venerdì 12 novembre 2010

Miti e gamberi



Ritorno alla programmazione alta.
Sul sito di «Riga» sono disponibili alcune anteprime del numero su Jesi, con articoli su di lui vecchie e nuovi molto rari, e un paio di inediti.

http://www.rigabooks.it/

Di seguito uno dei più gustosi tra i miei pezzi, che riprende un intervento di Jesi a un convegno del 1975 a Urbino, poi pubblicato nei 'Materiali mitologici'.



La cucina del mitologo

Negli scritti della metà degli anni settanta la preoccupazione di natura epistemologica è in Jesi preponderante, per poi venire progressivamente sostituita da un’intensa attività saggistica in cui l’operatività della macchina mitologica viene studiata in azione all’interno di determinati ambiti testuali, come Rilke, Mann, Canetti, ma anche la cultura di destra che caratterizza molta tradizione letteraria europea.

Per Jesi la macchina mitologica produce mitologie, forme di sapere che promettono un rapporto con un presunto oggetto “mito” e dunque surplus di significato, i cui effetti sono osservabili: in ogni aspetto della vita sociale del mondo antico, nella religione e nel culto in particolare; nella produzione letteraria di ogni tempo, in quella moderna come sopravvivenza secolarizzata; nella dimensione politica di cui le tecnicizzazioni sono l’aspetto più evidente; nelle opere dei mitologi le cui teorie sono una continuazione del lavoro sulla realtà che il loro oggetto, il mito, compie rendendola comprensibile.

Sorto dalla necessità di comprendere in modo razionale fenomeni culturali che sembrano irrazionali, “l’elaborazione e l’uso della ‘macchina mitologica’ si rivela uno strumento gnoseologico in grado di neutralizzare gli effetti fascinatori del mito”: parlare di macchina mitologica e non di mito ha il preciso intento di evitare “il rivoltarsi della stessa macchina contro lo studioso che incautamente ne vuole svelare il segreto: lo strumento gnoseologico corre il rischio di trasformarsi in pseudo-epifanie”[i]. A questo tema Jesi dedica il saggio Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina lanimale di un bestiario[ii], una versione rielaborata della conferenza La machine mythologique, pronunciata in francese il 14 luglio del 1975 al Colloque sur l’analyse mythologique del Centro internazionale di semiotica di Urbino: qui il critico torinese, oltre a esprimersi in modo più coinciso, usa tonalità ironiche che costituivano un aspetto della sua personalità[iii]. Il punto di partenza è la discussione contemporanea sui modelli teorici in uso nelle scienze umane: già in Lévi-Strauss “la scienza sociale non si edifica sul piano degli avvenimenti” avendo come scopo quello “di costruire un modello, di studiare le sue proprietà e le sue diverse reazioni [...] per applicare poi quanto si è osservato all’interpretazione di ciò che avviene empiricamente”[iv]; così Kuhn, con la nota teoria dei paradigmi, aveva descritto ogni modello teorico nei termini di “caselle prefabbricate e relativamente rigide” in cui vengono collocati i loro oggetti, non senza “elementi di arbitrarietà”[v]. La “macchina mitologica” è definita da Jesi come un modello che serve a “configurare sia gli oggetti storicamente verificabili, sia gli oggetti storicamente ipotetici che stanno sulla tavola della cosiddetta scienza del mito o della mitologia”, e che, in quanto tale, non riesce a sottrarsi pienamente al rischio di fare della mitografia:

I materiali mitologici che si incontrano nella storia presentano quasi sempre una tendenza vivissima a farsi modelli, immagini esemplari; e ogni operazione gnoseologica che miri a metterli in rapporto fra loro senza distruggerne le presunzioni, può conferire nuovo ardore a questa tendenza. Composti, combinati insieme in un modello, i materiali mitologici cederanno la qualità esemplare, che si arrogano, al modello stesso che li riunisce tutti. In questo modo lo strumento gnoseologico che il modello dovrebbe essere diviene esso stesso un materiale mitologico. La “macchina mitologica” risulta così mitologica perchè rientra fra i materiali della mitologia, non perché serva a conoscerli[vi].

