Voce di vedetta morta
C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita si intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Soffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui […].
Clemente Rebora, Poesie sparse e prose liriche, (1913-1927) in Le poesie, Garzanti, Milano 1988
Mito e realtà della Grande guerra
di Enrico Manera
1.
Partirei da qui.
Il 4 novembre 1918, data della firma a Villa Giusti dell’armistizio con la nemica Austria finiva la guerra italiana, iniziata tre anni prima. Diversa era stata la vicenda europea, con un anno in più di combattimenti. La Grande guerra, è l’evento seminale, gravido di conseguenze, che apre il XX secolo, non solo per l’Italia in cui gli effetti del dopoguerra, con il mito della “vittoria mutilata', furono immediatamente visibili nella formazione dei fasci di combattimento, nel diffondersi dello squadrismo e nella nascita del fascismo. Eppure gli eventi successivi del ‘secolo (breve) dei genocidi’ hanno creato una sorta di cono d’ombra che è calato sulla guerra del 1915-18, producendo nella memoria pubblica una indigesta marmellata di vicende militari, canzoni dolorose, celebrazioni patriottiche.
Nel luglio 1914, in Europa si pensava che il conflitto non sarebbe stato lungo, e anzi sarebbe stato ‘benefico’: una grande guerra europea avrebbe “ricacciato indietro il socialismo per un mezzo secolo” salvando la borghesia (Pareto); avrebbe “ritemprato le energie” e condotto al potere “uomini con la volontà di governare” in alternativa a una estensione della violenza proletaria che tardava a venire (Sorel).
Il 1° agosto cinque parole, “Germania dichiarò guerra alla Russia”, telegrafate da un capo all’altro del mondo nel giro di venti minuti, mettevano fine alla belle époque: nei giorni successivi a questa dichiarazione, seguita a quella dell’Austria alla Serbia, entravano sulla scena le altre pedine dello scacchiere: Francia, Belgio, Germania, Inghilterra, Turchia, Giappone...
La guerra tanto attesa durò invece più di quattro anni.
Messo da parte l’episodio dell’eccidio di Sarajevo, l’arcinota scintilla che tutti ricordiamo, le cause del conflitto vanno ricercate in un quadro più generale di rivalità imperialistiche, di nazionalismi aggressivi, di ideologie variamente declinate dello Stato-potenza, di cui l’«assalto al potere mondiale» tentato dalla Germania è l'aspetto più eclatante. Ad andare in pezzi è quello che rimaneva del «sistema viennese», l’ordine internazionale logorato dalle radicali trasformazioni del XIX secolo e soggetto a tensioni continue.
Il tradizionale primato inglese era minacciato dal dinamismo dell’impero tedesco (1871) e dagli Stati Uniti, che cominciavano ad essere decisamente competitivi. Francia e Germania dopo Sedan e la questione dell’Alsazia Lorena, avevano più volte rischiato lo scontro in seguito a ‘incidenti’ coloniali.
La polveriera balcanica veniva a costituirsi dalle aspirazioni nazionalistiche dei paesi slavi, tra tutti la Serbia, che approfittando della decadenza dell’impero ottomano entravano in conflitto con quello austro-ungarico, un ‘mostro a due teste’ dal corpo di mille nazionalità, ormai incontrollabile.
Sui Balcani premeva la Russia in nome del panslavismo e dell’alleanza con la Serbia, mentre l’Italia aspirava alla conclusione del processo risorgimentale (e qualcosa di più) con Trento, Trieste, Istria e Dalmazia, impegnandosi in Libia e nel Dodecaneso ai danni del gigante turco.
Innescata la miccia solo una decisa e voluta azione diplomatica internazionale avrebbe potuto evitare la conflagrazione. Ma nessuno credeva nella pace: il nazionalismo e le ideologie di stampo coloniale, (sciovinismo, razzismo, aggressività imperiale) erano stato in grado di depotenziare ogni istanza di tipo cosmopolita e illuministico; l’internazionalismo e il pacifismo, partoriti dalle borghesie settecentesche e dai Lumi erano stati assorbiti dai ceti operai, nelle versioni marxiste, anarchiche, socialiste, e intrecciate con le istanze rivoluzionarie del proletariato e come tali erano giudicati pericolosi spettri in tutta Europa. Nessuno, dunque, cercò di fermare la guerra.
2.
Le mobilitazioni dei soldati per il fronte erano avvenute spesso in un clima di eccezionale entusiasmo.
Milioni di contadini, operai, commercianti, avvocati, studenti erano diventati improvvisamente soldati, nutriti con giustificazioni e motivi, disciplina e patriottismo. In ogni Stato la Nazione, quale che sia la sua natura o la sua identità, aveva diretto, orientato e compattato le masse schiacciando l’ opposizione pacifista, oltretutto assolutamente minoritaria: in un clima di ebbrezza e di trasporto era nata la “comunità di agosto” (in Italia sarà il “maggio radioso”) dentro la quale l’individuo scompariva per ritrovarsi in un “noi” contro di “loro”.
