giovedì 30 settembre 2010

Jesi lettore di Rilke


Cari lettori,poiché sto prendendo coscienza del fatto che qualcuno mi legge, innanzitutto grazie.
Alcuni mi dicono che sono troppo lungo, altri mi segnalano che apprezzano maggiormente i saggi, nel dubbio procedo come capita. In questi giorni, diviso tra il lavoro quotidiano, il labor educandi di un paese allo sbando, e la cura della mia creatura preferita, Cura enim quia prima finxit,teneat quamdiu vixerit, non ho il tempo per nulla e quindi decido di affidarmi alla ristampa di testi usciti altrove e consegnati al circuito della letteratura scientifica specialistica. In questo, il primo saggio che ho scritto su Jesi e Rilke, metto a fuoco alcuni concetti a me molto cari. L'idea che la coscienza della morte e la finitezza siano il principio di ogni forma culturale, al punto che una stessa struttura antropologica tieni insieme sepoltura dei morti, scheletrificazione, e scrittura, stilizzazione del segno grafica nel segno della memoria come unica forma di non-mortalità, resistenza al tempo. L'idea che la letteratura sia far vivere ciò che è assente, in modo sempre postumo e ricostruttivo, dando vita al nuovo attraverso l'immaginario, poiché la creatività umana è tanto biologica quanto culturale.Il resto è letteratura della letteratura, uomini che si rincorrono leggendo i libri dell'altro, nel tempo, e cercando le parti di sé che in quel libro si celano.
Non riesco a mettere su le citazioni in modo sensato, troverete le note al fondo, del resto se credete come me che ogni intelligenza sia il prodotto collettivo di una macchina testuale composta da tutto ciò che ognuno di noi ha letto, forse non servono neanche.
Per Calvino ciascuno di noi «è una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture e di immaginazioni», «ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un’inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». In altri termini, ognuno è una macchina mitologica.


Per autentica poesia visuale ecco un link al mio blog visivo favorito:
http://horrormundi.tumblr.com/

Qui sotto invece un fiore fossile, pare una margherita datata 50 milioni di anni.
Più o meno mi sento così.




«Estetica», n. 1/2009, pp. 21-47.


Enrico Manera


LA POETICA DI R. M. RILKE NELLA RIFLESSIONE SUL MITO DI FURIO JESI

(SU ALCUNE POSTILLE ALLE LETTERE A UN GIOVANE POETA)



Una chiara consapevolezza della morte. Tutta l'arte è in rapporto con la morte.

Rothko, Conferenza al Pratt Institute di Brooklyn, 27 ottobre 1958


1. Un ritratto

Furio Jesi è una figura intellettuale dal percorso inconsueto e irregolare, la cui straordinaria capacità di scrittura è in grado di far saltare i confini tra le discipline e di generare un interesse proporzionale alla quantità di temi affrontati e alla complessità dei testi prodotti. Continuamente mobile dal punto di vista geografico e intellettuale e irriducibile a schemi tradizionali, si mette in luce come precoce egittologo per ritrovarsi, all'apice di un'intensa, febbrile e troppo breve carriera intellettuale, germanista di rilievo e stimato studioso di scienza del mito. Nato a Torino nel 1941, ebreo non credente e militante della “nuova sinistra” impegnato nella ricerca e nella pubblicistica, si è occupato di storia delle religioni, antropologia, storia delle idee, critica letteraria e filosofia, per approdare, dopo anni di intensa scrittura e lavoro nell'editoria, a una cattedra universitaria in Letteratura tedesca nel 1976 a Palermo: in quest'ambito i temi centrali della sua riflessione sono divenuti operativi anche attraverso l'ampio lavoro di traduzione sui ‘suoi’ autori, tra tutti Rilke, Mann, Canetti.

Dopo aver finemente metabolizzato la classicità alla luce degli strumenti della filologia e dell'antropologia, Jesi ha orientato progressivamente il fuoco dei suoi studi dal preistorico e dall'antico verso la letteratura moderna e contemporanea, alla ricerca delle reciproche interazioni secondo un movimento che si rivolge a testi e documenti come “‘deposito e ricettacolo’, vere e proprie spie indiziarie, di strati profondi della personalità storica e dell'antropologia culturale dei gruppi” e si configura come “modello di lettura [...] sugli archetipi narrativi”. In questa direzione lo Jesi maturo condensa modalità operative e innovazioni metodologiche sincronizzate con la stagione culturale degli anni settanta di cui condivide ed esprime le istanze più urgenti, a partire dall'esigenza di produrre un sapere nuovo e vitale, antagonista di una scienza rigorosamente codificata e stantia: in lui la scelta della forma-saggio di sapore benjaminiano e il richiamo alle Tesi di filosofia della storia divengono intenzionale antidoto ai luoghi comuni dello storicismo à la Ranke e strumento critico di disintegrazione della razionalità tardo-borghese e del presunto continuum spazio temporale da essa edificato.

La prolifica attività di Jesi, molto più che germanista e mitologo, si misura in una bibliografia molto ampia, confinata tra il 1956 e il 1980, anno in cui a Genova, presso la cui Università insegnava, un assurdo incidente domestico ha messo fine alla sua vita. La pubblicazione postuma di testi inediti e la presenza continua delle sue opere nelle biblioteche degli studiosi di diverse discipline mantengono viva l'attenzione su un percorso foriero di prospettive, il cui minimo comune denominatore è la riflessione sul mito: prima nella storia delle religioni nel mondo antico, poi con l'analisi delle sue sopravvivenze nella cultura moderna e infine in relazione alla politica nel '900, essa costituisce il nesso che connette una scrittura densa e frastagliata, volutamente composita e caleidoscopica. Da questo reiterato sondaggio a diversi livelli di profondità nei territori del sacro, della letteratura e del potere, svolto senza mai rinunciare a un impegno di critica dell'ideologia radicalmente illuminista, sorgono il valore, l’importanza e il fascino delle pagine di Jesi.


2. Puer doctus

Un frammento giovanile è un buon punto di osservazione per lo studio di una versatile personalità intellettuale: scheggia scorporata dalle opere successive e potenziale elemento di elaborazione nel tempo, esso promette di essere la tessera di un mosaico all'inizio della sua composizione e di fornire informazioni necessarie a ricostruire l'insieme. Mille le precauzioni del caso: da un lato nel riconoscere al giovane autore il diritto all'errore e all'essersi lasciato alle spalle ingenuità dettate da prospettive di corto respiro che certamente non avrebbe voluto sapere associate al suo lavoro per la posterità; dall'altro, nel non forzare il testo alla ricerca della fonte da cui sarebbe sorto il genio, proiettando gli esiti successivi su ciò che li ha preceduti. È possibile invece che un tema sia centrale per l'autore da tempi remoti e il frammento sia in grado di attestarlo, mostrando la continuità di interessi e la ricorsività di ciò che, scritto prima, ha trovato una sistemazione dopo. Ciò è tanto più probabile se l'arco temporale tra il frammento e l'acmé è breve, se l'ambito della riflessione non professionale è il medesimo di quella matura e se l'essere giovane dell'autore coincide biograficamente con una precoce pienezza intellettuale.

Queste le premesse che muovono il commento di un inedito giovanile di Jesi di provenienza inconsueta: appunti autografi riportati su una copia personale delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke nell'edizione Carlo CYA, Firenze, 1944 - Bergamo, 1945 (a cura di Guido Degli Ubertis), redatti nel corso di letture databili non successivamente al 1958. È certo quanto gli anni 1956-60 fossero cruciali per Jesi: un intenso periodo di formazione caratterizzato da un ambiente familiare stimolante, un’intelligenza vivace e una sensibilità elevata, tali da giustificare una maturità superiore all’età anagrafica per cui il superlativo è d'obbligo. Da adolescente Jesi aveva presto abbandonato il Liceo classico “Vittorio Alfieri” di Torino poiché, allievo dotatissimo, aveva ritenuto con la sofferta approvazione della madre Vanna Chirone e dei docenti che la scuola tradizionale fosse inadeguata alla sua domanda di conoscenza. Tra il 1954 e 1957 aveva proseguito autonomamente gli studi da antichista: a Bruxelles presso la Fondation égyptologique Reine Elisabeth, a Hildesheim presso il Pelizaeus Museum e durante i reiterati viaggi archeologici in Grecia e in Asia Minore aveva incontrato studiosi ed era entrato in contatto con metodologie d’avanguardia. Tra il 1956 e il 1958 aveva collaborato con riviste prestigiose quali il “Journal of Near Eastern Studies” e l'italiana “Aegyptus” e nel 1957 aveva dato vita all'“Archivio Internazionale di Etnografia e Preistoria” (A.I.E.P.) per i tipi della SAIE. Proprio nel 1958, diciassettenne, aveva pubblicato con lo stesso editore il volume La ceramica egizia, preceduto da un'introduzione dell'egittologo Pierre Gilbert, e aveva partecipato come relatore al V° Congresso internazionale di Preistoria di Amburgo durante il quale aveva presentato l'intervento Bès initiateur. Élements d’institutions préhistoriques dans le culte et dans la magie de l’ancienne Égypte, per poi prendere parte, insieme ai partecipanti al convegno, a un viaggio di istruzione in diverse città nordeuropee. Basterebbe questo per ritenere significativa l'analisi delle annotazioni, tanto più se si considera che queste riguardano oggetti che avrebbero solcato a più riprese la produzione jesiana: la morte e Rilke.

