venerdì 21 settembre 2012

Sulla storia e il suo studio



foto di matteo borri http://horrormundi.tumblr.com


1. Definizioni

Il termine ‘storia’ deriva dal greco Historia, «descrizione, resoconto».
Già nell’antichità indica la narrazione degli eventi prodotti dagli uomini e poi gli eventi stessi. Il concetto di ‘storia’ si è configurato come singolare collettivo verso la fine del XVIII secolo e indica:
a. gli eventi
b. la narrazione di essi e ricerca (l’attività dello storico).
c. la filosofia sottesa a una nozione unitaria rispetto al senso della storia.

I significati non sono separabili poiché «le cose avvengono, ma è il fatto di apprenderle retrospettivamente che costituisce l’avvenimento»(Pierre Nora) mentre dal punto di vista teorico possono essere indicati come ‘storia’, ‘storiografia’, ‘filosofia della storia’.
«La storia è rottura con la natura, provocata dal risveglio della consapevolezza» (Jacob Burckhardt). Essa inizia quando l’essere umano comincia a concepire il tempo non più in termini di processo naturale ma riferendosi a una serie di eventi specifici in cui gli uomini si trovano consapevolmente implicati e sui cui sono in grado di influire consapevolmente. Il sapere storico inizia quando vi è una frattura con l’«ovvietà» del mondo in cui si vive.
La preistoria è diversa dalla storia, in quanto questa presuppone una scrittura, e dunque delle fonti. Il che richiede forma raffinata di autocoscienza; l’uomo moderno ha un alto livello di autocoscienza e quindi di coscienza storica. La coscienza della determinazione storica, richiede la capacità di pensare e di osservarsi mentre si sta osservando: di essere soggetto e oggetto dello stesso atto di osservare.
Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.) può essere considerato il primo storico, reporter, antropologo, etnografo, viaggiatore. Scrive le Storie «perché le imprese degli uomini non siano dimenticate, non sbiadiscano con il tempo» e per «mostrare per quale motivo Greci e Barbari vennero a guerra tra loro». Formatosi nella cultura ionica di Talete, Anassimandro ed Ecateo, intende portarsi lontano dal mito e rivendicare il fatto che la storia abbia a che fare con la verità. Ancora nel Settecento Voltaire, nell’Enciclopedie, scriverà che la «storia è il racconto di fatti dati come veri, diversa da favola, leggenda, mito, superstizione».
Erodoto è ossessionato dalla memoria: essa è fragile, instabile, spesso illusoria, inafferrabile e traditrice ma senza di essa non si vive. L’individuo dotato di memoria ne è l’unico depositario; ma tutto scorre e nello scorrere si trasforma.
«Perché la memoria ha una sua verità particolare. Seleziona, elimina, modifica, esagera, minimizza. glorifica, e anche diffama: ma alla fine crea una propria realtà, una propria versione, eterogenea ma di solito coerente degli eventi»
(Salman Rushdie).
Scopo prefissato da Erodoto è tramandare la storia del mondo: è il primo ad avere una simile idea, perché la gente ricorda solo quello che vuole ricordare. Il passato non esiste, esistono solo sue infinite versioni: per questo Erodoto svolge ricerche, compie indagini e raccoglie opinioni, commentando spesso «di ciò esistono diverse versioni».
Se l’essere umano è tale per la capacità di raccontare storie e di fare la storia bisogna accettare la soggettività e la sua azione deformante, perché la storia è un ininterrotto succedersi di presenti vissuti in modi differenti.
Alla fine del V secolo ad Atene la rottura radicale è con Tucidide, lo storiografo della Guerra del Peloponneso. Con lui si assiste alla messa al bando di ciò che è mitico, ovvero prodotto di una cultura memoriale, parziale, fallibile e incline alla produzione di credulità e cose non-credibili per il gusto del racconto. Il mito è ‘archeologia’, nel senso di “vecchi racconti”; esso è incompatibile con una nozione di verità correlata a una teoria dell’azione basata su un progetto politico di potenza e inseparabile dalla ragione sofistica. La verità risiede in un discorso intessuto di «ragioni», che sono mezzi per agire, essa è negli atti: storia è la scienza dell’utile, fatta per il presente.
Se Erodoto è un viaggiatore in cammino, Tucidide è uno scrittore concettuale: la memoria è ammessa, ma solo per la trasmissione di esperienza sotto il controllo della ragione. Il sapere storico prende le distanze dall’illusione mitica, la scrittura diviene una prassi autorizzata, bandisce le memorie patetiche. La verità è la fuori?

