelazione
il mito medievale è allegoria, fuorviante e deviata, della rivelazione
il mito umanistico è nuovamente simbolo dell'Uno, con nostalgia dell'antico
il mito barocco è ornato retorico, codice di celebrazione del potere e dell'amore
il mito illuministico è allegoria naturalistica su base deista
il mito romantico è simbolo dell'Uno, con nostalgia dell'uno e dell'antico visto dal rinascimento con intenzione di fondazione metafisico-politica
il mito idealista è la voce dell'essere
il mito fenomenologico è l'esperienza del mysterium
il mito psicanalitico è traccia dell'infanzia che si confonde con l'origine
il mito neokantiano è preistoria della ragione
il mito strutturalista è sintomo della regola di funzionamento delllo spirito umano
il mito post-strutturalista è naturalizzazione della realtà
il mito di tutti è mito del mito
ogni mito è racconto

lunedì 6 settembre 2010

Antigone


settembre non aiuta. riprende l'anno scolastico. bisogno di volare più in alto.





Riscritture di Antigone. Variazioni sul mito in Anouilh e Brecht


Il tipo di riflessione che intendo proporre si attua su due livelli: l’analisi di Antigone come figura nelle letture di Anouilh e di Brecht, che solo nel secondo caso di presenta come figura specificamente politica;

la perlustrazione di possibili modalità di operare sulla dimensione mitico-simbolica in ambito letterario e artistico, a partire dalla «significatività» di alcuni topoi della cultura europea, che vuole essere una metariflessione sul rapporto mito-politica.


Per fare questo lo schema che intendo seguire è il seguente:

a. Presentare le due riscritture, Antigone di Jean Anouilh (1942) e Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht (1947) mostrandone le rispettive peculiarità mediante una breve analisi svolta sui testi nella versione a cura di M.G. Ciani, Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2000 (a cui fanno riferimento i rimandi di pagina). In entrambi i casi è presente una dimensione esistenziale e politica che si gioca all’interno della dicotomia ribellione ideale/ragion di stato, nel primo caso, e resistenza ed emancipazione/repressione imperialistica nel secondo.


b. Proporre alcune conclusioni sul differente tipo di lavoro sul testo a partire dalla filosofia implicita/posizione ideologica di cui gli autori sono portatori. La prima come tragedia esistenzialista contemporanea che accentua la dimensione dell’ambiguità e ripropone un pensiero tragico, fortemente nichilista e misantropico; la seconda come forma di un teatro epico che si presenta come macchina retorica al servizio delle idee rivoluzionarie di un marxismo critico e umanista.


0.

Il punto di partenza di ogni discorso sul valore del mito è la sua «significatività», termine diltheyano che intende sottolineare la capacità di una figura narrativa di suscitare significato, emozione, valore in chi si relaziona ad essa. È il presupposto su cui si basa ogni teoria estetica sulla finzione: certi testi ci parlano e dicono cose importanti. La persistenza delle figure mitologiche del mondo greco dentro la cultura europea moderna è la tautologica dimostrazione di tale importanza: quello che qui interessa è la capacità del mito di comunicare all’interno dei processi di ricezione, la sua potenzialità ermeneutica in campo letterario.

Secondo la teoria di Hans Blumenberg (Elaborazione del mito, 1979), che qui assumo come sfondo teorico, il senso del mito è legato alla sua ricezione: lo studio del mito è analisi delle funzioni che un contenuto svolge nel corso del processo di ricezione di cui è protagonista. L’orizzonte autentico di un mitologema è quello del suo pubblico, come costrutto che si realizza in fieri nella storia della sua ricezione; in essa deve essere cercato il significato di un’opera, non nel suo valore intrinseco.

Tale discorso vale a maggior ragione per la tragedia (per la quale mi rifaccio alle opere di Vernant e Vidal-Naquet Mito e tragedia, I e II, 1972, 1986), che si presenta come elaborazione autorale di una tradizione epica: il mito e la tragedia sono correlati ma distinti, nel senso che il mito è nella tragedia, ma al tempo stesso da essa rigettato.

Nella tragedia il patrimonio mitico viene messo in discussione nello spazio pubblico: l’eroe dell’epos diviene oggetto di un dibattito grazie al quale, nello spettacolo tragico l’uomo del V secolo, si scopre un problema, una domanda senza risposta. In questa capacità della tragedia di manipolare plasticamente il mito per farsi riflessione pubblica viene ‘inventata’ la dimensione della verosimiglianza, discussa in Platone e Aristotele attraverso la categoria di mimesis. Rappresentare tragicamente significa quindi elaborare materiale mitologico per fornire materiale alla riflessione degli individui mediante l’istituzione della sfera della finzione che permette la «purificazione delle passioni», ovvero la loro intelligibilità nella distanza rispetto all’opacità che esse hanno all’interno dell’esperienza reale.

La tragedia utilizza il mito per radicarsi nella realtà sociale, ma ciò non significa che essa sia riflesso perfetto della società: «essa non riflette questa realtà: la mette in causa», (Mito e tragedia I, p. 12). Le riscritture che propongo qui fanno questo, rielaborano il testo sofocleo e la sua dicotomia tra oikos e polis, declinandoli all’interno di contesti riattualizzati, segnatamente quelli della seconda guerra mondiale, laddove resistenza e rifiuto del potere esprimono una critica dell’esistenza reificata e al paternalismo borghese, al fascismo e al nazionalsocialismo e una riflessione sulla possibilità/dovere di opporvisi. In esse, seppur con vistose e importanti differenze, viene mostrato il dibattersi dell’individuo Antigone intrappolato nell’inesorabile e immensa tagliola della storia.



