giovedì 14 giugno 2012

Estate


Fine scuola, vento tiepido porta via tristezza e malumori. Sono in pace e guardo quello che ha funzionato, qui nell'ora, più che le troppe cose che non hanno funzionato, dai tempi di Babilonia e in tutto il cosmo dannato.

Un pensiero al grande cieco di Buenos Aires, Borges, e poi, un dono inaspettato. 
Per una volta scrive un mio studente, Simone, che ringrazio per la sua recensione all'Aleph, che mi ha stregato per grazia e intelligenza.




Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere un’etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore ed una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

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"La scrittura del dio" da J.L. Borges - "L'Aleph"




"La scrittura del dio" è un racconto breve dello scrittore argentino Jorge Luis Borges pubblicato nel 1949 nella raccolta "L'Aleph". La storia è narrata in prima persona dal protagonista Tzinacán, mago della piramide di Qaholom, che, imprigionato da Pedro de Alverado dopo l'incendio della piramide, ripercorre con la memoria il giorno della sua cattura e i primi anni trascorsi in carcere. Ciò che ricorda, nel presente della narrazione che lo vede giacere ormai vecchio in quella stessa prigione, prossimo alla morte, è che aveva passato i primi interminabili tempi di detenzione proprio a ricordare tutto ciò che poteva, tutto ciò che sapeva e ogni simbolo che aveva potuto vedere in anni di sacerdozio - dapprima perché privato di ogni altra possibile attività, poi invece spinto da un'ultima speranza di libertà, forte proprio del suo essere l'ultima. Infatti, tra le altre cose, torna in mente al sacerdote la tradizione secondo la quale il suo dio aveva scritto all'inizio dei tempi una frase magica che sarebbe stata letta da un eletto per allontanare tutti i mali; tutto ciò che doveva fare era quindi ricordarla e pronunciarla, cosa che per quanto difficile non può che apparirgli preferibile alla resa (in quel momento). Per questo riflette sulle infinite possibili forme che possono rappresentare una sentenza divina eterna, dalle montagne e il suo stesso viso alle macchie sul corpo del giaguaro imprigionato oltre il muro della sua cella, che arriva ad indagare giorno per giorno fino alla disperazione. In questo stato una notte fa un sogno che assume rapidamente la conformazione di una catena infinita di "sogni dentro ai sogni", in cui passa dal vedere un granello di sabbia sul pavimento all'esserne totalmente sommerso e soffocato. In quel momento però, gridando l'illusorietà dei sogni, si sveglia finalmente del tutto, tornando alla realtà, alla sua prigione. Proprio in questo ritorno alla sua normale condizione avviene quella che il protagonista chiama "unione con la divinità, con l'universo", in cui ha la visione di una grande Ruota nella quale tutto è compreso e niente escluso. Giungendo alla comprensione di ogni cosa, il protagonista scopre infine anche quella misteriosa sentenza divina che aveva assiduamente quanto inutilmente cercato di dedurre dal corpo del giaguaro, ma, nonostante essa potesse renderlo onnipotente, non ne fa uso né ne svela il contenuto, lasciando che muoia assieme a lui nella prigione.

