giovedì 30 settembre 2010

Jesi lettore di Rilke


Cari lettori,poiché sto prendendo coscienza del fatto che qualcuno mi legge, innanzitutto grazie.
Alcuni mi dicono che sono troppo lungo, altri mi segnalano che apprezzano maggiormente i saggi, nel dubbio procedo come capita. In questi giorni, diviso tra il lavoro quotidiano, il labor educandi di un paese allo sbando, e la cura della mia creatura preferita, Cura enim quia prima finxit,teneat quamdiu vixerit, non ho il tempo per nulla e quindi decido di affidarmi alla ristampa di testi usciti altrove e consegnati al circuito della letteratura scientifica specialistica. In questo, il primo saggio che ho scritto su Jesi e Rilke, metto a fuoco alcuni concetti a me molto cari. L'idea che la coscienza della morte e la finitezza siano il principio di ogni forma culturale, al punto che una stessa struttura antropologica tieni insieme sepoltura dei morti, scheletrificazione, e scrittura, stilizzazione del segno grafica nel segno della memoria come unica forma di non-mortalità, resistenza al tempo. L'idea che la letteratura sia far vivere ciò che è assente, in modo sempre postumo e ricostruttivo, dando vita al nuovo attraverso l'immaginario, poiché la creatività umana è tanto biologica quanto culturale.Il resto è letteratura della letteratura, uomini che si rincorrono leggendo i libri dell'altro, nel tempo, e cercando le parti di sé che in quel libro si celano.
Non riesco a mettere su le citazioni in modo sensato, troverete le note al fondo, del resto se credete come me che ogni intelligenza sia il prodotto collettivo di una macchina testuale composta da tutto ciò che ognuno di noi ha letto, forse non servono neanche.
Per Calvino ciascuno di noi «è una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture e di immaginazioni», «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un’inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». In altri termini, ognuno è una macchina mitologica.


Per autentica poesia visuale ecco un link al mio blog visivo favorito:
http://horrormundi.tumblr.com/

Qui sotto invece un fiore fossile, pare una margherita datata 50 milioni di anni.
Più o meno mi sento così.




«Estetica», n. 1/2009, pp. 21-47.


Enrico Manera


LA POETICA DI R. M. RILKE NELLA RIFLESSIONE SUL MITO DI FURIO JESI

(SU ALCUNE POSTILLE ALLE LETTERE A UN GIOVANE POETA)



Una chiara consapevolezza della morte. Tutta l'arte è in rapporto con la morte.

Rothko, Conferenza al Pratt Institute di Brooklyn, 27 ottobre 1958


1. Un ritratto

Furio Jesi è una figura intellettuale dal percorso inconsueto e irregolare, la cui straordinaria capacità di scrittura è in grado di far saltare i confini tra le discipline e di generare un interesse proporzionale alla quantità di temi affrontati e alla complessità dei testi prodotti. Continuamente mobile dal punto di vista geografico e intellettuale e irriducibile a schemi tradizionali, si mette in luce come precoce egittologo per ritrovarsi, all'apice di un'intensa, febbrile e troppo breve carriera intellettuale, germanista di rilievo e stimato studioso di scienza del mito. Nato a Torino nel 1941, ebreo non credente e militante della “nuova sinistra” impegnato nella ricerca e nella pubblicistica, si è occupato di storia delle religioni, antropologia, storia delle idee, critica letteraria e filosofia, per approdare, dopo anni di intensa scrittura e lavoro nell'editoria, a una cattedra universitaria in Letteratura tedesca nel 1976 a Palermo: in quest'ambito i temi centrali della sua riflessione sono divenuti operativi anche attraverso l'ampio lavoro di traduzione sui ‘suoi’ autori, tra tutti Rilke, Mann, Canetti.

Dopo aver finemente metabolizzato la classicità alla luce degli strumenti della filologia e dell'antropologia, Jesi ha orientato progressivamente il fuoco dei suoi studi dal preistorico e dall'antico verso la letteratura moderna e contemporanea, alla ricerca delle reciproche interazioni secondo un movimento che si rivolge a testi e documenti come “‘deposito e ricettacolo’, vere e proprie spie indiziarie, di strati profondi della personalità storica e dell'antropologia culturale dei gruppi” e si configura come “modello di lettura [...] sugli archetipi narrativi”. In questa direzione lo Jesi maturo condensa modalità operative e innovazioni metodologiche sincronizzate con la stagione culturale degli anni settanta di cui condivide ed esprime le istanze più urgenti, a partire dall'esigenza di produrre un sapere nuovo e vitale, antagonista di una scienza rigorosamente codificata e stantia: in lui la scelta della forma-saggio di sapore benjaminiano e il richiamo alle Tesi di filosofia della storia divengono intenzionale antidoto ai luoghi comuni dello storicismo à la Ranke e strumento critico di disintegrazione della razionalità tardo-borghese e del presunto continuum spazio temporale da essa edificato.

La prolifica attività di Jesi, molto più che germanista e mitologo, si misura in una bibliografia molto ampia, confinata tra il 1956 e il 1980, anno in cui a Genova, presso la cui Università insegnava, un assurdo incidente domestico ha messo fine alla sua vita. La pubblicazione postuma di testi inediti e la presenza continua delle sue opere nelle biblioteche degli studiosi di diverse discipline mantengono viva l'attenzione su un percorso foriero di prospettive, il cui minimo comune denominatore è la riflessione sul mito: prima nella storia delle religioni nel mondo antico, poi con l'analisi delle sue sopravvivenze nella cultura moderna e infine in relazione alla politica nel '900, essa costituisce il nesso che connette una scrittura densa e frastagliata, volutamente composita e caleidoscopica. Da questo reiterato sondaggio a diversi livelli di profondità nei territori del sacro, della letteratura e del potere, svolto senza mai rinunciare a un impegno di critica dell'ideologia radicalmente illuminista, sorgono il valore, l’importanza e il fascino delle pagine di Jesi.


2. Puer doctus

Un frammento giovanile è un buon punto di osservazione per lo studio di una versatile personalità intellettuale: scheggia scorporata dalle opere successive e potenziale elemento di elaborazione nel tempo, esso promette di essere la tessera di un mosaico all'inizio della sua composizione e di fornire informazioni necessarie a ricostruire l'insieme. Mille le precauzioni del caso: da un lato nel riconoscere al giovane autore il diritto all'errore e all'essersi lasciato alle spalle ingenuità dettate da prospettive di corto respiro che certamente non avrebbe voluto sapere associate al suo lavoro per la posterità; dall'altro, nel non forzare il testo alla ricerca della fonte da cui sarebbe sorto il genio, proiettando gli esiti successivi su ciò che li ha preceduti. È possibile invece che un tema sia centrale per l'autore da tempi remoti e il frammento sia in grado di attestarlo, mostrando la continuità di interessi e la ricorsività di ciò che, scritto prima, ha trovato una sistemazione dopo. Ciò è tanto più probabile se l'arco temporale tra il frammento e l'acmé è breve, se l'ambito della riflessione non professionale è il medesimo di quella matura e se l'essere giovane dell'autore coincide biograficamente con una precoce pienezza intellettuale.

Queste le premesse che muovono il commento di un inedito giovanile di Jesi di provenienza inconsueta: appunti autografi riportati su una copia personale delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke nell'edizione Carlo CYA, Firenze, 1944 - Bergamo, 1945 (a cura di Guido Degli Ubertis), redatti nel corso di letture databili non successivamente al 1958. È certo quanto gli anni 1956-60 fossero cruciali per Jesi: un intenso periodo di formazione caratterizzato da un ambiente familiare stimolante, un’intelligenza vivace e una sensibilità elevata, tali da giustificare una maturità superiore all’età anagrafica per cui il superlativo è d'obbligo. Da adolescente Jesi aveva presto abbandonato il Liceo classico “Vittorio Alfieri” di Torino poiché, allievo dotatissimo, aveva ritenuto con la sofferta approvazione della madre Vanna Chirone e dei docenti che la scuola tradizionale fosse inadeguata alla sua domanda di conoscenza. Tra il 1954 e 1957 aveva proseguito autonomamente gli studi da antichista: a Bruxelles presso la Fondation égyptologique Reine Elisabeth, a Hildesheim presso il Pelizaeus Museum e durante i reiterati viaggi archeologici in Grecia e in Asia Minore aveva incontrato studiosi ed era entrato in contatto con metodologie d’avanguardia. Tra il 1956 e il 1958 aveva collaborato con riviste prestigiose quali il “Journal of Near Eastern Studies” e l'italiana “Aegyptus” e nel 1957 aveva dato vita all'“Archivio Internazionale di Etnografia e Preistoria” (A.I.E.P.) per i tipi della SAIE. Proprio nel 1958, diciassettenne, aveva pubblicato con lo stesso editore il volume La ceramica egizia, preceduto da un'introduzione dell'egittologo Pierre Gilbert, e aveva partecipato come relatore al V° Congresso internazionale di Preistoria di Amburgo durante il quale aveva presentato l'intervento Bès initiateur. Élements d’institutions préhistoriques dans le culte et dans la magie de l’ancienne Égypte, per poi prendere parte, insieme ai partecipanti al convegno, a un viaggio di istruzione in diverse città nordeuropee. Basterebbe questo per ritenere significativa l'analisi delle annotazioni, tanto più se si considera che queste riguardano oggetti che avrebbero solcato a più riprese la produzione jesiana: la morte e Rilke.

Emerge dalla lettura di Jesi delle Lettere a un giovane poeta una riflessione di ordine estetico sulla memoria come immortalità: l'arte è pensata come capace di rendere immortale il suo oggetto – in continuità con Omero ed Erodoto, perché le “opere degne di ricordo” “non sbiadiscano con il tempo”; il tono è quello di chi rielabora le proprie conoscenze e incrocia il testo che ha sotto gli occhi con altre letture, prendendo appunti per una crescita spirituale e per un apprendistato alla scrittura che appaiono inseparabili, secondo una concezione per cui l'autenticità della prima è garanzia di riuscita della seconda. È opportuno ricordare che Jesi si è cimentato con prosa e poesia già in quegli anni e che ha saputo affiancare nel tempo l'attività scientifica a quella artistica, mantenendole separate, non senza ironiche sovrapposizioni. Tutto concorre nel suggerire l'idea che l'insegnamento di Rilke sia colto genuinamente da chi agli inizi di una carriera di studi umanistici, intenda far tesoro di preziosi consigli per la propria vita interiore; lo stesso Kerényi, maestro di Jesi, era attento e assiduo lettore di Rilke. Se il libro con le sue postille, in virtù del valore di classico della formazione che le Lettere ha assunto, può essere innanzitutto un ‘diario’ dello studioso diciassettenne – non lo sono forse tutti i libri più cari? –, queste note sono di grande interesse nel rivelare l'esistenza di interessi e spunti che Jesi avrebbe messo a punto più tardi nella critica rilkiana.

Quanto segue è una “prova di lettura” di tali passi, secondo un'espressione di Jesi qualificativa di un metodo con cui si intende “far interagire il testo con altri”, in questo caso con un triplice intento: chiarire la lettura jesiana del rapporto con i morti nella poetica di Rilke; inserire tale poetica in una filosofia che vede la coscienza della morte come fattore generativo di un bisogno di persistenza assolto dalla memoria e dall'immaginazione; mostrare la sua correlazione con una teoria del mito e della memoria culturale che è anche una filosofia della scrittura alla luce del tentativo umano di redimere la propria finitezza.


3.Das Reifen

Le lettere che compongono Briefe an einen jungen Dichter furono scritte tra il 1903 e il 1904, con un'ultima nel 1908, da Rilke a Xavier Kappus, artista inquieto che lo aveva contattato “chiedendogli un giudizio e un orientamento”. Pubblicate per la prima volta nel 1929 senza quelle di Kappus, confluirono in un epistolario vastissimo che contribuì all'edificazione della Rilke-Legende agiografica e oracolare da parte di una critica mitizzante. Come sottolineava Jesi, fu creata con il beneplacito dell'autore “attorno al poeta un'aura tra la confetteria e il salotto teosofico” al punto che in certi ambienti si arrivasse a praticare il rilking, il “parlare di Rilke [...] per fare bella figura intellettuale” quando “la conversazione languiva”. L'equilibrio e la misura che lo studioso torinese ha saputo mantenere, tenendosi lontano tanto dalle letture adoranti quanto da quelle liquidatorie, costituiscono, insieme alla proposta di originali chiavi di lettura, il suo pregio maggiore.

Nei primi anni del '900 Rilke era già noto come poeta e ‘pellegrino’ cosmopolita, autore delle Geschichten vom lieben Gott (1900) e di Das Buch der Bilder (1902). Nel 1903 concludeva Das Stundenbuch e nel 1904 pubblicava Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke, iniziando la stesura di Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910) mentre al 1907-8 risalgono i due volumi dei Neue Gedichte, che inaugurano la fase di intensa elaborazione ideologica e poetica che sarebbe sfociata, dopo gli anni della “grande siccità” seguita al Malte, nelle Duineser Elegien e in Die Sonette an Orpheus (1922).

Le Lettere a Kappus appartengono a un periodo molto interessante per cogliere la poetica rilkiana e per rilevare la presenza di topoi la cui ricorrenza sarebbe stata decisiva per le opere degli anni venti. In esse, secondo l'analisi di Jesi nel saggio Il giovane poeta (1968, in Letteratura e mito) è centrale il “‘maturare come l'albero, che non incalza i suoi succhi’”, verso “l'istante in cui se ‘ci fosse dato di veder più oltre che non giunga il nostro sapere [...], forse allora sopporteremmo noi le nostre tristezze con maggior fiducia che le nostre gioie. Ché esse sono i momenti in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto’” nel “lungo e faticoso cammino verso l'ignoto”, verso l'inconoscibile da cui scaturisce la realtà. L'essere poeta è definito un “austero e difeso umanesimo”, la cui origine è questa “lunga tortura” che consente di “trasformare in un unico punto l'epifania dell'ignoto altrimenti scissa in nascita e morte”.

Il progetto esistenziale descritto come viatico per il poeta consiste nel nobilitare il dolore ai fini dell'operazione estetica, individuandovi il marchio di uno stato di indigenza prossimo ad essere colmato dalla ricchezza della rivelazione: dal maturare dell'inconoscibile”; è questa la “genuina epifania del mito dell'uomo”, la condizione dell'umanesimo come processo di “antropofania” ovvero come manifestazione a se stessi della propria intima identità. Si tratta della rivelazione dell’interiorità che le molestie della vita quotidiana, la conformità alle convenzioni sociali e un'esistenza condotta nel commercio con le occupazioni ‘estranee’ alla vita e al suo fluire misterioso non consentono di cogliere.

Maturazione è fare esperienza del mondo come apprendistato per farsi “cosa tra le cose”, implica il ripiegamento nella solitudine profonda di cui l'irregolarità dell'artista è il correlato comportamentale, la condizione che garantisce l'assenza delle barriere imposte dai rapporti sociali. Ricercando lo sguardo “di un angelo accecato che guarda dentro di sé” il poeta può diventare “strumento cieco e puro” dell'inconoscibile, “una forza talmente ampia da abbracciare il visibile e l'invisibile, dunque da riuscire inconoscibile al poeta stesso”: solo così la sua voce può “trasformare in invisibile quanto è visibile, attraverso l'attività poetica”. È questo il senso del celebre passo del Malte che condensa il pensiero di Rilke sull'attitudine dell'artista nei confronti dell'attività poetica come dialettica di ricordo e oblio:


E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.


4. Memoria è immortalità

Le considerazioni che guidano Jesi nelle opere su Rilke sono centrali nelle Lettere a un giovane poeta: in quell'edizione la solitudine è “dimora per le ore incerte della giornata” e condizione per il “ritorno” in se stessi, necessario alla creazione in quanto “l'opera d'arte è buona quando è nata da necessità” e “perché il creatore deve essere per se stesso tutto un universo, tutto deve trovare in se stesso e in quella parte della natura alla quale si è unito” (p. 28). Il “crescere secondo la propria legge” (p. 29) è il “destino” (p. 39): “portare a termine e poi partorire: tutto sta qui. Bisogna che voi lasciate maturare dentro di voi ogni impressione, ogni germe di sentimento, nell'oscuro, nell'inesprimibile nell'incosciente, in queste regioni chiuse alla comprensione. Aspettate con umiltà e pazienza l'ora della nascita di un nuovo chiarore” (p. 41). In altri passi si suggerisce di estendere il proprio “amore a tutto quello che c'è” (p. 48) e di “vivere tutto”, (p. 49): al poeta “è dato di riconoscere che ogni bellezza, negli animali come nelle piante, è una forma durevole e nuda dell'amore e del desiderio” secondo una legge per cui “la fecondità è ‘una’: poiché l'opera dello spirito procede dall'opera della carne e partecipa della sua natura” (p. 50), conformemente all'idea che l'arte germini nella dimensione erotica come una forma di maternità.

In questo contesto si trovano le annotazioni di Jesi. A pagina 38, una pagina bianca tra la lettera rilkiana del 5 aprile e quella del 23 aprile 1903, si legge:


L’immortalità si riferisce soltanto ad una morte e rinascita fino a che non si perda il ricordo di vita umana. Più in là non si tratta più di immortalità. Ma finché vi saranno uomini, esseri che possono morire, l’immortale vivrà nella gioia. Anche se l’artista sarà scomparso.


L'immortalità è qui correlata non con l'eterno, ma con la morte, in base all’idea che i morti siano presenti nell’anima di ciascuno: è qualcosa che riguarda gli uomini se garantita dalla memoria, destinata a non essere più tale qualora non ci sia più nessuno che ricorda. La mortalità è il fattore che produce l'immortalità come condizione di “gioia”, perché determina l'urgenza di fissare la persistenza di un soggetto nel tempo, come l'opera d'arte che sopravvive alla scomparsa dell'artista.

A pagina 70 è presente un'altra considerazione sullo stesso argomento:


L’immortalità si può trasmettere, non tenere per sé. E trasmettere ad una persona, non a una cosa, a una musica o a un quadro, che sono già senza vita e senza morte. La morte dell’artista deve essere una doppia morte. Deve essere insieme anche la morte della persona, di Venere. E l’immortale potrà essere.