1.1

Jean Anouihl (1910-1987), è stato un drammaturgo di successo e figura intellettuale di spicco nella Parigi degli anni trenta. La ripresa di temi mitici è una costante della sua opera e l’Antigone è forse il più famoso tra i suoi testi. Nella Francia del 1942, soggetta all’occupazione nazista e al regime collaborazionista di Vichy, un episodio colpisce profondamente lo scrittore. In agosto Paul Collette, un giovane reduce di guerra, privo di legami con la resistenza organizzata, spara e ferisce Pierre Laval, primo ministro francese. Il gesto è fallimentare: l’attentatore è condannato a morte, pena poi trasformata in lavori forzati, e l’attentato sarà usata come pretesto per un’ampia repressione (lo stesso Collette è una figura insolita di resistente nazionalista e anticomunista), ma colpisce Anouilh per il valore di un gesto solitario e gratuito, disperato e privo di prospettiva, ostinato e ‘privato’. Ispira al drammaturgo la figura di Antigone come adolescente nervosa e selvaggia, che sfida il potere mostruoso dello Stato di Creonte con la sua paletta per la sabbia di bambina, forte del ricordo dei fiori di carta che il fratello maggiore Polinice le regalava.

Il testo, dalle potenziali implicazioni politiche eloquenti, fu sottoposto alla censura tedesca che lo considerò innocuo (Creonte ne usciva vivo e vincitore), e ottenuto il visto, fu rappresentato solo due anni dopo nel 1944 al Thèatre Atelier di Parigi. Non ci furono applausi alla prima rappresentazione: molti vi lessero un’apologia del governo di Pétain e Laval, proprio laddove altri videro un elogio della resistenza a oltranza, estrema fino al sacrificio. Difficile districarsi nel mare delle intenzioni, delle accuse e dei fatti: Anouilh considerò un grave errore l’aver inscenato l’opera, approvò la distribuzione di volantini della resistenza e in seguito prese pubblicamente le distanze dai collaborazionisti («Non ho mai neanche di lontano simpatizzato con i nazisti e con i complici») ma criticò l’epurazione successiva («confesso di aver compassione per i vinti e provo timore per gli eccessi dell’epurazione») e si tenne lontano dal clima intellettuale e militante della Francia post-bellica. Il suo testo, letto dopo sessant’anni, non reca traccia di tutto questo se non il sentore umbratile di un cupo senso di impotenza, lo stesso che viveva la Francia occupata, nel quale ognuno potè trovare le sue ragioni, rispecchiate tanto in Antigone che in Creonte.


1.2

Anouilh rimane sostanzialmente fedele al plot di Sofocle, che però è modernizzato, a partire dall’ambientazione: si parla ancora di Tebe, ma abiti e oggetti sono quelli della Francia degli anni Quaranta e i caratteri dei personaggi hanno una connotazione psicologica molto moderna. Antigone, figlia di re, è una ragazza ‘selvaggia’, adolescente ribelle, magra e scontrosa, inquieta e insoddisfatta, desiderosa di dare senso alla propria vita: la sua figura è inscritta nella sfera della ribellione infantile, testarda e irrazionale. Afferma la sua gelosia per la sorella Ismene (p. 70), sana e bella, si fa sposare e non sa perché (p. 63) e ci viene presentata quando già ha deciso di incaricaricarsi di un ruolo sacrale, la sepoltura fuori legge del fratello, come di fronte a un atto decisivo di redenzione, coincidente con la sua morte.

Il dialogo con la nutrice mette in luce tale dimensione di infantilismo irriducibile: Antigone ha già la morte negli occhi, si comporta da invasata, intenerita e misteriosa, allude alla sua decisione per enigmi, ma invoca una protezione e vagheggia una felice incoscienza perduta (p. 74). Al centro delle sue relazioni compare un tema caro ad Anouilh che è l’adolescenza in quanto problematica dimensione di purezza ideale.

«Io non voglio comprendere» (p. 71), afferma Antigone pur dichiarando il suo assoluto amore per la vita (p. 72), «ho già pianto abbastanza per essere una ragazza» (p. 73).

A Emone, suo promesso sposo, dice: «nostro figlio avrebbe avuto una mamma piccola e spettinata» (p. 77), ma non è chiara nella comunicazione e si comporta in modo tale da generare il classico litigio tra fidanzati: gli giura che avrebbe voluto essere sua, gli fa promettere di non chiedergli niente, gli dice che non lo potrà sposare e lo caccia via in modo completamente irragionevole.

La «piccola Antigone» appare come chi ha problemi con la propria immagine e identità, a partire dal corpo, per nulla femminile e seducente, si comporta sempre in modo stravagante ed eccessivo: sembra voler cercare un gesto clamoroso capace di affermare pubblicamente il suo essere donna, nella forma ieratica della martire onnisciente e visionaria.

Creonte, primo uomo di corte divenuto re suo malgrado, rappresenta la ragion di stato: la posizione tipica dell’uomo di governo, incline al compromesso e a quell’arte della mediazione e della menzogna, osservabile tanto in Platone quanto in Machiavelli, secondo cui il fine giustifica qualsiasi mezzo, e le masse, ottuse ma irrazionalmente sensibili, devono essere manipolate.

