giovedì 28 ottobre 2010

Frammenti di un dialogo sul mito






Se sono stato un po' lontano dal blog è perché sono stato molto impegnato nella vita quotidiana. Per me ogni giorno c'è una guerra a bassa intensità che si combatte in silenzio, innanzitutto contro se stessi e prosegue nelle vicende più minute e apparentemente insignificanti del mio stare al mondo.



«il mio supplizio è quando non mi credo in armonia», dice l'Ungaretti dei Fiumi

Ma nel frattempo ho avuto modo di partecipare a un bellissimo scambio di idee con Wu Ming 1, che conosce Jesi molto bene e soprattutto lo applica con rara intelligenza, e la comunità di Giap, davvero straordinaria per lucidità e competenza,
su temi come il mito, la narratività, la nuova epica, la comunità che manca.

Qui lo scambio che è ancora in corso

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1533&cpage=1#comment-2213

sotto l'estratto del mio intervento:

Io dico:
credo che la ‘macchina mitologica’ sia un concetto teorico più raffinato di quello di mito genuino/tecnicizzato, perché include quella dicotomia ma la porta a un livello più alto con gradazione più sensibili e su quella soglia di oscillazione di cui si parlava nel post di WM 1.
La ‘macchina mitologica’ traspone a livello della coscienza individuale l’inganno in cui si cade quando si prende per genuino un mito tecnicizzato, scrive Jesi 1975 in Gastronomia mitologica (nei Materiali mitologici, Einaudi, 1979).
Ciò vuol dire che in qualche modo ogni mito è sempre tecnicizzato, anche il più antico e comunitario; ma anche le mitologie personali sono forme di tecnicizzazione perché perché ogni conoscenza è una modalizzazione di materiali inerti precedenti che ogni ricezione rivitalizza e trasforma in vissuti emotivi, simboli portatori di senso che è anche corpo e rapporti materiali.
Le identità si costruiscono attraverso diverse “macchine mitologiche”, serie testuali di immagini sedimentate, condivise e risemantizzate, documenti che si trasformano in monumenti e che determinano le memorie culturali e le strutture connettive dei gruppi umani. Sono vettori emozionali che costruiscono intersoggetività.
Per dirla con Calvino, che è molto vicino all’ultimo Jesi in nome di una comune sensibilità post-strutturalista, ciascuno di noi «è una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture e di immaginazioni», «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».
In altri termini, ognuno è una macchina mitologica;
questo probabilmente spiega perché una stessa esigenza di miticità e comunione passi attraverso l’interpretazione e il vissuto di ognuno, soggettiva prima che intersoggetiva, e quella felicità calda che uno prova con i manowar io la trovassi ad esempio nei fugazi, per stare nello stesso mood esplosivo; e oggi ancora di più nei national, che hanno un’epicità la cui intensità viene da un rigore spettrale dalle tonalità crepuscolari.
pace.