La donna sarà immortale solo così; quando l’unico artista non vorrà più cercare inutilmente di essere immortale e vorrà farla divenire immortale. Vorrà ricrearla e guidarla poi verso le isole felici dove si muore e si rinasce in eterno. Ma quando il suo compito sarà finito, dovrà abbandonarla? Forse qui c’è la risposta.


La condizione di sopravvivenza al tempo è nel ricordo come oggetto della rappresentazione che diventa il significato vitale di un'opera. In tal senso l'artista lascia essere l'oggetto della sua rimemorazione (“la donna”) attraverso la “doppia morte”, cioé la può far vivere solamente in quanto trasfigurata in immagine artistica, altra rispetto alla persona reale, e mettendo da parte la propria individualità storico-biografica per essere strumento dell'immaginazione. Solo tale ‘umiltà’ dell'artista, una sorta di capacità di “distruggersi”, garantisce l'immortalità, non a lui quanto all'oggetto della sua creazione: nel caso della scrittura la sopravvivenza al tempo è nella dimensione letteraria, nella quale l'artista ricrea l'oggetto che ha trasfigurato. La fruizione di questo comporta, in quanto ricezione da parte del lettore, la rinascita continua, che sancisce l'abbandono dell'oggetto originario raffigurato e la sua consegna alla nuova vita nello spazio letterario, nell'incontro tra scrittore e lettore mediato dal testo.

Simile a un alchimista impegnato a ricercare l'essenza della realtà in ciò che rimane al termine dei processi di calcinazione e volatilizzazione, l'artista sublima la realtà cogliendone gli aspetti che resistono alla trasformazione e si cristallizzano come materiali solidi e duraturi che costituiscono l'essenza della parola poetica capace di sopravvivere. A partire da qui intendo ripercorrere i tratti essenziali di quanto Jesi ha scritto su Rilke per ricercare gli sviluppi e le articolazioni del rapporto tra morte e memoria in molta parte della sua produzione.


5. Mors magistra

L’idea espressa nell'inedito giovanile prevede che colui che eserciti l'attività poetica, di fronte all'esperienza dei morti, sia capace di trasmettere loro immortalità, se il suo percorso di maturazione è giunto a compimento.

In diverse opere successive il “maturare” in Rilke è associato alla “maturazione della propria morte”: se l'avvio verso una “placida morte” comporta lo “scorgere l'inautenticità dei molti falsi scopi che dominano la vita”, secondo il dettato dello Stunden-Buch “la ‘grande morte’ è quella che ciascuno porta con sé e che è nel tutto”, come un'esperienza il cui conseguimento spetta a coloro che “lasciano penetrare in sé l'inconoscibile e perciò fluiscono essi stessi nell'immenso aperto dell'inconoscibile:


O signore, dài a ciascuno la sua propria morte,

il morire che viene da quella vita

in cui egli ebbe amore, senso e pena.

Ché la scorza e la foglia solo siamo. La gran morte, che ciascuno ha in sé,

è il frutto intorno a cui si volge tutto.


Analogo significato ha la figura di Malte, il protagonista del romanzo che è “una meditazione per immagini sulla morte”: nel suo apprendistato di artista il perdersi nel labirinto della città e della memoria è contrassegnato dalla presenza continua di spettri, dall'evocazione di antenati e da una carrellata di morti esemplari. Il giovane poeta mancato, ‘ultimo’ della sua stirpe, dichiara fin dall'inizio: “io imparo a vedere”; è questo il suo modo di afferrare “‘in apparizioni e immagini’ [...] ‘la vita che incessantemente va ritirandosi nell'invisibile’”, un modo di fare “’provviste del suo animo’” per un viaggio volto “ad acquistare un rapporto con la morte”, ovvero con l'esistenza nel tempo la cui essenza è la scomparsa delle cose – dagli oggetti che lo circondano fino alle persone della sua famiglia –, “che preluda al positivo morire la propria morte”. ‘Morire la propria morte’ significa vivere la propria vita cogliendo i rapporti tra visibile e invisibile lasciando che i “documenti visibili” di ciò che svanisce si sedimentino nella memoria e si trasformino in parola poetica secondo il processo di “dissoluzione”.

Si delinea in modo più chiaro come la presenza della morte e la capacità di generare siano legate. Diverso dall'uomo comune, il poeta “è usato dalle forze sovraumane in modo da acquisire il punto di vista dell'angelo e in ciò è ‘scolaro della morte’” come si legge in una lettera di Rilke: “A Firenze, a Bologna, a Venezia e Roma, ovunque sostavo dinanzi alle lapidi, come uno scolaro della morte, e mi lasciavo educare”.

Non senza oscillazioni nel tempo, la poetica di Rilke appare come una religio mortis definita dall'“intuizione di un rapporto segreto tra vita umana e morte tale da definire la morte come uno spazio interiore dell'esistenza umana”. Basti ricordare come le figure che abitano le Duineser Elegien e Die Sonette an Orpheus (l'angelo, i bambini, le amanti abbandonate, gli amanti all'inizio della passione, i giovani morti) siano forme retoriche peculiari, “inversioni mitopoietiche”, contrassegnate e accomunate dal rapporto con la morte, la grande metonimia di una fenomenologia della finitezza. Il poeta mantiene vivi i turbamenti che usualmente ogni essere umano occulta dietro i paramenti della vita quotidiana; così facendo egli custodisce la possibilità di accedere, seppur in modo cifrato e parziale, “dall'altra parte della natura”: per questo ascoltare la voce dei morti è sua prerogativa.

Nelle Elegie Duinesi, I, vv. 88-91, leggiamo, sul significato del rapporto che lega i vivi ai morti:


Ma noi che abbiamo bisogno di sì grandi misteri, - quante volte da lutto

sboccia un progresso beato -: potremmo mai essere, noi, senza i morti?


Una eco ideale del nesso tra morti e memoria è nei Sonetti a Orfeo, IX, vv. 5-8, nel quale il vivere un rapporto con la morte, nel passato, è associato alla conoscenza e alla capacità di sentire, nel futuro:


Solo chi con i morti il papavero

gustò, il loro,

neppure il più lieve suono

tornerà a dimenticare


Questi versi sono del 1922 (anche se le Elegie furono iniziate nel 1912), ma una formulazione della stessa tematica si ritrova già nella Lettera di Rilke a Kappus del 23 dicembre 1903 (nella copia di Jesi pp. 63-68) in cui la ricorrenza del Natale è l'occasione per celebrare la “grande solitudine interiore”: si tratta di una lunga apologia dell'infanzia come stato di coscienza altra che è al tempo stesso una esposizione della propria teologia personale. I bambini vivono la perfetta solitudine perchè “ignorano la prospettiva cronologica e vivono psicologicamente in un presente sottratto al tempo” in una calma e semplicità ignara di Dio; al divino si fa riferimento come “colui che verrà”, “che è il futuro, il frutto compiuto di un albero di cui noi siamo le foglie”, costruito dall'uomo “al modo delle api [...] col più dolce di ogni cosa”, cominciato dagli esseri umani nell'amore, nel silenzio e nella “gioia interiore” (p. 67).

Nella pagina seguente si trova un passo decisivo:


Non lo conosceremo nella nostra esistenza [il complemento oggetto è Dio, n.d.a.]; non più di quanto i nostri antenati hanno potuto conoscere noi nella loro. Eppure quegli esseri del passato vivono in noi in fondo alle nostre inclinazioni, nei battiti del nostro sangue, gravano sul nostro destino: essi sono quel gesto che così risale dalle profondità del tempo.


Nella lettera del 1908 (p. 100) Rilke riprende il tema, associando il mare alla “solitudine magnifica” dell'“armonia preistorica”:


essa agirà in silenzio, in una maniera continua ed efficace come una forza sconosciuta su tutto quello che vivrete e farete, come fa in noi il sangue dei nostri avi.


La dimensione larica che risuona nel poeta è uno snodo importante della teologia estetica rilkiana, la cui origine appare pre-cristiana e i cui sviluppi sembrano post-cristiani. Fin dalla preistoria i resti delle sepolture indicano come la religione appaia nel segno degli antenati “una strana convivenza ideale dei morti e dei vivi in seno al gruppo”, collegata a un sentimento di identità e alla “riflessione sul passato ancestrale, sul tempo che trascende la vita del singolo”. Il tema della percezione della morte nella preistoria è centrale nei primi lavori di Jesi: un testo paradigmatico in tal senso è La civilisation glozélienne (1962) dedicato all'esame dei reperti del sito neolitico di Glozel, necropoli scoperta negli anni venti nei pressi di Vichy in Francia. In quelle dense pagine lo studioso, analizzando le raffigurazioni simboliche in cui si fondono visi di morti e simboli di fertilità, definisce la “morte come determinante di forme” e le assegna un ruolo decisivo per la nascita dell'arte: “fede, fiducia, timore” sono i sentimenti che contribuiscono alla “costruzione del pensiero dell'uomo relativo al suo destino, alle modalità della sua esistenza reale”. La consapevolezza di una differenza tra lo statuto ontologico del morto e quello del vivo, la sua impossibilità di “comunicare” con il corpo, avrebbe contribuito alla determinazione della coscienza del tempo dell'uomo arcaico con la “separazione” tra mondo dei morti e mondo dei vivi in età neolitica.

Se l'emozione di fronte alla scomparsa dei propri cari, che è anche la proiezione anticipata della propria, è il fattore che alimenta la cultura, la compresenza di vivi e morti e la continuità nel succedersi delle generazioni sono le forme elementari del travaglio della memoria, destinato a successive elaborazioni attorno all'idea di immortalità, rinascita, resurrezione. Prima l'arte e l'architettura e poi – molto dopo – la scrittura hanno comportato nella storia umana la “fissazione della labile precarietà del presente in qualcosa di resistente, stabile, saldo, sopravvivenza artificiale di ciò che la natura destina alla morte e alla rovina”; in tal senso monumentalità e simbolismo funebre, commemorazione dei morti, fama postuma, scrittura, archivio e storiografia possono essere considerate modalità differenti di elaborazione di un rapporto degli uomini con la propria finitezza nel tentativo del suo superamento. Così la letteratura da un punto di vista antropologico può configurarsi come dialogo con i morti: “negli autori classici, da Omero a Dante passando per Virgilio, l’incontro con i morti assume la funzione ideologica di una grande narrazione mitica che definisce il senso di una civiltà e di un destino, disegna una continuità e una tradizione, costruisce un futuro scegliendo un passato”.

Tali sviluppi di una teoria della cultura sembrano rientrare nella sfera delle riflessioni di Jesi, se si considera che nelle pagine di La civilisation glozélienne si legge:


Nei primi lustri del nostro secolo, Rainer Maria Rilke ha formulato nelle sue Duineser Elegien la credenza in una immortalità che procede dal contatto con la morte. Solo chi ha conosciuto la presenza e la saggezza dei morti – dice il poeta – può conquistare una voce immortale. Le guide del poeta nel regno dei morti sono delle Lamentazioni (Klagen): personificazioni ambigue e misteriose di un rituale funerario che non ha equivalente puntuale nella storia delle religioni, ma che sintetizza a posteriori tutti i rituali funerari dell'umanità nell'archetipo del procedere della morte, cristallizzata nell'anima del poeta.


Sulla base di queste considerazioni intendo sostenere l'idea che l'interesse antropologico di Jesi sia fortemente correlato con la sua attività di critico letterario e che entrambe le sfere si congiungano nella prospettiva di una teoria del mito all’interno della quale egli ha lavorato ininterrottamente.


6. Dioniso o del passato

Nelle indicazioni che Givone ha suggerito nell'intervento Furio Jesi i passi sulla memoria come immortalità contengono “l’idea dello scambio di amorosi sensi” cara alla cultura neoclassica, in antitesi alla “lettura cristiana del mito di Dioniso” che si può trovare compendiata nella prospettiva romantica secondo cui la morte in funzione dell’eterno permette la riappropriazione di sé da parte di Dio. Il saggio Inattualità di Dioniso individua il significato più resistente al tempo del mito di Dioniso in quello di “’dio del dolore’” che gli ha garantito una “fortuna secolare, largamente posteriore al limite storico della devozione organizzata verso di lui”. L'emozione arcaica di fronte alla morte si connette alla scomparsa della realtà nel passato in quanto farsi memoria: “Dioniso era il dio del dolore poiché dolorosa è la perdita del passato quando il passato non è ricordato in quanto è rimasto presente”, in quanto “presente vivente”, “materia vivente di chi ha sperimentato il passato” e lo ha dimenticato. “La morte che prelude la rinascita è l'abbandono del passato, il quale cessa di essere tale e non è ricordato perché è divenuto presente. La rinascita è, appunto, l'esperienza di quel presente che comprende in sé tutto ciò che del passato era vivo ed è vivo: tutto ciò che non si ricorda”.

Il contenuto dell'esperienza religiosa dionisiaca sarebbe dunque “lo schema temporale, il passaggio, la perdita del passato in quanto divenuto presente”. Per questo motivo “la ricorrente fortuna del ‘dionisismo’ consente di osservare il paradosso del dolore implicito nella rinascita in una prospettiva più ampia, tale da coinvolgere non solo il passato personale dell'individuo, ma anche il passato personale di una comunità, di una generazione, di una cultura”. L'inafferrabilità di Dioniso, l'esperienza di spiazzante disorientamento che caratterizza nella mitologia e nel rituale la sua presenza e ne fa l'incarnazione della “figura dell'Altro”, viene letta da Jesi come una dinamica esperienzale che costituisce il tessuto dell'esperienza umana nella sua finitezza nel tempo, in quanto “Dioniso è il paradosso divino del ricordare ciò che si dimentica, del presente in cui il passato sopravvive appunto perché ha cercato di essere”. Perché “non senza dolore ci si stacca dal passato per possedere solo il presente, non senza dolore si rinasce – non senza morire”.

In Jesi la trasposizione di una esperienza elementare dell'esistenza umana è osservabile nel funzionamento della comprensione semantica e della trasmissione di sapere, in quanto “nel passaggio dallo sviluppo protoculturale all'evoluzione culturale gli uomini sono diventati narratori di storie, animalia interpretantia – e da allora lo sono rimasti”. Si sviluppa così una teoria ermeneutica derivante dalla scienza della mitologia, secondo cui “il presente contiene il passato poiché l'intelletto presente, mosso dalla volontà, concepisce l'unica realtà del passato, escludendo un passato giacente nel passato”.

Studiare il 'mito', racconto “intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà”, significa riconoscere da un punto di osservazione privilegiato che il passato è sempre quello visto dal presente e che la distanza che ci separa da esso è tale da impedirne ogni possesso, ogni accesso diretto e immediato a quando era vivente. Jesi si è rivolto alla mitologia come dispositivo complesso che rielabora archetipi narrativi di origine materiale e sociale, traccia degli uomini nella storia (e non voce del sacro o dell'essere); già nel 1966 nel saggio Avanguardia e vincolo con la morte scriveva:


Tradizione è innanzitutto memoria; ma la memoria è una realtà partecipe più del presente che dal passato: un atto creativo, il quale si giustifica proponendo come propria prospettiva il passato e proiettando sul fondale del passato le proprie componenti non risolte, i timori generati dalla constatazione di componenti non razionali o di immagini orride che una volta furono benefiche o che in altra forma avrebbe potuto esserlo.


Il mitologo torinese avrebbe elaborato a partire dai primi anni settanta il modello teorico della “macchina mitologica” perseguendo la messa a fuoco di un'ermeneutica basata sulla “reciproca permeabilità di soggetto e oggetto” . In questa teoria della ricezione, che giunge a fare del mito una “forma cava” potenzialmente capace di significare ciò che il suo interprete ha voluto veicolare, fin dall’antichità il mythos è qualcosa che si presenta come verità, realizza e consolida delle autoevidenze altrimenti arbitrarie facendole apparire ‘naturali’: esso significa “parola, discorso” ma anche “progetto, macchinazione, rivolta”, è parola concreta, efficace che evoca il tempo trascorso ed ha l’autorevolezza di un passato consacrato. Costruttore di senso e produttore di identità, il mito può diventare strumento tecnicizzato, rielaborazione strumentale di immagini che punta al conseguimento di obiettivi determinati grazie al potenziale emotivo e alla capacità comunicativa, in modo particolare nella sfera politica. Così “affrontare il tema del mito non appartiene più solo al campo della ‘scienza della religione’ ma significa anche decostruzione dei meccanismi performativi delle culture moderne e contemporanee”.

Benché non articolati, i frammenti giovanili si collocano in rapporto di continuità con questi sviluppi: in Rilke, il poeta dell'egizio “paese delle Lamentazioni”, Jesi poteva trovare da un lato la versione poetica di una nozione antropologica che vede nel rapporto con i morti un nucleo essenziale dell'esperienza umana e dall’altra poteva intuire quanto il potere del linguaggio e il linguaggio di cui si serve il potere affondassero le proprie radici nel fascino suscitato dall'eco del passato.


7. Andare all'infanzia

La presenza della morte non è fine a se stessa ed è piuttosto la parte discendente di un ciclo che prevede un ritorno: da essa sono inseparabili le idee della nascita, del futuro e della speranza che trovano nell'infanzia un'immagine privilegiata. Nelle Lettere a un giovane poeta il Natale, la festa, è luogo della continuità e fulcro della teologia poetica che lega morti e nuovi nati “nella speranza d'essere un giorno in Lui, al di là di ogni limite” (p. 68). “L'angoscia dinnanzi alla vita” provata in solitudine è il “pio sentimento” del bambino che vive ancora nel poeta. Sua specificità è negarsi alla quotidianità degli adulti: l'infanzia è luogo di mistero e di solitudine, in cui “andare con se stessi, e per delle ore non incontrare nessuno”: “essere soli come il bambino quando le persone grandi vanno e vengono, mescolate a cose che ad esso sembrano grandi e importanti [...] e il bambino non capisce niente di ciò che fanno” (p. 64). Se l'infanzia è “l'intimo del nostro proprio mondo”, l'età adulta è assenza di sentire e vedere, età di “preoccupazioni misere”, di “mestieri freddi” e “senza rapporto con la vita”: per questo il poeta, scrive Jesi nel 1968, è “sempre ‘il giovane poeta’”, la cui “perenne giovinezza” consiste “nel durare di lui presso l'ora di nascita” come condizione per “maturare verso la morte”. L' esperienza del mondo da parte del poeta richiede lo sguardo bambino che solo un rapporto con l'inconoscibile, il mistero non mediato da schemi concettuali e pratici, garantisce, affiché egli possa farsi “cosa tra le cose”, “strumento cieco e puro” e manifestare con il suo canto l'invisibile.