Emerge dalla lettura di Jesi delle Lettere a un giovane poeta una riflessione di ordine estetico sulla memoria come immortalità: l'arte è pensata come capace di rendere immortale il suo oggetto – in continuità con Omero ed Erodoto, perché le “opere degne di ricordo” “non sbiadiscano con il tempo”; il tono è quello di chi rielabora le proprie conoscenze e incrocia il testo che ha sotto gli occhi con altre letture, prendendo appunti per una crescita spirituale e per un apprendistato alla scrittura che appaiono inseparabili, secondo una concezione per cui l'autenticità della prima è garanzia di riuscita della seconda. È opportuno ricordare che Jesi si è cimentato con prosa e poesia già in quegli anni e che ha saputo affiancare nel tempo l'attività scientifica a quella artistica, mantenendole separate, non senza ironiche sovrapposizioni. Tutto concorre nel suggerire l'idea che l'insegnamento di Rilke sia colto genuinamente da chi agli inizi di una carriera di studi umanistici, intenda far tesoro di preziosi consigli per la propria vita interiore; lo stesso Kerényi, maestro di Jesi, era attento e assiduo lettore di Rilke. Se il libro con le sue postille, in virtù del valore di classico della formazione che le Lettere ha assunto, può essere innanzitutto un ‘diario’ dello studioso diciassettenne – non lo sono forse tutti i libri più cari? –, queste note sono di grande interesse nel rivelare l'esistenza di interessi e spunti che Jesi avrebbe messo a punto più tardi nella critica rilkiana.

Quanto segue è una “prova di lettura” di tali passi, secondo un'espressione di Jesi qualificativa di un metodo con cui si intende “far interagire il testo con altri”, in questo caso con un triplice intento: chiarire la lettura jesiana del rapporto con i morti nella poetica di Rilke; inserire tale poetica in una filosofia che vede la coscienza della morte come fattore generativo di un bisogno di persistenza assolto dalla memoria e dall'immaginazione; mostrare la sua correlazione con una teoria del mito e della memoria culturale che è anche una filosofia della scrittura alla luce del tentativo umano di redimere la propria finitezza.


3.Das Reifen

Le lettere che compongono Briefe an einen jungen Dichter furono scritte tra il 1903 e il 1904, con un'ultima nel 1908, da Rilke a Xavier Kappus, artista inquieto che lo aveva contattato “chiedendogli un giudizio e un orientamento”. Pubblicate per la prima volta nel 1929 senza quelle di Kappus, confluirono in un epistolario vastissimo che contribuì all'edificazione della Rilke-Legende agiografica e oracolare da parte di una critica mitizzante. Come sottolineava Jesi, fu creata con il beneplacito dell'autore “attorno al poeta un'aura tra la confetteria e il salotto teosofico” al punto che in certi ambienti si arrivasse a praticare il rilking, il “parlare di Rilke [...] per fare bella figura intellettuale” quando “la conversazione languiva”. L'equilibrio e la misura che lo studioso torinese ha saputo mantenere, tenendosi lontano tanto dalle letture adoranti quanto da quelle liquidatorie, costituiscono, insieme alla proposta di originali chiavi di lettura, il suo pregio maggiore.

Nei primi anni del '900 Rilke era già noto come poeta e ‘pellegrino’ cosmopolita, autore delle Geschichten vom lieben Gott (1900) e di Das Buch der Bilder (1902). Nel 1903 concludeva Das Stundenbuch e nel 1904 pubblicava Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke, iniziando la stesura di Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910) mentre al 1907-8 risalgono i due volumi dei Neue Gedichte, che inaugurano la fase di intensa elaborazione ideologica e poetica che sarebbe sfociata, dopo gli anni della “grande siccità” seguita al Malte, nelle Duineser Elegien e in Die Sonette an Orpheus (1922).

Le Lettere a Kappus appartengono a un periodo molto interessante per cogliere la poetica rilkiana e per rilevare la presenza di topoi la cui ricorrenza sarebbe stata decisiva per le opere degli anni venti. In esse, secondo l'analisi di Jesi nel saggio Il giovane poeta (1968, in Letteratura e mito) è centrale il “‘maturare come l'albero, che non incalza i suoi succhi’”, verso “l'istante in cui se ‘ci fosse dato di veder più oltre che non giunga il nostro sapere [...], forse allora sopporteremmo noi le nostre tristezze con maggior fiducia che le nostre gioie. Ché esse sono i momenti in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto’” nel “lungo e faticoso cammino verso l'ignoto”, verso l'inconoscibile da cui scaturisce la realtà. L'essere poeta è definito un “austero e difeso umanesimo”, la cui origine è questa “lunga tortura” che consente di “trasformare in un unico punto l'epifania dell'ignoto altrimenti scissa in nascita e morte”.

Il progetto esistenziale descritto come viatico per il poeta consiste nel nobilitare il dolore ai fini dell'operazione estetica, individuandovi il marchio di uno stato di indigenza prossimo ad essere colmato dalla ricchezza della rivelazione: dal maturare dell'inconoscibile”; è questa la “genuina epifania del mito dell'uomo”, la condizione dell'umanesimo come processo di “antropofania” ovvero come manifestazione a se stessi della propria intima identità. Si tratta della rivelazione dell’interiorità che le molestie della vita quotidiana, la conformità alle convenzioni sociali e un'esistenza condotta nel commercio con le occupazioni ‘estranee’ alla vita e al suo fluire misterioso non consentono di cogliere.

Maturazione è fare esperienza del mondo come apprendistato per farsi “cosa tra le cose”, implica il ripiegamento nella solitudine profonda di cui l'irregolarità dell'artista è il correlato comportamentale, la condizione che garantisce l'assenza delle barriere imposte dai rapporti sociali. Ricercando lo sguardo “di un angelo accecato che guarda dentro di sé” il poeta può diventare “strumento cieco e puro” dell'inconoscibile, “una forza talmente ampia da abbracciare il visibile e l'invisibile, dunque da riuscire inconoscibile al poeta stesso”: solo così la sua voce può “trasformare in invisibile quanto è visibile, attraverso l'attività poetica”. È questo il senso del celebre passo del Malte che condensa il pensiero di Rilke sull'attitudine dell'artista nei confronti dell'attività poetica come dialettica di ricordo e oblio:


E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.


4. Memoria è immortalità

Le considerazioni che guidano Jesi nelle opere su Rilke sono centrali nelle Lettere a un giovane poeta: in quell'edizione la solitudine è “dimora per le ore incerte della giornata” e condizione per il “ritorno” in se stessi, necessario alla creazione in quanto “l'opera d'arte è buona quando è nata da necessità” e “perché il creatore deve essere per se stesso tutto un universo, tutto deve trovare in se stesso e in quella parte della natura alla quale si è unito” (p. 28). Il “crescere secondo la propria legge” (p. 29) è il “destino” (p. 39): “portare a termine e poi partorire: tutto sta qui. Bisogna che voi lasciate maturare dentro di voi ogni impressione, ogni germe di sentimento, nell'oscuro, nell'inesprimibile nell'incosciente, in queste regioni chiuse alla comprensione. Aspettate con umiltà e pazienza l'ora della nascita di un nuovo chiarore” (p. 41). In altri passi si suggerisce di estendere il proprio “amore a tutto quello che c'è” (p. 48) e di “vivere tutto”, (p. 49): al poeta “è dato di riconoscere che ogni bellezza, negli animali come nelle piante, è una forma durevole e nuda dell'amore e del desiderio” secondo una legge per cui “la fecondità è ‘una’: poiché l'opera dello spirito procede dall'opera della carne e partecipa della sua natura” (p. 50), conformemente all'idea che l'arte germini nella dimensione erotica come una forma di maternità.

In questo contesto si trovano le annotazioni di Jesi. A pagina 38, una pagina bianca tra la lettera rilkiana del 5 aprile e quella del 23 aprile 1903, si legge:


L’immortalità si riferisce soltanto ad una morte e rinascita fino a che non si perda il ricordo di vita umana. Più in là non si tratta più di immortalità. Ma finché vi saranno uomini, esseri che possono morire, l’immortale vivrà nella gioia. Anche se l’artista sarà scomparso.


L'immortalità è qui correlata non con l'eterno, ma con la morte, in base all’idea che i morti siano presenti nell’anima di ciascuno: è qualcosa che riguarda gli uomini se garantita dalla memoria, destinata a non essere più tale qualora non ci sia più nessuno che ricorda. La mortalità è il fattore che produce l'immortalità come condizione di “gioia”, perché determina l'urgenza di fissare la persistenza di un soggetto nel tempo, come l'opera d'arte che sopravvive alla scomparsa dell'artista.

A pagina 70 è presente un'altra considerazione sullo stesso argomento:


L’immortalità si può trasmettere, non tenere per sé. E trasmettere ad una persona, non a una cosa, a una musica o a un quadro, che sono già senza vita e senza morte. La morte dell’artista deve essere una doppia morte. Deve essere insieme anche la morte della persona, di Venere. E l’immortale potrà essere.

La donna sarà immortale solo così; quando l’unico artista non vorrà più cercare inutilmente di essere immortale e vorrà farla divenire immortale. Vorrà ricrearla e guidarla poi verso le isole felici dove si muore e si rinasce in eterno. Ma quando il suo compito sarà finito, dovrà abbandonarla? Forse qui c’è la risposta.