Inoltre credo che in qualche modo Lévi-Strauss sia stato forse troppo criticato e forse ingiustamente da molti.
La critica di aver neutralizzato la storia, rifiutato contenuti e negato valore ai fatti che nella loro contingenza sarebbero inferiori alla forma, sembrano oggi eccessivamente severe. A conferma di ciò sta la fusione di strutturalismo e marxismo: a proposito del «potere polemico del metodo strutturale» si è espresso anche Barthes. «La descrizione sincronica delle strutture, condotta in un certo modo, può risultare anch’essa armata di un efficace potere contro ogni mistificazione: come la Storia, l’idea di Cultura non è forse l’antidoto all’idea di Natura?» (Il grado zero della scrittura).
Nelle Mythologiques (1964-1971) Lévi-Strauss ha proposto un’analisi dei patrimoni mitologici in modo che sia possibile tornare da un certo mito verso un altro da cui si erano prese le mosse: l’analisi strutturalista permette cioè di smontare e rendere criticamente apprezzabile i miti presentandoli in forma di elementi nel loro stato disaggregato.
Si tratta del procedimento inverso all’uso politico dei miti, che sono il caso estremo di manipolazione di un materiale linguistico o iconografico: lì si vede l’intervento in virtù del quale elementi sintagmatici sono resi operativi dalla violenza esecutiva che separa il linguaggio dalle pratiche sociali in cui era inserito in un determinato punto della sua storia e diviene altro, simbolo caricato di un aumentato potere performativo in un momento della sua ricezione. (cfr. J. -P. Faye, Violenza, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino, 1981, pp. 1098 ss.).
Ora il fatto che LS non abbia analizzato il calore del mito, non vuol dire che non lo riconoscesse o che ne negasse l’importanza, semplicemente lo dava per sottinteso e ne cercava le condizioni di possibilità: ancora nel 2002, in una bella intervista di Massenzio, ha detto: «Ma un mito, in che cosa consiste? di che cosa è fatto? come viene elaborato? In altre parole, prima di interrogarmi sul ruolo che il mio orologio svolgerebbe nella mia vita emotiva [...] ho scelto di aprire l’orologio, smontarne gli ingranaggi e di chiedermi: come funziona?».
Jesi, ritorno lì perché quello ho fresco in questo momento, riconoscendo il magistero di LS ha cercato di rendere ‘caldo’, storicamente dinamico, quello che LS ha inteso raffreddare fino a ipotizzare che dietro a una serie mitologica si potesse individuare il mito come stuttura nella forma fantasmatica dell’algebrizzazione. Questo è un suggerimento di Belpoliti, che ho trovato molto fecondo.
In sintonia con Dumézil (che però LS ha sempre considerato analoga alla propria per l’approccio storico-morfologico), Jesi ha verticalizzato in senso diacronico gli elementi statici, orizzontali e sincronici che lo strutturalismo illustra nella loro disponibilità, in conformità alle indicazioni originarie di de Saussure che vedeva nella linguistica tanto lo studio della coesistenza simultanea dei fenomeni, quanto il mutamento dei valori da una fase storica all’altra.
Che poi LS cercasse la mente e noi – questo mi commuove – invece cerchiamo la comunità possibile nonostante tutto questo è vero.
C’è in LS una sorta di melancolia post-umana e misantropica, a suo modo struggente: «La mia analisi mostra dunque il carattere mitico degli oggetti: l’universo, la natura, l’uomo, che per migliaia, milioni, miliardi di anni non avranno dopo tutto fatto nient’altro che dispiegare, come un vasto sistema mitologico, le risorse della loro combinatoria prima di invilupparsi e annientarsi nell’evidenza della loro caducità». (L’uomo nudo, 1971).
Eppure è quando vedo più forte lo stigma della morte su di noi umani che sento il bisogno di comunità, di immortalità e di memoria.

di seguito la bellissima risposta di Wu Ming 1:
  1. io sento la fortissima esigenza di distinguere tra le ricombinazioni affettive di materiale mitico che ciascuno di noi compie e la manipolazione collettiva e organizzata dei miti a fini politici, operata sfruttando apparati di consenso etc.
    Distinguere, cioè: non usare la stessa parola per entrambe le cose (“tecnicizzazione”).

    Jesi era nel giusto individuando il presupposto comune nell’impossibilità, per noi moderni, di accedere al mito genuino, quindi sì, anche quella individuale è una sorta di “tecnicizzazione”, più sfumata e meno finalizzata.
    Ma se “tecnicizzazione” deriva da
    techne, io ricordo che lo spettro semantico del termine greco include una dimensione di consapevolezza: techne è un “manipolare intenzionale secondo una regola”. Non ricorro all’etimo gratuitamente: Kérenyi scelse l’attributo “tecnicizzato” avendo ben presente quel significato.