L'infanzia appare a Jesi come un luogo speciale per i suoi dolori, destinati ad alimentare il processo di scoperta e messa in chiaro di se stessi: ciò è tanto più significativo se si pensa che rimase orfano di padre in tenerissima età. Bruno Jesi, ufficiale di cavalleria, era morto nel 1943 ventiseienne a Torino, in seguito alle ferite riportate durante la guerra d'Africa, quando Furio aveva circa due anni. La madre Vanna e il nonno materno Percy Chirone, entrambi cultori di storia antica, erano stati punti di riferimento di una vita affettiva in cui la memoria sembra aver avuto un ruolo decisivo, al punto da far pensare che alla ricerca sul passato Jesi si accingesse non solo nella veste di studioso di storia delle religioni, ma anche in quella dolorosa di orfano.

Così Katabasis, una delle sue liriche de L'esilio:


Solo negli umili specchi

della casa dei vivi, il tuo viso

credo di trovare nel mio per

fuggevoli giorni.

Ma è solo un riflesso sull'acqua,

un fuoco

nell'alta notte.

Bambino,

molte volte ho ornato di fiori

la tua tomba. Là era per me

lo spazio tacito meridiano

dell'infanzia, il calore del grano.

Giocavo silenzioso

per non destarti dal sonno,

e neppure cercavo

la tua mano, di notte,

perché non bisognava svegliarti.


[...]


so pure

che se ti parlo non mi ascolti. E forse

giusta è la pietra e l'alta insegna.

Il viso tuo, che non guastino le piogge,

dura nella casa dei morti

ma non può sapermi.

A me soltanto

resta il riflesso nello specchio, il lume

chiaro della tua sosta.


Il tema dell'infanzia ha un'ampia risonanza in Jesi: Letteratura e mito è il libro di un orfano che si apre con una riflessione sull'immagine di Ruggero Pascoli, il padre barbaramente ucciso del poeta per eccellenza dei bambini e dei morti, e sull'indistinguibilità del padre e del figlio in fotografia, quasi questo “fosse stato trafitto nell'ora della morte del padre”: questo evento segna “nella vita del figlio il termine del ‘grande anno’, lo scadere del ciclo perennemente ripetuto, entro il quale il tempo del mito assorbe e consacra della storia”.

La condizione che predispone alla cognizione del dolore distingue il poeta e gli permette la conoscenza dell'inconoscibile ad altri preclusa: egli, Rilke come Pascoli, trasferendo “l'esperienza personale sul piano degli eventi cosmici” e denunciando “una devozione all'oscurità e alla morte che solitamente coincide con la percezione della fine di un ciclo”, parla a nome della condizione umana e della sua epoca. Il suo parlare è il “nominare ogni cosa con il suo preciso nome” che, esprimendo “la fiducia nella potenza lirica e magica del nome” ripete il gesto di Adamo che dà i nomi alle cose del mondo nella versione secolarizzata dell'appropriazione antropomorfica del mondo attraverso la parola. Il movente di questa ripetizione è il punto zero costituito della morte del padre, il “prototipo” di tutti i morti: per questo al poeta è data la possibilità di sentire “le voci dei morti che coincidono spesso con le voci della natura”.

In tal modo il poeta è simile al “fanciullo primordiale, il divino fanciullo dei miti delle origini, l'orfano abbandonato che vive la prima ora del mondo”, “Dioniso fanciullo che comanda alle fiere e alle potenze della metamorfosi, ma può essere insidiato dai titani”: nella sua figura “si fondono l'esperienza dei terrori dell'uomo solo nel mondo primordiale e la fiducia in una fatale ripetizione: fiducia nella salvezza garantita dall'essere l'orfano una ripetizione del padre e dal perenne ritornare del tempo”. In questo passaggio Jesi sottolinea mediante riferimenti a Rilke nella X Elegia (ma anche al Pound dei Cantos, l'Eliot di The Waste Land, l'Euripide delle Baccanti) la “gioia del fanciullo primordiale, dell'orfano”, in nome di una “forza misteriosa”, di un'“oscura benevolenza che la natura gli mostra nell'ora stessa in cui gli mostra il suo volto minaccioso”: tale “radice di gioia” che scaturisce dall'esperienza di dolore è anche “potenza del fanciullo quale arbitro di metamorfosi”. L'orfano divino è qui immagine archetipica, secondo il magistero kereniano, che affiora “nella grandi svolte della storia della cultura”, nelle epoche di crisi e di passaggio, laddove si fa sentire “il finire di un ciclo”: “ad essa sembra che l'animo umano affidi ciecamente le sue speranze”.


8. When the Rain comes down

Le metafore poetiche della vita vegetale e l'alchemica idea-forza della dissoluzione non sono le sole che Rilke abbia utilizzato con continuità: il ciclo della acqua, insieme al sonno, è una delle “immagini che illustrano a livello simbolico la circolarità dell'operazione artistica nella poetologia rilkiana”. “Il ciclo dell'acqua, che evapora dalla terra, sale in cielo, e di là ricade sulla terra come pioggia, per poi evaporare nuovamente verso l'alto” è un tema la cui ricorrenza copre un arco testuale ventennale, dal saggio Von der Landschaft del 1902 (che ripercorreva le esperienze di un viaggio italiano) alla lettera a Ilse Jahr del 22 febbraio 1923, spesso citata per le tonalità orfiche.

Nel Malte, il cui nucleo pulsante è il rapporto con il tempo, l'idea della pioggia è associata alla scrittura; consapevole del suo fallimento come poeta perché l'apprendistato, l'‘imparare a vedere’, non è giunto al termine, il protagonista afferma:


verrà il giorno in cui la mia mano sarà lontana da me, e quando le ordinerò di scrivere, scriverà parole che non volevo. Spunterà il tempo della spiegazione altra, e non resterà più una parola sull'altra, e ogni senso si dissolverà come le nuvole e ricadrà come acqua.


La pioggia, precipitazione involontaria delle esperienze 'evaporate' nell'esistenza, è la poesia realizzata, il prodotto dell'“essere afferrati” e condotti verso destinazioni sconosciute in quanto “strumento cieco e puro” dell'inconoscibile. In continuità con questa la lettura è stato messo in luce come nel Malte trovi spazio “il tema della metempsicosi, vista soprattutto come ideale cifra risolutiva ed equilibratrice dell'ossessiva immagine rilkiana della circolarità dell'intera esistenza. [...] Ha funzione omologa il ciclo dell'acqua, elemento che pur unendo terra e cielo in uno scambio continuo si sottrae al possesso dell'una e dell'altra. La metempsicosi significherebbe scambio tra visibile e invisibile, con un moto eternamente circolare che determina arricchimento continuo per entrambi [...]”.

La trasfigurazione poetica della legge cosmica del generare è visibile nello sviluppo della stessa poetica rilkiana scandita attraverso il tempo: la vicenda di Malte descrive solo una parte del ciclo, l'evaporazione che non è stata ancora in grado di ricadere a terra poiché il poeta non è ancora tale, non avendo concluso l'apprendistato. Solo con il compimento delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo la chiusura si realizza in modo tale da permettere a Rilke di riconoscersi poeta, capace di compiere in se stesso il ciclo perché l'esperienza del dolore ha trovato la via del ricadere in poesia. Ad attestare questa lettura la presenza dei morti come elementi del ciclo vegetale e dell'acqua. Dai Sonetti I, XIV, ai vv. 1-8:


Noi viviamo fra i tralci, frutti, fiori.

Non parlano soltanto il linguaggio dell'anno.

Dal buio emergono, forme variopinte, e splende forse in loro la gelosia dei morti

che danno nuovo vigore alla terra.

E chi sa quanta parte vi hanno i morti?

Da gran tempo hanno l'arte di impregnare,

sciogliendovi il loro midollo, il suolo.


Ancora, nella traduzione di Jesi, i celebri e conclusivi versi 106-113 della X Elegia;


Ma se gli infinitamente morti in noi destano un simbolo,

vedi, essi accennano forse agli amenti del vuoto

nocciòlo, che pendono, o

indicano la pioggia, che cade sull'oscuro regno terrestre in primavera.-

E noi, che ad una felicità saliente

pensiamo, proveremmo la commozione,

che quasi ci abbatte,

se una cosa felice cade.


Il tempo del poeta è segreto e scandito dall'interiorità del rapporto con i morti: realizzando il ciclo dell'acqua, colma di senso sempre nuovo la condizione umana, grazie all'attività più elevata, quella dello scrittore, che attua la continuazione ideale della Creazione. Così la IV Elegia, vv. 58-61, dove l'angelo, figura dell'ideale e di tutto ciò che l'uomo non è, compare a muovere le marionette e a dare vita allo spettacolo, simile al poeta che creando può rianimare il “palcoscenico desolato del cuore umano”:


Allora ecco si aduna, quel che sempre,

esistendo disgiungiamo – Allora, solo allora

dalle nostre stagioni si compone il cerchio

della piena evoluzione.


9. La colpa di Rilke

Per Jesi il nesso tra morte e rinascita ha un significato che coinvolge anche la dimensione della cultura e della società, di cui le teorie filosofiche ed estetiche sono il riflesso e il prodotto al tempo stesso. Esperienza arcaica dell'essere umano, l'orfanismo è anche “esperienza dell'uomo moderno, che sa di non poter più confidare del padre nei cieli” dopo l'annuncio della “morte di Dio” e che quindi affida al proprio potenziale creativo e autoaffermativo, che nella poesia ha un suo paradigma, la speranza di rinascita.

La morte che compare qui non è quella mitizzata, la cui politicizzazione avrebbe fatto la fortuna del fascismo europeo, funzionando da metafora operativa per la rivitalizzazione degli organismi di ispirazione nazionalista nella crisi otto-novecentesca, ma è piuttosto la morte come scomparsa delle persone amate, sanzione della finitezza e sua trasfigurazione in teologia poetica.

Questa l'idea con cui Jesi in Germania segreta (1967), “ricerca sugli aspetti demonici dei rapporti tra mito e artista nella cultura tedesca del '900”, poteva salvare Rilke dall'accusa di aver preparato il terreno ideologico alla dittatura nazionalsocialista, che non risparmia altri scrittori e intellettuali. Già nel 1941 un acuto osservatore come Giaime Pintor aveva scritto di Rilke: “la sua opera così vasta e diffusa induce presto all'equivoco chi vi cerchi una breve consolazione; e sotto le sue bandiere militano soldati di ogni fede, dai mistici della reazione letteraria ai teorici del verbo astratto”. Infatti non mancarono tentativi di leggere Rilke persino in chiave nazista, arruolando le Elegie nei testi sensibili al clima dei “nuovi tempi”, in base a “interpretazioni per via simpatetica da parte di chi accettava il nazismo come fatalità orrida e ineluttabile, ma anche di chi aderiva al nazismo pienamente”.

Mentre tanta parte della cultura borghese della Germania guglielmina e weimariana si è rivelata tanatofila e assetata di origine, guardando al passato e tecnicizzando il mito germanico con gli strumenti della comunicazione di massa per servire gli interessi del presente, Rilke flirta con le tenebre ma non è colpevole di commercio con esse. In lui una “nozione della morte profondamente umana” come “vincolo che lega i morti ai viventi come norma del cosmo” è accompagnata dalla “meravigliosa facoltà di restare umano, di soffrire umanamente” che costituisce l'essenza delle Elegie Duinesi. Nella X Elegia “dolenti immagini di donne, le Lamentazioni, accompagnano il giovane morto ai piedi dei monti del ‘dolore primo’ la dove sgorga la ‘fonte di gioia’. Il dolore umano e non più l'orrore umano segna l'accesso all'esperienza della morte, che è ‘un'altra faccia’ della vita, ma non il suo contrapposto terrifico. [...] La morte è l'esperienza di un invisibile che completa il visibile della vita quotidiana così come le due metà simmetriche di un frutto si completano e consentono l'esperienza dell'unità”.

Rilke esprime la frattura che si è aperta, con la cultura moderna, nel rapporto con il passato e cerca la via “personale” e “solitaria” che l'avrebbe sanata. La sua religio mortis dalla tonalità larica sembra voler recuperare attraverso la poesia il 'classico' incontro con i morti, che avveniva nel segno comunitario del mito e della spontanea costruzione di identità e memoria alla luce di un presente che ritrovava le sue radici nel passato, come antidoto privato alla perdita di senso che la cultura borghese avverte nella modernità. Con l'età moderna nella letteratura quel rapporto si era tinto di inquietudine configurando i defunti come revenants, perdendo ogni malinconica serenità ed entrando nello spazio privato del dolore insuperabile, nel segno della perdita di un rapporto di continuità con il passato e con la natura.

In una lettera di Rilke del 1925 scrive:


Ancora per i padri dei nostri padri era una ‘casa’, una ‘fontana’, una torre conosciuta, persino la propria veste, il loro mantello, infinitamente più, infinitamente più familiare; quasi ogni cosa un vaso, in cui essi già trovavano l'umano e accumulavano ancora altro umano. Ora incalzano dall'America vuote cose indifferenti, apparenza di cose, parvenze della vita. Una casa, nel senso americano, una mela americana o una vita di là non ha nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo, in cui era penetrata la speranza e la meditazione dei nostri avi. Le cose animate, vissute, consapevoli di noi, declinano e non posso essere più sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiano conosciuto tali cose. Su di noi pesa la responsabilità di conservare non solo il loro ricordo (sarebbe poco e infido) ma il loro valore umano e larico.


Certamente Rilke fu antimoderno, aristocratico e passatista, “politicamente vacuo” e incline a una certa “qualità reazionaria nei rapporti con la società”, in ciò conforme alla posizione delle élites europee di fine secolo che si sentivano assediate dalle masse. Se è vero che il suo dettato poetico ripropone nostalgicamente il modo antico di guardare al passato, solo la sua forma superficiale e triviale finisce per confluire nella politica della destra conservatrice che si rifugiava nella Kultur per rianimare l'epoca morente.

Mentre l'orrore nasce dalla conoscenza imperfetta degli adulti non poeti, il poeta-orfano è capace di intendere rettamente la voce dei morti-antenati, grazie alla custodia dei documenti visibili di ciò che sparisce: giunto al termine dell'apprendistato sa che la morte è il completamento della vita ed è pronto per cantare un mito 'autentico', memoria custodita come promessa per il futuro. Egli ha compreso che “dove noi vediamo una cesura, la natura intende legame e ritorno”.


10. Spazio della memoria e spazio letterario

Il poeta è il fanciullo orfano che, concluso il proprio apprendistato e divenuto “cosa tra le cose”, ode le voci dei morti ed è consapevole della chiusura del ciclo di rinnovamento, può restituirne l'eco e cantarle come attesta la già citata X Elegia, vv. 96-99:


Pure il morto deve andare,

e muta guida lui la più vecchia

Lamentazione fino alla gola dove brilla nel lume di luna:

la fonte di gioia.


Dopo un lungo e doloroso errare la kore ha concesso finalmente al poeta di contemplare il suo volto” e di realizzare un mito ancora vitale: è nell'opera poetica, completa e finita come consapevole lavoro dell'autore prodotto dalla coscienza e della volontà, che si realizza la cosa più simile a un rapporto con il divino, ovvero la creazione di qualcosa valido per la collettività.

Rilke riconosce di essere giunto al punto più alto del suo itinerario artistico; a Lou Andreas Salomé aveva scritto l'11 febbraio 1922, giorno della definitiva chiusura dell'opera: “Ora io mi riconosco. Era come una mutilazione del mio cuore che le Elegie non esistessero”. Anche i versi che egli stesso scrisse per la propria lapide tombale attesterebbero la convinzione di aver attuato in sé il progetto estetico-religioso che appare fin dalle Lettere a un giovane poeta. Nel saggio La misura e la grazia Jesi mette in luce come in Rilke “la dottrina del poeta come strumento di forze che lo trascendono” coincida con “l'abbandono della religione cristiana”, legato alla durezza della propria educazione, e con la sua sostituzione con “l'esperienza di una religione del Dio oscuro che era anche espansione libera dell'animo su vie sconosciute”. Il dolore che rende possibile per alcuni trovare la strada dell'espressione poetica è il dolore oggetto della lettera del 22 febbraio 1923 a Ilse Jahr: “l'abisso tra noi e Dio – egli scrive- ‘è pieno del buio di Dio, e quando qualcuno lo prova, discenda egli e ululi in quel baratro (è più necessario questo che valicarlo)’”. Con l'esperienza della finitezza Rilke si è fatto “scolaro della morte” ed è maturato in silenzio e in solitudine: “la pur tragica visione di coloro che stanno nel fondo dell'abisso colmo del buio di Dio è simbolo di una interazione tra uomo e Dio che si estrinseca nella loro reciproca anonimità”. In tal modo si perviene alla concezione del Dio rilkiano “entità continuamente duplice: da un lato, un'entità alla cui forza illimitata è accaduto di essere incatenata nella creazione, d'altro lato un'entità che gli uomini possono liberare dalla sua prigione nella creazione solo se riusciranno a conferirle interezza, a costruirla, a completarla”. L'artista ha un ruolo determinante nella “creazione di Dio da parte degli uomini”, come si legge nel commento di Rilke alla Nascita della tragedia di Nietzsche:


La musica (il ritmo) è la libera sovrabbondanza di Dio che non si è ancora esaurita nelle parvenze, e in essa gli artisti si cimentano per indefinito impulso a completare ulteriormente il mondo in quel senso nel quale tale energia avrebbe agito se avesse ancora prodotto, e ad addurre immagini delle realtà che da essa sarebbero ancora uscite.