La condizione di sopravvivenza al tempo è nel ricordo come oggetto della rappresentazione che diventa il significato vitale di un'opera. In tal senso l'artista lascia essere l'oggetto della sua rimemorazione (“la donna”) attraverso la “doppia morte”, cioé la può far vivere solamente in quanto trasfigurata in immagine artistica, altra rispetto alla persona reale, e mettendo da parte la propria individualità storico-biografica per essere strumento dell'immaginazione. Solo tale ‘umiltà’ dell'artista, una sorta di capacità di “distruggersi”, garantisce l'immortalità, non a lui quanto all'oggetto della sua creazione: nel caso della scrittura la sopravvivenza al tempo è nella dimensione letteraria, nella quale l'artista ricrea l'oggetto che ha trasfigurato. La fruizione di questo comporta, in quanto ricezione da parte del lettore, la rinascita continua, che sancisce l'abbandono dell'oggetto originario raffigurato e la sua consegna alla nuova vita nello spazio letterario, nell'incontro tra scrittore e lettore mediato dal testo.

Simile a un alchimista impegnato a ricercare l'essenza della realtà in ciò che rimane al termine dei processi di calcinazione e volatilizzazione, l'artista sublima la realtà cogliendone gli aspetti che resistono alla trasformazione e si cristallizzano come materiali solidi e duraturi che costituiscono l'essenza della parola poetica capace di sopravvivere. A partire da qui intendo ripercorrere i tratti essenziali di quanto Jesi ha scritto su Rilke per ricercare gli sviluppi e le articolazioni del rapporto tra morte e memoria in molta parte della sua produzione.


5. Mors magistra

L’idea espressa nell'inedito giovanile prevede che colui che eserciti l'attività poetica, di fronte all'esperienza dei morti, sia capace di trasmettere loro immortalità, se il suo percorso di maturazione è giunto a compimento.

In diverse opere successive il “maturare” in Rilke è associato alla “maturazione della propria morte”: se l'avvio verso una “placida morte” comporta lo “scorgere l'inautenticità dei molti falsi scopi che dominano la vita”, secondo il dettato dello Stunden-Buch “la ‘grande morte’ è quella che ciascuno porta con sé e che è nel tutto”, come un'esperienza il cui conseguimento spetta a coloro che “lasciano penetrare in sé l'inconoscibile e perciò fluiscono essi stessi nell'immenso aperto dell'inconoscibile:


O signore, dài a ciascuno la sua propria morte,

il morire che viene da quella vita

in cui egli ebbe amore, senso e pena.

Ché la scorza e la foglia solo siamo. La gran morte, che ciascuno ha in sé,

è il frutto intorno a cui si volge tutto.


Analogo significato ha la figura di Malte, il protagonista del romanzo che è “una meditazione per immagini sulla morte”: nel suo apprendistato di artista il perdersi nel labirinto della città e della memoria è contrassegnato dalla presenza continua di spettri, dall'evocazione di antenati e da una carrellata di morti esemplari. Il giovane poeta mancato, ‘ultimo’ della sua stirpe, dichiara fin dall'inizio: “io imparo a vedere”; è questo il suo modo di afferrare “‘in apparizioni e immagini’ [...] ‘la vita che incessantemente va ritirandosi nell'invisibile’”, un modo di fare “’provviste del suo animo’” per un viaggio volto “ad acquistare un rapporto con la morte”, ovvero con l'esistenza nel tempo la cui essenza è la scomparsa delle cose – dagli oggetti che lo circondano fino alle persone della sua famiglia –, “che preluda al positivo morire la propria morte”. ‘Morire la propria morte’ significa vivere la propria vita cogliendo i rapporti tra visibile e invisibile lasciando che i “documenti visibili” di ciò che svanisce si sedimentino nella memoria e si trasformino in parola poetica secondo il processo di “dissoluzione”.

Si delinea in modo più chiaro come la presenza della morte e la capacità di generare siano legate. Diverso dall'uomo comune, il poeta “è usato dalle forze sovraumane in modo da acquisire il punto di vista dell'angelo e in ciò è ‘scolaro della morte’” come si legge in una lettera di Rilke: “A Firenze, a Bologna, a Venezia e Roma, ovunque sostavo dinanzi alle lapidi, come uno scolaro della morte, e mi lasciavo educare”.

Non senza oscillazioni nel tempo, la poetica di Rilke appare come una religio mortis definita dall'“intuizione di un rapporto segreto tra vita umana e morte tale da definire la morte come uno spazio interiore dell'esistenza umana”. Basti ricordare come le figure che abitano le Duineser Elegien e Die Sonette an Orpheus (l'angelo, i bambini, le amanti abbandonate, gli amanti all'inizio della passione, i giovani morti) siano forme retoriche peculiari, “inversioni mitopoietiche”, contrassegnate e accomunate dal rapporto con la morte, la grande metonimia di una fenomenologia della finitezza. Il poeta mantiene vivi i turbamenti che usualmente ogni essere umano occulta dietro i paramenti della vita quotidiana; così facendo egli custodisce la possibilità di accedere, seppur in modo cifrato e parziale, “dall'altra parte della natura”: per questo ascoltare la voce dei morti è sua prerogativa.

Nelle Elegie Duinesi, I, vv. 88-91, leggiamo, sul significato del rapporto che lega i vivi ai morti:


Ma noi che abbiamo bisogno di sì grandi misteri, - quante volte da lutto

sboccia un progresso beato -: potremmo mai essere, noi, senza i morti?


Una eco ideale del nesso tra morti e memoria è nei Sonetti a Orfeo, IX, vv. 5-8, nel quale il vivere un rapporto con la morte, nel passato, è associato alla conoscenza e alla capacità di sentire, nel futuro:


Solo chi con i morti il papavero

gustò, il loro,

neppure il più lieve suono

tornerà a dimenticare


Questi versi sono del 1922 (anche se le Elegie furono iniziate nel 1912), ma una formulazione della stessa tematica si ritrova già nella Lettera di Rilke a Kappus del 23 dicembre 1903 (nella copia di Jesi pp. 63-68) in cui la ricorrenza del Natale è l'occasione per celebrare la “grande solitudine interiore”: si tratta di una lunga apologia dell'infanzia come stato di coscienza altra che è al tempo stesso una esposizione della propria teologia personale. I bambini vivono la perfetta solitudine perchè “ignorano la prospettiva cronologica e vivono psicologicamente in un presente sottratto al tempo” in una calma e semplicità ignara di Dio; al divino si fa riferimento come “colui che verrà”, “che è il futuro, il frutto compiuto di un albero di cui noi siamo le foglie”, costruito dall'uomo “al modo delle api [...] col più dolce di ogni cosa”, cominciato dagli esseri umani nell'amore, nel silenzio e nella “gioia interiore” (p. 67).

Nella pagina seguente si trova un passo decisivo:


Non lo conosceremo nella nostra esistenza [il complemento oggetto è Dio, n.d.a.]; non più di quanto i nostri antenati hanno potuto conoscere noi nella loro. Eppure quegli esseri del passato vivono in noi in fondo alle nostre inclinazioni, nei battiti del nostro sangue, gravano sul nostro destino: essi sono quel gesto che così risale dalle profondità del tempo.


Nella lettera del 1908 (p. 100) Rilke riprende il tema, associando il mare alla “solitudine magnifica” dell'“armonia preistorica”:


essa agirà in silenzio, in una maniera continua ed efficace come una forza sconosciuta su tutto quello che vivrete e farete, come fa in noi il sangue dei nostri avi.


La dimensione larica che risuona nel poeta è uno snodo importante della teologia estetica rilkiana, la cui origine appare pre-cristiana e i cui sviluppi sembrano post-cristiani. Fin dalla preistoria i resti delle sepolture indicano come la religione appaia nel segno degli antenati “una strana convivenza ideale dei morti e dei vivi in seno al gruppo”, collegata a un sentimento di identità e alla “riflessione sul passato ancestrale, sul tempo che trascende la vita del singolo”. Il tema della percezione della morte nella preistoria è centrale nei primi lavori di Jesi: un testo paradigmatico in tal senso è La civilisation glozélienne (1962) dedicato all'esame dei reperti del sito neolitico di Glozel, necropoli scoperta negli anni venti nei pressi di Vichy in Francia. In quelle dense pagine lo studioso, analizzando le raffigurazioni simboliche in cui si fondono visi di morti e simboli di fertilità, definisce la “morte come determinante di forme” e le assegna un ruolo decisivo per la nascita dell'arte: “fede, fiducia, timore” sono i sentimenti che contribuiscono alla “costruzione del pensiero dell'uomo relativo al suo destino, alle modalità della sua esistenza reale”. La consapevolezza di una differenza tra lo statuto ontologico del morto e quello del vivo, la sua impossibilità di “comunicare” con il corpo, avrebbe contribuito alla determinazione della coscienza del tempo dell'uomo arcaico con la “separazione” tra mondo dei morti e mondo dei vivi in età neolitica.

Se l'emozione di fronte alla scomparsa dei propri cari, che è anche la proiezione anticipata della propria, è il fattore che alimenta la cultura, la compresenza di vivi e morti e la continuità nel succedersi delle generazioni sono le forme elementari del travaglio della memoria, destinato a successive elaborazioni attorno all'idea di immortalità, rinascita, resurrezione. Prima l'arte e l'architettura e poi – molto dopo – la scrittura hanno comportato nella storia umana la “fissazione della labile precarietà del presente in qualcosa di resistente, stabile, saldo, sopravvivenza artificiale di ciò che la natura destina alla morte e alla rovina”; in tal senso monumentalità e simbolismo funebre, commemorazione dei morti, fama postuma, scrittura, archivio e storiografia possono essere considerate modalità differenti di elaborazione di un rapporto degli uomini con la propria finitezza nel tentativo del suo superamento. Così la letteratura da un punto di vista antropologico può configurarsi come dialogo con i morti: “negli autori classici, da Omero a Dante passando per Virgilio, l’incontro con i morti assume la funzione ideologica di una grande narrazione mitica che definisce il senso di una civiltà e di un destino, disegna una continuità e una tradizione, costruisce un futuro scegliendo un passato”.