    Ancora una volta, ricorro a un esempio: io sono cresciuto ascoltando (anche) Alan Stivell, i Lyonesse, i Planxty, i Chieftains, insomma il folk “celtico”, e sicuramente il mio approccio a quei suoni e a quell’immaginario era una ricombinazione affettiva di materiali mitici eterogenei. Tuttavia, non era una tecnicizzazione in senso proprio, nell’accezione usata da Kérenyi e dallo Jesi degli anni ’60. Al contrario, l’uso cialtronesco e razzistico di un immaginario “celticheggiante” da parte della Lega Nord (tendenza che comunque negli ultimi anni mi sembra un po’ in calo) è tecnicizzazione in senso proprio. Quell’immaginario viene trasformato intenzionalmente in uno strumento offensivo.

    La Lega tecnicizza: è mito tecnicizzato il filmaccio di Martinelli su Barbarossa, è mito tecnicizzato l’ampolla con l’acqua del “Dio Po” (che per me è solo una bestemmia monca) etc.

    Per questo il concetto di “mito tecnicizzato” mi sembra ancora fecondo, e in questi anni ho mantenuto l’antitesi genuino / tecnicizzato. Sempre tenendo presente che sono due polarità di un’oscillazione.

    Il concetto di “macchina mitologica” può essere molto utile, se teniamo presente che la macchina mitologica operante nella coscienza del singolo è diversa dalla macchina mitologica sociale mantenuta in funzione da tecnicizzatori ben consci dei loro scopi.

    Su Lévi-Strauss: L-S è un autore che non disdegno, è solo che l’approccio del “prima cerco di capire razionalmente e solo dopo cercherò di cogliere emotivamente” mi sembra limitato, almeno nel caso del mito, nel senso che – di questo sono convintissimo – se non mi faccio coinvolgere dal suo calore, dalla sua carica emotiva, dalla sua natura “fusionale”, non lo capirò nemmeno razionalmente.
    [Da questo punto di vista, credo che Lévi-Strauss avesse ancora quella che Lakoff chiama "a 18th century mind": il
    cogito, la dicotomia ragione-emozione etc. Una "21st century mind" è quella che, forte anche delle acquisizioni delle neuroscienze, comprende che non può esserci raziocinio senza emozione.]

    Qui (sperando di non complicare troppo) ricorro a una triade concettuale che usa a volte Umberto Eco: tipo cognitivo, contenuto nucleare e contenuto molare. Sono tre espressioni bruttissime e poco intuitive, ma i concetti sono semplici.
    Primo livello: ognuno di noi ha un “tipo cognitivo” della parola “mito”, nel senso che nell’intimo sappiamo cos’è un mito, come sappiamo che quello che attraversa la strada in questo momento è un gatto e non un cavallo;
    Secondo livello: il “contenuto nucleare” della parola “mito” è quello che ci scambiamo tra noi quando facciamo degli esempi: Re Artù, Che Guevara, Orfeo ed Euridice… Esempi eterogenei, ma aventi in comune la riconoscibilità in quanto miti;
    Terzo livello: è la conoscenza allargata del mito da parte degli esperti. “Allargata” nel senso che include più caratteristiche, anche non indispensabili al riconoscimento percettivo.
    La sempre maggiore conoscenza di un concetto si muove dal primo al terzo livello. Nel caso del mito, il “tipo cognitivo” si forma grazie alle emozioni che il mito suscita; il “contenuto nucleare” è scambiato tramite la comune esperienza di quelle emozioni; il “contenuto molare” è la “scienza del mito”, la razionalizzazione operata dal sapere specialistico.
    Ecco, la mia impressione è che Lévi-Strauss cercasse di compiere il percorso inverso: definire nel modo più preciso possibile il “contenuto molare” del mito prima di dedicarsi al “tipo cognitivo”.