Gli oppositori della guerra, provenienti dalle file dei socialisti, anarchici o voci isolate come quelle di Romain Rolland e Bertrand Russell erano rimaste inascoltate: Jean Jaurés, punto di riferimento del pacifismo francese veniva ucciso dalla destra reazionaria francese; in Germania Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg venivano perseguitati e condannati come tutti i loro omologhi europei, possibili detrattori della guerra. Di fronte a una tale offensiva la Seconda internazionale aveva dimostrato tutta la sua debolezza e si era sfaldata.
In Italia il fronte interventista comprendeva diverse forze politiche e culturali, radicalmente eterogenee e accomunate dalla sola avversione per l’Italia giolittiana. Gli interventisti democratici ritenevano che la presenza dell’Italia in guerra dovesse realizzarsi a favore dell’Intesa, lo schieramento dei Paesi democratici contrapposti a quelli autoritari della Triplice. La guerra si sarebbe dovuta prefiggere la disgregazione dell’Austria-Ungheria e, come ultima manifestazione del Risorgimento, la piena affermazione del principio di nazionalità: il compimento dell’unità nazionale significava compensi territoriali rigorosamente limitati ai terreni italiani.
Per i nazionalisti l’intervento costituiva un valore in sé: avrebbe garantito il superamento delle frustrazioni nazionali grazie all’espansione imperialistica dell’Italia e alla lotta contro le prospettive di democratizzazione del Paese. La scelta dello schieramento al cui fianco combattere era indifferente purché si partecipasse alla guerra “sola igiene del mondo” e grande educatrice secondo il motto caro a schiere di intellettuali. La guerra “ci darà delle leve di uomini più decisamente preparati alla vita, capaci di sacrificio pronto e spirito di sofferenza, capaci di dolore, del dolore proprio e altrui senza eccessivi guaiti sentimentali e umanitari, meno fiacchi, più rudi e più maschi, meno immersi nella snervante consuetudine del piacere e del comodo, o nel dissolvente egoismo borghese”, scriveva Giovanni Boine nei suo celeberrimi Discorsi militari (1914).
Il giovane Benito Mussolini, proveniente dalle file del socialismo rivoluzionario e massimalista, vide nella guerra l’occasione per dare un colpo mortale all’assetto dell’Italia e dell’Europa, abbandonando il Partito socialista e fondando «Il Popolo d’Italia» dalle cui colonne condusse una intensa campagna bellica. Con lui i giovani in ‘rivolta’ contro la borghesia, contro la corruzione e lo sterile parlamentarismo in nome di un socialismo nazionale e corporativo.
Il resto del Partito socialista, attraversato da un travaglio reale e profondo, era condannato all’impotenza nella sua condanna alla guerra e di fronte al fallimento dell’internazionalismo proletario, scegliendo di attestarsi sulla linea del «non aderire né sabotare».
Il sentimento maggioritario del Paese, profondamento segnato dal cattolicesimo, poteva definirsi neutrale; ma tale disposizione si rivelava minoritaria sul piano politico e non poteva saldarsi efficacemente con gli altri settori della società contrari alla guerra. L’Italia di Giolitti sceglieva un neutralismo pragmatico, pronto a diventare interventismo secondo le circostanze.
3.
La guerra espresse pienamente la sua modernità: moderni erano i soggetti, le masse, e gli armamenti: fanteria corazzata, artiglieria pesante, armi chimiche, marina, sottomarini, una pionieristica aviazione. Moderna fu l’invenzione del fronte interno giocata con le comunicazioni di massa e la propaganda, sul tema militarizzazione e sulla mobilitazione permanente della società, con il conferimento di ampissimi poteri alle autorità militari. Nei Discorsi militari di Giovanni Boine si legge: “l’esercito è, specie in una nazione moderna, come un generatore di ordine”, ma la situazione al fronte si sarebbe prospettatata ben diversa dalle aspettative degli intellettuali. Nonostante le innovazioni tecnologiche la Grande guerra fu soprattutto un combattimento terrestre, dove furono determinanti artiglierie e mitragliatrici. Il soggetto principale di un tale conflitto fu il “fante contadino”, l’involontario protagonista di un “grande macello”.
La mitragliatrice e il cannone a tiro rapido, la trincerazione e il filo spinato conferivano una netta superiorità alla difesa; le truppe subivano un fuoco di artiglieria lungo e pesante. Le vane offensive sulle linee di fuoco avvenivano dopo una lunga preparazione di artiglieria, con migliaia di uomini che avanzavano nello spazio tra le trincee. L’evoluzione dei combattimenti da questi presupposti non era stata prevista: dall’iniziale guerra di movimento, il fronte occidentale e quello italo-austriaco si stabilizzarono in una guerra di posizione. Per le truppe cominciava l’inferno della vita di trincea, in condizioni igieniche inesistenti, sotto bombardamenti e attacchi con il gas, tra rifiuti e cadaveri che marcivano nella “terra di nessuno”, il territorio che separava le opposte trincee.