Tali sviluppi di una teoria della cultura sembrano rientrare nella sfera delle riflessioni di Jesi, se si considera che nelle pagine di La civilisation glozélienne si legge:


Nei primi lustri del nostro secolo, Rainer Maria Rilke ha formulato nelle sue Duineser Elegien la credenza in una immortalità che procede dal contatto con la morte. Solo chi ha conosciuto la presenza e la saggezza dei morti – dice il poeta – può conquistare una voce immortale. Le guide del poeta nel regno dei morti sono delle Lamentazioni (Klagen): personificazioni ambigue e misteriose di un rituale funerario che non ha equivalente puntuale nella storia delle religioni, ma che sintetizza a posteriori tutti i rituali funerari dell'umanità nell'archetipo del procedere della morte, cristallizzata nell'anima del poeta.


Sulla base di queste considerazioni intendo sostenere l'idea che l'interesse antropologico di Jesi sia fortemente correlato con la sua attività di critico letterario e che entrambe le sfere si congiungano nella prospettiva di una teoria del mito all’interno della quale egli ha lavorato ininterrottamente.


6. Dioniso o del passato

Nelle indicazioni che Givone ha suggerito nell'intervento Furio Jesi i passi sulla memoria come immortalità contengono “l’idea dello scambio di amorosi sensi” cara alla cultura neoclassica, in antitesi alla “lettura cristiana del mito di Dioniso” che si può trovare compendiata nella prospettiva romantica secondo cui la morte in funzione dell’eterno permette la riappropriazione di sé da parte di Dio. Il saggio Inattualità di Dioniso individua il significato più resistente al tempo del mito di Dioniso in quello di “’dio del dolore’” che gli ha garantito una “fortuna secolare, largamente posteriore al limite storico della devozione organizzata verso di lui”. L'emozione arcaica di fronte alla morte si connette alla scomparsa della realtà nel passato in quanto farsi memoria: “Dioniso era il dio del dolore poiché dolorosa è la perdita del passato quando il passato non è ricordato in quanto è rimasto presente”, in quanto “presente vivente”, “materia vivente di chi ha sperimentato il passato” e lo ha dimenticato. “La morte che prelude la rinascita è l'abbandono del passato, il quale cessa di essere tale e non è ricordato perché è divenuto presente. La rinascita è, appunto, l'esperienza di quel presente che comprende in sé tutto ciò che del passato era vivo ed è vivo: tutto ciò che non si ricorda”.

Il contenuto dell'esperienza religiosa dionisiaca sarebbe dunque “lo schema temporale, il passaggio, la perdita del passato in quanto divenuto presente”. Per questo motivo “la ricorrente fortuna del ‘dionisismo’ consente di osservare il paradosso del dolore implicito nella rinascita in una prospettiva più ampia, tale da coinvolgere non solo il passato personale dell'individuo, ma anche il passato personale di una comunità, di una generazione, di una cultura”. L'inafferrabilità di Dioniso, l'esperienza di spiazzante disorientamento che caratterizza nella mitologia e nel rituale la sua presenza e ne fa l'incarnazione della “figura dell'Altro”, viene letta da Jesi come una dinamica esperienzale che costituisce il tessuto dell'esperienza umana nella sua finitezza nel tempo, in quanto “Dioniso è il paradosso divino del ricordare ciò che si dimentica, del presente in cui il passato sopravvive appunto perché ha cercato di essere”. Perché “non senza dolore ci si stacca dal passato per possedere solo il presente, non senza dolore si rinasce – non senza morire”.

In Jesi la trasposizione di una esperienza elementare dell'esistenza umana è osservabile nel funzionamento della comprensione semantica e della trasmissione di sapere, in quanto “nel passaggio dallo sviluppo protoculturale all'evoluzione culturale gli uomini sono diventati narratori di storie, animalia interpretantia – e da allora lo sono rimasti”. Si sviluppa così una teoria ermeneutica derivante dalla scienza della mitologia, secondo cui “il presente contiene il passato poiché l'intelletto presente, mosso dalla volontà, concepisce l'unica realtà del passato, escludendo un passato giacente nel passato”.

Studiare il 'mito', racconto “intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà”, significa riconoscere da un punto di osservazione privilegiato che il passato è sempre quello visto dal presente e che la distanza che ci separa da esso è tale da impedirne ogni possesso, ogni accesso diretto e immediato a quando era vivente. Jesi si è rivolto alla mitologia come dispositivo complesso che rielabora archetipi narrativi di origine materiale e sociale, traccia degli uomini nella storia (e non voce del sacro o dell'essere); già nel 1966 nel saggio Avanguardia e vincolo con la morte scriveva:


Tradizione è innanzitutto memoria; ma la memoria è una realtà partecipe più del presente che dal passato: un atto creativo, il quale si giustifica proponendo come propria prospettiva il passato e proiettando sul fondale del passato le proprie componenti non risolte, i timori generati dalla constatazione di componenti non razionali o di immagini orride che una volta furono benefiche o che in altra forma avrebbe potuto esserlo.


Il mitologo torinese avrebbe elaborato a partire dai primi anni settanta il modello teorico della “macchina mitologica” perseguendo la messa a fuoco di un'ermeneutica basata sulla “reciproca permeabilità di soggetto e oggetto” . In questa teoria della ricezione, che giunge a fare del mito una “forma cava” potenzialmente capace di significare ciò che il suo interprete ha voluto veicolare, fin dall’antichità il mythos è qualcosa che si presenta come verità, realizza e consolida delle autoevidenze altrimenti arbitrarie facendole apparire ‘naturali’: esso significa “parola, discorso” ma anche “progetto, macchinazione, rivolta”, è parola concreta, efficace che evoca il tempo trascorso ed ha l’autorevolezza di un passato consacrato. Costruttore di senso e produttore di identità, il mito può diventare strumento tecnicizzato, rielaborazione strumentale di immagini che punta al conseguimento di obiettivi determinati grazie al potenziale emotivo e alla capacità comunicativa, in modo particolare nella sfera politica. Così “affrontare il tema del mito non appartiene più solo al campo della ‘scienza della religione’ ma significa anche decostruzione dei meccanismi performativi delle culture moderne e contemporanee”.

Benché non articolati, i frammenti giovanili si collocano in rapporto di continuità con questi sviluppi: in Rilke, il poeta dell'egizio “paese delle Lamentazioni”, Jesi poteva trovare da un lato la versione poetica di una nozione antropologica che vede nel rapporto con i morti un nucleo essenziale dell'esperienza umana e dall’altra poteva intuire quanto il potere del linguaggio e il linguaggio di cui si serve il potere affondassero le proprie radici nel fascino suscitato dall'eco del passato.


7. Andare all'infanzia

La presenza della morte non è fine a se stessa ed è piuttosto la parte discendente di un ciclo che prevede un ritorno: da essa sono inseparabili le idee della nascita, del futuro e della speranza che trovano nell'infanzia un'immagine privilegiata. Nelle Lettere a un giovane poeta il Natale, la festa, è luogo della continuità e fulcro della teologia poetica che lega morti e nuovi nati “nella speranza d'essere un giorno in Lui, al di là di ogni limite” (p. 68). “L'angoscia dinnanzi alla vita” provata in solitudine è il “pio sentimento” del bambino che vive ancora nel poeta. Sua specificità è negarsi alla quotidianità degli adulti: l'infanzia è luogo di mistero e di solitudine, in cui “andare con se stessi, e per delle ore non incontrare nessuno”: “essere soli come il bambino quando le persone grandi vanno e vengono, mescolate a cose che ad esso sembrano grandi e importanti [...] e il bambino non capisce niente di ciò che fanno” (p. 64). Se l'infanzia è “l'intimo del nostro proprio mondo”, l'età adulta è assenza di sentire e vedere, età di “preoccupazioni misere”, di “mestieri freddi” e “senza rapporto con la vita”: per questo il poeta, scrive Jesi nel 1968, è “sempre ‘il giovane poeta’”, la cui “perenne giovinezza” consiste “nel durare di lui presso l'ora di nascita” come condizione per “maturare verso la morte”. L' esperienza del mondo da parte del poeta richiede lo sguardo bambino che solo un rapporto con l'inconoscibile, il mistero non mediato da schemi concettuali e pratici, garantisce, affiché egli possa farsi “cosa tra le cose”, “strumento cieco e puro” e manifestare con il suo canto l'invisibile.

L'infanzia appare a Jesi come un luogo speciale per i suoi dolori, destinati ad alimentare il processo di scoperta e messa in chiaro di se stessi: ciò è tanto più significativo se si pensa che rimase orfano di padre in tenerissima età. Bruno Jesi, ufficiale di cavalleria, era morto nel 1943 ventiseienne a Torino, in seguito alle ferite riportate durante la guerra d'Africa, quando Furio aveva circa due anni. La madre Vanna e il nonno materno Percy Chirone, entrambi cultori di storia antica, erano stati punti di riferimento di una vita affettiva in cui la memoria sembra aver avuto un ruolo decisivo, al punto da far pensare che alla ricerca sul passato Jesi si accingesse non solo nella veste di studioso di storia delle religioni, ma anche in quella dolorosa di orfano.