L'esperienza del dolore come condizione sommamente creativa è attestata da altri passi rilkiani. Il secondo dei Requiem (1909) era dedicato al conte Wolf von Kalckreuth, suicida a diciannove anni: un caso di “morte immatura” che risente di un duplice errore. Il giovane non ha saputo aspettare i segni della faticosa maturazione che lo avrebbe portato alla gioia e si è limitato a sentire “solo il vuoto, anziché colmarlo di sé e mutarsi – era poeta – nelle sue stesse parole, come lo scalpellino della cattedrale si muta nella pietra indifferente di chi la lavora”. In tal modo il lavoro che l'essere poeta comporta assume una funzione di redenzione e di salvezza perché consente di consente di “chiudere la musica, colmare il vuoto”: se artista è colui che “non rifiuta il destino, ma anzi, lavorando, lo accetta nel suo divenire pietra che è il divenire dell'artista stesso pietra e l'acquisizione di eternità da parte del soggetto”, la familiarità di Rilke con il dolore e la perdita preludono alla possibilità di una forma di vita eterna. Il dove avvenga ideale riconciliazione con l'aldilà, è il luogo in cui l'individuale esperienza della perdita si salda con la sua trasfigurazione poetica: lo spazio dell'interiorità in cui risiedono memoria e immaginazione.

Scrive Rilke nella lettera a Nora Purtscher-Wydenbruck dell'11 agosto 1924:


Per quanto esteso sia il ‘di fuori’, esso con tutte le sue distanze stellari comporta appena un paragone con le dimensioni, con la dimensione in profondità del nostro interno, e che non ha bisogno della vastità dell'universo per essere in sé quasi incommensurabile. Se dunque esseri morti e futuri hanno bisogno di una dimora, quale rifugio potrebbe essere loro più accetto e offerto che questo spazio immaginario?


e a Witold von Hulewicz, il 13 novembre 1925:


Essi [i Sonette an Orpheus, n.d.a.] hanno, com'è inevitabile, la stessa nascita delle Elegie, e che sorgessero d'improvviso, senza mia volontà, in connessione con la morte precoce di una fanciulla, li rimanda ancora di più alla fonte della loro origine; questa connessione è un rapporto di più verso il centro di quel regno, la cui profondità e influenza noi dovunque indelimitati dividiamo con i morti e con i futuri.


In questa dimensione l'artista si annulla nella sua creazione, lasciando fluire da sé ciò che nasce dall'assenza e dal dolore, i resti visibili cristallizzati dalla scrittura. In un passo del romanzo postumo di Jesi il personaggio del Grande poeta parla così, a proposito della mancanza dell'amata:


E fra noi vi fu una mortale identità, poiché non potendo costringerla ad amarmi, io usai della mia arte, che nasceva in me per distruggermi ed averla così. Giunsi a distruggermi; e quando tutto il mio io fu aperto, quando perse la sua forma per divenire puro aperto, allora sentii di fissare in volto qualcosa che non era più lei, die Geliebte, ma un'effigie mortale che mi tirava a sé, bella, in cui calavo, non ero. [...] Allora fra di noi fu il buio. E da allora il volto non mi ha lasciato. Sempre bello, sempre mortale, esso è ancora oggi dinanzi a me. Sempre in lui mi distruggo.


11. Narrazione e utopia.

Fin dall'inizio Jesi ha percorso direzioni di ricerca accomunate dalla riflessione sulla morte, reale e simbolica, e sul rapporto che gli uomini nel tempo hanno con essa: la scomparsa di qualcuno e qualcosa come esperienza individuale e collettiva è imparentata con il modo teoretico di rivolgersi al passato, la cui esistenza è sempre mediata da istanze che hanno a che fare con il presente e pensata nella stessa regione in cui sorge l'immaginazione, individuale, sociale e quindi letteraria, che contribuisce alla costruzione di una memoria culturale, sempre ricostruttiva e necessariamente retrospettiva.

La cultura occidentale ha visto l'Egitto come il paese dei morti e lo stesso Rilke ha individuato in esso “un repertorio di immagini antiche, segnate dalla morte, usufruibili come simboli di una vicenda che deve essere intrinseca alla storia intima di ognuno”. Il suo “paese delle Lamentazioni” è una “terra di morte soprattutto perché è simbolo del passato”: ed è proprio questo, scrive Jesi in Rilke e l'Egitto (saggio del 1964 per la rivista “Aegyptus”), la “vera terra di morte [...], quella parte dell'esistenza che è già passata nell'invisibile” e di cui solo la memoria permette la persistenza.

“La morte come spazio interiore è un sotterraneo scavato all'interno della vita di ciascuno e popolato di figure più vere di quelle comprese entro lo spazio storico”: la durata degli oggetti del ricordo cristallizzati in immagini materiali e mitologiche può dare significatività al presente garantendo una continuità con il passato e con la ciclicità del divenire. Sono tali oggetti i “materiali mitologici” che possono essere usati tanto come strumento in difesa dell'umanità quanto contro di essa nella tecnicizzazione esercitata dalla Gewalt, la violenza istituzionalizzata. Solo la consapevole distanza della dislocazione storica, il passato, e il rifiuto di ipostatizzare la presenza dell'oggetto del ricordo, il mito, permettono di evitare il richiamo alla mitologia come fondamento di ogni irrazionalismo.

La teoria jesiana appare così una delle voci autorevoli del dibattito tardo-novecentesco sul mito, in cui si ravvisa la consapevolezza della “contrapposizione romantica e degli interpreti del romanticismo tra Urmythologie (mitologia originaria) e Dichtermythologie (mitologia poetica), tra rivalutazione del mito, in quanto sostanza dell’essere e del suo inveramento nella storia, e mitologie della ragione che, partendo invece dal presupposto estetico di una riscrittura poetologica delle più diverse fabulae mitologiche, tendevano a riattivarne tutto il potenziale euristico [...] o la valenza comunicativo-sociale [...]”. La mitologia poetica, “utopia estetica che non s’interroga più sulle origini ma sulla funzione del discorso mitico nel sociale” contrariamente a quella originaria, svolge quindi un ruolo razionale, seppure in forma altra rispetto alla ragione illuministica, perché costituisce invece proprio “il momento di legittimazione pragmatico-sociale dell’utopicum tout-court”.

Lungi dall'essere uno sguardo su un presunto e inattingibile extra-umano, l'indagine su di essa permette di individuare il legame con la morte nei suoi aspetti di riflessione, in quanto considerazione del limite che si ferma al bordo esterno dell'oggetto della ricerca, in modo continuamente differito rispetto all'irraggiungibile centro. Riferimento costante di Jesi è il pensiero di Benjamin, secondo cui l'“immagine stessa della vita è data dal riconoscimento dell'incessante azione della morte su ogni momento della fisicità”. Nel saggio Il narratore il critico berlinese scriveva: “il pensiero dell'eternità ha sempre avuto la sua fonte essenziale nella morte”; “non solo il sapere dell'uomo o la saggezza dell'uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente”. “La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie”.

Avere a che fare con la morte è entrare nello sconcertante territorio dell'assenza, capace di disarticolare i nessi di significato che legano le cose tra di loro. Per questo la mitologia, come surplus di significato che viene dalla narrazione, in Jesi appartiene prima di tutto alla memoria, e contro l'esperienza della scomparsa nell'invisibile costituisce un argine:


La mitologia è il cerchio contro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché intorno ad essa preme la morte. La seppia-uomo schizza il suo inchiostro di miti contro l'acqua che la circonda e con cui si identifica il nemico incognito; ma solo la densità e la pressione dell'acqua fanno assumere le sue forme preziose e difensive all'inchiostro che vi fluisce.


La riflessione ermeneutica nei lavori di Jesi muove dal riconoscimento del ruolo della finitezza e della situazionalità dell'esistenza: “articolare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘come propriamente è stato’” ma “impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo”, ovvero riconoscere che la significatività è il criterio del rapporto con la storia, che è sempre 'nostra' nel momento in cui il ricordo è vitale, urgente e attuale. Il saggio è la forma che meglio condensa l'intenzione di esorcizzare il rischio della monopolizzazione della memoria da parte del sapere dominante, proprio perché modo personale organizzare la realtà a partire dall'incedere del discorso. Jesi riteneva “inutile, inopportuno e vacuo studiare un testo poetico senza adoperarlo”, leggendo il magistero benjaminiano nel senso di usare i testi per capire il presente e per evitare di essere travolti da esso: esercitando la continuità di tipo semiotico tra un testo e la realtà sociale nel suo momento della sua ricezione, il saggista “riesce a fare della propria pagina lo spazio tristemente privilegiato entro il quale il passato diviene nella sua 'cosità', versione interlineare del presente”.


Impadronirci del ricordo vuol dire, infatti, conquistare il passato come profezia del futuro, e di un futuro non prevedibile in base a passato. (Questa profezia del futuro è quella dell'utopia). [...] Possiamo conoscere il passato come profezia di un futuro diverso, solo perché il futuro diverso è in noi: l'utopia è in noi, e il ‘balenare del ricordo’ che determina la sua epifania è un fattore maieutico.


Così, non l'ossessione del passato ma la prefigurazione del futuro come critica del presente è la dimensione che ogni umanesimo vuole servire: perché – come insisteva Hans Castorp ne La montagna incantata – “quando ci si interessa alla vita, ci si interessa specialmente alla morte. Non è così”?



Note

1 D. BIDUSSA, Il vissuto mitologico, postfazione a F. JESI, Germania segreta , Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 203-230, p. 206. La notazione completa delle opere di Jesi citate è in Bibliografia.

2 F. JESI, Mito, pp. 8-9 e ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, pp. 36-37; per la ‘riscoperta’ di Benjamin si veda G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura , Sellerio, Palermo, 1980, in particolare p. 11 e p. 35; per un inquadramento di Jesi nella stagione culturale italiana: M. BELPOLITI, Settanta , Einaudi, Torino, 2001, pp. 92-99, 285- 287.

3 Per l'opera completa di Jesi si veda la Bibliografia redatta da Giulio Schiavoni in Risalire il Nilo. Mito fiaba allegoria (a cura di F. MASINI e G. SCHIAVONI), Sellerio, Palermo, 1983 e l'aggiornamento al 2007 di Riccardo Ferrari in Saggio e romanzo in Furio Jesi , Tesi di dottorato in Scienze dell'Antichità e Filologico letterarie dell'Università di Genova, XIX ciclo. A entrambi, fonti biografiche e critiche indispensabili, per la disponibilità e per la consultazione di materiali vanno i miei ringraziamenti.

Un ringraziamento speciale va alla famiglia Jesi, nelle persone di Marta Rossi Jesi e Vanna Chirone Wick, per l'interesse e la partecipazione con la quale è stata accolta la mia ricerca .

4 La recente pubblicazione postuma di molti materiali, oltre alla riedizione di diversi titoli, è avvenuta sulla base del lavoro nell'archivio della famiglia Jesi svolto da Andrea Cavalletti, che ringrazio per i consigli e le indicazioni. Di seguito alcuni tributi a Jesi, oltre al già citato Risalire il Nilo: “L’indice dei libri del mese”, n. 4, Torino, aprile 1987; “Immediati dintorni. Un anno di psicologia analitica”, Lubrina, Bergamo, 1989; “Cultura tedesca”, n. 12, Donzelli, Roma, dicembre 1999.

5 Si veda A. CAVALLETTI, La maniera compositiva di Furio Jesi e ID. Il “romanzo” di Furio Jesi , rispettivamente in F. JESI, Materiali mitologici , 2001, pp. 359-376 e in ID., Letteratura e mito, 2002, pp. 245-261.

6 La copia originale del testo è in possesso del professor Sergio Givone, che ringrazio per l'attenzione accordatami: i passi inediti sono stati presentati durante la sua lectio magistralis dal titolo Furio Jesi, tenutasi a Roma il 12 maggio 2007 all'interno del Festival di Filosofia, di cui è disponibile la versione audio (podcast) all'indirizzo web http://www.auditorium.com/dwnld/podcast/4898264/audio.mp3 .

7 Risalgono a quel periodo: Notes sur l’édit dionysiaque de Ptolémée IV Philopator , in “Journal of Near Eastern Studies”, vol. XV, n. 4, 1956, U.S.A., pp. 236-240; (insieme a Vanna Chirone), Racconti e leggende dell’antica Roma, S.A.I.E., Torino, 1956; Elementi africani delle civiltà di Nagada , in “Aegyptus”, anno XXXVII, fasc. II, Milano, lugliodicembre 1957, pp. 219-225; La ceramica egizia dalle origini al termine dell’età tinita ; prefazione di Boris de Rachewiltz, S.A.I.E., Torino, 1958; Le connessioni archetipiche , in “Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria”, vol. I, ed. S.A.I.E., Torino, 1958, pp. 35-44; Rapport sur les recherches relatives à quelques figurations du sacrifice

humain dans l’Égypte pharaonique , in “Journal of Near Eastern Studies”, vol. XVII, n. 3, July 1958, U.S.A., pp. 194- 203; Bès initiateur. Élements d’institutions préhistoriques dans le culte et dans la magie de l’ancienne Égypte, (presentato al V Internationaler Kongress für Vor - und Frühgeschichte, Hamburg, agosto 1958), in “Aegyptus”, anno XXXVIII, fasc. III-IV, Milano, luglio-dicembre 1958, pp. 171-183; Studi cosmogonici, in “Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria”, A.I.E.P., vol. I, Torino, 1958, pp. 45-56 (presentato al XXIV Internationaler Orientalisten- Kongress, München, agosto 1957). Nel 1960 Jesi si sarebbe sposato con Marta Rossi, dalla quale avrebbe avuto i due figli Stefano (1961) e Sofia (1964); nel 1961 avrebbe iniziato a lavorare presso la Utet.

8 Nel 1960, durante il soggiorno di nozze in Grecia, è stata scritta La casa incantata , fiaba pubblicata postuma con illustrazioni di Emanuele Luzzati (Vallardi-Garzanti, Milano, 1982; ripubblicata con illustrazioni di Franco Matticchio, Mondadori, Milano, 2000); nel 1962 Jesi avrebbe iniziato la stesura del romanzo L'ultima notte, pubblicato postumo (Marietti, Genova, 1987); del 1970 è L'esilio, raccolta di poesie (De Silva, Roma). Presso l'Archivio di famiglia sono inoltre custoditi testi letterari inediti a diversi livelli di stesura. Per la personalità creativa di Jesi si veda Faraqát. Quaderni di storia e antropologia delle immagini, n.1, La casa Usher, Firenze, 1991, catalogo della mostra Furio Jesi: scritture creative (Ferrara, 10 maggio-23 giugno 1991), a cura del Centro etnografico ferrarese, durante la quale furono esposti anche quadri e gioielli dipinti e disegnati da Jesi.

9 F. JESI e K. KERÉNYI, Demone e mito. Carteggio 1964-1968, (a cura di M. Kerényi e A. Cavalletti), Quodlibet, Macerata, 1999. Per il loro articolato rapporto si veda la postfazione di A. CAVALLETTI, Demone e immagine, oltre che i primi tre saggi di Jesi in Materiali mitologici (I pensieri segreti del mitologo, L’esperienza dell’isola, Il «mito dell’uomo») pp. 3-80.

10 F. JESI, Rilke, p. 39.

11 Sull'importanza delle lettere e sull'epistolario si veda F. JESI, Rilke, pp. 36-37 e p. 118, e ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, pp. 113-114.

12 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 114.

13 Ivi, p. 183.

14 F. JESI, Rilke, p. 93

15 F. JESI, Letteratura e mito , p. 80; per la metafora vegetale e le sue trasformazioni nel tempo: ID., Rilke, p. 39.

16 F. JESI, Letteratura e mito , p. 81; sul “maturare”: ID, Rilke, p. 36.

17 F. JESI, Le postille di Rilke a Die Geburt der Tragödie di Nietzsche, in ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 131

18 F. JESI, Rilke, p. 10 e p. 20.

19 Ivi, p. 35; la lettera del 1915 in cui Rilke formula l'immagine dell'angelo accecato è citata anche in ID., Letteratura e mito, p. 99.

20 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 46, n.1: Jesi cita la lettera di Rilke a N. Purtscher-Wydenbruck del 11 VIII 1924.

21 F. JESI, Rilke, p. 8.

22 F. JESI, Letteratura e mito, p. 98. Preoccupazione costante di trasformare il visibile in invisibile e non essere il tramite con cui l'invisibile si manifesta nel visibile: è questo il nodo centrale della critica jesiana alla nota lettura di Rilke proposta da Heidegger. La coincidenza perfetta tra canto del poeta e voce dell'essere, “ottimismo del possesso” inquanto “essere posseduti”, si configura come una mistica antiumanista che esclude l'uomo dal colloquio dell'essere con se stesso. Si veda per questo: ID., Rilke, pp. 8-9, p. 49, p. 123; ID., Esoterismo e linguaggio religioso , pp. 33-34, pp. 167 sg.

23 R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, trad. it. di F. Jesi, Garzanti, Milano, 1974 (rist. 2000), p. 14.

24 Le citazioni fanno riferimento alla copia di Jesi già citata, le cui pagine saranno d'ora in poi indicate tra parentesi.

25 Questo l'assunto di partenza dell'intervento di Sergio Givone (cfr. nota 6), che proseguiva mettendo in connessione il passo inedito con il saggio jesiano Inattualità di Dioniso, in ID., Materiali mitologici, per proporre una lettura complessiva del pensiero di Jesi sul mito. Per la ripresa di questa suggestione si veda oltre (§ 6).

26 Il testo delle annotazioni ricalca in alcuni punti quello di una pagina manoscritta di Jesi datata 10 febbraio 1961 e riportata in A. CAVALLETTI, Il metodo della scrittura indiretta , in F. JESI, Kierkegaard , pp. 216 sg.: “Quando invece si muore tanto nella persona amata che nelle parole magiche (quando, cioè, si fa dell'arte) diviene immortale unicamente la persona amata e non l'amante, l'artista. Ciò accade perché l'artista – per poter usare delle parole magiche – vende al demoniaco la propria possibilità di divenire immortale, accetta di morire definitivamente, senza rinascita, quando sarà venuta la sua ora”.

27 Per la lettura alchemica della poetica di Rilke: F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 70; ID., Introduzione a

R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge , cit., p. XIX e n.1, p. 19.

28 F. JESI, Rilke, p. 21.

29 A. DESTRO, Note, a R.M. RILKE, Elegie Duinesi, trad. it. di E. e I. De Portu, Einaudi, Torino, 1978, p. 83.

30 F. JESI, Rilke, p. 21. Il Libro d'ore è citato da R. PAOLI, Poesia tedesca da Nietzsche all'Espressionismo , Guanda,

Parma, 1954.

31 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 73.