2. Ricostruzioni


La storia come ricostruzione dell’intera realtà è una pia illusione. In un racconto di Jorge Luis Borges l’imperatore della Cina chiede ai suoi saggi una mappa del suo territorio sempre più precisa fino a quando ci si accorge che quella che vorrebbe dovrebbe essere grande quanto l’impero. Così è la storia… ci sono fonti, documenti, resti, tracce, testimonianze: le fonti primarie comprendono materiali contemporanei all’epoca che è oggetto di studio; le secondarie sono testi appartenenti ad un’altra epoca ma riguardanti l’epoca studiata. Lo spazio che ci separa dal passato che vogliamo indagare è riempito da una serie di informazione materiali che costituiscono una ‘tradizione’, una catena di letture, idee e immagini. Ma ogni fonte va ‘maltrattata’ e messa in connessione con tutte le altre.
Lucien Febvre, celebre medievista della scuola de Les Annales, che nella Francia degli anni trenta del Novecento ha iniziato a contaminare la storia con le Scienze sociali, scriveva:
«la storia si fa senza dubbio con i documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi con parole, con segni. Con paesaggi e con mattoni, con forme di campi e con erbe cattive (…)».
La storia non è e non può essere una collezione di eventi, società e istituzioni; si corre il rischio che diventi una raccolta di curiosità. La storiografia esige che si selezionino e si ordinino i fatti del passato sulla base di un principio adottato dallo storico: il che comporta sempre una forma di interpretazione.
Scegliere secondo gerarchie di rilevanza implica la pluralità inevitabile dei punti di vista, ma è necessario individuare fatti al centro di relazioni, costruire una rete di significati. Senza di questa il passato si trasforma in un accozzaglia di avvenimenti casuali sconnessi e insignificanti e diventa impossibile fare storia.
Lo storico è un animale che si chiede continuamente perché: Erodoto parlava di «rintracciare i motivi», Montesquieu scriverà che «esistono cause generali, morali o naturali e tutto ciò che avviene è soggetto a queste cause. Per Max Weber interpretare significa comprendere, che è l’operazione fondamentale della conoscenza storica. Comprendere significa mettere capo a un’interpretazione causale degli eventi: individuare cause ed effetti in base a un principio di significatività significa discriminare le cose importanti da quelle irrilevanti, selezionare ciò che dà un significato a un oggetto, che lo rende tale, che gli è specifico. Questo implica un punto di vista, una posizionalità che va dichiarata, e l’interprete deve cercare di neutralizzare il più possibile l’aspetto deformante di essa.
L’oggettività è un mito. Non è vero che i fatti parlano da soli, essi parlano quando qualcuno li fa parlare: quali fatti, in quale ordine, in quale contesto? Come il montaggio nel cinema, la verità di una storia si manifesta nella sua narrazione, quando i pezzi dispersi, molteplici e frammentati vengono montati in sequenza e riassegnati alla lettura e comprensione.