Così Katabasis, una delle sue liriche de L'esilio:


Solo negli umili specchi

della casa dei vivi, il tuo viso

credo di trovare nel mio per

fuggevoli giorni.

Ma è solo un riflesso sull'acqua,

un fuoco

nell'alta notte.

Bambino,

molte volte ho ornato di fiori

la tua tomba. Là era per me

lo spazio tacito meridiano

dell'infanzia, il calore del grano.

Giocavo silenzioso

per non destarti dal sonno,

e neppure cercavo

la tua mano, di notte,

perché non bisognava svegliarti.


[...]


so pure

che se ti parlo non mi ascolti. E forse

giusta è la pietra e l'alta insegna.

Il viso tuo, che non guastino le piogge,

dura nella casa dei morti

ma non può sapermi.

A me soltanto

resta il riflesso nello specchio, il lume

chiaro della tua sosta.


Il tema dell'infanzia ha un'ampia risonanza in Jesi: Letteratura e mito è il libro di un orfano che si apre con una riflessione sull'immagine di Ruggero Pascoli, il padre barbaramente ucciso del poeta per eccellenza dei bambini e dei morti, e sull'indistinguibilità del padre e del figlio in fotografia, quasi questo “fosse stato trafitto nell'ora della morte del padre”: questo evento segna “nella vita del figlio il termine del ‘grande anno’, lo scadere del ciclo perennemente ripetuto, entro il quale il tempo del mito assorbe e consacra della storia”.

La condizione che predispone alla cognizione del dolore distingue il poeta e gli permette la conoscenza dell'inconoscibile ad altri preclusa: egli, Rilke come Pascoli, trasferendo “l'esperienza personale sul piano degli eventi cosmici” e denunciando “una devozione all'oscurità e alla morte che solitamente coincide con la percezione della fine di un ciclo”, parla a nome della condizione umana e della sua epoca. Il suo parlare è il “nominare ogni cosa con il suo preciso nome” che, esprimendo “la fiducia nella potenza lirica e magica del nome” ripete il gesto di Adamo che dà i nomi alle cose del mondo nella versione secolarizzata dell'appropriazione antropomorfica del mondo attraverso la parola. Il movente di questa ripetizione è il punto zero costituito della morte del padre, il “prototipo” di tutti i morti: per questo al poeta è data la possibilità di sentire “le voci dei morti che coincidono spesso con le voci della natura”.

In tal modo il poeta è simile al “fanciullo primordiale, il divino fanciullo dei miti delle origini, l'orfano abbandonato che vive la prima ora del mondo”, “Dioniso fanciullo che comanda alle fiere e alle potenze della metamorfosi, ma può essere insidiato dai titani”: nella sua figura “si fondono l'esperienza dei terrori dell'uomo solo nel mondo primordiale e la fiducia in una fatale ripetizione: fiducia nella salvezza garantita dall'essere l'orfano una ripetizione del padre e dal perenne ritornare del tempo”. In questo passaggio Jesi sottolinea mediante riferimenti a Rilke nella X Elegia (ma anche al Pound dei Cantos, l'Eliot di The Waste Land, l'Euripide delle Baccanti) la “gioia del fanciullo primordiale, dell'orfano”, in nome di una “forza misteriosa”, di un'“oscura benevolenza che la natura gli mostra nell'ora stessa in cui gli mostra il suo volto minaccioso”: tale “radice di gioia” che scaturisce dall'esperienza di dolore è anche “potenza del fanciullo quale arbitro di metamorfosi”. L'orfano divino è qui immagine archetipica, secondo il magistero kereniano, che affiora “nella grandi svolte della storia della cultura”, nelle epoche di crisi e di passaggio, laddove si fa sentire “il finire di un ciclo”: “ad essa sembra che l'animo umano affidi ciecamente le sue speranze”.


8. When the Rain comes down

Le metafore poetiche della vita vegetale e l'alchemica idea-forza della dissoluzione non sono le sole che Rilke abbia utilizzato con continuità: il ciclo della acqua, insieme al sonno, è una delle “immagini che illustrano a livello simbolico la circolarità dell'operazione artistica nella poetologia rilkiana”. “Il ciclo dell'acqua, che evapora dalla terra, sale in cielo, e di là ricade sulla terra come pioggia, per poi evaporare nuovamente verso l'alto” è un tema la cui ricorrenza copre un arco testuale ventennale, dal saggio Von der Landschaft del 1902 (che ripercorreva le esperienze di un viaggio italiano) alla lettera a Ilse Jahr del 22 febbraio 1923, spesso citata per le tonalità orfiche.

Nel Malte, il cui nucleo pulsante è il rapporto con il tempo, l'idea della pioggia è associata alla scrittura; consapevole del suo fallimento come poeta perché l'apprendistato, l'‘imparare a vedere’, non è giunto al termine, il protagonista afferma:


verrà il giorno in cui la mia mano sarà lontana da me, e quando le ordinerò di scrivere, scriverà parole che non volevo. Spunterà il tempo della spiegazione altra, e non resterà più una parola sull'altra, e ogni senso si dissolverà come le nuvole e ricadrà come acqua.


La pioggia, precipitazione involontaria delle esperienze 'evaporate' nell'esistenza, è la poesia realizzata, il prodotto dell'“essere afferrati” e condotti verso destinazioni sconosciute in quanto “strumento cieco e puro” dell'inconoscibile. In continuità con questa la lettura è stato messo in luce come nel Malte trovi spazio “il tema della metempsicosi, vista soprattutto come ideale cifra risolutiva ed equilibratrice dell'ossessiva immagine rilkiana della circolarità dell'intera esistenza. [...] Ha funzione omologa il ciclo dell'acqua, elemento che pur unendo terra e cielo in uno scambio continuo si sottrae al possesso dell'una e dell'altra. La metempsicosi significherebbe scambio tra visibile e invisibile, con un moto eternamente circolare che determina arricchimento continuo per entrambi [...]”.

La trasfigurazione poetica della legge cosmica del generare è visibile nello sviluppo della stessa poetica rilkiana scandita attraverso il tempo: la vicenda di Malte descrive solo una parte del ciclo, l'evaporazione che non è stata ancora in grado di ricadere a terra poiché il poeta non è ancora tale, non avendo concluso l'apprendistato. Solo con il compimento delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo la chiusura si realizza in modo tale da permettere a Rilke di riconoscersi poeta, capace di compiere in se stesso il ciclo perché l'esperienza del dolore ha trovato la via del ricadere in poesia. Ad attestare questa lettura la presenza dei morti come elementi del ciclo vegetale e dell'acqua. Dai Sonetti I, XIV, ai vv. 1-8:


Noi viviamo fra i tralci, frutti, fiori.

Non parlano soltanto il linguaggio dell'anno.

Dal buio emergono, forme variopinte, e splende forse in loro la gelosia dei morti

che danno nuovo vigore alla terra.

E chi sa quanta parte vi hanno i morti?

Da gran tempo hanno l'arte di impregnare,

sciogliendovi il loro midollo, il suolo.


Ancora, nella traduzione di Jesi, i celebri e conclusivi versi 106-113 della X Elegia;


Ma se gli infinitamente morti in noi destano un simbolo,

vedi, essi accennano forse agli amenti del vuoto

nocciòlo, che pendono, o

indicano la pioggia, che cade sull'oscuro regno terrestre in primavera.-

E noi, che ad una felicità saliente

pensiamo, proveremmo la commozione,

che quasi ci abbatte,

se una cosa felice cade.


Il tempo del poeta è segreto e scandito dall'interiorità del rapporto con i morti: realizzando il ciclo dell'acqua, colma di senso sempre nuovo la condizione umana, grazie all'attività più elevata, quella dello scrittore, che attua la continuazione ideale della Creazione. Così la IV Elegia, vv. 58-61, dove l'angelo, figura dell'ideale e di tutto ciò che l'uomo non è, compare a muovere le marionette e a dare vita allo spettacolo, simile al poeta che creando può rianimare il “palcoscenico desolato del cuore umano”:


Allora ecco si aduna, quel che sempre,

esistendo disgiungiamo – Allora, solo allora

dalle nostre stagioni si compone il cerchio

della piena evoluzione.


9. La colpa di Rilke

Per Jesi il nesso tra morte e rinascita ha un significato che coinvolge anche la dimensione della cultura e della società, di cui le teorie filosofiche ed estetiche sono il riflesso e il prodotto al tempo stesso. Esperienza arcaica dell'essere umano, l'orfanismo è anche “esperienza dell'uomo moderno, che sa di non poter più confidare del padre nei cieli” dopo l'annuncio della “morte di Dio” e che quindi affida al proprio potenziale creativo e autoaffermativo, che nella poesia ha un suo paradigma, la speranza di rinascita.

La morte che compare qui non è quella mitizzata, la cui politicizzazione avrebbe fatto la fortuna del fascismo europeo, funzionando da metafora operativa per la rivitalizzazione degli organismi di ispirazione nazionalista nella crisi otto-novecentesca, ma è piuttosto la morte come scomparsa delle persone amate, sanzione della finitezza e sua trasfigurazione in teologia poetica.