Scrive Emilio Lussu, in Un anno sull'altopiano: «La vita di trincea, anche se dura, è un’inezia di fronte a un assalto. Il dramma della guerra è l’assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile rende tragiche le ore che la precedono». Ogni attacco, inutile dal punto di vista dei risultati, era preceduto da un intenso bombardamento: quando la fanteria usciva allo scoperto veniva falcidiata dall’artiglieria nemica e dalle mitragliatrici.
Nei momenti di tregua le lunghe ore di nulla si susseguivano in compagnia di topi e pulci, in attesa della posta e del rancio. La presenza costante della morte aveva effetti psicologici devastanti, tanto sui soggetti impreparati quanto sui volontari votati al nobile sacrificio della vita per la patria: “Nessuno uscirà da questa guerra senza essere diventato una persona diversa”, si legge in una lettera a casa di un volontario tedesco. La personalità creata dalla guerra era radicalmente eterogenea da quella dello stesso individuo cresciuto nella vita civile: si trattava di due vite, due memorie, di due identità distinte nella stessa persona, la cui dialettica oppositiva generava conflitti profondi. Una sistematica e colossale repressione unì regolamenti e disciplina a inaudite restrizioni di movimento, per milioni di soldati-massa, identici l’uno all’altro. La spinta aggressiva interna veniva continuamente frustrata dalla presenza di un nemico invisibile e onnipotente e imbrigliata nella ritualizzazione della violenza. Le ostilità venivano così indirizzate su obiettivi ‘impropri’ come gli ufficiali, lo Stato maggiore, la patria.
Se pressoché universalmente si creava lo spirito di battaglione e un inedito legame con i propri compagni di battaglia, altre potevano essere le direttive della vita psichica ed emotiva del soggetto in guerra. Clemente Rebora, raffinato intellettuale e poeta di ispirazione vociana, scopriva un afflato umanitario di fratellanza universale e si apriva a un misticismo laico e mazziniano; Ernst Jünger, scrittore e filosofo della vita eroica, assaporava il gusto del nichilismo e la “cura dell’orrore”, del soldato come macchina per uccidere. Per molti altri privi di strumenti culturali adeguati l’esperienza della guerra fu l’inizio di nevrosi e psicosi di diversa natura, in ogni caso di incubi lenti a scomparire. Recenti gli studi sull'internamento coatto psichiatrico di soldati colpiti da quello che oggi chiameremmo Post traumatic stress disorder.
Così, nel vano tentativo di guadagnare poche centinaia di metri si consumarono le inutili stragi di Verdun, Ypers, Gallipoli o del Chemin des Dames, dell’Isonzo, del Piave, del Grappa. Nel giugno 1916, sulla Somme, gli inglesi scaricarono oltre 1.500.000 proiettili sulle trincee tedesche, perdendo il giorno dell’offensiva oltre 60.000 uomini. Ventunmila solo nella prima ora.
Nel 1917 non si contavano gli episodi di ammutinamento, diserzione, forme di insubordinazione collettiva e individuale. All’imboscamento si affiancavano fenomeni di autolesionismo, false malattie ed episodi di follia. A cui gli alti comandi rispondevano con l’arma della rappresaglia violenta garantita dalla legislazione militare: fucilazioni sommarie, decimazione casuale di reparti, punizioni esemplari. A essere generato fu il disordine mentre l’‘angoscia’ (Angst, anguish, anxiety, angoisse), si dilatava a dismisura nell’esperienze umane e nelle sue rappresentazioni artistiche, rendendo quasi impossibile pensare un futuro che non fosse la spettrale realtà della morte.
4.
In questa situazione bellica, se lo sfondamento austro-tedesco a Caporetto fu una eccezione, altrettanto non si può dire di quella che fu la reazione di sbandamento e abbandono del fronte da parte delle truppe. È ormai assodato che Caporetto fu soprattutto una sconfitta militare: condizionati dalle abitudini degli anni di guerra di posizione i comandi italiani non seppero fronteggiare la novità della strategia offensiva austrotedesca, fondata sulla sorpresa, sulla scelta di colpire l’artiglieria e collegamenti e sull’infiltrazione di colonne agili e ben addestrate. Ma Caporetto restò, per molto tempo, un’onta nazionale, il simbolo del tradimento. La rotta che seguì ebbe le proporzioni bibliche di un esodo: oltre 40.000 furono i morti e i feriti; oltre 350.000 sbandati militari che ingorgarono le strade verso est inneggiando alla fine della guerra; 280.000 prigionieri, 3150 pezzi d’artiglieria, 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici e una quantità enorme di viveri, munizioni, materiale lasciato al nemico; 400.000 profughi civili a dare di Caporetto, nell’immaginario collettivo, fin dai giorni immediatamente successivi, quella rappresentazione di immane tragedia nazionale.