3. Situazioni

Per Benedetto Croce «ogni storia è storia contemporanea»: la storia consiste essenzialmente nel guardare il passato con gli occhi del presente e alla luce dei suoi problemi. Il fatto stesso di scegliere di cosa occuparsi presuppone un giudizio.
La conoscenza storica ha un carattere relativo e storicamente condizionato. L’opera dello storico riflette inevitabilmente la società in cui opera: gli eventi e storico non possono sottrarsi al flusso del divenire; lo storico è un individuo: è un fenomeno sociale, il prodotto del suo tempo, interprete più o meno consapevole della società a cui appartiene.
Con Weber viene elaborato il principio dell’«avalutatività dello studioso», il quale deve descrivere un fenomeno o un processo storico, separando la descrizione dal giudizio che si da a questo («giudizio di valore»). Il relativismo storico implica l’impossibilità di un giudizio assoluto, in quanto non esiste un punto di vista metastorico: ma lo studioso deve cercare di comprendere gli eventi dal punto di vista della struttura cui l’oggetto appartiene. Comprendere non vuol dire giustificare: un detective deve comprendere le ragioni di un assassino se vuole scoprire la verità, pur non condividendole.
Bisogna orientare la ricerca, selezionare una porzione di realtà da illuminare e ogni ricerca è già sempre orientata dalla storicità del soggetto. Questa consapevolezza deve guidare lo storico nello sforzo maggiore possibile di oggettività, attivando quello che Carlo Ginzburg chiama «il polo freddo dell’intelletto» per un progetto intellettuale di ricostruzione/interpretazione scientifica.
«Il passato è come un bel frutto staccato da un albero, non c’è la vita effettuale, non l’albero che li ha prodotti, non la terra ne gli elementi che hanno costituito la loro sostanza, non il clima che prodotto la loro determinatezza, non l’avvicendarsi delle stagioni che dominarono il processo del loro divenire. Non c’è il mondo, né la primavera, ma solo la velata reminiscenza di questa realtà» (Hegel).
La storia non è: né il passato in quanto tale, né le concezioni dello storico in quanto tali, ma i loro rapporti reciproci. Fare storia significa instaurare un dialogo tra presente e passato, tra società di ieri e di oggi. Il comprendere storico sgorga da una situazione determinata dal flusso degli eventi e dalla tradizione.
Esiste una tensione tra il passato, l’oggetto che vogliamo conoscere, e il presente, il punto da cui partiamo: la comprensione avviene in un punto mobile in cui l’orizzonte del passato e quello del presente si fondono insieme. La «fusione di orizzonti» teorizzata da H. G. Gadamer significa rapportarsi al passato sulla base della nostra situazione presente, tramite una mediazione operata dal pensiero.

4. Relazioni

Inevitabile condizionalità storica della soggettività non significa dunque arbitrio e la pluralità di punti di vista, non significa che le verità si elidono a vicenda. Per Edward Said oggettività nell’approccio alla storia significa «sciogliere le pastoie forgiate dalla mente, usare la propria mente in modo storico e razionale per raggiungere una comprensione riflessiva. Saper entrare in modo empatico, senza mai perdere la propria soggettività, nel passato esaminandolo dal punto di vista del suo tempo e del suo autore». La verità è più vicina nello spazio dell’intersoggettività, ovvero nella comunanza con altri interpreti. Ogni umanità non può esistere nel proprio isolamento, perché la storia, sia nel senso di ricerca condotta dallo storico sia nel senso di eventi del passato che di tale ricerca sono l’oggetto, è un processo di carattere sociale, al quale gli individui partecipano in quanto esseri sociali.
«La storia non fa nulla: non possiede immense ricchezze, non combatte battaglie. È l’uomo, invece. L’uomo vivente reale, che fa ogni cosa, che possiede e che combatte» scriveva Marx.
«Il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda», gli fa eco Marc Bloch nella Francia degli Annales.
Oggetto dall'indagine storica non è il passato in sé, bensì «gli uomini nel tempo». Lo storico-orco è il «cacciatore» onnivoro di dati, di tracce, di segni e testimonianze che divengono fonti intellegibili soltanto se sollecitate da interrogativi originali, posti con rigore metodologico e onestà intellettuale.
La storiografia del passato, ma anche certa divulgazione giornalistico-televisiva, praticava una storia ‘eroica’… come se Cesare da solo potesse spiegare le trasformazione di Roma in senso imperiale e se Hitler da solo potesse spiegare il nazismo e la Shoah.
«I grandi uomini esprimono la volontà del tempo. Compiono l’essenza del proprio tempo, realizzandolo. Essi rappresentano forze già esistenti o che contribuiscono a suscitare, al tempo stesso prodotto e agente del processo storico, rappresentante e creatore delle forze sociali che trasformano il mondo e le teste degli uomini» (Hegel).
Bisogna cancellare l’idea che i «grandi uomini» siano fuori dalla storia, per imporsi ad essa grazie alla loro grandezza, come «pupazzi a molla che saltano miracolosamente fuori dall’ignoto interrompendo la continuità reale della storia» (Edward Carr).