martedì 12 ottobre 2010

elementi di filosofia post-metafisica del mito


Prosegue a grandi passi il lavoro di pubblicazione su Jesi, che personalmente vedo come una pagina dell'interminabile guerra dell'intelligenza e della bellezza, contro le forze soverchianti della banalità e della stupidità.
A novembre uscirà uno splendido numero monografico di Riga, la rivista di Marcos y Marcos diretta da Marco Belpoliti e Elio Grazioli, su Furio Jesi, di cui sono co-curatore, con oltre 300 pagine di rarità, inediti, immagini d'archivio, foto, antologia della critica e saggi nuovi: intanto l'aggiornamento del sito con l'indice e l'editoriale, spero di sentirvi/leggervi personalmente con più calma e vi ringrazio per l'attenzione che riserverete alla notizia

http://www.rigabooks.it/index.php?idlanguage=1&zone=9&id=853

La battaglia quotidiana a scuola si trasforma in lotta di retroguardia, ma bisogna resistere, o altrimenti sarà finita. Ecco un piccolo saggio di quello che succede ogni giorno, e non è neanche la cosa peggiore. Io sto spiegando l'etica degli stoici a degli adolescenti che non capiscono cosa avessero gli antichi contro la ricerca del piacere edonistico e l'ignoranza. Parlo di felicità interiore e, alla ricerca della cosa più vicina per farmi capire, dico che il Dalai Lama è considerato "l'uomo più felice del mondo". Allorché un giovane, diciamo la versione periferico-zonale spessa di Beckham, mi dice: che cosa centra Gandhi?!
E io rispondo: ho detto il Dalai Lama, la guida spirituale dei Buddhismo, figura carismatica del Tibet etc etc, e non Gandhi, leader pacifista, induista, ucciso nel 1948 da fanatici religiosi etc etc. E lui mi dice: Ma se ha fatto la pubblicità della TIM! Non era una battuta.
Ecco, su una classe quarta superiore di liceo scientifico di 29 persone, solo in 5 hanno riso.
Confido molto per tirarmi su di morale su Riemen, La nobiltà dello spirito. Elogio di una virtù perduta. e ho attaccato sul mio armadietto un mantra di Henri James, che tutte le mattine mi permette di attraversare la sala insegnanti e entrare in classe più sereno.

Noi lavoriamo nell'oscurità, facciamo quello che possiamo, diamo quello che abbiamo, il nostro dubbio è la nostra passione, e la nostra passione è il nostro compito, il resto è la follia dell'arte.

Qui sotto invece prosegue la pubblicazione del mio Zibald_1 sul mito, che se tutto va bene, un giorno diventerà un libro vero. E poi ho imparato anche a mettere le note anche in formato blog.
C' è stato un lungo momento un cui ho creduto di essere diventato uno gnostico, il mondo mi pareva sempre più lo scherzo di una divinità malvagia, e probabilmente avrei bisogno di dormire qualche settimana di seguito.
Fortunatamente antichi sentimenti cosmico-naturalistici e neoplatonici mi fanno ancora credere nella bellezza, che siano gli occhi di mia figlia o della mia compagna o la curiosità di un allievo o il morbido dormire del gatto Lù o una pagina di Barthes o di una traccia o del nuovo disco dei national.
Solo questa salverà il mondo.

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elementi di filosofia post-metafisica del mito

Il mito «è sempre stato oscuro ed evidente al tempo stesso, e si è sempre distinto per la sua familiarità che lo esime dal lavoro del concetto»[1] e, indipendentemente dal sistema in cui la sua peculiare verità trova collocazione, esso fornisce una prestazione fondamentale ed elementare di rapporto con il mondo nel senso del suo padroneggiamento e della sua domesticazione. Già il romanticismo, da cui deriva la passione del pensiero contemporaneo per la mitologia fino allo strutturalismo, ne colse e ne valorizzò il valore di conoscenza simbolica in senso etimologico: il mito presenta riuniti e permette di cogliere intuitivamente aspetti della realtà altrimenti separati e scomposti: organizza, pur seguendo logiche della fantasia, una narrazione coerente articolata in sequenze narrative di per sé autosufficienti. Come scriveva Schlegel, «un gran privilegio ha la mitologia. Ciò che altrimenti fugge eternamente la coscienza, qui è possibile contemplare in maniera sensibile spirituale, e tenuto fermo, come l’anima nel corpo che l’avvolge e attraverso il quale essa riluce al nostro occhio, parla al nostro orecchio»[2].