Non è un tiranno, è un “impiegato”: vi è in lui un senso pragmatico e del governare come lavoro, una passione “grigia” che incarna le ragioni del principio della realtà e del buon senso. Non avrebbe voluto il potere, rimpiange la sua esistenza precedente ed ogni la sera si interroga se «non sia vano governare gli uomini» ma la mattina si alza come un operaio» (p. 64). Questo suo volto di quotidianità non esclude però un atteggiamento spregiudicato: si serve pragmaticamente dell’esposizione del cadavere di Polinice, quanto della celebrazione di quello di Eteocle come mezzi di persuasione del popolo, facendo del nichilismo e del realismo la sua bandiera.

Di fronte alla notizia che il corpo di Polinice è stato seppellito «con una paletta da bambino vecchia e tutta arrugginita», sospetta una macchinazione dell’opposizione democratica, e dice: «devono aver pensato che così sarebbe stato più toccante» (p. 82), ragiona nei termini della macchinazione e del valore esemplare, il codice che lui conosce e manipola quotidianamente come tutti gli uomini adulti e in quanto tali, di potere.

È con la scoperta della responsabilità di Antigone e nel confronto con lei che sta il nucleo tragico, vero agon tra due visioni del mondo simmetricamente invertite, di fronte al potere e al futuro. Creonte è incredulo ma quasi sereno: il guaio sembra essere rimediabile, è disposto a uccidere le guardie e a mantenere il segreto pur di non creare ulteriore scompiglio, non vede le ragioni di uccidere la nipote a cui regalò «la sua prima bambola» (p. 92), e sa che il sangue di una fanciulla avrebbe un valore inestimabile per il partito avverso.

Di fronte alla pervicacia della ragazza l’iniziale stupore si trasforma in una rivendicazione rabbiosa che affonda le ragioni in una storia di famiglia e che ruota attorno all’accusa di orgoglio e narcisismo: «tu sei l’orgoglio di Edipo» (p. 91), «l’umano vi fa sentire a disagio in famiglia. Vi ci vuole un corpo a corpo con il destino e con la morte». «Questi tempi sono passati per Tebe. Tebe ha diritto a un principe senza storia: (…) ho i miei due piedi conficcati per terra, le mie due mani conficcate nelle tasche e ho deciso, con meno ambizione di tuo padre, di dedicarmi semplicemente a rendere l’ordine di questo mondo un po’ meno assurdo. (…) i re hanno altro da fare che del patetico personale».

La sua è una rivendicazione anti-mitologica e anti-narcisistica: che esprime un bisogno pragmatico di ordine, prosaico e consuetudinario in contrapposizione a una dimensione dominata dal pathos. Il tipo di reazione passa poi sul registro “cresci e fammi lavorare”, insistendo sulle tonalità paternaliste del buon senso: «Hai vent’anni e non tanto tempo fa tutto questo si sarebbe sistemato con del pane secco e un paio di sberle», «ingrassa un po’ piuttosto per fare un bel bambinone a Emone, Tebe ne ha bisogno più che della tua morte, te lo assicuro». (p. 92)

Di fronte alla risolutezza della disobbedienza, nel crescendo del confronto, Creonte interroga Antigone sul senso del suo agire e si prende gioco del rito della sepoltura, il ‘passaporto ridicolo’ per l’aldilà (p. 93); implora per salvare la nipote, si assume il ruolo del cattivo (p.94) ma chiede comprensione e rivendica la necessità politica della punizione esemplare del ribelle e traditorel’avrebbe già fatto seppellire, non fosse che per igiene - «amo quello che è pulito, lindo, ben lavato» - «ma perché quei rozzi che governo lo capiscano, bisogna che il cadavere di Polinice puzzi in tutta la città per un mese» (p. 95-96).

Antigone potrà mantenere le sue opinioni, in segreto, basta che taccia e viva, e poi capirà: «bisogna comunque che ci sia qualcuno che dice sì. Bisogna comunque che ci sia chi guida la barca. Fa acqua da tutte le parti, è piena di crimini, stupidità e miseria», (p. 98), continua Creonte, dando voce a un vasto repertorio di variazioni sui temi del pessimismo antropologico e della sfiducia nelle possibilità degli uomini.

Al culmine del contrasto esprime il più radicale disincanto: distrugge l’immagine dei due fratelli, di fatto svuotando di senso il gesto di Antigone, essi sono due ladroni che si ingannavano l’un l’altro ingannandoci» e si sono uccisi in un volgare regolamento di conti: Eteocle non è migliore, si stava preparando a un uguale tradimento. Eppure c’è bisogno della macchina retorica che produca tanto il santo quanto il criminale per la folla, (p. 102) capace di muoversi solo nella dimensione dell’Osanna e del Crucifige. I due fratelli sono simmetrici nella violenza e nell’inganno: Antigone è ingenua e stupida a commuoversi, ricordando i litigi dei fratelli con il padre e le tenerezze verso di lei bambina, perché non sa niente di loro veramente, né di come va il mondo. I due sono uguali persino nella loro morte, al punto che i loro corpi non erano neanche più distinguibili. «Erano ridotti in poltiglia, ho fatto raccogliere uno dei corpi, il meno rovinato dei due per i funerali nazionali, e ho dato l’ordine di fare marcire l’altro dov’era. Non so nemmeno quale. E ti assicuro che per me è uguale» (p. 102).

Antigone, sempre più turbata e confusa, di fronte all’accusa di narcisismo e di ingenuità idealistica sostanzialmente sembra riconoscersi e pervenire a una serie di consapevolezze (p. 94). Ma continua a essere Antigone, non si fa convincere dalle retorica del padre, nel nome dell’interesse comune e della famiglia, come Toni Buddenbrook di fronte a un matrimonio-sacrificio.