Il 7 novembre il generale Luigi Cadorna veniva sostituito da Armando Diaz, segnando una svolta nella gestione dell’esercito italiano. Diaz rimase in contatto costante con il governo; pose fine alle grandi, inutili, offensive; mitigò il duro regime disciplinare eliminando le decimazioni; migliorò le condizioni di vita al fronte assegnando turni più brevi in prima linea, rancio migliore, licenze sicure, servizi per la cura del morale di soldati e ufficiali. La vittoria difensiva sul Piave nel giugno 1918 e l’offensiva di Vittorio Veneto furono anche i risultati di tale mutamento nelle condizioni di vita dei soldati, ben più coscienti del proprio ruolo di quando erano partiti per la guerra.)
5.
Difficile parlare di gioia nella vittoria nel 1918: la Grande guerra ha falcidiato un’intera generazione. Su circa 6 milioni di mobilitati al fronte in Italia i morti sono stati 650.000, 1 su 10.
La sola Gran Bretagna, che poteva contare su 8 milioni di volontari (!) perse 800.000 uomini, oltre il doppio rimase invalido in modo permanente in seguito alle ferite o all’avvelenamento da gas.
Due milioni i morti russi, su 12 milioni di mobilitati, per un totale di perdite con i feriti e i dispersi che sfiora i 9 milioni. 6 milioni le perdite francesi, oltre 7 quelle di Austria e Germania.
Per chi ritornò il mondo non era stato più lo stesso di prima, poichè l’orrore visto da vicino aveva segnato inesorabilmente la continuazione della vita. La guerra di trincea e la morte di massa hanno portato a conoscere un mondo anomalo, un mondo senza donne, in cui i bisogni più elementari sono negati o contrastati. Il mito patriottico della guerra usciva sfigurato da sommosse e ammutinamenti che si era cercato di tenere nascosto: segnali inequivocabili del dissenso e del rifiuto della guerra da parte di un mondo sostanzialmente rurale e pre-moderno. L’impatto della guerra sugli intellettuali, in maggioranza solerti interventisti prima dell’esperienza del “grande macello”, è stato tale da modificare radicalmente le riflessioni sulla vita e sulla morte.
Gli effetti della Grande guerra sulla società in senso modernizzante furono epocali. Se il massacro dei soldati al fronte fu il correlato della società di massa all’indomani del suffragio universale, il prezzo pagato in trincea richiedeva un’adeguata partecipazione alla vita pubblica per masse di milioni di individui che si affacciavano sulla storia. Da sinistra molti ritennero che l’ora fosse scoccata: la via maestra era stata dettata dalla Rivoluzione d’ottobre che aveva mostrato come “punire i carnefici” e restituire agli umiliati il potere negato da un giogo secolare. Ma il fallimento del moto spartachista in Germania fu represso dalle truppe della Repubblica di Weimar affiancate dalle squadracce dell’estrema destra; in Italia ogni istanza di tipo socialista si scontrava con il nascente combattentismo e con il fenomeno squadrista, destinati a fondersi nell’esperienza fascista. Era chiaro che la direzione delle masse sarebbe toccata a chi sapeva parlare la lingua della guerra e che poteva capitalizzare volontarismo, frustrazione e rabbia, antiche e recenti, contro il sistema liberale.
6.
Da questo punto di vista la Grande guerra fu l'incubatrice del totalitarismo novecentesco e preparò la seconda guerra mondiale, senza che mai nel frattempo di vera pace si trattasse.
L’ordine internazionale scaturito dal conflitto 1914-1918 fu assai fragile: la «pace punitiva» che scaturì dal trattato di Versailles non rimosse le cause della catastrofe del 1914, esacerbandone al contrario ulteriormente le ragioni e le retoriche, in particolare tra Francia e Germania. La carta dei rapporti tra le potenze europee usciva modificata:
- dalla disintegrazione dell’impero austro-ungarico e di quello ottomano, territori immensi le cui aspirazioni all’indipendenza era state alla radice del conflitto.
- dalla rivoluzione bolscevica in Russia, con il suo portato di instabilità nelle relazioni internazionali post-belliche e con una frattura ideologica sconosciuta nelle epoche precedenti.
- dall'intervento diretto nelle questioni europee in grande stile con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel 1917.
Il resto è noto. Il nuovo instabile ordine internazionale poggiava su una Società delle Nazioni, impotente di fronte alla rinata potenza tedesca, inferocita dall’umiliazione, e all’età dei fascismi, che attecchirono in ogni dove e seppero farsi governo in Italia, Germania, Spagna, Ungheria, Romania...