32 R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge , cit., p. 3

33 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 68; qui Jesi cita la lettera di Rilke a W. von Hulewicz del 10 XI 1925.

34 Ivi, p. 78.

35 Ivi, p. 68; è ancora la lettera del 10 XI 1925

36 Ivi, p. 74, n. 88, e la nostra n. 27.

37 F. JESI, Letteratura e mito , p. 103. Lettera a M. von Hattinberg.

38 Ivi, p. 105.

39 H. G. GADAMER, Mythopoietische Umkehrung in Rilkes “Duineser Elegien” , in ID., Kleine Schriften II, Mohr, Tübingen, 1967, pp. 194-209. Per queste considerazioni: A. LAVAGETTO, Commento in R. M. RILKE, Poesie 1907-1926,

Einaudi, Torino, 2000, p. 642; L. MITTNER, La letteratura tedesca del Novecento , Einaudi, Torino, 1960-1975, p. 206.

40 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 88 e p. 89, n. 135: Jesi cita R. M. RILKE, Singolare evento, in Del poeta

(a cura di N. Saito), Einaudi, Torino, 1948-1955.

41 R. M. RILKE, Elegie Duinesi, cit., p. 7.

42 Il passo è citato e tradotto in F. JESI, Rilke, p. 97.

43 A. DESTRO, Note alle Elegie Duinesi, cit., p. 83.

44 Una poesia di Rilke, risalente al 1895, è intitolata Larenopfer, 'Sacrificio ai Lari' (in R. M. RILKE, Poesie I, 1895-1908,

Einaudi Gallimard, Torino - Parigi, 1997).

45 F. FEDELE, Religioni della preistoria, in Storia delle religioni, vol. 1. Le religioni antiche (a cura di G. FILORAMO),

Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 39.

46 F. JESI, La civilisation glozélienne, in “Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria”, vol. III, ed. S.A.I.E.,

Torino, 1962, pp. 73-90, in particolare pp. 77-79.

47 L’argomento, citato in La civilisation glozélienne, è diffusamente trattato in: S. GIEDION, L'eterno presente. Uno studio sulla costanza e sul mutamento: vol. 1. Le origini dell’arte , trad. it di F. Jesi, Feltrinelli, Milano, 1965, pp. 91 ss; vol. 2.

Le origini dell’architettura , trad. it. di G. Bernasconi, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 7-9: il “desiderio di una vita più lunga, di una sopravvivenza dopo la morte” è “inestinguibile e universale”; nel caso degli egizi “la morte non significava fine, ma era piuttosto trasposizione nel ciclo cosmico dell'eterno rinnovarsi della vita”. Per analoghe considerazioni si veda: J. ASSMANN, La morte come tema culturale, trad. it di U. Gandini, Einaudi, Torino, 2002, pp. 5-6.

La continuità oltre i limiti della vita è un fattore che, come tutta la cultura, “scaturisce dalla consapevolezza della morte e dell’essere mortali”: i “fantasmi dell'immortalità” sono il bisogno da cui prende origine l'“operare culturalmente rilevante – l'arte, la scienza, la filosofia, la beneficenza”.

48 G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura , Einaudi 1996, p. 3.

49 Si veda per questi temi: A. ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. di S. Paparelli, Il Mulino, Bologna, 2002.

50 R. LUPERINI, Fra antico e moderno: l’incontro con i morti, testo dell'intervento tenuto al Convegno Memoria e Oblio: le Scritture del Tempo, Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura, Cavallino (LE), 24 -

26 ottobre 2007. http://luperini.palumboeditore.it:8080/luperini_site/articoli_web/ incontro morti/view

51 F. JESI, La civilisation glozélienne, cit., p. 79 (trad. nostra); cfr. ID., Spartakus , p. 85: “nell’istante della commozione” vi è “un presente eterno anche nel senso della specie, oltre che dell’individuo, come già intese Rilke nelle Elegie di Duino”.

52 Cfr. la nostra n. 6.

53 Originariamente Prefazione all'edizione italiana di H. JEANMAIRE, Dioniso, trad. it. di G. Glässer, Einaudi, Torino,

1972, ora in F. JESI, Materiali mitologici , pp. 121-140.

54 Ivi, p. 126.

55 Ivi, p. 127. Non passi inosservata la vicinanza di quest'idea con le parole di Malte a proposito dei ricordi dimenticati e ritrovati, che “divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi”, cfr. n. 23.

56 Ivi, p. 127.

57 Ivi, p. 128.

58 L'espressione è di Louis Gernet, citata in J. P. VERNANT, Mito e religione in Grecia antica, trad. it. di R. Di Donato,

Donzelli, Roma, 2003, pp. 62 sg.; Jesi si richiama a Gernet: l'alterità a cui fa riferimento, in opposizione alla permanenza delle idee platoniche, è quella dell'esperienza del tempo (Materiali mitologici , p. 130).

59 Ivi, p. 130.

60 Ivi, p. 129.

61 W. WELSCH, L'antropologia oggi , in Pensare l'attualità, cambiare il mondo. Confronto con Gianni Vattimo (a cura di . CHIURAZZI), Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 34.

62 F. JESI, Materiali mitologici , p. 139.

63 PLAT. Resp. 392 a; così in F. JESI, Mito, p. 14.

64 F. JESI, Letteratura e mito , p. 57.

65 Per questo tema si veda principalmente: F. JESI, Mito, pp. 105 sg.; ID., Materiali mitologici, p. 81 - 120; pp. 174-182;

p. 335-356 (si tratta dei saggi La festa e la macchina mitologica, Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina l'animale di un bestiario, e dell’Appendice ).

66 F. JESI, Mito, pp. 15-21. Per analoghe considerazioni: C. GINZBURG, Mito. Distanza e menzogna, in Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 40-81; M. BETTINI, Il mito tra autorità e discredito, in “L'immagine riflessa”, 1-2, XVII, 2008, pp. 27-64.

67 K. KERÉNYI, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, trad. it. di R. Giorgi, in ID., Scritti italiani (1955-1971) (a cura di G. MORETTI), Guida, Napoli, 1993, pp. 113-126.

68 D. BIDUSSA, Il vissuto mitologico, cit., p. 227. Per lo stesso argomento si veda anche ID., La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi , in F. JESI, L'accusa del sangue , Morcelliana, Brescia, 1993, pp. 93-128, in particolare

pp. 100 sg.

69 F. JESI, Letteratura e mito, p. 83; cfr. ID., Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, pp. 14-15: “Per migliaia di anni (i tempi

attuali costituiscono un'eccezione abbastanza relativa) il bambino fu, insieme con il vecchio, colui che sta per morire”; sul concetto di morte come “spazio interiore di eternità presente nell'esistenza dell'uomo” in quanto carattere della condizione umana si veda: ID., Spartakus , pp. 92-95 e ID., Bachofen, pp. 81-82.

70 F. JESI, L'esilio, cit., p. 114. Alla morte di Bruno Jesi è dedicata la lettera 7 del carteggio Jesi-Schiavoni, pubblicato in G. SCHIAVONI, Scegliere secondo giustizia. A proposito di alcune lettere di Furio Jesi , in “Cultura tedesca”, 12, 1999, cit., pp. 165-181.

71 F. JESI, Letteratura e mito, p. 10.

72 Ivi, pp. 10-11.

73 Si veda la voce Nome redatta da Jesi per l'Enciclopedia Europea Garzanti, Milano, 1976-80, vol. 8, pp. 100-101: in molteplici tradizioni “il nome non soltanto corrisponde all'essenza dell'oggetto, ma è quell'essenza [...]. Da questo punto di vista sono particolarmente indicativi i rituali egizi: ‘far rivivere il nome dei morti’ era la denominazione tecnica della pratica liturgica con cui i vivi, garantivano mediante offerte, la sopravvivenza dei defunti nell'aldilà”.

74 F. JESI, Letteratura e mito , p. 10.

75 Ivi, p. 11.

76 C. G. JUNG e K. KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino, 1972. Il libro contiene in particolare il saggio di Kerényi, Il fanciullo divino, pp. 45-106. Jesi nel dicembre del 1964 regalò a Kerényi Poemi conviviali e Myricae di Pascoli, di cui aveva scritto al maestro nella lettera del 21 settembre 1964 (cfr. F. JESI e K. KERÉNYI, Demone e mito, cit., pp. 16-17 e pp. 33-34).

77 F. JESI, Letteratura e mito , p. 12-13.

78 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 159-160; per un'analisi della radice biblica della metafora si vedano le pp. 161 sg.; cfr. ID., Rilke, pp. 15-16.

79 R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, cit., p. 39; ripresa in F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 122.

80 M. COTTONE, Esoterismo e ragione , Sellerio, Palermo, 1983, p. 57; cfr. F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 163.

81 R. M. RILKE, Poesie 1907-1926 , cit., p. 351.

82 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 160, n. 46; Jesi ha usato questi versi anche per la sua dedica sulla copia dei Poemi conviviali di Pascoli regalata a Kerényi (cfr. n. 74).

83 R. M. RILKE, Elegie Duinesi, cit., p. 25.

84 A. LAVAGETTO, Commento a R. M. RILKE, Poesie 1907-1926 , cit., p. 642.

85 F. JESI, Letteratura e mito, p. 12.

86 F. JESI, Germania segreta, p. 36. A questi temi sono dedicati testi cruciali nella produzione di Jesi: Bachofen, Cultura di destra, Mann.

87 G. PINTOR, Note critiche, in R. M. RILKE, Poesie tradotte da Giaime Pintor, Einaudi, Torino, 1942 e 1955, p. 125.

88 F. JESI, Rilke, p. 115. Il riferimento è a Gottfried Benn; cfr. R. M. Rilke, Elegie di Duino – Scheda introduttiva di Furio Jesi , in “Cultura tedesca”, 12, 1999, cit., p. 111.

89 Ivi, p. 39.

90 Ivi, p. 40.

91 Si veda per questo: R. LUPERINI, Fra antico e moderno: l’incontro con i morti, cit.

92 Lettera a W. von Hulewicz del 13 XI 1925, citata in F. JESI, Letteratura e mito, p. 106 e ID., Rilke, p. 48; cfr. L. MITTNER, La letteratura tedesca del Novecento, cit., p. 206: lo stesso passo è citato come esempio di resistenza alla “meccanizzazione dell'esistenza” nella modernità.

93 F. JESI, Rilke, p. 92.

94 A. LAVAGETTO, Commento a R. M. Rilke, Poesie 1907-1926 , cit., p. 642.

95 F. JESI, Germania segreta , p. 65.

96 La lettera è citata in R. M. Rilke, Elegie di Duino – Scheda introduttiva di Furio Jesi, in “Cultura tedesca”, 12, 1999, cit., p. 117.

97 “Rosa, oh pura contraddizione, gioia di non essere il sonno di nessuno, sotto tante palpebre”. Il testo è commentato in F. JESI, Germania segreta , p. 65, e ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 164.

98 F. JESI, Letteratura e mito , p. 113.

99 Ivi, p. 114.

100 Ivi, p.115.

101 F. JESI, Le postille di Rilke a Die Geburt der Tragödie di Nietzsche, in ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, pp. 127-146, p. 131.

102 Ibidem.

103 Ivi, p. 130. Le annotazioni sono in R. M. RILKE, Sämtliche Werke in sechs Bänden, Insel Verlag, VI, 1966, p. 1164.

104 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 142.

105 Ivi, p. 144; cfr. ID., Rilke, p. 89.

106 F. JESI, Rilke, p. 44; cfr. M. COTTONE, Esoterismo e ragione , cit. p. 59.

107 F. JESI, Rilke, p. 96.

108 F. JESI, L'ultima notte, cit., p. 36-37. Sul senso del «distruggersi» cfr. ID., Spartakus , pp. 88-90, e il già citato manoscritto jesiano del 10 febbraio 1961 (n. 26): “Distruggersi in chi si ama significa gettare via tutte le limitazioni dei propri sensi – che costituiscono la propria identità – e quindi morire nell'emozione di amore e rinascere nella persona che si ama. Tutto ciò è possibile nell'ambito del solo amore, e porta all'immortalità ambedue gli amanti che si sono autodistrutti (come mortali) l'uno nell'altro, per rinascere in una sola persona immortale.109 in F. JESI, Letteratura e mito , pp. 85-94, p. 93.

110 F. JESI, Germania segreta , p. 199.

111 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 22-23.

112 M. COMETA, Mitocritica, in Dizionario degli studi culturali, http: www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/mitocri tica.html , p. 4.

113 Ibidem.

114 G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura , cit., n. 27, pp. 23 sg.

115 W. BENJAMIN, Angelus Novus, trad. it di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962, n. ed. 1995, p. 257.

116 Ivi, p. 258-9.

117 F. JESI, Materiali mitologici , p. 33.

118W. BENJAMIN, Angelus Novus, cit., p. 77.

119 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 37.

120 F. JESI, Il testo come versione interlineare del commento, in Caleidoscopio benjaminiano (a cura di E. RUTIGLIANO e G. SCHIAVONI), Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 219.

121 Lettera a Giulio Schiavoni del 16 III 1973, in Carteggio Jesi-Schiavoni , in “Immediati dintorni”, cit., p. 329-332, p. 332.



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Spartakus. Simbologia della rivolta , Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

Bachofen , Bollati Boringhieri, Torino, 2005.


mercoledì 22 settembre 2010

Rivolta e speranza





Ieri è stato inaugurato alla reggia di Venaria Reale, presso Torino, l'anno scolastico con la consueta pagliacciata ministeriale, soubrette e bambini vestiti tricolore con le bandierine. Chiunque viva un qualsiasi rapporto con la scuola oggi sa che l'istituzione affonda: i docenti sono in sofferenza, incapaci di fare fronte alle rivoluzioni epocali comportate dalla diffusione sempre più capillare dei dispositivi multimediali dei 'nativi digitali' e privi di strumenti per arginare la fine della cultura letto-scritturale così come la conosciamo; e gli studenti, nella maggior parte dei casi, vivono in una spaventosa ignoranza delle più elementari conoscenze relazionali e dei fondamenti delle discipline che dovrebbero conoscere, vittime di un combinato disposto di sub-cultura di massa, 'narcinismo' e mancanza di prospettive da parte del mondo degli adulti, i quali non sono migliori di loro. anzi.
Vedo la mia generazione umiliata e presa in giro, costretta al precariato, all'emigrazione o a una dequalificazione professionale sistematica, gli intellettuali in particolare, ovvero coloro che hanno creduto nella cultura come professione e non come hobby per figli di famiglie facoltose, e sono furibondo come un puma: per questo oggi faccio il padre costituente.
In mezzo a tutto delirio grottesco, offensivo e lesivo dell'intelligenza come la riforma Gelmini (è nata nel mio stesso anno, potrebbe essere una compagna di liceo laureata in legge e raccomandata che fa il ministro, è fantastico no?) come professore di storia e filosofia, il lavoro meno inaccettabile che ho ritenuto di poter fare, continuo a pensare che le parole di Pietro Calamandrei sulla scuola abbiano nuovo senso.
Così Calamandrei nel noto convegno sulla scuola del 1950:

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. (...)
Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto:
- rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni.
- attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.
- dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico!

(qui il testo completo: http://www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/2002_3_art1.html)

Qui il discorso agli studenti del 1955. (http://www.youtube.com/watch?v=XRTG9duEnww).
Calamadrei, autore di Uomini e città delle Resistenza, fondò anche una rivista, 'il Ponte', che nel numero di settembre tra le tante cose ospita un mio articolo. Eccolo.



[da «Il ponte», 9, 2010, pp. 100-105]

Spartakus o della rivolta. Furio Jesi e il legittimo uso politico del mito

Enrico Manera

L’istante della rivolta determina la fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una collettività. [...] Lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri simboli personali, il rifugio del tempo storico che ciascuno ritrova nella propria simbologia e nella propria mitologia individuale, si ampliano divenendo lo spazio simbolico comune a un’intera collettività, il rifugio del tempo storico in cui un’intera collettività trova scampo. [...] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

I trent’anni che ci separano dalla tragica scomparsa di Furio Jesi (1941-1980) hanno mostrato come il critico torinese, molto più che mitologo e germanista, sia un pensatore politico sempre più attuale, i cui temi e strumenti intellettuali, magistralmente intrecciati in una filosofia della cultura e della scrittura, si adattano alla realtà sfuggente della tarda modernità. Tra 1967 e 1969, in una fase in cui sposta l’asse dei suoi interessi dal mondo antico alle metamorfosi del mito nella letteratura moderna e alla critica dell’ideologia, Jesi scrive Spartakus. In questo testo, inedito per lungo tempo, l’insurrezione spartachista del 1919 e la fine di Luxemburg, Liebknecht e compagni diventano il punto di partenza per una discussione sul ruolo della simbolica e della mitologia nel conflitto politico e sociale.

Contro la svalutazione marxista-leninista che bollava le posizioni luxemburghiane come spontaneismo irrazionale, Jesi ripensa il significato della rivolta in una versione derivata dalle categorie della scienza del mito e percorsa da un afflato anarchico. Ogni rivolta è sempre inattuale, rappresenta nella sfera politica l’«intersezione del tempo mitico e del tempo storico» ed è un agire mitico e infondato «che prepara il dopodomani»: la rivolta muove tra i poli del passato e del futuro, e se in termini strategici è un errore (suscita la reazione e non favorisce la maturazione della coscienza di classe), «in quanto esasperazione delle dominanti della coscienza borghese» è «effettivo superamento della società, della cultura e dello spirito borghese» e contribuisce alla «maturazione di una coscienza umana» nel suo complesso. Con la sua insensatezza il gesto di rivolta, che ha sempre qualcosa di intimo e privato, sopravvive oltre le realizzazioni storiche della rivoluzione riuscita.

La rivolta è «improvviso scoppio insurrezionale [...] che di per sé non implica una strategia» a differenza della rivoluzione, coordinata e orientata alla presa del potere; ma la distinzione è prima di tutto nella coscienza di chi vive «una diversa esperienza del tempo». Mentre il tempo della rivoluzione è lineare, storico e quotidiano, il tempo percepito nella rivolta è lampeggiante, mitico e festivo: mentre la rivoluzione «è deliberatamente calata dentro il tempo storico», la rivolta lo sospende e instaura «un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia». La rivolta è vissuto mitologico: esperienza ad alto livello di significatività in cui si concentra l’intera esistenza e in cui la folgorazione di una redenzione riscatta chi vi partecipa. La vita rivela il proprio senso in un attimo estatico di autoaffermazione e di pienezza. Il valore della rivolta è nel significato che assume per chi ne partecipa e non nella sua realizzazione.