Alla domanda «perché compi questo gesto? Per gli altri, per chi ci crede, per aizzarli contro di me?» risponde «Per nessuno. Per me».

Di fronte alle esigenze del realismo politico risponde dello zio e al suo richiamo alla responsabilità (p. 96) afferma «io non ho scelto di governare, posso dire no a tutto quello che non mi piace»; e contemporaneamente sembra riconoscere il potere implicito nel ricatto che la sua sfida pone rispetto alla posizione di futura martire, riconosce il proprio potere sacrificale (p. 97).

«Povero Creonte! Vi faccio paura. (…) Con le mie unghie spezzate e la paura che mi torce il ventre, io sono regina», «non voglio capire. Va bene per voi. Io sono qui per qualcosa d’altro che capire. Sono qui per dirvi di no e per morire» (p.98).

E se di fronte alla rivelazione della miseria dei fratelli sembra cedere (p. 102) «perché mi avete raccontato tutto questo? Io ci credevo», ma è solo per un attimo.

Creonte le predica la resa dell’adulto, il riconoscimento che la vita è fatta di piccole cose (p. 103): «la vita non è quello che credi. È un’acqua che i giovani lasciano colare senza saperlo, tra le loro dita aperte. Chiudi le tue mani, chiudi le tue mani, fai presto. Trattienila. Vedrai, diventerà una piccola cosa dura e semplice che si sgranocchia, seduti al sole. (…) Lo imparerai, anche tu troppo tardi, la vita è un libro che si ama, è un bambino che gioca ai tuoi piedi, un arnese che si tiene bene in mano, una panchina per riposarsi la sera davanti a casa. Mi disprezzerai ancora, ma scoprire questo, vedrai, è la consolazione derisoria di invecchiare, la vita, non è forse comunque che la felicità».

Antigone può rilanciare: (p. 104)«Quale sarà la mia felicità? Che donna felice diventerà la piccola Antigone? Quali miserie bisogna che compia anche lei, giorno per giorno, per strappare coi suoi denti il suo piccolo brandello di felicità? Ditemi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi?»,«se la vostra vita, la vostra felicità devono passare» sopra di me «con la loro usura» non la voglio più. «Mi disgustate tutti con la vostra felicità! Con la vostra vita che bisogna amare costi quel che costi! Come dei cani che devono leccare tutto quello che trovano. (…) Io voglio tutto, subito – e che sia tutto intero -, altrimenti rifiuto! Non voglio essere modesta, io, e accontentarmi di un pezzettino se sono stata saggia. Voglio essere sicura di tutto oggi e che questo sia bello come quando ero bambina – o morire», p. 105.

Con questo Polinice diventa un pretesto per rilanciare il proprio grido di ribellione contro il principio di realtà, per l’affermazione dei propri desideri e del rifiuto di venire a patti con tutto ciò che contrasta l’immaginazione dell’individuo e il suo piano di conquista della felicità. Antigone si riconferma e si dichiara figlia di Edipo: «noi siamo di quelli che fanno le domande fino in fondo. Noi siamo di quelli che le saltano addosso alla vostra cara speranza!» (p.105), e vomita il suo odio verso la ‘gente comune’, gli adattati, quelli che vivono sereni e pacificati nella rinuncia mediocre, quasi i ‘porcaccioni’ della Nausea (1938) di Sartre: « ah, i vostri poveri volti di candidati alla felicità! siete voi a essere orrendi, anche i più belli. Avete tutti qualcosa di orrendo all’angolo dell’occhio e della bocca», (p. 105).

Anche il confronto padre Creonte-figlio Emone, si gioca sul medesimo piano adolescente/adulto, illusione/disincanto di rifiuto del soddisfatto paternalismo borghese: di fronte all’irreversibilità della situazione, che Antigone ha reso irremediabile nella sua rivolta, Emone scopre che il padre non è onnipotente, perché non può salvare la promessa sposa dalla sua stessa ostinazione: invoca il paterno antico potere sovrannaturale di gigante, protettore forte dell’infanzia: «sono troppo solo e il mondo è troppo spoglio se non posso più ammirarti». Creonte cerca di consolare il figlio, lo invita ad accettare l’inevitabilità della situazione, di un gioco della realtà troppo dura da scalfire. Il segreto è che, crescere, accettare di essere uomo, vuol dire vedere cadere tutte le illusioni, «si è completamente soli, Emone. Il mondo è spoglio» (p. 109).


1.3

Ridurre il testo a apologia della tirannide, come una lettura consegnata alla storia degli effetti dell’opera suggerisce, pare eccessivo: il testo è fortemente drammatico e davvero potente nella sua capacità di scavare nelle motivazioni dei personaggi, al punto da essere una vera tragedia, laddove la specificità di questa è l’ambiguità, il mostrare l’uomo come un problema, irridicibile a schemi ideologici chiari. Nel gioco delle simmetrie invertite, ognuno ha buone ragioni non tanto nell’affermare le proprie, quanto nello smascherare quelle dell’altro: Antigone ha davvero bisogno di trovare la sua identità, il suo non è un problema genuinamente politico; Creonte viceversa è di un cinismo pratico disperante e disumano, reificato e irenico, il cui scopo sembra essere la riduzione al minimo delle funzioni vitali.