Ciò premesso Jesi riconosce come il suo modello presenti una certa “utilità”, in quanto consente di

risolvere i problemi epistemologici circa i rapporti fra il mito e i materiali mitologici: fra l’oggetto latente, che non è verificabile nella storia (il mito) [...] e gli ho oggetti che ho chiamato “materiali mitologici” (cioè la mitologia o le mitologie, di cui troviamo testimonianze nella storia). Il modello macchina mitologica presenta il vantaggio di non porre la domanda “che cos’è il mito?”, o almeno di dichiarare questa domanda mal posta, falso problema, poiché non è possibile dire cosa sia l’oggetto che si annienta da sé quando si dichiara la sua esistenza o la sua non-esistenza[vii].

Il solo nominare la macchina mitologica, come qualsiasi altra prospettiva sul mito, suscita una vera e propria “fame di miti”, un desiderio di sapere che invoca il riferimento alla trascendenza che ha garantito al mito come oggetto culturale, pur mutante, di conservare inesausta vitalità nella cultura europea grazie alla sua capacità di alludere, anche quando la nega, alla capacità di celare verità dotate di un’aura di superiore genuinità e distinzione.

Rivolgersi al mito vuol dire farsi trascinare in territori che hanno a che fare con il non-dicibile, calarsi storicamente in una sfera che necessariamente rinvia a se stessa, con il risultato di distogliere lo sguardo dal non-detto che la sorregge e dalla inevitabile generazione di nuovo e altro senso che scaturirà da quell’approccio. Lo studio del mito evoca inevitabilmente il suo “ectoplasma” ed è descritto

come una cerca, non solo capace di distruggere, ma obbligata a distruggere il suo oggetto: come una crociata che non potrà conquistare il suo Santo Sepolcro senza averlo prima distrutto. Il modello “macchina mitologica” è innanzitutto la macchina da guerra che conquista mentre distrugge, il marchingegno che conosce il suo obiettivo annientandolo.

A partire dall’idea-forza per cui ogni ricostruzione è una distruzione si sviluppa un’argomentazione basata sulla metafora gastronomica che sorregge l’intero testo:

Aver fame di miti: vuol dire prepararsi a mangiare i miti quando deporranno le loro corazze. Poiché altrimenti sono immangiabili. Si tratta di sgusciare dei gamberi, già bolliti al fuoco della cerca affinché assumessero cuocendo il colore rosso che è l’oggetto vero della nostra fame. Questo colore rosso è il colore di ciò che è morto e, morendo, assunse il colore di ciò che è vivo, maturo piacevolmente commestibile. Lo scopo della moderna scienza del mito [...] è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole[viii].

L’immagine kerényana della distanza dal passato, superabile in termini creativi solo nell’esperienza artistica, viene qui modulata nei termini di una “invenzione” del passato, o meglio di una costruzione del contenuto dell’oggetto perduto della propria ricerca paragonato all’arte culinaria, capace di ridare colore a qualcosa che altrimenti sarebbe respingente, come appunto il gambero. Desiderato per il suo colore rosso che assume solo attraverso la cottura, che implica la sua morte, in realtà questo, quando è vivo, è grigio, esattamente come il mito: oggetto culturale del passato e appartenente alla sfera del diverso questo non è conoscibile quando è vivo o si rivela ripugnante quando osservato nei “selvaggi”, per diventare interessante e disponibile alla comprensione solo dopo il trattamento a cui è sottoposto attraverso la scienza.

Il modello “macchina mitologica” [...] è una ricetta utile per rendere i materiali mitologici gradevolmente morti, irrorati del colore della vita, squisitamente commestibili, [...] è la ricetta per preparare i materiali mitologici affinché compaiano sulla nostra tavola scientificamente ben morti, ma anche molto appetitosi[ix].

Il movimento della macchina mitologica è la ricetta che il cuoco/mitologo applica sui propri materiali: così Jesi si serve per la sua descrizione della coincidenza tra le regole che compongono il modello della macchina mitologica e la preparazione dei gamberi secondo una celebre guida gastronomica[x]; indipendentemente dalla particolarità della ricetta e degli elementi che daranno il gusto definitivo al piatto, ciò che non manca mai è la fase del “ben lavare”, la cui parte più delicata è il “castrare”, nel senso letterale di liberare il gambero dal “boyau intestinal”, in modo tale da evitare che questi conferisca al cibo gusto “amaro” (amertume): in questa operazione di pulizia che preoccupa così tanto il cuoco, Jesi vede l’eliminazione del “fango delle ipostasi storiche”, che erano invece il suo interno. Il mito è dunque come il gambero: cibo pregiato e appetitoso, per poter essere mangiato deve essere bollito, sottoposto al trattamento che lo renderà ricercato e diverso da ciò che era. Attraverso il lavoro dell’ermeneuta, che è lo stesso della macchina, il “materiale mitologico” diventa “mito”: le tracce di memoria divengono coerenti solo perché all’interno del processo di ricezione.