La guerra che lo aveva generato diventò il primo tempo di una «guerra dei trent’anni del XX secolo». Gli storiografi revisionisti che, come Ernst Nolte, vedono nella seconda guerra mondiale la “guerra civile europea” che contrapponeva nazismo a bolscevismo, considerano il fascismo come la risposta necessaria di fronte al “pericolo rosso” che minacciava l’Europa, tendono a dimenticare l’importanza della Grande guerra e tutto ciò che da essa ha avuto origine. E a dimenticare che nel 1914 il fascismo era già diffuso allo stato potenziale.
7.
Arriviamo al centro del mio intervento: la memoria della guerra fu centrale nel discorso pubblico e nelle esistenze individuali del dopoguerra. Si trattò di fare i conti con un bilancio tragico, dando forma e voce al dolore dello sterminio di intere generazioni di giovani soldati, reso ancora più insopportabile dal non ritorno di un esercito di dispersi. Bisognava escogitare il modo per elaborare il lutto e trovare linguaggi idonei e proporzionati a esprimere una perdita di dimensioni inaudite. La soluzione fu l’ondata di monumentalismo in marmo e bronzo che calò sull’Europa, pur con le debite differenze che i singoli paesi e i singoli governi, autoritari o liberali, vollero attribuire alle celebrazioni della date degli armistizi. La commemorazione dei morti fu il perno centrale di una religione della patria, in nome della quale furono istituiti cimiteri militari, riti funebri collettivi, luoghi pubblici e privati della memoria. Poiché la cultura moderna, basata sullo straniamento, sul paradosso, sull’ironia risultava inadatta a sanare le ferite della memoria, fu un potente richiamo ai motivi tradizionali della cultura a tenere il campo, un insieme eclettico di immagini e concetti classici, romantici e religiosi che permettevano a chi aveva perso un caro di attribuire senso a quell’evento per lasciarselo alle spalle.
In Italia il fascismo si appropriò del nome dei morti da vendicare, facendosi interprete della guerra e monopolizzando la gestione della memoria: in tal senso il combattentismo non fu mai in grado di evolvere in senso pacifista a differenza di quanto poté accadere in Francia. Nel nome dei caduti, si volle la celebrazione della vittoria nazionale del 4 novembre, unanimistica e consensuale nell’unire autorità e popolo, militari e civili. In questa ottica nel 1921, terzo anniversario della vittoria, l’Italia volle celebrare, sull’esempio francese e inglese, il suo Milite Ignoto, realizzando un maestoso funerale civile degno di comparire negli annali della storia europea. Fu una manifestazione imponente come correlato simbolico per la morte di massa, per simboleggiare il lutto della comunità nazionale italiana, che ritrovava nei vincoli più familiari le sue radici più profonde. La salma di un soldato italiano sconosciuto, scelta da una madre triestina il cui figlio era disperso, (cfr Jesi CD 105) fu portata da Aquileia a Roma su un treno in un lungo viaggio caratterizzato da manifestazioni di partecipazione popolare luttuose e/o esultanti lungo i binari della ferrovia. L’eroe senza nome era un simbolo dal significato potenzialmente inesauribile: poteva essere il padre, il figlio o il marito, l’ex-commilitone, ma anche il “camerata” che aveva donato la propria vita per la grandezza della patria o il “proletario” sacrificato sull’altare di una guerra ingiusta. A Roma nel Vittoriano, la solennità del rito del funerale del Milite ignoto, l’anonimo figlio del popolo, fu resa ancora più grandiosa dall’imponente presenza di rappresentanze militari e della società civile, e dalla partecipazione commossa di una massa di cittadini romani e italiani. Il rito funebre per il Milite ignoto era diventato la più grande manifestazione patriottica che l’Italia avesse mai visto.
Quello del culto del milite ignoto è un caso eclatante di uso della morte per la costruzione delle identità politica, ma di lì alla cultura della morte declinata dal fascismo il passo è breve:
Vediamo questo documento:
Mussolini sul “Popolo d’Italia”
(“Il Popolo d’Italia” venne fondato da Benito Mussolini nel novembre del 1914, a seguito delle dimissioni dall’“Avanti!”, di cui era direttore dal 1912, e della rottura con il Partito socialista. Il nuovo quotidiano rappresentà la tribuna della campagna interventista di Mussolini).
La guerra è vinta, "Il Popolo d'Italia”, 5 novembre 1918
Stormo di campane, clangore di fanfare, sventolar di bandiere, cori di popolo: ecco ciò che è adeguato agli eventi ineffabili di questi giorni.
Ieri nelle città, nei borghi, nelle campagne d'Italia, bronzi sacri, trombe guerriere, voci umane delle moltitudini hanno levato altissimo nei cieli l'inno della vittoria. Le altre date famose della nostra storia plurimillenaria impallidiscono a confronto dell'ultima decade dell'ottobre 1918. (...)