Il racconto, a mio parere uno dei più suggestivi dell'Aleph, condivide diversi temi centrali con altri appartenenti alla stessa raccolta (ad esempio, la visione del "tutto, mondo, universo" che si può trovare anche nella contemplazione dell'Aleph dall'omonimo racconto; il rifiuto dell'onnipotenza, riconducibile al rifiuto per la degradazione portata dall'immortalità ne "L'immortale"; la riflessione sulla personalità e sull'identità in comune, sebbene trattata in modi diversi, con il racconto "I teologi") riunendoli in una sola narrazione, nella quale assumono ognuno una collocazione relativa all'insieme, in una sequenza cronologica comune nella quale mi è apparso come il segno di un implicito parallelo con l'intera vita dell'uomo e la sua condizione - un'impressione, ovviamente, e come tale tanto giustificabile quanto inesatta: come Carlos Argentino nel racconto "L'Aleph" assegnava solo a posteriori i numerosi, illustri e prolissi significati poetici ai suoi versi ("il lavoro del poeta non consisteva nella poesia, ma nell'invenzione di ragioni per cui la poesia fosse ammirevole"), così anch'io potrei indicare in ogni immagine proposta nel testo un simbolo utile al sostegno della mia impressione, di un'ipotesi che non può essere confermata se non riportando in vita l'autore; e forse, neanche allora. Ma è questo un limite della scrittura, e l'inadeguatezza della scrittura come mezzo comunicativo assoluto è denunciato in più racconti dallo stesso Borges; scrivendo e scrivendolo, quindi essendone consapevole, non può che averne accettato il rischio. Oppure, credo, il rischio se lo augurava: la riflessione personale (e come tale diversa inevitabilmente da quella di chiunque altro) è il punto di partenza verso quella realizzazione (paradossalmente uguale e differente allo stesso tempo per ognuno) che prova più volte a descrivere, conscio dell'impossibilità dell'impresa; le circostanze cambiano, eppure il Borges de "L'Aleph" e Tzinacán vedono la stessa cosa in due unici modi.
In ogni caso, chi legge non è del libro che fa esperienza, ma della relazione della sua mente con esso. Leggendo "La scrittura del dio", mi sono venuti spontanei dei paragoni con l'idea dell'illuminazione così com'è trattata da diversi pensieri orientali, dal taoismo al buddhismo zen, sia per la tematica sia per le soluzioni proposte: la prigionia che l'uomo ha di sé stesso e della propria illusoria identità, dell'ego (dopo aver visto la "Ruota altissima", Tzinacán racconta di essersi "dimenticato di Tzinacán", di essere "diventato nessuno" - che equivale ad essere diventato il "tutto" - e ritiene impensabile utilizzare la sentenza magica per i fini egoistici di quel suo "io"); la ricerca di una verità assoluta attraverso la ragione, la filosofia e la teologia all'interno del mondo delle cose come momento necessario ma provvisorio (Tzinacán cerca con la memoria i simboli divini in diverse forme della realtà, fino ad impazzire nella ricerca disperata di questi nella disposizione delle macchie del giaguaro - mentre dopo la visione universale le comprenderà senza fatica e spontaneamente); il motivo del "sogno dentro al sogno", come la catena inestricabile di illusioni nella condizione dell'uomo nella quale egli soffoca e dalla quale viene a formarsi ogni male, ma dalla quale ci si può liberare attraverso il riconoscimento delle illusioni come tali; la paradossale trascendenza di ciò che è perfettamente e puramente immanente, centrale nell'esperienza zen, in cui ogni cosa quotidiana è trasformata dal semplice starci totalmente e completamente "desti" (al risveglio dall'incubo, dallo stato di illusione, il sacerdote - che però riconosce ora di essere stato "più che un sacerdote del dio, un prigioniero" - benedice la sua stessa prigione e condizione, il carceriere, il giaguaro, tutto ciò che poteva vedere nella poca luce e l'oscurità stessa); l'esperienza unica e particolare del tutto, dell'Uno, della partecipazione di ogni cosa e persona ad esso che coincide con l'illuminazione stessa, l'incontro e conciliazione dei contrari in essa, non più opposti ma complementari (Tzinacán nella Ruota vede se stesso ma anche il suo torturatore e nemico Pedro) oltre che il paradosso insito in ciò che è vero (il mago può vedere i confini della Ruota pur essendo pienamente consapevole della sua natura infinita). Fino a che punto siano validi paragoni del genere non lo so, ma la mia reazione al racconto è stata di evocare questi e forse altri elementi e raccordi più piccoli, sfumati, nascosti, inconsci; è comunque questo che mi ha trasmesso, attraverso il coinvolgente e realistico flusso di pensiero del protagonista, e se il risultato finale è stato più un'involontaria opera a quattro mani che un racconto della persona J.L. Borges, l'autore può rigirarsi nella tomba, ma forse per Tzinacán non ha importanza.