Il pensiero mitico riconnette il processo costituivo dell’intersoggettività umana assimilandolo alla natura e rendendo intellegibile la vita nel suo fluire misterioso: il mito «è esattamente l’incanto che fa sorgere un mondo e nascere una lingua, che fa sorgere il mondo con la nascita di una lingua»[3]. Raccontando le identità esso istituisce la comunità e gestisce i rapporti degli uomini con il loro spazio e il loro tempo, definisce i confini interni ed esterni, dentro la comunità sancendo i vari status e fuori da essa indicando rapporti di amicizia e inimicizia rispetto ad altre forme di vita e di materia che lega a sé tracciando rapporti di simpatia e repulsione. In conformità alla linea di pensiero che accomuna Lévi-Strauss, Vernant, Detienne, il ‘mito’ va inteso come «mitologia-quadro, il sistema di pensiero che ingloba l’insieme dei racconti essenziali della società»[4], che mediante la trama di continue trasformazioni e richiami interni mobilita credenze, valori, saperi, senso comune; ogni repertorio di narrazioni deve essere letto come «sistema di codificazione sociale, complesso e differenziato, caratteristico di una cultura ben definita, [...] inserito in una serie di altri codici, che costituiscono altrettanti livelli diversi di interpretazione a loro corrispondenti»[5]. Si tratta di un sistema organizzato su «serie combinate» di opposizioni come fitta trama di segni da cui emerge «un significato fondamentalmente sociale: esso dice come un gruppo umano, in determinate condizioni storiche, prenda coscienza di se stesso, definisca le condizioni della sua esistenza, si collochi in rapporto alla natura e alla sopranatura»[6].

'Mito' è dunque il nome di una rete intricata di strutture portatrici della memoria, basate su una «logica dell’ambiguo, dell’equivoco, della polarità [...] che non sia quella binaria del sì o no, di una logica diversa dalla logica del logos»[7] ma che è allo stesso modo prodotta dalla ragione. È dunque la razionalità, indagabile solo attraverso se stessa e nelle sue manifestazioni storicamente realizzatesi, a essere in questione nello studio e nella critica del mito.

Come pensare ciò che eccedendo la regolarità del logos, la sua legge, la sua naturale e legittima genealogia, non appartiene, stricto sensu, al mythos? [...] Come pensare la necessità di ciò che dando luogo a questa opposizione come a tante altre sembra talvolta non più sottomettersi alla legge di ciò che essa situa?[8]

Queste sono alcune delle domande poste dall’intersezione contemporanea di antropologia, storia e filosofia a cui Jesi ha cercato di rispondere in quegli anni: egli, se non ha precorso i tempi nell’ambito dello studio della mitologia, è stato a sincrono con quanto succedeva nella riflessione contemporanea, e ha applicato allo studio della mitologia, in modo rigoroso, la più avvertita riflessione semiotica. In tal senso quanto scrive Eco, è pienamente pertinente alla definizione della «macchina mitologica»:

il linguista o il semiologo in generale non ha il dovere di interrogarsi su cosa siano [...] “presenza” o “assenza”: sono modi di funzionamento del pensiero, o almeno ipotesi su un possibile modo di funzionare del pensiero[9].

Non è possibile nessuna operazione metalinguistica sui meccanismi elementari del linguaggio, perché è in base a questi meccanismi che noi crediamo di parlare dei suoi meccanismi. Studiare il linguaggio significa solo interrogare il linguaggio, lasciarlo vivere[10].

Posto di fronte ai limiti di una ragione che si accorge di non potersi superare e cogliere dall’alto, lo studioso torinese, abbandonando il campo dello studio specialistico del mondo antico, ha scelto di riflettere su come lo studio della scienza del mito ne riveli la funzione comunitaria nel momento della sua difettività, quando cioè essa viene a mancare e si rivela non più possibile. Come scrive Jean-Luc Nancy pochi anni dopo, poiché «noi [l’umanità moderna e post-moderna] non abbiamo rapporti con il mito di cui parliamo, anche quando lo compiamo o vogliamo compierlo», «la nostra scena e il nostro discorso del mito, tutto il nostro pensiero mitologico sono un mito: parlare del mito è sempre stato parlare della sua assenza. La parola ‘mito’ indica anche l’assenza di quel che nomina»[11].