Emergono a questo punto due ambiti di riflessione: la prima riguarda la teoria politica di Luxemburg come «il sogno di un rinnovato umanesimo» di stampo rivoluzionario:


la rivoluzione non sarà una nel tempo: [...] l’emancipazione dal condizionamento borghese, che prelude alla duratura conquista del potere, sarà raggiunta solo se le eredità borghesi [...] verranno colmate dal proletariato di una rinnovata qualità morale, tale da consentire di rivolgere contro la borghesia le sue stesse armi, di superare l’antinomia fra pensiero per sé e pensiero per gli altri, vita a sé e vita con gli altri [...]. Stabilire quale sia il tempo della rivoluzione è contribuire a renderlo prossimo.


Contro «un senso della storia super-umano» si tratta di far valere il fatto che «gli uomini “fanno da sé” la storia» e di considerare l’«utopia» come «concreto alimento ideologico dei movimenti rivoluzionari esterni alla Russia», un’utopia che «un concreto pessimismo distingue da quelle della rivoluzione riuscita una volta per tutte». L’utopia è critica dell’esistente: dall’immaginazione viene la spinta ad agire nella storia in senso emancipativo. Rifiutando tanto il socialismo reale quanto la socialdemocrazia e la linea del PCI, la Nuova sinistra a cui Jesi ha prestato la propria intelligenza vedeva in Luxemburg un punto di riferimento. La seconda questione è di ordine filosofico: in Spartakus il «tempo normale» è definito «concetto borghese e frutto della manipolazione borghese del tempo». Tale idea della rivolta, «esperienza-limite, come lo stato d’eccezione», pone Jesi in un ideale dialogo


con la concezione jungeriana del ribelle, che [...] sospende il tempo della quotidianità borghese, le sue regolarità e le sue norme; con le forme e le opposizioni estreme che caratterizzano lo stato d’eccezione secondo Carl Schmitt, ammirato da Walter Benjamin, a sua volta amato da Jesi; con l’attimo di Kierkegaard e la temporalità autentica di Heidegger.


La costruzione della realtà sociale operata dalla classe borghese implica la capacità di determinare le coordinate materiali del tempo, con l'amministrazione legata ai tempi del lavoro a cui è subordinata la vita; la manipolazione implica la «sospensione del tempo normale» come avviene con la mobilitazione straordinaria comportata dalla Grande guerra, le «manovre cruente» dei «Signori della Guerra» che rispondono allo stesso principio di controllo e che mutano radicalmente l’esperienza degli individui, intensificandola e dilatandola. Jesi suggerisce che la repressione del moto spartachista sia stato il cruento sacrificio dei ‘diversi’ sui cui la Germania di Weimar ha ricostruito la sua normalità borghese dopo la guerra, in quanto «ogni vero mutamento di esperienza del tempo è un rituale che chiede vittime umane».

La logica del sacrificio lavora però a beneficio di chi ha le chiavi di accesso ai codici del potere simbolico: ogni movimento rivoluzionario contemporaneo avrebbe dovuto abbandonare il residuo legame con la posizione metafisica del sacrificio fondatore e così «trovare scampo dal vicolo chiuso dei grandi sacrificatori o delle grandi vittime».

Per Luxemburg la dimensione mitologica emotiva sottesa dalla rivolta è indistinguibile dal momento strategico rivoluzionario, è la fase preparatoria senza la quale non vi è partecipazione cosciente della massa alla trasformazione della società. Ma il tributo di sangue degli spartachisti, nell’elaborazione della memoria identitaria del movimento rivoluzionario alimenta la mitologia della sconfitta, aggiungendosi alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna come momento di una storia alla quale chi combatte il capitalismo vorrebbe aver partecipato: la 'battaglia perduta' è un mito che contrappone vittime eroiche al nemico.


La rivolta, è nel profondo, la più vistosa forma autolesionistica di sacrificio umano. Al tempo stesso [...] la rivolta è un istante di folgorante conoscenza. Di là dalla strategia delle organizzazione classiste, i rivoltosi riconoscono fulmineamente nell’avversario il demone o il venduto ai demoni; i simboli del potere avversario non devono essere incorporati ma distrutti. Questa è dunque libertà e conoscenza. Ma il suo risultato è morte, l’apologia della morte e la mitologizzazione della morte.


Nella sua riflessione politica Jesi ha visto come, a dispetto della sua dichiarata scientificità, il marxismo sia stato storicamente «un sistema [...] immaginativo-concettuale [...] di massa» con la funzione di elaborare «emozioni e desideri, di generalizzare conflitti sociali, rendendoli politicamente spendibili». La rivolta è l’apice della dimensione mitologica della politica: in Eliade – che qui ancora Jesi apprezza – il mito è antidoto ai dolori della storia ed è riportato a modello di conoscenza generale («“funzionamento esistenziale” dell’io») che consiste nell’appartenere simultaneamente a differenti sfere di realtà. «Doppia Sophia» è duplice modo di conoscere che implica «commuoversi e intendere», emozione e ragione come polarità umane; i tempi del mito e della storia sono rispettivamente quello dell’immaginazione utopica, dopodomani, e quello della contingenza storica, qui ed ora: «l’io [...] è veramente partecipe dello scorrere della storia quando giunge a identificare a esso il decorso della sua distruzione, e dunque del suo accesso al mito».

Spartakus riflette il suo tempo: tra il 1967 e 1968 due morti lontane e diverse, quella di Padre Pio da Pietrelcina e di Ernesto Che Guevara, sono stati declinazioni del mito e hanno mostrato come il disincanto del mondo fosse lontano dall’essere un processo a senso unico, lineare e concluso. L’inevitabilità della dimensione mitologica che accompagna l’esistenza individuale e l’azione politica dei gruppi implica una duplice possibilità: un’immagine mitologica può ipostatizzarsi e monumentalizzarsi in funzione fondazionale e metafisica, oppure può mantenere la leggerezza dell’utopia ed essere mitologia al servizio della ragione. Questa seconda via, emotività e insieme riflessione, deve scongiurare il rischio ricorrente che un fatto mitologico, immaginazione di cui è intessuta la vita, possa trasformarsi in un mito-sostanza capace di sottrarre razionalità decisionale agli individui. La filosofia del mito di Jesi è un modo per stare lontano dal gorgo che esso genera, tracciandone i bordi esterni con meticolosa attenzione: la 'macchina mitologica', pochi anni dopo, sarà lo strumento intellettuale che permette di pensare in termini funzionali il mito, indagando i meccanismi che lo producono e gli scopi a cui serve, neutralizzando il fascino ipnotico di ogni mitologia.

La letteratura, scrittura che implica anche la critica e la filosofia, con la discorsività che articola in sequenze le idee e le ‘raffredda’, è la risorsa per l’uso possibile delle immagini mitologiche, altrimenti ‘idee senza parole’ pre-politiche: «se la rivolta è rottura del “tempo normale” ovvero della “manipolazione borghese del tempo” e della sua dialettica mito/storia, la scrittura della rivolta deve porsi in chiave di demitologizzazione». Letteratura è versione secolarizzata della mitologia che ne conserva le funzione più alta, quella di poter pensare altri mondi possibili rimanendo saldamente ancorati a questo. Permette l'uso del racconto mitico allontanando lo spettro della tecnicizzazione fascista: ne salva la significatività e il potenziale comunicativo, escludendo ogni fondazione metafisica. Per Jesi la letteratura è fonte di mitologia ‘genuina’, rinnova la mitopoiesi contro la ‘religione della morte’ tipica del mito pensato dalla ragione come altro da sé; come in Mann essa mostra la sua origine artificiale nella modalità del montaggio ironico e parodistico con un effetto simile allo straniamento che Brecht nel teatro e Benjamin nella critica hanno sistematicamente praticato, consentendo la simultanea presenza di intensità e riflessione.

Jesi conduce così la sua «battaglia contro ogni forma di teologia della storia» e contro ogni logica sacrificale: la filosofia della storia marxista deve abbandonare ogni ipoteca escatologica, rinunciando alla «fiducia in una mitica dell’età dell’oro della giustizia sociale» e lavorando per «il giorno che viene dopo l’oggi, il giorno in cui forse il dolore dell’oggi si trasformerà in bene». L'utopia è ideale regolativo che concede mediazione con la realtà storica. Kragler nei Tamburi della notte di Brecht è il reduce che torna dalla guerra e si scopre tradito dalla promessa sposa che lo ha creduto morto. Si getta nell’insurrezione berlinese, vaga nella notte della battaglia insieme a gruppi di ribelli, animato da uno spirito di distruzione privato e pubblico, salvo poi tirarsi indietro e rifiutare il sacrificio dopo aver ritrovato la pace personale, quando la fidanzata, avuta la notizia del suo ritorno, riconferma il suo amore e l’intenzione di vivere con lui. La rinuncia è scelta opposta alla rivolta suicida; ma come quella sorge da uno stesso 'vivere la morte ogni giorno', «istante in cui la vita appare vera» che trasforma la «vita in verità». «Ma, allora, dinanzi a colui che rinuncia si apre il labirinto dell'essere, poiché solo chi compie un gesto è destinato ad affrontare le illuminazioni e i terrori delle epifanie del vero». Se la rivolta innesca il movimento sacrificale che serve l’edificazione del potere, la rinuncia è rifiuto della mitologia eroica in favore di un momentaneo insabbiamento. In attesa di tempi più adatti alla rivoluzione con il ritiro ci si sottrae alla complicità con un gioco che non si può controllare.


giovedì 16 settembre 2010

mito. proposizioni elementari




Il mito ha un senso che va cercato in esso
Il mito appartiene alla tradizione orale
Il mito vive nel suo essere ricevuto e rielaborato
Il mito è oralità ma senza scrittura non vivrebbe
Il mito esprime un programma di azione
il mito è un produttore di identità culturali
il mito è un oggetto di valore
il mito è la sua aura, autorevolezza
il mito è macchinazione, autorità
il mito è un produttore di identità politiche
il mito produce senso
il mito esorcizza l'assolutismo della realtà
il mito tesse reti di significato
il mito è strato profondo e deformato della realtà storica
il mito è qualcosa che fa credere di essere ciò che non è
il mito vive nel processo di ricezione/elaborazione
il mito sorge nel sacro, con esso tramonta e rinasce secolarizzato nella letteratura
il mito ritorna nella politica e nella comunicazione pubblica
il mito è quasi sempre l'immagine che di essa hanno voluto dare i diversi mitologi
il mito è colto al meglio dalla storia della storiografia
il mito è l'invenzione addomesticata dei filosofi, che ne hanno fatto l'ombra della ragione
il mito è un documento che diventa monumento
il mito è una forma di pensiero e una costruzione linguistica
il mito è l’aura di miticità
il mito antico potrebbe essere coincidenza di significato e significante
il mito 'moderno' è risignificazione di un significante precedente
tutti i miti che conosciamo sono moderni
il mito non esiste, esistono solo i materiali mitologici
il mito non è eco della storia: è la storia che si risolve nel mito, nel senso che il mito ha sempre un significato storico

il mito per gli uomini preistorici è immagine della realtà
il mito per gli uomini antichi è un'esperienza del sacro
il mito per il periodo classico è il canone di un'etnografia identitaria
il mito ellenistico è una koiné cosmonaturalistica universalizzante
il mito neoplatonico è un un simbolo dell'Uno
il mito cristiano è allegoria della rivelazione
il mito medievale è allegoria, fuorviante e deviata, della rivelazione
il mito umanistico è nuovamente simbolo dell'Uno, con nostalgia dell'antico
il mito barocco è ornato retorico, codice di celebrazione del potere e dell'amore
il mito illuministico è allegoria naturalistica su base deista
il mito romantico è simbolo dell'Uno, con nostalgia dell'uno e dell'antico visto dal rinascimento con intenzione di fondazione metafisico-politica
il mito idealista è la voce dell'essere
il mito fenomenologico è l'esperienza del mysterium
il mito psicanalitico è traccia dell'infanzia che si confonde con l'origine
il mito neokantiano è preistoria della ragione
il mito strutturalista è sintomo della regola di funzionamento delllo spirito umano
il mito post-strutturalista è naturalizzazione della realtà
il mito di tutti è mito del mito
ogni mito è racconto

lunedì 6 settembre 2010

Antigone


settembre non aiuta. riprende l'anno scolastico. bisogno di volare più in alto.





Riscritture di Antigone. Variazioni sul mito in Anouilh e Brecht


Il tipo di riflessione che intendo proporre si attua su due livelli: l’analisi di Antigone come figura nelle letture di Anouilh e di Brecht, che solo nel secondo caso di presenta come figura specificamente politica;

la perlustrazione di possibili modalità di operare sulla dimensione mitico-simbolica in ambito letterario e artistico, a partire dalla «significatività» di alcuni topoi della cultura europea, che vuole essere una metariflessione sul rapporto mito-politica.


Per fare questo lo schema che intendo seguire è il seguente:

a. Presentare le due riscritture, Antigone di Jean Anouilh (1942) e Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht (1947) mostrandone le rispettive peculiarità mediante una breve analisi svolta sui testi nella versione a cura di M.G. Ciani, Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2000 (a cui fanno riferimento i rimandi di pagina). In entrambi i casi è presente una dimensione esistenziale e politica che si gioca all’interno della dicotomia ribellione ideale/ragion di stato, nel primo caso, e resistenza ed emancipazione/repressione imperialistica nel secondo.


b. Proporre alcune conclusioni sul differente tipo di lavoro sul testo a partire dalla filosofia implicita/posizione ideologica di cui gli autori sono portatori. La prima come tragedia esistenzialista contemporanea che accentua la dimensione dell’ambiguità e ripropone un pensiero tragico, fortemente nichilista e misantropico; la seconda come forma di un teatro epico che si presenta come macchina retorica al servizio delle idee rivoluzionarie di un marxismo critico e umanista.


0.

Il punto di partenza di ogni discorso sul valore del mito è la sua «significatività», termine diltheyano che intende sottolineare la capacità di una figura narrativa di suscitare significato, emozione, valore in chi si relaziona ad essa. È il presupposto su cui si basa ogni teoria estetica sulla finzione: certi testi ci parlano e dicono cose importanti. La persistenza delle figure mitologiche del mondo greco dentro la cultura europea moderna è la tautologica dimostrazione di tale importanza: quello che qui interessa è la capacità del mito di comunicare all’interno dei processi di ricezione, la sua potenzialità ermeneutica in campo letterario.

Secondo la teoria di Hans Blumenberg (Elaborazione del mito, 1979), che qui assumo come sfondo teorico, il senso del mito è legato alla sua ricezione: lo studio del mito è analisi delle funzioni che un contenuto svolge nel corso del processo di ricezione di cui è protagonista. L’orizzonte autentico di un mitologema è quello del suo pubblico, come costrutto che si realizza in fieri nella storia della sua ricezione; in essa deve essere cercato il significato di un’opera, non nel suo valore intrinseco.

Tale discorso vale a maggior ragione per la tragedia (per la quale mi rifaccio alle opere di Vernant e Vidal-Naquet Mito e tragedia, I e II, 1972, 1986), che si presenta come elaborazione autorale di una tradizione epica: il mito e la tragedia sono correlati ma distinti, nel senso che il mito è nella tragedia, ma al tempo stesso da essa rigettato.

Nella tragedia il patrimonio mitico viene messo in discussione nello spazio pubblico: l’eroe dell’epos diviene oggetto di un dibattito grazie al quale, nello spettacolo tragico l’uomo del V secolo, si scopre un problema, una domanda senza risposta. In questa capacità della tragedia di manipolare plasticamente il mito per farsi riflessione pubblica viene ‘inventata’ la dimensione della verosimiglianza, discussa in Platone e Aristotele attraverso la categoria di mimesis. Rappresentare tragicamente significa quindi elaborare materiale mitologico per fornire materiale alla riflessione degli individui mediante l’istituzione della sfera della finzione che permette la «purificazione delle passioni», ovvero la loro intelligibilità nella distanza rispetto all’opacità che esse hanno all’interno dell’esperienza reale.

La tragedia utilizza il mito per radicarsi nella realtà sociale, ma ciò non significa che essa sia riflesso perfetto della società: «essa non riflette questa realtà: la mette in causa», (Mito e tragedia I, p. 12). Le riscritture che propongo qui fanno questo, rielaborano il testo sofocleo e la sua dicotomia tra oikos e polis, declinandoli all’interno di contesti riattualizzati, segnatamente quelli della seconda guerra mondiale, laddove resistenza e rifiuto del potere esprimono una critica dell’esistenza reificata e al paternalismo borghese, al fascismo e al nazionalsocialismo e una riflessione sulla possibilità/dovere di opporvisi. In esse, seppur con vistose e importanti differenze, viene mostrato il dibattersi dell’individuo Antigone intrappolato nell’inesorabile e immensa tagliola della storia.



1.1

Jean Anouihl (1910-1987), è stato un drammaturgo di successo e figura intellettuale di spicco nella Parigi degli anni trenta. La ripresa di temi mitici è una costante della sua opera e l’Antigone è forse il più famoso tra i suoi testi. Nella Francia del 1942, soggetta all’occupazione nazista e al regime collaborazionista di Vichy, un episodio colpisce profondamente lo scrittore. In agosto Paul Collette, un giovane reduce di guerra, privo di legami con la resistenza organizzata, spara e ferisce Pierre Laval, primo ministro francese. Il gesto è fallimentare: l’attentatore è condannato a morte, pena poi trasformata in lavori forzati, e l’attentato sarà usata come pretesto per un’ampia repressione (lo stesso Collette è una figura insolita di resistente nazionalista e anticomunista), ma colpisce Anouilh per il valore di un gesto solitario e gratuito, disperato e privo di prospettiva, ostinato e ‘privato’. Ispira al drammaturgo la figura di Antigone come adolescente nervosa e selvaggia, che sfida il potere mostruoso dello Stato di Creonte con la sua paletta per la sabbia di bambina, forte del ricordo dei fiori di carta che il fratello maggiore Polinice le regalava.