La critica jesiana alla moderna scienza del mito ha un’indubbia consonanza con il dibattito aperto da Marcel Detienne con la pubblicazione de Linvenzione della mitologia, intenso lavoro di 2decostruzione di un sapere apparentemente immediato e legittimo” che ha proposto, anche molto provocatoriamente, l’idea di una “mitologia senza mito”, ove esso appare come una “specie introvabile, oggetto misterioso dissolto nella acque della mitologia”, creato di volta in volta dagli intellettuali che se ne sono occupati[xi]. Come mostra la digressione nelle pagine che seguono sulla “cucina medievaleggiante” del “laboratorio filologico del XIX secolo”, al centro della dissacrante ironia di Jesi c’è il sapere sui miti e sulla cultura a esso correlata che rivela la sua natura di “interpretazione molto saporosa secondo la ricetta borghese” che cercava nel suo passato forme ideologiche di legittimazione del presente. Si tratta di una lettura della realtà che continua a rimanere culturalmente dominante, in virtù della quale si persevera in ogni rapporto con il mito nel guardare all’introvabile “motore immobile della macchina”, invece di “guardare da vicino i prodotti e il produttore”[xii] dei materiali mitologici.

“C’è al centro della macchina mitologica, una camera segreta: quella che si trova nei sogni, e che molto probabilmente è vuota”, scrive Jesi; un luogo da cui escono continuamente “camerieri”, che fingono di essere tali “sebbene siano verosimilmente dei cuochi”[xiii]. I produttori di materiali mitologici, destinati ai consumatori di questa merce pregiata, sono coloro che fingono di essere solo i mediatori mentre producono l’inganno che rende “miti” i “materiali mitologici”.

In chiusura della conferenza Jesi dichiarava che la macchina mitologica

può essere utile come modello gnoseologico poiché traspone al livello del suo inganno meccanico, del suo inganno funzionale, normativo nella sua esistenza, l’inganno che K. Kerènyi chiamava la “tecnicizzazione del mito”. Così facendo, la macchina mitologica pone nelle nostre mani, nello stesso tempo, un modello gnoseologico e uno specchio del nostro inganno[xiv].


[i] C. Fiore, “Il mito e la macchina mitologica”, in «La critica sociologica», n. 54, estate 1980, pp. 161-2.

[ii] F. Jesi, Materiali mitologici (1979), Einaudi, Torino, 2001, pp. 174-182.

[iii] Tra le tante testimonianze del tratto ironico e sarcastico del suo eloquio cfr. il commento di Margherita Cottone (“Furio Jesi: vampirismo e didattica”, in «Cultura tedesca», 12, 1999, p. 43) che parla dello Jesi docente universitario come di un “sapiente ‘Trickster’”, figura che lo stesso Jesi definiva “‘imbroglione’ divino, [...] ‘gabbamondo’ che mentre imbroglia fa ridere”.

[iv] C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 56.

[v] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino, 1969, pp. 44, 23.

[vi] F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 174.

[vii] Ivi, p. 175.

[viii] Ivi, p. 176.

[ix] Ivi, cit., p. 177.

[x] Si tratta di A. Escoffier, Le guide culinaire. Aide-mémoire de cuisine pratique, Flammarion, Paris, 1921

[xi] Detienne M., L’invenzione della mitologia (1981), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1983, pp. 8, 161. Cfr: I. Strenski, Four Theories of Myth in Twentieth Century History: Cassirer, Eliade, Lévi-Strauss and Malinowski, Iowa City, 1987; C. Grottanelli, “Problemi del mito alla fine del Novecento”, in «Quaderni di storia», 46, 1997, pp. 183-206; C. Ginzburg, “Mito. Distanza e menzogna”, in Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 40-81; I. Chirassi Colombo, “Il mito e il novecento”, in Interrompere il quotidiano. La costruzione del tempo nell’esperienza religiosa, (a cura di N. Spineto), Jaca Book, Milano, 2005; M. Cometa, “Mitocritica”, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, (a cura di R. Coglitore, F. Mazzara), Meltemi, 2004, Roma, pp. 290-302.

[xii] F. Jesi, Materiali mitologici, cit., p. 180.

[xiii] Ivi, p. 181.

[xiv] Ivi, p. 182.

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