Questa l'idea con cui Jesi in Germania segreta (1967), “ricerca sugli aspetti demonici dei rapporti tra mito e artista nella cultura tedesca del '900”, poteva salvare Rilke dall'accusa di aver preparato il terreno ideologico alla dittatura nazionalsocialista, che non risparmia altri scrittori e intellettuali. Già nel 1941 un acuto osservatore come Giaime Pintor aveva scritto di Rilke: “la sua opera così vasta e diffusa induce presto all'equivoco chi vi cerchi una breve consolazione; e sotto le sue bandiere militano soldati di ogni fede, dai mistici della reazione letteraria ai teorici del verbo astratto”. Infatti non mancarono tentativi di leggere Rilke persino in chiave nazista, arruolando le Elegie nei testi sensibili al clima dei “nuovi tempi”, in base a “interpretazioni per via simpatetica da parte di chi accettava il nazismo come fatalità orrida e ineluttabile, ma anche di chi aderiva al nazismo pienamente”.

Mentre tanta parte della cultura borghese della Germania guglielmina e weimariana si è rivelata tanatofila e assetata di origine, guardando al passato e tecnicizzando il mito germanico con gli strumenti della comunicazione di massa per servire gli interessi del presente, Rilke flirta con le tenebre ma non è colpevole di commercio con esse. In lui una “nozione della morte profondamente umana” come “vincolo che lega i morti ai viventi come norma del cosmo” è accompagnata dalla “meravigliosa facoltà di restare umano, di soffrire umanamente” che costituisce l'essenza delle Elegie Duinesi. Nella X Elegia “dolenti immagini di donne, le Lamentazioni, accompagnano il giovane morto ai piedi dei monti del ‘dolore primo’ la dove sgorga la ‘fonte di gioia’. Il dolore umano e non più l'orrore umano segna l'accesso all'esperienza della morte, che è ‘un'altra faccia’ della vita, ma non il suo contrapposto terrifico. [...] La morte è l'esperienza di un invisibile che completa il visibile della vita quotidiana così come le due metà simmetriche di un frutto si completano e consentono l'esperienza dell'unità”.

Rilke esprime la frattura che si è aperta, con la cultura moderna, nel rapporto con il passato e cerca la via “personale” e “solitaria” che l'avrebbe sanata. La sua religio mortis dalla tonalità larica sembra voler recuperare attraverso la poesia il 'classico' incontro con i morti, che avveniva nel segno comunitario del mito e della spontanea costruzione di identità e memoria alla luce di un presente che ritrovava le sue radici nel passato, come antidoto privato alla perdita di senso che la cultura borghese avverte nella modernità. Con l'età moderna nella letteratura quel rapporto si era tinto di inquietudine configurando i defunti come revenants, perdendo ogni malinconica serenità ed entrando nello spazio privato del dolore insuperabile, nel segno della perdita di un rapporto di continuità con il passato e con la natura.

In una lettera di Rilke del 1925 scrive:


Ancora per i padri dei nostri padri era una ‘casa’, una ‘fontana’, una torre conosciuta, persino la propria veste, il loro mantello, infinitamente più, infinitamente più familiare; quasi ogni cosa un vaso, in cui essi già trovavano l'umano e accumulavano ancora altro umano. Ora incalzano dall'America vuote cose indifferenti, apparenza di cose, parvenze della vita. Una casa, nel senso americano, una mela americana o una vita di là non ha nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo, in cui era penetrata la speranza e la meditazione dei nostri avi. Le cose animate, vissute, consapevoli di noi, declinano e non posso essere più sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiano conosciuto tali cose. Su di noi pesa la responsabilità di conservare non solo il loro ricordo (sarebbe poco e infido) ma il loro valore umano e larico.


Certamente Rilke fu antimoderno, aristocratico e passatista, “politicamente vacuo” e incline a una certa “qualità reazionaria nei rapporti con la società”, in ciò conforme alla posizione delle élites europee di fine secolo che si sentivano assediate dalle masse. Se è vero che il suo dettato poetico ripropone nostalgicamente il modo antico di guardare al passato, solo la sua forma superficiale e triviale finisce per confluire nella politica della destra conservatrice che si rifugiava nella Kultur per rianimare l'epoca morente.

Mentre l'orrore nasce dalla conoscenza imperfetta degli adulti non poeti, il poeta-orfano è capace di intendere rettamente la voce dei morti-antenati, grazie alla custodia dei documenti visibili di ciò che sparisce: giunto al termine dell'apprendistato sa che la morte è il completamento della vita ed è pronto per cantare un mito 'autentico', memoria custodita come promessa per il futuro. Egli ha compreso che “dove noi vediamo una cesura, la natura intende legame e ritorno”.


10. Spazio della memoria e spazio letterario

Il poeta è il fanciullo orfano che, concluso il proprio apprendistato e divenuto “cosa tra le cose”, ode le voci dei morti ed è consapevole della chiusura del ciclo di rinnovamento, può restituirne l'eco e cantarle come attesta la già citata X Elegia, vv. 96-99:


Pure il morto deve andare,

e muta guida lui la più vecchia

Lamentazione fino alla gola dove brilla nel lume di luna:

la fonte di gioia.


Dopo un lungo e doloroso errare la kore ha concesso finalmente al poeta di contemplare il suo volto” e di realizzare un mito ancora vitale: è nell'opera poetica, completa e finita come consapevole lavoro dell'autore prodotto dalla coscienza e della volontà, che si realizza la cosa più simile a un rapporto con il divino, ovvero la creazione di qualcosa valido per la collettività.

Rilke riconosce di essere giunto al punto più alto del suo itinerario artistico; a Lou Andreas Salomé aveva scritto l'11 febbraio 1922, giorno della definitiva chiusura dell'opera: “Ora io mi riconosco. Era come una mutilazione del mio cuore che le Elegie non esistessero”. Anche i versi che egli stesso scrisse per la propria lapide tombale attesterebbero la convinzione di aver attuato in sé il progetto estetico-religioso che appare fin dalle Lettere a un giovane poeta. Nel saggio La misura e la grazia Jesi mette in luce come in Rilke “la dottrina del poeta come strumento di forze che lo trascendono” coincida con “l'abbandono della religione cristiana”, legato alla durezza della propria educazione, e con la sua sostituzione con “l'esperienza di una religione del Dio oscuro che era anche espansione libera dell'animo su vie sconosciute”. Il dolore che rende possibile per alcuni trovare la strada dell'espressione poetica è il dolore oggetto della lettera del 22 febbraio 1923 a Ilse Jahr: “l'abisso tra noi e Dio – egli scrive- ‘è pieno del buio di Dio, e quando qualcuno lo prova, discenda egli e ululi in quel baratro (è più necessario questo che valicarlo)’”. Con l'esperienza della finitezza Rilke si è fatto “scolaro della morte” ed è maturato in silenzio e in solitudine: “la pur tragica visione di coloro che stanno nel fondo dell'abisso colmo del buio di Dio è simbolo di una interazione tra uomo e Dio che si estrinseca nella loro reciproca anonimità”. In tal modo si perviene alla concezione del Dio rilkiano “entità continuamente duplice: da un lato, un'entità alla cui forza illimitata è accaduto di essere incatenata nella creazione, d'altro lato un'entità che gli uomini possono liberare dalla sua prigione nella creazione solo se riusciranno a conferirle interezza, a costruirla, a completarla”. L'artista ha un ruolo determinante nella “creazione di Dio da parte degli uomini”, come si legge nel commento di Rilke alla Nascita della tragedia di Nietzsche:


La musica (il ritmo) è la libera sovrabbondanza di Dio che non si è ancora esaurita nelle parvenze, e in essa gli artisti si cimentano per indefinito impulso a completare ulteriormente il mondo in quel senso nel quale tale energia avrebbe agito se avesse ancora prodotto, e ad addurre immagini delle realtà che da essa sarebbero ancora uscite.


L'esperienza del dolore come condizione sommamente creativa è attestata da altri passi rilkiani. Il secondo dei Requiem (1909) era dedicato al conte Wolf von Kalckreuth, suicida a diciannove anni: un caso di “morte immatura” che risente di un duplice errore. Il giovane non ha saputo aspettare i segni della faticosa maturazione che lo avrebbe portato alla gioia e si è limitato a sentire “solo il vuoto, anziché colmarlo di sé e mutarsi – era poeta – nelle sue stesse parole, come lo scalpellino della cattedrale si muta nella pietra indifferente di chi la lavora”. In tal modo il lavoro che l'essere poeta comporta assume una funzione di redenzione e di salvezza perché consente di consente di “chiudere la musica, colmare il vuoto”: se artista è colui che “non rifiuta il destino, ma anzi, lavorando, lo accetta nel suo divenire pietra che è il divenire dell'artista stesso pietra e l'acquisizione di eternità da parte del soggetto”, la familiarità di Rilke con il dolore e la perdita preludono alla possibilità di una forma di vita eterna. Il dove avvenga ideale riconciliazione con l'aldilà, è il luogo in cui l'individuale esperienza della perdita si salda con la sua trasfigurazione poetica: lo spazio dell'interiorità in cui risiedono memoria e immaginazione.