5. Distinzioni: ogni cosa è illuminata dalla luce del passato

Cultura, identità, memoria collettiva, radici e origini sono parole chiave per ogni discorso sul sapere storico. Storia e politica sembrano essere legate in modo inestricabile, in particolar modo nel dibattito pubblico, nei media, nelle scuole e nella storia non-professionale, dove suscitano polemiche e dispute infinite. La legittimazione del presente avviene dal passato: esso è il fondamento su cui si costruisce la società, la quale sembra aver bisogno di qualcosa che ne garantisca solidità e coesione. Ma se noi siamo il nostro passato, allora chi controlla il passato, o meglio la sua immagine, è in grado di esercitare un dominio generalizzato sulle coscienze. Si parla oggi di ‘politiche della memoria’ e ‘uso pubblico della storia’ per indicare questa forte influenza che il sapere storico è in grado di esercitare sulla realtà presente.
La ‘memoria collettiva’ è un patrimonio di idee, fatti, valori, narrazioni, miti condivisi da una collettività che in essa si rispecchia. La società celebra se stessa e suoi fondamenti attraverso un apparato ‘rituale’ come avviene il 25 aprile o nel Giorno della memoria: ricordare quelle date significa riconfermare i valori e i significati che quegli eventi hanno espresso. La Liberazione dal nazifascismo, come premessa della democrazia, e la liberazione di Auschwitz, come promemoria del sistema concentrazionario o di sterminio nazista per scongiurare il ritorno della violenza. La memoria collettiva si costruisce, servendosi della storia.
Storia e memoria collettiva non sono sempre parallele: ogni società sceglie l’evento in cui rispecchiarsi e con cui rappresentarsi. Il regime fascista celebrava la Marcia su Roma e aveva abolito il 1° maggio, festa socialista dei lavoratori.
In ciò la storia, come progetto di ricostruzione scientifica è differente dalla memoria: perché la storia ospita una pluralità di memorie, ognuna con i suoi eccessi, con l’emotività e talvolta l’ inattendibilità.
La storia orale e la raccolta di testimonianze sono strumenti importanti, soprattutto per la divulgazione della storia nel suo uso educativo. Ascoltare un reduce dal campo di concentramento o un anziano partigiano serve a avvicinarci alla storia e a vivere un’esperienza di empatia, di condivisione del dolore. Ma per il valore scientifico della storia la memoria in quanto testimonianza è una fonte tra le altre, deve essere confrontata con l’intera serie di testi, documenti e tracce. Perché se la storia smette di essere scientifica non saremo più grado di distinguere le interpretazioni corrette da quelle scorrette dal punto di vista metodologico. Ed è il metodo a determinare la validità di una scienza. Cosa distinguerebbe la verità dalla finzione? Se tutti «hanno sempre ragione» la verità si dissolve e una dittatura diventa una questione di punti di vista.
Per questo è importante distinguere la nozione di ‘revisione critica’ da quella di ‘revisionismo’: come la scienza la storia vive di ipotesi destinate a cristallizzare, ma soggette a verifica, modificazioni, confutazioni. Il mondo dello storico, come quello dello scienziato, non è una riproduzione fotografica del mondo reale, ma un modello, un’ipotesi di lavoro, che mette lo storico in grado di dominare e comprendere il mondo stesso. La storia è dunque per essenza revisione dei risultati precedenti, perché quell’orizzonte di cui parlavamo prima è mobile.
Ma il ‘revisionismo’ consiste nell’uso strumentale della memoria e della storia riorganizzato dai mass media sulla base di esigenze politiche contingenti. Ne sono esempi lampanti la negazione dell’esistenza dei campi di concentramento, in cui si cerca di cancellare fatti documentati, o la tendenza a sfumare il giudizio sul fascismo, comparando i numeri dei morti con quello di altre esperienze totalitarie, sfumando, omettendo e ritoccando le versioni dei fatti. Monopolizzata dai media, la storia è soggetta alla semplificazione e all’uso strumentale. Stampa, radio, immagini sono per noi la condizione stessa degli avvenimenti.
È proprio qui che dovremmo cercare le ragioni della crisi della cultura: «un’epoca dominata dall’incertezza, fuorviata da falsi ideali, assaltati da falsi profeti del rinnovamento continuo, ha una certa difficoltà a riconoscere le proprie radici» (Carr).