La guerra è finita perchè abbiamo vinto. né poteva accadere altrimenti (...) Il martello italiano ha picchiato solo per quarantun mesi. L'incudine è in pezzi. Le parole di Diaz sono l'epigrafe. Stanno sulla pietra tombale del cadavere austriaco. Questo cadavere non ammorberà più l'atmosfera. I liberi popoli stanno purificandola. E' la vita, la più grande vita, che sorge dalla morte! Così, come noi abbiamo sognato, sperato, creduto-sempre.
Non mai, come in questo momento, abbiamo sentito in tutte le nostre fibre l'orgoglio intimo di essere e sentirci italiani. Ripetiamolo ancora. La nostra è stata guerra di popolo! La vittoria è vittoria di popolo. E' stato un cozzo spaventevole tra le forze del passato e quelle dell'avvenire. L'Italia, la nazione dell'avvenire, ha schiacciato le forze del passato e divelte le sbarre della vecchia prigione asburgica: ha liberato i popoli.
Maggio 1915. Ottobre 1918. L'inizio e la fine!
La volontà. La costanza. Il sacrificio. La gloria!
Nel 1919 Mussolini fondava il Movimento dei Fasci di combattimento, in piazza San Sepolcro a Milano:
ad essi aderiscono gli ambienti del reducismo post-bellico e dell'interventismo rivoluzionario-conservatore (futuristi, arditi, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari) che si portano dietro e atteggiamenti e ideologia bellica, con l'obiettivo di «perpetuare lo spirito di guerra in tempo di pace».
I fascisti riprendono la bandiera degli Arditi (un teschio con le ossa incrociate), ed tributano un culto religioso per il Gagliardetto, «simbolo della fede e della comunione squadrista, dell'unione morale dei suoi vivi e dei suoi morti» (dice Emilio Gentile, Il culto del Littorio, 1994).
Nel 1922 così recitava la formula di giuramento della Milizia fascista:
«Nel nome di Dio e dell'Italia, nel nome di tutti i caduti per la grandezza d'Italia, giuro di consacrarmi tutto e per sempre al bene dell'Italia».
L'evocazione continua della morte era intesa come atto di sfida di un “ottimismo tragico e attivo” che voleva affermare la propria fede nella vita e nell'immortalità della fama e dell'onore; così i funerali dei fascisti erano riti suggestivi e coinvolgenti: cortei, vessilli, bandiere, tamburi, fiaccole e si concludeva con il rito dell'appello, a cui la folla inginocchiata rispondeva «presente!».
8.
Ecco cosa intendo con mito della guerra e della morte nel sistema simbolico fascista. Da un punto di vista antropologico il mito è un dispositivo sociale che produce cultura, ovvero una struttura connettiva che consolida e genera identità attraverso la condivisione di simboli. Garantisce identità: per fare questo si presenta come discorso di verità efficace, perché si mostra come ‘vero’ da sempre, ponendosi come origine e fondazione si sottrae a ogni domanda su di sé e occulta la sua artificialità, arbitrarietà e infondatezza.
Jan Assmann, studioso contemporaneo di mondo antico e teorico della memoria cultura, ha elaborato in modo particolarmente chiaro il concetto di mitodinamica (Mythomotorik): il mito è un ricordo del passato che produce immagine di sé e speranza per obiettivi dell’agire, ha un riferimento narrativo al passato, che lascia cadere luce sul presente e sul futuro.
Esso ha: - funzione fondante, pone il presente sotto la luce di una storia che lo fa apparire dotato di senso, necessario e immutabile; - funzione controfattuale, a partire da carenze del presente evoca un passato eroico, che rende palese la frattura tra ‘un tempo’ e ‘adesso’, o tra l' 'adesso' e il 'poi'.
Così il culto del sacrificio del martire, sviluppa e usa il potenziale emotivo e l'autorità della morte per consacrare gli interessi del presente, proiettando retrospettivamente significato sul proprio operare.
Nel 1979 Furio Jesi, studioso torinese, ha applicato categorie analoghe ai miti politici moderni e contemporanei, parlando di «macchina mitologica»: poco prima della prematura scomparsa, in Cultura di destra, ha studiato l'uso del linguaggio 'mitologico' nella destra europea. Parole che allora come oggi risuonano inquietanti nella presunta maestà del loro maiuscolo: Tradizione, Razza, Patria, Sangue, Sacrificio, Fiamma, Morte, Natura sono alcuni dei termini totemici che ricorrono nella letteratura di destra, in quella ‘elevata’ dei padri fondatori (Evola, Romualdi), in quella della pubblicistica minore di tutto il ventennio italiano, in quella ulteriormente kitsch e zeppa di refusi che abbonda sui siti Internet.
Jesi identifica nelle «idee senza parole» −Spengler − il fulcro di un sistema di tecnicizzazione del mito, ovvero di strumentalizzazione politica del linguaggio volta a costruire un apparato rituale per coinvolgere gli individui nella comunità vivente della Nazione all’interno di un progetto totalitario. George L. Mosse ha chiamato «nazionalizzazione delle masse» questo processo di direzione dell’agire collettivo delle masse, il nuovo soggetto emergente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sulla base dell’ideologia come «arte di dirigerne l’immaginazione», per creare una comunità di fede e di sentire.