Il testo, dalle potenziali implicazioni politiche eloquenti, fu sottoposto alla censura tedesca che lo considerò innocuo (Creonte ne usciva vivo e vincitore), e ottenuto il visto, fu rappresentato solo due anni dopo nel 1944 al Thèatre Atelier di Parigi. Non ci furono applausi alla prima rappresentazione: molti vi lessero un’apologia del governo di Pétain e Laval, proprio laddove altri videro un elogio della resistenza a oltranza, estrema fino al sacrificio. Difficile districarsi nel mare delle intenzioni, delle accuse e dei fatti: Anouilh considerò un grave errore l’aver inscenato l’opera, approvò la distribuzione di volantini della resistenza e in seguito prese pubblicamente le distanze dai collaborazionisti («Non ho mai neanche di lontano simpatizzato con i nazisti e con i complici») ma criticò l’epurazione successiva («confesso di aver compassione per i vinti e provo timore per gli eccessi dell’epurazione») e si tenne lontano dal clima intellettuale e militante della Francia post-bellica. Il suo testo, letto dopo sessant’anni, non reca traccia di tutto questo se non il sentore umbratile di un cupo senso di impotenza, lo stesso che viveva la Francia occupata, nel quale ognuno potè trovare le sue ragioni, rispecchiate tanto in Antigone che in Creonte.


1.2

Anouilh rimane sostanzialmente fedele al plot di Sofocle, che però è modernizzato, a partire dall’ambientazione: si parla ancora di Tebe, ma abiti e oggetti sono quelli della Francia degli anni Quaranta e i caratteri dei personaggi hanno una connotazione psicologica molto moderna. Antigone, figlia di re, è una ragazza ‘selvaggia’, adolescente ribelle, magra e scontrosa, inquieta e insoddisfatta, desiderosa di dare senso alla propria vita: la sua figura è inscritta nella sfera della ribellione infantile, testarda e irrazionale. Afferma la sua gelosia per la sorella Ismene (p. 70), sana e bella, si fa sposare e non sa perché (p. 63) e ci viene presentata quando già ha deciso di incaricaricarsi di un ruolo sacrale, la sepoltura fuori legge del fratello, come di fronte a un atto decisivo di redenzione, coincidente con la sua morte.

Il dialogo con la nutrice mette in luce tale dimensione di infantilismo irriducibile: Antigone ha già la morte negli occhi, si comporta da invasata, intenerita e misteriosa, allude alla sua decisione per enigmi, ma invoca una protezione e vagheggia una felice incoscienza perduta (p. 74). Al centro delle sue relazioni compare un tema caro ad Anouilh che è l’adolescenza in quanto problematica dimensione di purezza ideale.

«Io non voglio comprendere» (p. 71), afferma Antigone pur dichiarando il suo assoluto amore per la vita (p. 72), «ho già pianto abbastanza per essere una ragazza» (p. 73).

A Emone, suo promesso sposo, dice: «nostro figlio avrebbe avuto una mamma piccola e spettinata» (p. 77), ma non è chiara nella comunicazione e si comporta in modo tale da generare il classico litigio tra fidanzati: gli giura che avrebbe voluto essere sua, gli fa promettere di non chiedergli niente, gli dice che non lo potrà sposare e lo caccia via in modo completamente irragionevole.

La «piccola Antigone» appare come chi ha problemi con la propria immagine e identità, a partire dal corpo, per nulla femminile e seducente, si comporta sempre in modo stravagante ed eccessivo: sembra voler cercare un gesto clamoroso capace di affermare pubblicamente il suo essere donna, nella forma ieratica della martire onnisciente e visionaria.

Creonte, primo uomo di corte divenuto re suo malgrado, rappresenta la ragion di stato: la posizione tipica dell’uomo di governo, incline al compromesso e a quell’arte della mediazione e della menzogna, osservabile tanto in Platone quanto in Machiavelli, secondo cui il fine giustifica qualsiasi mezzo, e le masse, ottuse ma irrazionalmente sensibili, devono essere manipolate.

Non è un tiranno, è un “impiegato”: vi è in lui un senso pragmatico e del governare come lavoro, una passione “grigia” che incarna le ragioni del principio della realtà e del buon senso. Non avrebbe voluto il potere, rimpiange la sua esistenza precedente ed ogni la sera si interroga se «non sia vano governare gli uomini» ma la mattina si alza come un operaio» (p. 64). Questo suo volto di quotidianità non esclude però un atteggiamento spregiudicato: si serve pragmaticamente dell’esposizione del cadavere di Polinice, quanto della celebrazione di quello di Eteocle come mezzi di persuasione del popolo, facendo del nichilismo e del realismo la sua bandiera.

Di fronte alla notizia che il corpo di Polinice è stato seppellito «con una paletta da bambino vecchia e tutta arrugginita», sospetta una macchinazione dell’opposizione democratica, e dice: «devono aver pensato che così sarebbe stato più toccante» (p. 82), ragiona nei termini della macchinazione e del valore esemplare, il codice che lui conosce e manipola quotidianamente come tutti gli uomini adulti e in quanto tali, di potere.

È con la scoperta della responsabilità di Antigone e nel confronto con lei che sta il nucleo tragico, vero agon tra due visioni del mondo simmetricamente invertite, di fronte al potere e al futuro. Creonte è incredulo ma quasi sereno: il guaio sembra essere rimediabile, è disposto a uccidere le guardie e a mantenere il segreto pur di non creare ulteriore scompiglio, non vede le ragioni di uccidere la nipote a cui regalò «la sua prima bambola» (p. 92), e sa che il sangue di una fanciulla avrebbe un valore inestimabile per il partito avverso.

Di fronte alla pervicacia della ragazza l’iniziale stupore si trasforma in una rivendicazione rabbiosa che affonda le ragioni in una storia di famiglia e che ruota attorno all’accusa di orgoglio e narcisismo: «tu sei l’orgoglio di Edipo» (p. 91), «l’umano vi fa sentire a disagio in famiglia. Vi ci vuole un corpo a corpo con il destino e con la morte». «Questi tempi sono passati per Tebe. Tebe ha diritto a un principe senza storia: (…) ho i miei due piedi conficcati per terra, le mie due mani conficcate nelle tasche e ho deciso, con meno ambizione di tuo padre, di dedicarmi semplicemente a rendere l’ordine di questo mondo un po’ meno assurdo. (…) i re hanno altro da fare che del patetico personale».

La sua è una rivendicazione anti-mitologica e anti-narcisistica: che esprime un bisogno pragmatico di ordine, prosaico e consuetudinario in contrapposizione a una dimensione dominata dal pathos. Il tipo di reazione passa poi sul registro “cresci e fammi lavorare”, insistendo sulle tonalità paternaliste del buon senso: «Hai vent’anni e non tanto tempo fa tutto questo si sarebbe sistemato con del pane secco e un paio di sberle», «ingrassa un po’ piuttosto per fare un bel bambinone a Emone, Tebe ne ha bisogno più che della tua morte, te lo assicuro». (p. 92)

Di fronte alla risolutezza della disobbedienza, nel crescendo del confronto, Creonte interroga Antigone sul senso del suo agire e si prende gioco del rito della sepoltura, il ‘passaporto ridicolo’ per l’aldilà (p. 93); implora per salvare la nipote, si assume il ruolo del cattivo (p.94) ma chiede comprensione e rivendica la necessità politica della punizione esemplare del ribelle e traditorel’avrebbe già fatto seppellire, non fosse che per igiene - «amo quello che è pulito, lindo, ben lavato» - «ma perché quei rozzi che governo lo capiscano, bisogna che il cadavere di Polinice puzzi in tutta la città per un mese» (p. 95-96).

Antigone potrà mantenere le sue opinioni, in segreto, basta che taccia e viva, e poi capirà: «bisogna comunque che ci sia qualcuno che dice sì. Bisogna comunque che ci sia chi guida la barca. Fa acqua da tutte le parti, è piena di crimini, stupidità e miseria», (p. 98), continua Creonte, dando voce a un vasto repertorio di variazioni sui temi del pessimismo antropologico e della sfiducia nelle possibilità degli uomini.

Al culmine del contrasto esprime il più radicale disincanto: distrugge l’immagine dei due fratelli, di fatto svuotando di senso il gesto di Antigone, essi sono due ladroni che si ingannavano l’un l’altro ingannandoci» e si sono uccisi in un volgare regolamento di conti: Eteocle non è migliore, si stava preparando a un uguale tradimento. Eppure c’è bisogno della macchina retorica che produca tanto il santo quanto il criminale per la folla, (p. 102) capace di muoversi solo nella dimensione dell’Osanna e del Crucifige. I due fratelli sono simmetrici nella violenza e nell’inganno: Antigone è ingenua e stupida a commuoversi, ricordando i litigi dei fratelli con il padre e le tenerezze verso di lei bambina, perché non sa niente di loro veramente, né di come va il mondo. I due sono uguali persino nella loro morte, al punto che i loro corpi non erano neanche più distinguibili. «Erano ridotti in poltiglia, ho fatto raccogliere uno dei corpi, il meno rovinato dei due per i funerali nazionali, e ho dato l’ordine di fare marcire l’altro dov’era. Non so nemmeno quale. E ti assicuro che per me è uguale» (p. 102).

Antigone, sempre più turbata e confusa, di fronte all’accusa di narcisismo e di ingenuità idealistica sostanzialmente sembra riconoscersi e pervenire a una serie di consapevolezze (p. 94). Ma continua a essere Antigone, non si fa convincere dalle retorica del padre, nel nome dell’interesse comune e della famiglia, come Toni Buddenbrook di fronte a un matrimonio-sacrificio.

Alla domanda «perché compi questo gesto? Per gli altri, per chi ci crede, per aizzarli contro di me?» risponde «Per nessuno. Per me».

Di fronte alle esigenze del realismo politico risponde dello zio e al suo richiamo alla responsabilità (p. 96) afferma «io non ho scelto di governare, posso dire no a tutto quello che non mi piace»; e contemporaneamente sembra riconoscere il potere implicito nel ricatto che la sua sfida pone rispetto alla posizione di futura martire, riconosce il proprio potere sacrificale (p. 97).

«Povero Creonte! Vi faccio paura. (…) Con le mie unghie spezzate e la paura che mi torce il ventre, io sono regina», «non voglio capire. Va bene per voi. Io sono qui per qualcosa d’altro che capire. Sono qui per dirvi di no e per morire» (p.98).

E se di fronte alla rivelazione della miseria dei fratelli sembra cedere (p. 102) «perché mi avete raccontato tutto questo? Io ci credevo», ma è solo per un attimo.

Creonte le predica la resa dell’adulto, il riconoscimento che la vita è fatta di piccole cose (p. 103): «la vita non è quello che credi. È un’acqua che i giovani lasciano colare senza saperlo, tra le loro dita aperte. Chiudi le tue mani, chiudi le tue mani, fai presto. Trattienila. Vedrai, diventerà una piccola cosa dura e semplice che si sgranocchia, seduti al sole. (…) Lo imparerai, anche tu troppo tardi, la vita è un libro che si ama, è un bambino che gioca ai tuoi piedi, un arnese che si tiene bene in mano, una panchina per riposarsi la sera davanti a casa. Mi disprezzerai ancora, ma scoprire questo, vedrai, è la consolazione derisoria di invecchiare, la vita, non è forse comunque che la felicità».

Antigone può rilanciare: (p. 104)«Quale sarà la mia felicità? Che donna felice diventerà la piccola Antigone? Quali miserie bisogna che compia anche lei, giorno per giorno, per strappare coi suoi denti il suo piccolo brandello di felicità? Ditemi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi?»,«se la vostra vita, la vostra felicità devono passare» sopra di me «con la loro usura» non la voglio più. «Mi disgustate tutti con la vostra felicità! Con la vostra vita che bisogna amare costi quel che costi! Come dei cani che devono leccare tutto quello che trovano. (…) Io voglio tutto, subito – e che sia tutto intero -, altrimenti rifiuto! Non voglio essere modesta, io, e accontentarmi di un pezzettino se sono stata saggia. Voglio essere sicura di tutto oggi e che questo sia bello come quando ero bambina – o morire», p. 105.

Con questo Polinice diventa un pretesto per rilanciare il proprio grido di ribellione contro il principio di realtà, per l’affermazione dei propri desideri e del rifiuto di venire a patti con tutto ciò che contrasta l’immaginazione dell’individuo e il suo piano di conquista della felicità. Antigone si riconferma e si dichiara figlia di Edipo: «noi siamo di quelli che fanno le domande fino in fondo. Noi siamo di quelli che le saltano addosso alla vostra cara speranza!» (p.105), e vomita il suo odio verso la ‘gente comune’, gli adattati, quelli che vivono sereni e pacificati nella rinuncia mediocre, quasi i ‘porcaccioni’ della Nausea (1938) di Sartre: « ah, i vostri poveri volti di candidati alla felicità! siete voi a essere orrendi, anche i più belli. Avete tutti qualcosa di orrendo all’angolo dell’occhio e della bocca», (p. 105).

Anche il confronto padre Creonte-figlio Emone, si gioca sul medesimo piano adolescente/adulto, illusione/disincanto di rifiuto del soddisfatto paternalismo borghese: di fronte all’irreversibilità della situazione, che Antigone ha reso irremediabile nella sua rivolta, Emone scopre che il padre non è onnipotente, perché non può salvare la promessa sposa dalla sua stessa ostinazione: invoca il paterno antico potere sovrannaturale di gigante, protettore forte dell’infanzia: «sono troppo solo e il mondo è troppo spoglio se non posso più ammirarti». Creonte cerca di consolare il figlio, lo invita ad accettare l’inevitabilità della situazione, di un gioco della realtà troppo dura da scalfire. Il segreto è che, crescere, accettare di essere uomo, vuol dire vedere cadere tutte le illusioni, «si è completamente soli, Emone. Il mondo è spoglio» (p. 109).


1.3

Ridurre il testo a apologia della tirannide, come una lettura consegnata alla storia degli effetti dell’opera suggerisce, pare eccessivo: il testo è fortemente drammatico e davvero potente nella sua capacità di scavare nelle motivazioni dei personaggi, al punto da essere una vera tragedia, laddove la specificità di questa è l’ambiguità, il mostrare l’uomo come un problema, irridicibile a schemi ideologici chiari. Nel gioco delle simmetrie invertite, ognuno ha buone ragioni non tanto nell’affermare le proprie, quanto nello smascherare quelle dell’altro: Antigone ha davvero bisogno di trovare la sua identità, il suo non è un problema genuinamente politico; Creonte viceversa è di un cinismo pratico disperante e disumano, reificato e irenico, il cui scopo sembra essere la riduzione al minimo delle funzioni vitali.

Vengono mostrate le opposizioni dialettiche interne, ma non sono ricomposte in alcun modo: la tragedia esistenzialista mette ogni spettatore di fronte alla domanda sull’autenticità delle motivazioni della propria azione e sull’efficacia delle conseguenze di questa. L’individuo, con le sue interiorità, diventa qualcosa di diverso nella dimensione esteriore e pubblica, che pure è l’unica ‘effettiva’ nel suo essere socialmente condivisa. Antigone diviene malgrado sé una figura cristologica e sacrificale: dentro a tutte le rivolte, si cela il bisogno individuale di qualcosa di altro rispetto al fine politico dichiarato, un venire fuori che nasconde bisogni differenti. Una moltitudine di questioni private dietro la macina della storia che colpisce una collettività, impastate nel sangue e rese indistinguibili nella loro peculiarità.

Il testo è molto attento alle sfumature e caratterizzato da un profondo scavo psicologico dei personaggi, troppo sottile per una interpretazione ideologica, a cui si sottrae e sotto la cui presa finisce in pezzi. Il piano che interesse Anouilh è quello psicologico ed esistenziale, non quello politico, il che nella prassi politica dell’ora appare drammatico, inutile e non risolutivo (ricordiamoci che la Francia è occupata dai nazisti) e può anche avere un esito conservatore, ma di sicuro è molto umano. Una critica militante a Anouilh si riduce al considerare politicamente inopportuna la voce dei depressi dove già manca la speranza.

Al di là del fatto che il testo di Anouilh non funziona in nessun modo come strumento di mobilitazione, mi sembra piuttosto una presa di posizione molto politica la messa in luce, seppur un chiave depressiva e rassegnata, della vera dimensione impolitica espressa dal quadro di pessimismo antropologico in cui si svolge il tutto, al di sotto della dialettica dai bordi taglienti dentro la quale si affrontano i protagonisti.

Sullo sfondo di tutta la tragedia dominano squallore e medietà, banalità e terrore, una dimensione schiacciata su una quotidianità alienata: merita attenzione la descrizione delle guardie («sanno di aglio, di cuoio e vino rosso, e sono privi di ogni immaginazione»), meschine e preoccupate del solo interesse e del personale tornaconto, secondo una dinamica che ricalca la riflessione sulla «banalità del male» di Arendt come mancanza di idee: «sono gli ausiliari sempre innocenti e sempre soddisfatti di loro stessi e della giustizia» (p. 65).

La dimensione della comunicazione più semplice sembra preclusa: sono incapaci del più piccolo gesto di umanità, (p. 87): in un colloquio in carcere la guardia non è capace di ascoltare Antigone condannata e le racconta delle rivalità che si scatenano per la carriera e gli stipendi, il tentativo di scrivere una lettera di addio per Emone diventa una farsa.

Anouilh mi sembra dar voce al cupo pessimismo di chi piange perché ha perso la speranza e cerca di non affogare nella sua misantropia radicale. Anche la struttura circolare della tragedia conferma tale visione, con la rassegnazione che fin dall’inizio ricorda allo spettatore che ognuno ha preso il suo posto nella silenziosa apocalisse quotidiana di ininterrotta banalità, e che non può che essere così. La tragedia si conclude come da manuale: Antigone si impicca nella sua tomba di sepolta viva con la sua cintura di fili colorati, simile alla collana di una bambina. Emone, eterno bambino disperato, sputa addosso a suo padre prima di uccidersi, non prova neanche a rivoltarsi. Euridice, madre e moglie massaia e sottomessa, smette di fare maglioni per i poveri e si taglia la gola stendendosi su uno dei ‘letti gemelli fuori moda’ della stanza del suo consunto matrimonio. Creonte vorrebbe solo dormire ma deve andare al consiglio e fronteggiare la città.