Vengono mostrate le opposizioni dialettiche interne, ma non sono ricomposte in alcun modo: la tragedia esistenzialista mette ogni spettatore di fronte alla domanda sull’autenticità delle motivazioni della propria azione e sull’efficacia delle conseguenze di questa. L’individuo, con le sue interiorità, diventa qualcosa di diverso nella dimensione esteriore e pubblica, che pure è l’unica ‘effettiva’ nel suo essere socialmente condivisa. Antigone diviene malgrado sé una figura cristologica e sacrificale: dentro a tutte le rivolte, si cela il bisogno individuale di qualcosa di altro rispetto al fine politico dichiarato, un venire fuori che nasconde bisogni differenti. Una moltitudine di questioni private dietro la macina della storia che colpisce una collettività, impastate nel sangue e rese indistinguibili nella loro peculiarità.

Il testo è molto attento alle sfumature e caratterizzato da un profondo scavo psicologico dei personaggi, troppo sottile per una interpretazione ideologica, a cui si sottrae e sotto la cui presa finisce in pezzi. Il piano che interesse Anouilh è quello psicologico ed esistenziale, non quello politico, il che nella prassi politica dell’ora appare drammatico, inutile e non risolutivo (ricordiamoci che la Francia è occupata dai nazisti) e può anche avere un esito conservatore, ma di sicuro è molto umano. Una critica militante a Anouilh si riduce al considerare politicamente inopportuna la voce dei depressi dove già manca la speranza.

Al di là del fatto che il testo di Anouilh non funziona in nessun modo come strumento di mobilitazione, mi sembra piuttosto una presa di posizione molto politica la messa in luce, seppur un chiave depressiva e rassegnata, della vera dimensione impolitica espressa dal quadro di pessimismo antropologico in cui si svolge il tutto, al di sotto della dialettica dai bordi taglienti dentro la quale si affrontano i protagonisti.

Sullo sfondo di tutta la tragedia dominano squallore e medietà, banalità e terrore, una dimensione schiacciata su una quotidianità alienata: merita attenzione la descrizione delle guardie («sanno di aglio, di cuoio e vino rosso, e sono privi di ogni immaginazione»), meschine e preoccupate del solo interesse e del personale tornaconto, secondo una dinamica che ricalca la riflessione sulla «banalità del male» di Arendt come mancanza di idee: «sono gli ausiliari sempre innocenti e sempre soddisfatti di loro stessi e della giustizia» (p. 65).

La dimensione della comunicazione più semplice sembra preclusa: sono incapaci del più piccolo gesto di umanità, (p. 87): in un colloquio in carcere la guardia non è capace di ascoltare Antigone condannata e le racconta delle rivalità che si scatenano per la carriera e gli stipendi, il tentativo di scrivere una lettera di addio per Emone diventa una farsa.

Anouilh mi sembra dar voce al cupo pessimismo di chi piange perché ha perso la speranza e cerca di non affogare nella sua misantropia radicale. Anche la struttura circolare della tragedia conferma tale visione, con la rassegnazione che fin dall’inizio ricorda allo spettatore che ognuno ha preso il suo posto nella silenziosa apocalisse quotidiana di ininterrotta banalità, e che non può che essere così. La tragedia si conclude come da manuale: Antigone si impicca nella sua tomba di sepolta viva con la sua cintura di fili colorati, simile alla collana di una bambina. Emone, eterno bambino disperato, sputa addosso a suo padre prima di uccidersi, non prova neanche a rivoltarsi. Euridice, madre e moglie massaia e sottomessa, smette di fare maglioni per i poveri e si taglia la gola stendendosi su uno dei ‘letti gemelli fuori moda’ della stanza del suo consunto matrimonio. Creonte vorrebbe solo dormire ma deve andare al consiglio e fronteggiare la città.

La voce di Anouilh è nel coro: «è riposante la tragedia, perché si sa che non c’è più speranza, la porca speranza», (p. 85). E nel finale, che è invocazione di morte e oblio, (p. 118). «Ma adesso è finita. Sono comunque tranquilli. Quelli che dovevano morire sono morti. Morti uguali, tutti, stecchiti, inutili, marciti. E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli e a confondere i loro nomi».

Come nel Prometeo di Kafka (1918), in cui la storia di ribellione e punizione finisce sulle montagne remote del Caucaso: Prometeo «si addossò sempre più alla roccia fino a diventare con essa una cosa sola», e pian piano «tutti dimenticarono, gli dei, le aquile, egli stesso». Mentre le guardie continuano a giocare a carte.


2.1

Bertolt Brecht (1898-1956) non ha bisogno di troppe presentazioni: nel suo lavoro di drammaturgo, oltre alle opere originali e a diverse riscritture (Shakespeare, Molière), figura l’Antigone di Sofocle del 1947, basata sulla traduzione di Hölderlin e rappresentata per la prima volta nel 1948 in Svizzera, in piena ricostruzione e all’inizio della Guerra fredda.

Nelle mani di Brecht, di cui è noto il cui pensiero militante, la tragedia perde ogni ambiguità: il testo subisce una torsione che modifica la struttura narrativa e semplifica le caratteristiche dei personaggi in stile manicheo e unilaterale. Il preludio non lascia dubbi: a Berlino, nell’aprile 1945, due sorelle assistono impotenti all’agonia del fratello disertore, impiccato in strada dalle SS. Una cerca di fermare l’altra che, disperata, vuole correre a toglierlo dalla corda e cercare di rianimarlo sotto lo sguardo dei soldati. In una versione del 1951 un prologo recitato da Tiresia, nell’annunciare le gesta di Antigone, ammonisce lo spettatore: «Noi vi preghiamo di ricercare nel vostro animo azioni simili del più recente passato, o l’assenza di azioni simili».