Il processo certo viene da lontano: attestato nella tradizione guerriera antica il culto dei martiri, appartiene tanto al cattolicesimo quanto al risorgimento. Il valore della vita per un'ideale non è dissociabile dal ricordo dei morti, ma quello che è particolare qui è la tecnicizzazione e l'amplificazione che con l'età moderna viene fatta in Italia dal fascismo e in Europa dai diversi fascismi.
Inoltre vi è molta differenza tra chi ricordare chi accetta il rischio per battersi contro una forma di dominio, penso al Risorgimento o alla Resistenza, o celebrare in modo completamente acritico il massacro di un popolo di uomini mandati al macello nel nome dell'onore della nazione.
Cosa che fu fatta dal fascismo con la Grande guerra nella fase di costruzione della propria ideologia.
Dopo vent’anni di monumentalità fascista, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la bandiera della patria sarebbe diventata uno straccio. Sarebbe toccato alla Repubblica italiana fondata sul lavoro e nata dalla Resistenza riproporre un modello di Stato democratico come spazio pubblico tutto da ricostruire nel nome di un riscatto morale, sociale, economico. Una strada in salita.
Allora, per concludere e attualizzare il ricordo di questa giornata in senso pedagogico, ciò che emerge della Grande guerra andrebbe cercato nella solidarietà che una moltitudine senza nome di persone ha scoperto condividendo l'incubo e l'assurdità della trincea: la consapevolezza di appartenere a una lingua e a una cultura da parte di un mondo contadino, oltre l'appartenenza regionale e localistica, la scoperta di forme di fratellanza inedite, i mutamenti della società e la necessità di divenire cittadini consapevoli, il ruolo differente delle donne nella dimensione pubblica, ad esempio.
Il legame che gli uomini e le donne hanno scoperto nella difficoltà della guerra, non necessariamente doveva diventare lo spirito di corpo della squadraccia fascista, ma ha voluto dire consapevolezza della dimensione collettiva e di una storia mondiale.
Se si vogliono ricordare veramente i caduti, credo sia questo e non lo spirito della vittoria, quello che ci rimane di quel 4 novembre di 90 anni fa.
Enrico Manera
appendici
a. sulla storiografia
Dopo una sbornia di storiografia nazionalista e incentrata sugli aspetti militari diverse sono le ondate storiografiche: di taglio sociale, con la scoperta e la messa in luce della ribellione, del dissenso e del rifiuto della guerra da parte di un mondo sostanzialmente contadino, con l’affermazione di un’immagine meno levigata e consensuale del conflitto. Successivamente si moltiplicheranno le analisi sulla «guerra vissuta», con studi sui traumi mentali dei combattenti, mediante il ricorso alle fonti per la storia della vita militare e dell’esperienza bellica e l’adozione di nuove metodologie quali l’uso di categorie antropologiche e psicologiche. Attraverso la mediazione di fonti letterarie e linguistiche si aprivano inoltre nuove prospettive storiografiche nell’ambito della storia della cultura e delle idee, relativamente all’impatto della guerra sugli intellettuali e sulla cultura europea, sulla memoria collettiva, sul monumentalismo e sull’uso di questi da parte dell’autocoscienza europea. Fino alle recentissime grandi sintesi che abbracciano quadri complessivi, caratterizzate dall’esplorazione a tutto campo della guerra come primo macro-fenomeno della modernità, indagato in tutti i suoi aspetti.
c. l'industria
Tra gli effetti modernizzanti della Grande guerra l’aspetto industriale ricopre un ruolo centrale: lo straordinario sviluppo dell’industria bellica pose le basi per le fortune del grande capitalismo internazionale e ridisegnò i rapporti di lavoro tra lavoratori e padronato a partire dalla grande mobilitazione che costituì una svolta per l’economia e il mondo produttivo. È il fenomeno fu più intenso dove la modernizzazione scontava un certo significativo ritardo, come nel caso italiano.
La grande industria nasceva attorno alla guerra, dal poderoso sforzo, peraltro mai pienamente realizzato, di fornire all’esercito armamenti, munizioni, mezzi di trasporto, accessori, generi di supporto.
Le strutture produttive del paese furono potenziate per far fronte agli ordinativi statali e lo Stato concentrò le risorse del paese per indirizzarle alla produzione industriale. Remuneratività delle commesse e sgravi misero in moto un ampio ciclo di reinvestimenti che fecero ingrandire rapidamente le principali imprese.