La voce di Anouilh è nel coro: «è riposante la tragedia, perché si sa che non c’è più speranza, la porca speranza», (p. 85). E nel finale, che è invocazione di morte e oblio, (p. 118). «Ma adesso è finita. Sono comunque tranquilli. Quelli che dovevano morire sono morti. Morti uguali, tutti, stecchiti, inutili, marciti. E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli e a confondere i loro nomi».

Come nel Prometeo di Kafka (1918), in cui la storia di ribellione e punizione finisce sulle montagne remote del Caucaso: Prometeo «si addossò sempre più alla roccia fino a diventare con essa una cosa sola», e pian piano «tutti dimenticarono, gli dei, le aquile, egli stesso». Mentre le guardie continuano a giocare a carte.


2.1

Bertolt Brecht (1898-1956) non ha bisogno di troppe presentazioni: nel suo lavoro di drammaturgo, oltre alle opere originali e a diverse riscritture (Shakespeare, Molière), figura l’Antigone di Sofocle del 1947, basata sulla traduzione di Hölderlin e rappresentata per la prima volta nel 1948 in Svizzera, in piena ricostruzione e all’inizio della Guerra fredda.

Nelle mani di Brecht, di cui è noto il cui pensiero militante, la tragedia perde ogni ambiguità: il testo subisce una torsione che modifica la struttura narrativa e semplifica le caratteristiche dei personaggi in stile manicheo e unilaterale. Il preludio non lascia dubbi: a Berlino, nell’aprile 1945, due sorelle assistono impotenti all’agonia del fratello disertore, impiccato in strada dalle SS. Una cerca di fermare l’altra che, disperata, vuole correre a toglierlo dalla corda e cercare di rianimarlo sotto lo sguardo dei soldati. In una versione del 1951 un prologo recitato da Tiresia, nell’annunciare le gesta di Antigone, ammonisce lo spettatore: «Noi vi preghiamo di ricercare nel vostro animo azioni simili del più recente passato, o l’assenza di azioni simili».

Date queste premesse lo schema narrativo è chiaro: Creonte è il tiranno assoluto, rappresenta il potere della guerra tedesca, fatta per interesse economico e ricoperta di giustificazioni ideologiche; egli muove una guerra di conquista e rapina ad Argo e alle sue miniere, mandando i giovani della città alla morte. I due fratelli di Antigone combattono sotto di lui: Eteocle è un caduto tra gli altri, Polinice è il disertore che Creonte uccide con le sue stesse mani, per punire i vigliacchi in fuga che non difendono la patria. L’eroina tragica è così la figura della ribellione contro la tirannia disumana, l’ingiustia sociale e l’assurdità della guerra imperialista: è la figura allegorica della nuova umanità che dovrà costruire un mondo nuovo sulle macerie di quello finito con la caduta di Berlino.

A partire da questa diversa impostazione e finalità, rispetto tanto a Sofocle quanto ad Anouilh, la questione estetica che l’opera brechtiana pone è di altra natura: riguarda la possibilità di utilizzare il mito per trasformarlo in una macchina epica al servizio della militanza, nel senso più nobile del termine, laddove il teatro vuole essere strumento di critica e di una ragione umanistica il cui fine ultimo sia la giustizia.


2.2

L’analisi si snoda attorno alla risignificazione delle posizioni determinata dal cambiamento delle premesse narrative, prive di ambiguità e di quell’opacità che separa moventi e azioni, anche se Brecht mantiene struttura, metrica e tono molto fedeli al modello sofocleo. Conforme al modello primigenio ad esempio è il confronto tra le due sorelle, tra Ismene che consiglia la prudenza - «A chi comanda. Adoperarsi invano non è da saggi» - e Antigone che rivendica giustizia per i suoi cari morti («è più opportuno che piaccia a quelli di laggiù»), con una nuova connotazione che oppone la paura individuale della repressione alla necessità della ribellione pubblica che unisce giustizia sociale e affetti privati (p. 130), in nome di una concezione di umani che vuole separare singolare e collettivo.

Fin dall’inizio della tragedia Creonte espone in tono arrogante il suo trionfo in guerra, quasi secondo lo schema delle modalità propagandistiche che nascondono i fallimenti:

«Hai steso, o Tebe, il popolo argivo: senza città, senza tomba chi rideva di te giace all’aperto», e ai vecchi: «Ancora non mi avete visto appendere la spada dentro al tempio. (…) voi mi dovete convincere Tebe che il sangue versato non supera la misura normale»; e così giustifica la sepoltura con tutti gli onori a Eteocle e la misura contro quella di Polinice seguendo lo schema amico/nemico: «il codardo e amico degli argivi, giacerà insepolto, come giacciono quelli (…) giacché chi antepone la sua vita alla patria, per me non vale nulla» (p. 133).

Nel secondo coro, che in Sofocle è una formulazione di ideologia del progresso (l’uomo controlla progressivamente un ambiente naturale che gli è ostile), si aggiungono altri elementi che connettono la razionalità tecnica con il conflitto e la tendenza alla sopraffazione reciproca: «Nulla lo coglie privo di risorse. In tutto ciò che non ha confini, ma un limite gli è posto. Lui che non trova amici, di sé fa il proprio nemico. Come al toro piega al suo prossimo la nuca: ma il prossimo gli strappa le viscere. Se avanza calpesta spietato i suoi simili. Da sé non può riempirsi lo stomaco, ma cinge d’un muro la sua proprietà, ed il muro deve essere abbattuto! Ed il tetto aperto alla pioggia! L’umano tiene in conto di nulla. Così terribile diventa a se stesso» (p. 139). La dinamica marxiana che vede l’antagonismo reciproco sorgere dalla proprietà e trasformarsi in dominio dell’uomo sull’uomo è svolta fino alla produzione di alienazione.

Le parole di Creonte sono riducibili a un’identica matrice: il potere che si autolegittima e che sfrutta i suoi sudditi, vittime ingannate di una sete di potere e denaro insaziabile. Ad Emone, che a nome della città chiede al padre di rivedere la sua durezza, svela quello che pensa di una democrazia o delle opinioni che vengono ‘dal basso’: «Tu vuoi che il guidatore sia guidato dal tiro! Questo vuoi?». Nella metafora del carro colui che guida comanda quelli che tirano, bestie da soma, puro strumento nella mani del potere (p. 155).

Nel confronto con Antigone avviene la demistificazione dell’ideologia bellicista e imperialista di cui l’umanesimo marxista di Brecht intende essere il verso. Antigone rivendica una giustizia contro la legge, il principio che legittima ogni forma di resistenza e rivoluzione contro l’oppressione fattasi Stato, privo di legittimità e consenso: «perché era la tua legge, quella di un mortale, quindi un mortale può violarla», (p. 141); non c’è macchia nell’agire di Antigone: «Solo quel che è mio ho preso e ho dovuto rubarlo», (p. 147) perché è lo Stato oppressivo che viola la vera legge.

Anche il suo agire è mosso da intenti nobili e autentici, ella rivendica il tentativo di seppellimento in onore del fratello disertore «solo per dare un’esempio» (p. 142) contro il conformismo creato dal terrore. Non si creda che il legame brechtiano tra tragedia e dimensione storica sia forzato nella sua retorica: ad esempio durante l’occupazione tedesca dell’Italia fascisti di Salò e soldati nazisti fecero realmente un uso terroristico dell’espozione dei corpi dei “ribelli”, a cui fece da contraltare l’azione partigiana che si caratterizzò per una difesa della pietas popolare. Seppellimento e cura dei cadaveri ebbero l’effetto di rinsaldare il sentimento comunitario e consolidare la solidarietà antifascista, proprio nel marcare una differenza tra la dimensione ferina che caratterizzava lo stragismo nazi-fascista, di fatto giuridicamente legalizzato, e quella del diritto “giusnaturalistico” del partigiano che difende il patto sociale, essendo però giuridicamente bandito e fuori-legge (si veda per questo Chiodi, Banditi; Luzzatto, Il corpo del duce; Pavone, Una guerra civile).

Contro la disumanizzazione dei rapporti tra umani portata dalla guerra Antigone contesta la logica amico/nemico imposta da Creonte («chi non ti era schiavo è pur sempre un fratello») e l’identificazione tra scelte di Creonte e bene della patria: «morire per te non è morire per la patria». La guerra che c’è è la guerra di Creonte, fatta per una offesa alla terra straniera: «non ti bastava regnare sui fratelli nella tua città, Tebe amabile, dovevi trascinarli ad Argo lontana per dominarli anche là».

La rivolta pubblica di Antigone è un messaggio ai vecchi del coro, la città, è la voce di Brecht che parla ai tedeschi e a tutti gli oppressi di ogni tempo: «Io vi invoco, aiutatemi nell’afflizione e aiutate voi stessi: perché chi insegue il potere beve acqua salsa, non può smettere, e séguita per forza a bere. Ieri al fratello, oggi a me» (p. 144).

«Voi governanti minacciate sempre: la città cadrebbe, rovinerebbe disunita, in preda agli altri, allo straniero, e noi chiniamo il capo innanzi a voi». E ancora contro l’idea di patria nazionalista: «Terra (Paese) è fatica. Per l’uomo la patria non è solo la terra, la casa: non dove ha versato sudore, né la casa che derelitta attende il fuoco. Non chiama patria il luogo dove ha chinato la testa» (p. 145). Vi è qui la difesa di una concezione di terra come luogo trasformato dal proprio lavoro, ma non sotto il giogo reificante dello sfruttamento capitalista e bellicista. Il vero nemico è il potere oppressivo e mistificato dal fascismo, che manda a morte i suoi figli inutilmente: «Meglio sarebbe per noi tra le macerie delle nostra città sedere, più sicuri che con te nelle case del nemico».

Come già si è detto, la rivendicazione della propria umanità appare simmetricamente inversa alla disumanità del potere: sarà anche divino l’ordinamento dello Stato, ironizza Antigone, «ma lo vorrei piuttosto umano», «per l’amore io vivo, non per l’odio» (p. 147).

Antigone si ribella e si riscatta, sceglie la morte, che non vuole, pur di non vivere sotto il peso dell’insopportabile tirannia. Ai vecchi di Tebe che la compiangono turbati dice:

«Non parlate vi prego del destino. Parlate di chi mi uccide, innocente: a lui collegate un destino! Non crediate di essere risparmiati, o infelici. Altri mutili cadaveri vedrete a mucchi giacere insepolti sull’insepolto. Voi che a Creonte la guerra trascinaste per terre straniere, per quante battaglie egli vinca, sarete inghiottiti dall’ultima. Voi che invocaste il bottino non pieni vedrete tornare i carri, ma vuoti».

Ogni fatto che riguarda l’individuo, tanto nella morte (la sepoltura di Polinice) quanto riguardo al significato del vivere (la ribellione di Antigone) appare indistricabile dalla comunità e da un fine comune, di cui tutti sono responsabili, in primis la liberazione della tirannia e a seguire l’edificazione di una società più giusta.

La sorte della Germania è sullo sfondo. Da qui in poi, la tragedia procede verso la fine: la crudeltà ha demotivato i soldati, forse si sono ribellati all’insensatezza dei comandi, e la resistenza degli argivi, fatta da donne e bambini, ha piegato i tebani.

Anche se la guerra è perduta e l’altro figlio del re, Megareo, sconfitto, Emone dovrà combattere fino alla fine. Solo per questo Creonte si precipita a liberare Antigone: ha bisogno di una nuova spada, il figlio come strumento della propria avidità. Ma è troppo tardi: la fanciulla si è impiccata, Emone cerca di uccidere suo padre e si toglia la vita.

La consapevolezza arriva dopo, come una severa lezione: Tiresia svela che la guerra non è né vinta né finita e rende chiaro a tutti l’inganno del potere: «il malgoverno reclama uomini grandi e non ne trova. La guerra si espande e monta e si spezza le gambe. Dalla rapina viene la rapina e la durezza vuole durezza: il più vuole sempre sempre di più e finisce in nulla».

I vecchi cominciano a capire e ora vedono la doppia guerra del tiranno, contro il nemico e contro il suo stesso popolo: «Una stretta, dicevi, ancora una battaglia. Ma ora cominci a trattare i pari nostri come il nemico. E crudelmente tu conduci la duplice guerra». Ma per il dittatore non esistono più né il diritto dello Stato né quello del sangue, «la guerra crea nuovo diritto» (p. 172).

Creonte si ritira e attende la fine maledicendo chi ha rovinato i suoi piani, i ribelli sabotatori, il nemico interno che causa la rovina nella paranoia complottista tipica degli autoritarismi. I vecchi della città lo vedono voltare le spalle, e attendono il nemico «che presto verrà ad annientarci», sapendo che ne avrà tuute le ragioni. L’ultima parola è il loro ammonimento, la consapevolezza che arriva troppo tardi, quella di chi ha scommesso sul Reich, ha perso tutto e si è visto rovesciare addosso un milione di tonnellate di bombe tra il 1942 e il 1945. «Il tempo è breve, e tutt’intorno è il fato: non basta continuare a vivere senza pensiero, lievi trascorrendo di sofferenza in delitto, e ad acquistare saggezza da vecchi» (p. 180).


2.3

«E adesso voi ci vedrete, insieme agli altri attori calcare nella recita l’un dopo l’altro l’angusta scena, dove un tempo, in mezzo ai bucrani di sacrifici barbari di un grigio tempo primordiale, l’umanità si levò grande». Così Tiresia presentava l’Antigone nel Preludio della versione del 1951 e credo che questa frase riassuma il lavoro che Brecht ha voluto fare sul mito, o meglio, la funzione che Brecht continua a riconoscere al mito anche nella sua rielaborazione contemporanea.

Ogni mitologia consiste in un sistema ideologico capace di innervare di significato la totalità della vita delle comunità, così come non esistono forme d’arte che siano completamente disinteressate, in una dimensione estetica autonoma e avulsa dal reale.

Quello di Brecht non è però un teatro biecamente pedagogico e ideologico: sarebbe ingeneroso usare la categoria di tecnicizzazione del mito in questo caso. Il «mito tecnicizzato», nella teoria di Kerényi (1964) è la rielaborazione strumentale di certe immagini che punta al conseguimento di determinati obiettivi servendosi del potenziale emotivo e della capacità comunicativa del mito, del suo ‘presentarsi come vero’. In senso estremo tecnicizzatori del mito sono stati i nazisti, sono i fondamentalisti islamici, I tifosi di ogni revival neoidentitario: coloro che abusano dei sistemi di produzione della verità per farne un dispositivo ideologico volto a raggiungere fini di ingegneria sociale o etnica, quali ad esempio l'omogeneizzazione culturale di un gruppo attorno alla dicotomia amico/nemico. La costruzione dlle identità politiche forti si muove intorno alla diade ‘noi/loro’, ha bisogno della santificazione di un lato verso cui promuovere riconoscimento e appartenenza e della demonizzazione dell'altro, sul quale vengono proiettati tutti gli aspetti negativi. Ma la tecnicizzazione avviene a partire dalla posizione di potere di chi detiene le chiavi di accesso alla macchina della comunicazione, di chi è capace di modularne ritmo e intensità, contando sulla reiterazione dei cliché e sulla capacità di costruire luoghi comuni e parole d’ordine in forza della sola frequenza e pervasività, come ad esempio succede nella gestione totalitaria dei mezzi di comunicazione di massa o, all’interno delle moderne democrazie televisive, con la pianificazione di campagne ideologiche e pubblicitarie.

Diverso è il caso della dispositivo mitologico messo in moto nella dimensione artistica, al servizio dell’utopico, quella che definirei una ‘mitologia della ragione’ per una filosofia politica: Brecht era consapevole della contraddizione insita tra la militanza comunista e il suo essere intellettuale di formazione borghese che si occupa in particolar modo di teatro, forma per eccellenza della cultura borghese. Non mette in scena un teatro pedagogico iperrealista e kitsch, come avviene nell’arte forzatamente popolare del realismo sovietico stalinista, della rivoluzione culturale maoista o del populismo ataturkiano.

A partire dalla proprie contraddizioni intende produrre un epica che vuole essere fortemente umanistica, come il mito tragico dell’antichità, ma tale da svolgere una funzione critica. Il suo teatro non vuole essere un generatore di emozioni tale da fare leva solo sull’empatia, ma un allegoria epica che permetta allo spettatore di pensare fornendogli argomenti di critica. In questo stava la sua tecnica dello «straniamento». Certi stratagemmi scenici, o assemblaggi di teatro nel teatro non volevano essere pirandelliani o avanguardisti, ma dovevano realizzare una distanza tra l’autore e la pura dimensione dell’emozione, quella che parla all’inconscio e al «cervello rettile» degli spettatori (è un’espressione di Wu Ming 1). L’antiaristotelica rottura dell’immedesimazione avrebbe permesso di mantenere desta la coscienza critica, in modo tale da garantire la consapevolezza della propria alienazione, e da permettere alla forma-teatro di essere emancipativa e non semplicemente consolatoria. Non solo riflessione sulle contraddizioni della propria interiorità borghese, ma pensiero politico che spingere a modificare la propria vita, mediante la produzione di azione.

La riscrittura brechtiana si colloca così, a mio avviso, nella ricerca di un equilibrio tra i due diversi e opposti rischi, quello della caduta nell’irrazionalità emotiva e nell’immedesimazione che non fa distinzioni e quello della razionalizzazione didascalica e moralistico-ideologica che fornisce ricette semplificate.

In quanto umani abbiamo bisogno di narrazione e ogni rielaborazione del racconto-mito continuerà a soddisfare questo bisogno elementare: la condizione per non cadere nell’incantamento di forze demoniache, nuove tecnicizzazioni fasciste o fascinazioni mercantilistiche e impolitiche, sembra risiedere nell’essere capaci di ascoltare le narrazioni, senza mai smettere di riflettere, in stato di veglia, sull’emozione che il mito genera. E di lì partire per arrivare altrove.



Bibliografia di riferimento


Sofocle, Antigone, Mondadori, Milano, 1982

Sofocle, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2000

H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991

K. Kerènyi, Scritti italiani (1955-1971), Guida, Napoli, 1993

F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968

F. Jesi, Brecht, La Nuova Italia, Firenze, 1973

J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia II, Einaudi, Torino, 1991

Wu Ming 1, Allegoria e guerra in 300, in «La Valle dell’Eden», IX, 18, 2007