Date queste premesse lo schema narrativo è chiaro: Creonte è il tiranno assoluto, rappresenta il potere della guerra tedesca, fatta per interesse economico e ricoperta di giustificazioni ideologiche; egli muove una guerra di conquista e rapina ad Argo e alle sue miniere, mandando i giovani della città alla morte. I due fratelli di Antigone combattono sotto di lui: Eteocle è un caduto tra gli altri, Polinice è il disertore che Creonte uccide con le sue stesse mani, per punire i vigliacchi in fuga che non difendono la patria. L’eroina tragica è così la figura della ribellione contro la tirannia disumana, l’ingiustia sociale e l’assurdità della guerra imperialista: è la figura allegorica della nuova umanità che dovrà costruire un mondo nuovo sulle macerie di quello finito con la caduta di Berlino.

A partire da questa diversa impostazione e finalità, rispetto tanto a Sofocle quanto ad Anouilh, la questione estetica che l’opera brechtiana pone è di altra natura: riguarda la possibilità di utilizzare il mito per trasformarlo in una macchina epica al servizio della militanza, nel senso più nobile del termine, laddove il teatro vuole essere strumento di critica e di una ragione umanistica il cui fine ultimo sia la giustizia.


2.2

L’analisi si snoda attorno alla risignificazione delle posizioni determinata dal cambiamento delle premesse narrative, prive di ambiguità e di quell’opacità che separa moventi e azioni, anche se Brecht mantiene struttura, metrica e tono molto fedeli al modello sofocleo. Conforme al modello primigenio ad esempio è il confronto tra le due sorelle, tra Ismene che consiglia la prudenza - «A chi comanda. Adoperarsi invano non è da saggi» - e Antigone che rivendica giustizia per i suoi cari morti («è più opportuno che piaccia a quelli di laggiù»), con una nuova connotazione che oppone la paura individuale della repressione alla necessità della ribellione pubblica che unisce giustizia sociale e affetti privati (p. 130), in nome di una concezione di umani che vuole separare singolare e collettivo.

Fin dall’inizio della tragedia Creonte espone in tono arrogante il suo trionfo in guerra, quasi secondo lo schema delle modalità propagandistiche che nascondono i fallimenti:

«Hai steso, o Tebe, il popolo argivo: senza città, senza tomba chi rideva di te giace all’aperto», e ai vecchi: «Ancora non mi avete visto appendere la spada dentro al tempio. (…) voi mi dovete convincere Tebe che il sangue versato non supera la misura normale»; e così giustifica la sepoltura con tutti gli onori a Eteocle e la misura contro quella di Polinice seguendo lo schema amico/nemico: «il codardo e amico degli argivi, giacerà insepolto, come giacciono quelli (…) giacché chi antepone la sua vita alla patria, per me non vale nulla» (p. 133).

Nel secondo coro, che in Sofocle è una formulazione di ideologia del progresso (l’uomo controlla progressivamente un ambiente naturale che gli è ostile), si aggiungono altri elementi che connettono la razionalità tecnica con il conflitto e la tendenza alla sopraffazione reciproca: «Nulla lo coglie privo di risorse. In tutto ciò che non ha confini, ma un limite gli è posto. Lui che non trova amici, di sé fa il proprio nemico. Come al toro piega al suo prossimo la nuca: ma il prossimo gli strappa le viscere. Se avanza calpesta spietato i suoi simili. Da sé non può riempirsi lo stomaco, ma cinge d’un muro la sua proprietà, ed il muro deve essere abbattuto! Ed il tetto aperto alla pioggia! L’umano tiene in conto di nulla. Così terribile diventa a se stesso» (p. 139). La dinamica marxiana che vede l’antagonismo reciproco sorgere dalla proprietà e trasformarsi in dominio dell’uomo sull’uomo è svolta fino alla produzione di alienazione.

Le parole di Creonte sono riducibili a un’identica matrice: il potere che si autolegittima e che sfrutta i suoi sudditi, vittime ingannate di una sete di potere e denaro insaziabile. Ad Emone, che a nome della città chiede al padre di rivedere la sua durezza, svela quello che pensa di una democrazia o delle opinioni che vengono ‘dal basso’: «Tu vuoi che il guidatore sia guidato dal tiro! Questo vuoi?». Nella metafora del carro colui che guida comanda quelli che tirano, bestie da soma, puro strumento nella mani del potere (p. 155).

Nel confronto con Antigone avviene la demistificazione dell’ideologia bellicista e imperialista di cui l’umanesimo marxista di Brecht intende essere il verso. Antigone rivendica una giustizia contro la legge, il principio che legittima ogni forma di resistenza e rivoluzione contro l’oppressione fattasi Stato, privo di legittimità e consenso: «perché era la tua legge, quella di un mortale, quindi un mortale può violarla», (p. 141); non c’è macchia nell’agire di Antigone: «Solo quel che è mio ho preso e ho dovuto rubarlo», (p. 147) perché è lo Stato oppressivo che viola la vera legge.

Anche il suo agire è mosso da intenti nobili e autentici, ella rivendica il tentativo di seppellimento in onore del fratello disertore «solo per dare un’esempio» (p. 142) contro il conformismo creato dal terrore. Non si creda che il legame brechtiano tra tragedia e dimensione storica sia forzato nella sua retorica: ad esempio durante l’occupazione tedesca dell’Italia fascisti di Salò e soldati nazisti fecero realmente un uso terroristico dell’espozione dei corpi dei “ribelli”, a cui fece da contraltare l’azione partigiana che si caratterizzò per una difesa della pietas popolare. Seppellimento e cura dei cadaveri ebbero l’effetto di rinsaldare il sentimento comunitario e consolidare la solidarietà antifascista, proprio nel marcare una differenza tra la dimensione ferina che caratterizzava lo stragismo nazi-fascista, di fatto giuridicamente legalizzato, e quella del diritto “giusnaturalistico” del partigiano che difende il patto sociale, essendo però giuridicamente bandito e fuori-legge (si veda per questo Chiodi, Banditi; Luzzatto, Il corpo del duce; Pavone, Una guerra civile).