I principali stabilimenti italiani vennero "mobilitati" e dichiarati "ausiliari" dell'esercito: i settori chiave della seconda rivoluzione industriale (siderurgia, cantieri, industrie meccaniche, chimiche ed elettriche) ricevettero accrebbero considerevolmente la loro quota sia degli addetti che del prodotto. La Fiat, tra il 1914 e il 1918 decuplicò il numero dei dipendenti (da 4.000 a 40.000 operai): il primo autoveicolo prodotto in ampia serie fu un camion, il 18 BL, costruito in 20.000 esemplari. Il gruppo Ansaldo toccò i 100.000 addetti, l’Ilva gli 80.000. Decretata nell’autunno del 1915 la mobilitazione industriale giunse a considerare al momento dell’armistizio 1.976 stabilimenti per 903.210 lavoratori in tutta Italia. Si trattava in definitiva di una enorme riqualificazione degli apparati produttivi che all’epoca si trovavano all’avanguardia tecnologica.
L’assenza degli uomini impeganti nel conflitto mobilitò nuovi strati di manodopera per le fabbriche, anche se gli operai qualificati necessari alla produzione, vennero “esonerati” dalla partenza per il fronte. Si intensificarono i movimenti migratori verso le città determinando un ulteriore accrescimento della popolazione urbana e degli strati proletari al suo interno; aumentò l’impiego dei giovani, e molti ambiti si aprirono alla manodopera femminile.
Negli stabilimenti ausiliari i lavoratori furono sottoposti alla disciplina militare e le infrazioni ai regolamenti di fabbrica furono punibili con il codice militare. Gli straordinari divennero obbligatori, con orari che arrivavano a oltre 70 ore settimanali. Gli operai non furono più liberi nemmeno di licenziarsi. I contratti di lavoro, all’epoca di carattere locale, riguardanti la singola impresa o al massimo il gruppo di aziende affini, furono prorogati per legge fino alla fine del conflitto. Il diritto di sciopero fu abolito. All’interno dei Comitati di mobilitazione si sperimentarono nuovi rapporti tra Stato e organizzazioni degli interessi. In particolare, gli industriali vennero chiamati a decidere, con i rappresentanti dell’esercito e del governo, il coordinamento e la distribuzione delle commesse e l’assegnazione delle materie prime e delle fonti di energia, delineando un sistema di stampo corporativo in cui lo Stato cedeva una parte di competenze pubbliche a organizzazioni degli interessi privati. Il pesante sbilanciamento nei preesistenti rapporti fra Stato e industria, a favore di quest’ultima, si aggravò, lasciando l’Italia sostanzialmente nelle mani di “satrapi” e “proconsoli” dei settori pesanti.
Lo Stato si mosse, nei confronti del mondo del lavoro e delle associazioni operaie in un difficile equilibrio di repressione e concessioni, dando attuazione a principi di stampo corporativo per ottenere collaborazione e pace sociale, secondo un modello di inquadramento e ricerca del consenso che il regime fascista avrebbe radicalizzato e fatto proprio. L’esperienza di mediazione sistematica del conflitto industriale durante il conflitto sarebbe stata la base dell’accordo per la concessione delle otto ore nell’immediato dopoguerra (febbraio 1919), ultimo atto di un tipo di relazioni destinato a scomparire nel clima di aspra conflittualità del biennio rosso.)
d. la questione femminile
In Italia furono 6.000.000 le famiglie coinvolte nel conflitto con il reclutamento di almeno 1 membro, 4.200.000 donne lavorarono la terra, 2.000.000 di donne svolsero attività extra agricole, 200.000 operaie furono occupate nelle industrie belliche, 30.000 donne furono impegnate nell'assistenza civile, 10.000 infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana e di associazioni minori.
I 600.000 caduti al fronte lasciarono 220.000 vedove di guerra. Tali cifre non potevano non influire in modo decisivo sulla questione femminile e nei rapporti di genere, ancora fortemente orientati a una asimmetria tale da lasciare le donne in una condizione paragonabile a quella della minorità.
I gruppi femminili, il suffragismo e l'emancipazionismo, prodotti della civiltà liberale ottocentesca, condivisero con quel sistema la crisi provocata dall'avvento della moderna società di massa: l’associazionismo femminile affiancò alle richieste per le riforme giuridiche e politiche (il diritto di voto e l’accesso alla sfera pubblica) la concreta attuazione di forme di assistenza, la preforma di quello che sarebbe stato il welfare (asili nido per bambini, mense per i poveri, ambulatori per i malati e guardie ostetriche). La guerra fu per le emancipazioniste l’occasione per ottenere il giusto riconoscimento: madrine, infermiere della Croce Rossa, animatrici dei Comitati di assistenza civile si prodigavano nell’assistenza, l’industria arruolava migliaia di operaie, le donne del mondo contadino gestivano il lavoro rurale, tutte conducevano il menage familiare in un mondo decisamente più difficile del precedente. Un tale accresciuto ruolo da parte delle donne non fu certo facile da accettare dagli uomini di ritorno dalla guerra. Ma qualsiasi rivendicazione fu messa a tacere dal coacervo di violenza nazionalista, combattentistica e fascista, ineluttabilmente maschile, che stava per rovesciarsi sul paese.