Per Jesi ciò che del mito è delineabile, con il tratto leggero e revocabile di uno schizzo a matita, è la «macchina mitologica» che lo produce e che insieme produce se stessa; essa è in questo senso un modo di descrivere l’«interruzione del mito [...] causata dalla dissoluzione del nesso finzione-fondazione»[12], quando cioè il mito del mito, prima prodotto e poi scoperto dalla sua scienza, si rivela una riconferma dell’«ontologia della finzione o della rappresentazione».

Il mito è insomma l’autofigurazione trascendentale della natura e dell’umanità, o più esattamente l’autofigurazione – o l’autoimmaginazione – della natura come umanità e dell’umanità come natura. La parola mitica è dunque il performativo dell’umanizzazione della natura (e/o della sua divinizzazione) e della naturalizzazione dell’uomo (e/o della sua divinizzazione). In fondo il mythos è l’atto di linguaggio per eccellenza, la performatività del paradigma, così come il logos se la finge per proiettarvi l’essenza e il potere che pensa suoi[13].

Rivolgersi a ciò che resta dopo la crisi della metafisica della presenza e dell’identità – critica, letteratura, testi, scrittura – e interrogarsi sulla loro capacità di costruire mondi, mostrando il come della loro invenzione, significa accettare il gioco della scomposizione dei materiali con cui lo stesso sistema della realtà si è costruito[14].


[1] T. W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, (1947), cit., p. 6.

[2] F. Schegel, Frammenti e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Sansoni, Firenze, 1967, pp. 197; cfr. anche le pagine di Lotito (Mito e filosofia, Mondadori, Milano, 2003, pp. 163-165) su Christoph Jamme e sulla capacità del mito di articolare comunicativamente valori storicamente condizionati in termini di simbolicità trascendentale.

[3] J.-P. Nancy, La comunità inoperosa, cit., pp. 111 ss.

[4] M. Detienne, Postfazione (1989), in Id., I giardini di Adone (1972), Milano, Cortina, 2009, p. 165. Id., La scrittura di Orfeo (1989), ed. it. Laterza, Bari-Roma, 1990, pp. 185-186.

[5] J-P. Vernant, Un’interpretazione, in M. Detienne, I giardini di Adone, cit., p. 172.

[6] Ivi, p. 173.

[7] J-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia (1974), ed. it. Einaudi, Torino, 2007, p. 250; cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1958), ed. it. «Forse un giorno scopriremo che è la stessa logica a funzionare nel pensiero mitico come nel pensiero scientifico, e che l’uomo ha sempre pensato altrettanto bene. Il progresso [...] non avrebbe in tal caso come teatro la coscienza, bensì il mondo, in cui un’umanità dotata di facoltà costanti verrebbe a trovarsi, nel corso della sua lunga storia, continuamente alle prese con oggetti sempre nuovi», p. 259.

[8] J. Derrida, Chòra (1993), trad. it. in Id. Il segreto del nome, Jaca Book, Milano, 1997, p. 47.

[9] U. Eco, Prefazione in Id., La struttura assente (1968), Bompiani, Milano, 1994, p. XIII.

[10] Ivi, p. XXII.

[11] J.-L Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 112.

[12] L. Lotito, Mito e filosofia, cit. p. 196: oltre alle pagine su Nancy, (pp. 196-200) cfr. p. 10 in cui Jesi e Nancy sono affiancati nel connubio tra «mito e nulla».

[13] J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 117.

[14] Per il post-strutturalismo e la nascita del discorso neo-nietzscheiano, come rifiuto dell’origine e filosofia della differenza ontologica: M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), Rizzoli, Milano, 1967; J. Derrida, Della grammatologia (1967), Jaca Book, Milano 1968/2006; cfr: M. Ferraris, Tracce. Nichilismo moderno postmoderno (1983), Mimesis, Milano 2006.