6. Direzioni

Il nostro passato ci segue sempre, «ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza» (Bergson).
L’Identità di un individuo o di un gruppo sociale si fonda sulla sua memoria e sulla sua storia. Sapere chi si è e da dove si viene è una cosa buona. Per questo è importante il sapere storico. Già Erodoto sapeva che i mondi sono molti e sono tutti diversi. Sono tutti importanti e bisogna conoscerli, perché – ammesso che siano poi così separabili – le altre culture sono specchi che riflettono la nostra, permettendoci di capire meglio noi stessi. Io mi conosco attraverso l’immagine di me stesso che gli altri mi restituiscono nella relazione dialogica. È impossibile definire la nostra identità finché non la si è confrontata con le altre. Conoscere ciò che è diverso da me, è quindi innanzitutto un modo per sapere chi sono.
La storia fornisce strumenti, categorie concettuali per la comprensione della realtà, e anche se il passato non si riproduce mai allo stesso modo, in quanto è fatto di complessità, fratture e andamenti irregolari, conoscerlo aiuta a orientarsi sulle base di analogie.
La storia deve essere dunque: scienza della padronanza del passato, coscienza del tempo, scienza del cambiamento e della trasformazione.
È tipico dello storico chiedersi non solo «perché?» ma anche «verso dove?». Il pensiero storico è sempre teleologico perché la comprensione del passato consente uno sguardo penetrante sul futuro: solo chi conosce il passato vive correttamente il suo presente e può pensare il futuro. Il tempo è un’esperienza dinamica. Passato, presente, futuro sono dentro di noi come memoria, coscienza, immaginazione, pensava Agostino di Tagaste.
Per Edward Carr «fare storia implica una determinata concezione di ciò che è ragionevole per l’umanità». Domandarsi ‘cos’è la storia?’ significa domandarsi qual è il nostro giudizio sulla società in cui viviamo.
E farlo significa contribuire alla determinazione dell’azione verso il futuro. Speranza o apocalisse?
Ogni cultura vive sempre all'interno di una rappresentazione collettiva di se stessa, e le nostre rappresentazioni individuali si collocano sempre nel solco di una rappresentazione collettiva. Non esiste una realtà in sé che sia indipendente dal significato che noi le attribuiamo nel nostro rappresentarla collettivamente e individualmente. La realtà si costruisce socialmente attraverso una cultura condivisa.
La cultura, di cui la storia è il territorio, intesa come arricchimento delle prospettive sul mondo, allarga il campo delle rappresentazioni possibili, offrendoci i mezzi per interrogare l'esistente e per immaginarne uno diverso. La cultura apre qualche finestra sul futuro.
Lasciarsi catturare dalla vertigine del passato e instaurare un dialogo con il tempo è dunque un modo per accrescere il proprio dominio cognitivo sulla società presente. «La storia è una forma di verità che riguarda il mondo. Esercitarla è un modo di cercare il senso della nostra esistenza» (Huzinga).

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Enrico Manera 2005-2007 circa