Scrive Rilke nella lettera a Nora Purtscher-Wydenbruck dell'11 agosto 1924:


Per quanto esteso sia il ‘di fuori’, esso con tutte le sue distanze stellari comporta appena un paragone con le dimensioni, con la dimensione in profondità del nostro interno, e che non ha bisogno della vastità dell'universo per essere in sé quasi incommensurabile. Se dunque esseri morti e futuri hanno bisogno di una dimora, quale rifugio potrebbe essere loro più accetto e offerto che questo spazio immaginario?


e a Witold von Hulewicz, il 13 novembre 1925:


Essi [i Sonette an Orpheus, n.d.a.] hanno, com'è inevitabile, la stessa nascita delle Elegie, e che sorgessero d'improvviso, senza mia volontà, in connessione con la morte precoce di una fanciulla, li rimanda ancora di più alla fonte della loro origine; questa connessione è un rapporto di più verso il centro di quel regno, la cui profondità e influenza noi dovunque indelimitati dividiamo con i morti e con i futuri.


In questa dimensione l'artista si annulla nella sua creazione, lasciando fluire da sé ciò che nasce dall'assenza e dal dolore, i resti visibili cristallizzati dalla scrittura. In un passo del romanzo postumo di Jesi il personaggio del Grande poeta parla così, a proposito della mancanza dell'amata:


E fra noi vi fu una mortale identità, poiché non potendo costringerla ad amarmi, io usai della mia arte, che nasceva in me per distruggermi ed averla così. Giunsi a distruggermi; e quando tutto il mio io fu aperto, quando perse la sua forma per divenire puro aperto, allora sentii di fissare in volto qualcosa che non era più lei, die Geliebte, ma un'effigie mortale che mi tirava a sé, bella, in cui calavo, non ero. [...] Allora fra di noi fu il buio. E da allora il volto non mi ha lasciato. Sempre bello, sempre mortale, esso è ancora oggi dinanzi a me. Sempre in lui mi distruggo.


11. Narrazione e utopia.

Fin dall'inizio Jesi ha percorso direzioni di ricerca accomunate dalla riflessione sulla morte, reale e simbolica, e sul rapporto che gli uomini nel tempo hanno con essa: la scomparsa di qualcuno e qualcosa come esperienza individuale e collettiva è imparentata con il modo teoretico di rivolgersi al passato, la cui esistenza è sempre mediata da istanze che hanno a che fare con il presente e pensata nella stessa regione in cui sorge l'immaginazione, individuale, sociale e quindi letteraria, che contribuisce alla costruzione di una memoria culturale, sempre ricostruttiva e necessariamente retrospettiva.

La cultura occidentale ha visto l'Egitto come il paese dei morti e lo stesso Rilke ha individuato in esso “un repertorio di immagini antiche, segnate dalla morte, usufruibili come simboli di una vicenda che deve essere intrinseca alla storia intima di ognuno”. Il suo “paese delle Lamentazioni” è una “terra di morte soprattutto perché è simbolo del passato”: ed è proprio questo, scrive Jesi in Rilke e l'Egitto (saggio del 1964 per la rivista “Aegyptus”), la “vera terra di morte [...], quella parte dell'esistenza che è già passata nell'invisibile” e di cui solo la memoria permette la persistenza.

“La morte come spazio interiore è un sotterraneo scavato all'interno della vita di ciascuno e popolato di figure più vere di quelle comprese entro lo spazio storico”: la durata degli oggetti del ricordo cristallizzati in immagini materiali e mitologiche può dare significatività al presente garantendo una continuità con il passato e con la ciclicità del divenire. Sono tali oggetti i “materiali mitologici” che possono essere usati tanto come strumento in difesa dell'umanità quanto contro di essa nella tecnicizzazione esercitata dalla Gewalt, la violenza istituzionalizzata. Solo la consapevole distanza della dislocazione storica, il passato, e il rifiuto di ipostatizzare la presenza dell'oggetto del ricordo, il mito, permettono di evitare il richiamo alla mitologia come fondamento di ogni irrazionalismo.

La teoria jesiana appare così una delle voci autorevoli del dibattito tardo-novecentesco sul mito, in cui si ravvisa la consapevolezza della “contrapposizione romantica e degli interpreti del romanticismo tra Urmythologie (mitologia originaria) e Dichtermythologie (mitologia poetica), tra rivalutazione del mito, in quanto sostanza dell’essere e del suo inveramento nella storia, e mitologie della ragione che, partendo invece dal presupposto estetico di una riscrittura poetologica delle più diverse fabulae mitologiche, tendevano a riattivarne tutto il potenziale euristico [...] o la valenza comunicativo-sociale [...]”. La mitologia poetica, “utopia estetica che non s’interroga più sulle origini ma sulla funzione del discorso mitico nel sociale” contrariamente a quella originaria, svolge quindi un ruolo razionale, seppure in forma altra rispetto alla ragione illuministica, perché costituisce invece proprio “il momento di legittimazione pragmatico-sociale dell’utopicum tout-court”.

Lungi dall'essere uno sguardo su un presunto e inattingibile extra-umano, l'indagine su di essa permette di individuare il legame con la morte nei suoi aspetti di riflessione, in quanto considerazione del limite che si ferma al bordo esterno dell'oggetto della ricerca, in modo continuamente differito rispetto all'irraggiungibile centro. Riferimento costante di Jesi è il pensiero di Benjamin, secondo cui l'“immagine stessa della vita è data dal riconoscimento dell'incessante azione della morte su ogni momento della fisicità”. Nel saggio Il narratore il critico berlinese scriveva: “il pensiero dell'eternità ha sempre avuto la sua fonte essenziale nella morte”; “non solo il sapere dell'uomo o la saggezza dell'uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente”. “La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie”.

Avere a che fare con la morte è entrare nello sconcertante territorio dell'assenza, capace di disarticolare i nessi di significato che legano le cose tra di loro. Per questo la mitologia, come surplus di significato che viene dalla narrazione, in Jesi appartiene prima di tutto alla memoria, e contro l'esperienza della scomparsa nell'invisibile costituisce un argine:


La mitologia è il cerchio contro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché intorno ad essa preme la morte. La seppia-uomo schizza il suo inchiostro di miti contro l'acqua che la circonda e con cui si identifica il nemico incognito; ma solo la densità e la pressione dell'acqua fanno assumere le sue forme preziose e difensive all'inchiostro che vi fluisce.


La riflessione ermeneutica nei lavori di Jesi muove dal riconoscimento del ruolo della finitezza e della situazionalità dell'esistenza: “articolare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘come propriamente è stato’” ma “impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo”, ovvero riconoscere che la significatività è il criterio del rapporto con la storia, che è sempre 'nostra' nel momento in cui il ricordo è vitale, urgente e attuale. Il saggio è la forma che meglio condensa l'intenzione di esorcizzare il rischio della monopolizzazione della memoria da parte del sapere dominante, proprio perché modo personale organizzare la realtà a partire dall'incedere del discorso. Jesi riteneva “inutile, inopportuno e vacuo studiare un testo poetico senza adoperarlo”, leggendo il magistero benjaminiano nel senso di usare i testi per capire il presente e per evitare di essere travolti da esso: esercitando la continuità di tipo semiotico tra un testo e la realtà sociale nel suo momento della sua ricezione, il saggista “riesce a fare della propria pagina lo spazio tristemente privilegiato entro il quale il passato diviene nella sua 'cosità', versione interlineare del presente”.


Impadronirci del ricordo vuol dire, infatti, conquistare il passato come profezia del futuro, e di un futuro non prevedibile in base a passato. (Questa profezia del futuro è quella dell'utopia). [...] Possiamo conoscere il passato come profezia di un futuro diverso, solo perché il futuro diverso è in noi: l'utopia è in noi, e il ‘balenare del ricordo’ che determina la sua epifania è un fattore maieutico.


Così, non l'ossessione del passato ma la prefigurazione del futuro come critica del presente è la dimensione che ogni umanesimo vuole servire: perché – come insisteva Hans Castorp ne La montagna incantata – “quando ci si interessa alla vita, ci si interessa specialmente alla morte. Non è così”?



Note

1 D. BIDUSSA, Il vissuto mitologico, postfazione a F. JESI, Germania segreta , Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 203-230, p. 206. La notazione completa delle opere di Jesi citate è in Bibliografia.

2 F. JESI, Mito, pp. 8-9 e ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, pp. 36-37; per la ‘riscoperta’ di Benjamin si veda G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura , Sellerio, Palermo, 1980, in particolare p. 11 e p. 35; per un inquadramento di Jesi nella stagione culturale italiana: M. BELPOLITI, Settanta , Einaudi, Torino, 2001, pp. 92-99, 285- 287.

3 Per l'opera completa di Jesi si veda la Bibliografia redatta da Giulio Schiavoni in Risalire il Nilo. Mito fiaba allegoria (a cura di F. MASINI e G. SCHIAVONI), Sellerio, Palermo, 1983 e l'aggiornamento al 2007 di Riccardo Ferrari in Saggio e romanzo in Furio Jesi , Tesi di dottorato in Scienze dell'Antichità e Filologico letterarie dell'Università di Genova, XIX ciclo. A entrambi, fonti biografiche e critiche indispensabili, per la disponibilità e per la consultazione di materiali vanno i miei ringraziamenti.

Un ringraziamento speciale va alla famiglia Jesi, nelle persone di Marta Rossi Jesi e Vanna Chirone Wick, per l'interesse e la partecipazione con la quale è stata accolta la mia ricerca .

4 La recente pubblicazione postuma di molti materiali, oltre alla riedizione di diversi titoli, è avvenuta sulla base del lavoro nell'archivio della famiglia Jesi svolto da Andrea Cavalletti, che ringrazio per i consigli e le indicazioni. Di seguito alcuni tributi a Jesi, oltre al già citato Risalire il Nilo: “L’indice dei libri del mese”, n. 4, Torino, aprile 1987; “Immediati dintorni. Un anno di psicologia analitica”, Lubrina, Bergamo, 1989; “Cultura tedesca”, n. 12, Donzelli, Roma, dicembre 1999.