Contro la disumanizzazione dei rapporti tra umani portata dalla guerra Antigone contesta la logica amico/nemico imposta da Creonte («chi non ti era schiavo è pur sempre un fratello») e l’identificazione tra scelte di Creonte e bene della patria: «morire per te non è morire per la patria». La guerra che c’è è la guerra di Creonte, fatta per una offesa alla terra straniera: «non ti bastava regnare sui fratelli nella tua città, Tebe amabile, dovevi trascinarli ad Argo lontana per dominarli anche là».

La rivolta pubblica di Antigone è un messaggio ai vecchi del coro, la città, è la voce di Brecht che parla ai tedeschi e a tutti gli oppressi di ogni tempo: «Io vi invoco, aiutatemi nell’afflizione e aiutate voi stessi: perché chi insegue il potere beve acqua salsa, non può smettere, e séguita per forza a bere. Ieri al fratello, oggi a me» (p. 144).

«Voi governanti minacciate sempre: la città cadrebbe, rovinerebbe disunita, in preda agli altri, allo straniero, e noi chiniamo il capo innanzi a voi». E ancora contro l’idea di patria nazionalista: «Terra (Paese) è fatica. Per l’uomo la patria non è solo la terra, la casa: non dove ha versato sudore, né la casa che derelitta attende il fuoco. Non chiama patria il luogo dove ha chinato la testa» (p. 145). Vi è qui la difesa di una concezione di terra come luogo trasformato dal proprio lavoro, ma non sotto il giogo reificante dello sfruttamento capitalista e bellicista. Il vero nemico è il potere oppressivo e mistificato dal fascismo, che manda a morte i suoi figli inutilmente: «Meglio sarebbe per noi tra le macerie delle nostra città sedere, più sicuri che con te nelle case del nemico».

Come già si è detto, la rivendicazione della propria umanità appare simmetricamente inversa alla disumanità del potere: sarà anche divino l’ordinamento dello Stato, ironizza Antigone, «ma lo vorrei piuttosto umano», «per l’amore io vivo, non per l’odio» (p. 147).

Antigone si ribella e si riscatta, sceglie la morte, che non vuole, pur di non vivere sotto il peso dell’insopportabile tirannia. Ai vecchi di Tebe che la compiangono turbati dice:

«Non parlate vi prego del destino. Parlate di chi mi uccide, innocente: a lui collegate un destino! Non crediate di essere risparmiati, o infelici. Altri mutili cadaveri vedrete a mucchi giacere insepolti sull’insepolto. Voi che a Creonte la guerra trascinaste per terre straniere, per quante battaglie egli vinca, sarete inghiottiti dall’ultima. Voi che invocaste il bottino non pieni vedrete tornare i carri, ma vuoti».

Ogni fatto che riguarda l’individuo, tanto nella morte (la sepoltura di Polinice) quanto riguardo al significato del vivere (la ribellione di Antigone) appare indistricabile dalla comunità e da un fine comune, di cui tutti sono responsabili, in primis la liberazione della tirannia e a seguire l’edificazione di una società più giusta.

La sorte della Germania è sullo sfondo. Da qui in poi, la tragedia procede verso la fine: la crudeltà ha demotivato i soldati, forse si sono ribellati all’insensatezza dei comandi, e la resistenza degli argivi, fatta da donne e bambini, ha piegato i tebani.

Anche se la guerra è perduta e l’altro figlio del re, Megareo, sconfitto, Emone dovrà combattere fino alla fine. Solo per questo Creonte si precipita a liberare Antigone: ha bisogno di una nuova spada, il figlio come strumento della propria avidità. Ma è troppo tardi: la fanciulla si è impiccata, Emone cerca di uccidere suo padre e si toglia la vita.

La consapevolezza arriva dopo, come una severa lezione: Tiresia svela che la guerra non è né vinta né finita e rende chiaro a tutti l’inganno del potere: «il malgoverno reclama uomini grandi e non ne trova. La guerra si espande e monta e si spezza le gambe. Dalla rapina viene la rapina e la durezza vuole durezza: il più vuole sempre sempre di più e finisce in nulla».

I vecchi cominciano a capire e ora vedono la doppia guerra del tiranno, contro il nemico e contro il suo stesso popolo: «Una stretta, dicevi, ancora una battaglia. Ma ora cominci a trattare i pari nostri come il nemico. E crudelmente tu conduci la duplice guerra». Ma per il dittatore non esistono più né il diritto dello Stato né quello del sangue, «la guerra crea nuovo diritto» (p. 172).

Creonte si ritira e attende la fine maledicendo chi ha rovinato i suoi piani, i ribelli sabotatori, il nemico interno che causa la rovina nella paranoia complottista tipica degli autoritarismi. I vecchi della città lo vedono voltare le spalle, e attendono il nemico «che presto verrà ad annientarci», sapendo che ne avrà tuute le ragioni. L’ultima parola è il loro ammonimento, la consapevolezza che arriva troppo tardi, quella di chi ha scommesso sul Reich, ha perso tutto e si è visto rovesciare addosso un milione di tonnellate di bombe tra il 1942 e il 1945. «Il tempo è breve, e tutt’intorno è il fato: non basta continuare a vivere senza pensiero, lievi trascorrendo di sofferenza in delitto, e ad acquistare saggezza da vecchi» (p. 180).


2.3

«E adesso voi ci vedrete, insieme agli altri attori calcare nella recita l’un dopo l’altro l’angusta scena, dove un tempo, in mezzo ai bucrani di sacrifici barbari di un grigio tempo primordiale, l’umanità si levò grande». Così Tiresia presentava l’Antigone nel Preludio della versione del 1951 e credo che questa frase riassuma il lavoro che Brecht ha voluto fare sul mito, o meglio, la funzione che Brecht continua a riconoscere al mito anche nella sua rielaborazione contemporanea.

Ogni mitologia consiste in un sistema ideologico capace di innervare di significato la totalità della vita delle comunità, così come non esistono forme d’arte che siano completamente disinteressate, in una dimensione estetica autonoma e avulsa dal reale.

Quello di Brecht non è però un teatro biecamente pedagogico e ideologico: sarebbe ingeneroso usare la categoria di tecnicizzazione del mito in questo caso. Il «mito tecnicizzato», nella teoria di Kerényi (1964) è la rielaborazione strumentale di certe immagini che punta al conseguimento di determinati obiettivi servendosi del potenziale emotivo e della capacità comunicativa del mito, del suo ‘presentarsi come vero’. In senso estremo tecnicizzatori del mito sono stati i nazisti, sono i fondamentalisti islamici, I tifosi di ogni revival neoidentitario: coloro che abusano dei sistemi di produzione della verità per farne un dispositivo ideologico volto a raggiungere fini di ingegneria sociale o etnica, quali ad esempio l'omogeneizzazione culturale di un gruppo attorno alla dicotomia amico/nemico. La costruzione dlle identità politiche forti si muove intorno alla diade ‘noi/loro’, ha bisogno della santificazione di un lato verso cui promuovere riconoscimento e appartenenza e della demonizzazione dell'altro, sul quale vengono proiettati tutti gli aspetti negativi. Ma la tecnicizzazione avviene a partire dalla posizione di potere di chi detiene le chiavi di accesso alla macchina della comunicazione, di chi è capace di modularne ritmo e intensità, contando sulla reiterazione dei cliché e sulla capacità di costruire luoghi comuni e parole d’ordine in forza della sola frequenza e pervasività, come ad esempio succede nella gestione totalitaria dei mezzi di comunicazione di massa o, all’interno delle moderne democrazie televisive, con la pianificazione di campagne ideologiche e pubblicitarie.

Diverso è il caso della dispositivo mitologico messo in moto nella dimensione artistica, al servizio dell’utopico, quella che definirei una ‘mitologia della ragione’ per una filosofia politica: Brecht era consapevole della contraddizione insita tra la militanza comunista e il suo essere intellettuale di formazione borghese che si occupa in particolar modo di teatro, forma per eccellenza della cultura borghese. Non mette in scena un teatro pedagogico iperrealista e kitsch, come avviene nell’arte forzatamente popolare del realismo sovietico stalinista, della rivoluzione culturale maoista o del populismo ataturkiano.

A partire dalla proprie contraddizioni intende produrre un epica che vuole essere fortemente umanistica, come il mito tragico dell’antichità, ma tale da svolgere una funzione critica. Il suo teatro non vuole essere un generatore di emozioni tale da fare leva solo sull’empatia, ma un allegoria epica che permetta allo spettatore di pensare fornendogli argomenti di critica. In questo stava la sua tecnica dello «straniamento». Certi stratagemmi scenici, o assemblaggi di teatro nel teatro non volevano essere pirandelliani o avanguardisti, ma dovevano realizzare una distanza tra l’autore e la pura dimensione dell’emozione, quella che parla all’inconscio e al «cervello rettile» degli spettatori (è un’espressione di Wu Ming 1). L’antiaristotelica rottura dell’immedesimazione avrebbe permesso di mantenere desta la coscienza critica, in modo tale da garantire la consapevolezza della propria alienazione, e da permettere alla forma-teatro di essere emancipativa e non semplicemente consolatoria. Non solo riflessione sulle contraddizioni della propria interiorità borghese, ma pensiero politico che spingere a modificare la propria vita, mediante la produzione di azione.

La riscrittura brechtiana si colloca così, a mio avviso, nella ricerca di un equilibrio tra i due diversi e opposti rischi, quello della caduta nell’irrazionalità emotiva e nell’immedesimazione che non fa distinzioni e quello della razionalizzazione didascalica e moralistico-ideologica che fornisce ricette semplificate.

In quanto umani abbiamo bisogno di narrazione e ogni rielaborazione del racconto-mito continuerà a soddisfare questo bisogno elementare: la condizione per non cadere nell’incantamento di forze demoniache, nuove tecnicizzazioni fasciste o fascinazioni mercantilistiche e impolitiche, sembra risiedere nell’essere capaci di ascoltare le narrazioni, senza mai smettere di riflettere, in stato di veglia, sull’emozione che il mito genera. E di lì partire per arrivare altrove.



Bibliografia di riferimento


Sofocle, Antigone, Mondadori, Milano, 1982

Sofocle, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2000

H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991

K. Kerènyi, Scritti italiani (1955-1971), Guida, Napoli, 1993

F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968

F. Jesi, Brecht, La Nuova Italia, Firenze, 1973

J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia II, Einaudi, Torino, 1991

Wu Ming 1, Allegoria e guerra in 300, in «La Valle dell’Eden», IX, 18, 2007