5 Si veda A. CAVALLETTI, La maniera compositiva di Furio Jesi e ID. Il “romanzo” di Furio Jesi , rispettivamente in F. JESI, Materiali mitologici , 2001, pp. 359-376 e in ID., Letteratura e mito, 2002, pp. 245-261.

6 La copia originale del testo è in possesso del professor Sergio Givone, che ringrazio per l'attenzione accordatami: i passi inediti sono stati presentati durante la sua lectio magistralis dal titolo Furio Jesi, tenutasi a Roma il 12 maggio 2007 all'interno del Festival di Filosofia, di cui è disponibile la versione audio (podcast) all'indirizzo web http://www.auditorium.com/dwnld/podcast/4898264/audio.mp3 .

7 Risalgono a quel periodo: Notes sur l’édit dionysiaque de Ptolémée IV Philopator , in “Journal of Near Eastern Studies”, vol. XV, n. 4, 1956, U.S.A., pp. 236-240; (insieme a Vanna Chirone), Racconti e leggende dell’antica Roma, S.A.I.E., Torino, 1956; Elementi africani delle civiltà di Nagada , in “Aegyptus”, anno XXXVII, fasc. II, Milano, lugliodicembre 1957, pp. 219-225; La ceramica egizia dalle origini al termine dell’età tinita ; prefazione di Boris de Rachewiltz, S.A.I.E., Torino, 1958; Le connessioni archetipiche , in “Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria”, vol. I, ed. S.A.I.E., Torino, 1958, pp. 35-44; Rapport sur les recherches relatives à quelques figurations du sacrifice

humain dans l’Égypte pharaonique , in “Journal of Near Eastern Studies”, vol. XVII, n. 3, July 1958, U.S.A., pp. 194- 203; Bès initiateur. Élements d’institutions préhistoriques dans le culte et dans la magie de l’ancienne Égypte, (presentato al V Internationaler Kongress für Vor - und Frühgeschichte, Hamburg, agosto 1958), in “Aegyptus”, anno XXXVIII, fasc. III-IV, Milano, luglio-dicembre 1958, pp. 171-183; Studi cosmogonici, in “Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria”, A.I.E.P., vol. I, Torino, 1958, pp. 45-56 (presentato al XXIV Internationaler Orientalisten- Kongress, München, agosto 1957). Nel 1960 Jesi si sarebbe sposato con Marta Rossi, dalla quale avrebbe avuto i due figli Stefano (1961) e Sofia (1964); nel 1961 avrebbe iniziato a lavorare presso la Utet.

8 Nel 1960, durante il soggiorno di nozze in Grecia, è stata scritta La casa incantata , fiaba pubblicata postuma con illustrazioni di Emanuele Luzzati (Vallardi-Garzanti, Milano, 1982; ripubblicata con illustrazioni di Franco Matticchio, Mondadori, Milano, 2000); nel 1962 Jesi avrebbe iniziato la stesura del romanzo L'ultima notte, pubblicato postumo (Marietti, Genova, 1987); del 1970 è L'esilio, raccolta di poesie (De Silva, Roma). Presso l'Archivio di famiglia sono inoltre custoditi testi letterari inediti a diversi livelli di stesura. Per la personalità creativa di Jesi si veda Faraqát. Quaderni di storia e antropologia delle immagini, n.1, La casa Usher, Firenze, 1991, catalogo della mostra Furio Jesi: scritture creative (Ferrara, 10 maggio-23 giugno 1991), a cura del Centro etnografico ferrarese, durante la quale furono esposti anche quadri e gioielli dipinti e disegnati da Jesi.

9 F. JESI e K. KERÉNYI, Demone e mito. Carteggio 1964-1968, (a cura di M. Kerényi e A. Cavalletti), Quodlibet, Macerata, 1999. Per il loro articolato rapporto si veda la postfazione di A. CAVALLETTI, Demone e immagine, oltre che i primi tre saggi di Jesi in Materiali mitologici (I pensieri segreti del mitologo, L’esperienza dell’isola, Il «mito dell’uomo») pp. 3-80.

10 F. JESI, Rilke, p. 39.

11 Sull'importanza delle lettere e sull'epistolario si veda F. JESI, Rilke, pp. 36-37 e p. 118, e ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, pp. 113-114.

12 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 114.

13 Ivi, p. 183.

14 F. JESI, Rilke, p. 93

15 F. JESI, Letteratura e mito , p. 80; per la metafora vegetale e le sue trasformazioni nel tempo: ID., Rilke, p. 39.

16 F. JESI, Letteratura e mito , p. 81; sul “maturare”: ID, Rilke, p. 36.

17 F. JESI, Le postille di Rilke a Die Geburt der Tragödie di Nietzsche, in ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 131

18 F. JESI, Rilke, p. 10 e p. 20.

19 Ivi, p. 35; la lettera del 1915 in cui Rilke formula l'immagine dell'angelo accecato è citata anche in ID., Letteratura e mito, p. 99.

20 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 46, n.1: Jesi cita la lettera di Rilke a N. Purtscher-Wydenbruck del 11 VIII 1924.

21 F. JESI, Rilke, p. 8.

22 F. JESI, Letteratura e mito, p. 98. Preoccupazione costante di trasformare il visibile in invisibile e non essere il tramite con cui l'invisibile si manifesta nel visibile: è questo il nodo centrale della critica jesiana alla nota lettura di Rilke proposta da Heidegger. La coincidenza perfetta tra canto del poeta e voce dell'essere, “ottimismo del possesso” inquanto “essere posseduti”, si configura come una mistica antiumanista che esclude l'uomo dal colloquio dell'essere con se stesso. Si veda per questo: ID., Rilke, pp. 8-9, p. 49, p. 123; ID., Esoterismo e linguaggio religioso , pp. 33-34, pp. 167 sg.

23 R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, trad. it. di F. Jesi, Garzanti, Milano, 1974 (rist. 2000), p. 14.

24 Le citazioni fanno riferimento alla copia di Jesi già citata, le cui pagine saranno d'ora in poi indicate tra parentesi.

25 Questo l'assunto di partenza dell'intervento di Sergio Givone (cfr. nota 6), che proseguiva mettendo in connessione il passo inedito con il saggio jesiano Inattualità di Dioniso, in ID., Materiali mitologici, per proporre una lettura complessiva del pensiero di Jesi sul mito. Per la ripresa di questa suggestione si veda oltre (§ 6).

26 Il testo delle annotazioni ricalca in alcuni punti quello di una pagina manoscritta di Jesi datata 10 febbraio 1961 e riportata in A. CAVALLETTI, Il metodo della scrittura indiretta , in F. JESI, Kierkegaard , pp. 216 sg.: “Quando invece si muore tanto nella persona amata che nelle parole magiche (quando, cioè, si fa dell'arte) diviene immortale unicamente la persona amata e non l'amante, l'artista. Ciò accade perché l'artista – per poter usare delle parole magiche – vende al demoniaco la propria possibilità di divenire immortale, accetta di morire definitivamente, senza rinascita, quando sarà venuta la sua ora”.

27 Per la lettura alchemica della poetica di Rilke: F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 70; ID., Introduzione a

R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge , cit., p. XIX e n.1, p. 19.

28 F. JESI, Rilke, p. 21.

29 A. DESTRO, Note, a R.M. RILKE, Elegie Duinesi, trad. it. di E. e I. De Portu, Einaudi, Torino, 1978, p. 83.

30 F. JESI, Rilke, p. 21. Il Libro d'ore è citato da R. PAOLI, Poesia tedesca da Nietzsche all'Espressionismo , Guanda,

Parma, 1954.

31 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 73.

32 R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge , cit., p. 3

33 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 68; qui Jesi cita la lettera di Rilke a W. von Hulewicz del 10 XI 1925.

34 Ivi, p. 78.

35 Ivi, p. 68; è ancora la lettera del 10 XI 1925

36 Ivi, p. 74, n. 88, e la nostra n. 27.

37 F. JESI, Letteratura e mito , p. 103. Lettera a M. von Hattinberg.

38 Ivi, p. 105.

39 H. G. GADAMER, Mythopoietische Umkehrung in Rilkes “Duineser Elegien” , in ID., Kleine Schriften II, Mohr, Tübingen, 1967, pp. 194-209. Per queste considerazioni: A. LAVAGETTO, Commento in R. M. RILKE, Poesie 1907-1926,

Einaudi, Torino, 2000, p. 642; L. MITTNER, La letteratura tedesca del Novecento , Einaudi, Torino, 1960-1975, p. 206.

40 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 88 e p. 89, n. 135: Jesi cita R. M. RILKE, Singolare evento, in Del poeta

(a cura di N. Saito), Einaudi, Torino, 1948-1955.

41 R. M. RILKE, Elegie Duinesi, cit., p. 7.

42 Il passo è citato e tradotto in F. JESI, Rilke, p. 97.

43 A. DESTRO, Note alle Elegie Duinesi, cit., p. 83.

44 Una poesia di Rilke, risalente al 1895, è intitolata Larenopfer, 'Sacrificio ai Lari' (in R. M. RILKE, Poesie I, 1895-1908,

Einaudi Gallimard, Torino - Parigi, 1997).

45 F. FEDELE, Religioni della preistoria, in Storia delle religioni, vol. 1. Le religioni antiche (a cura di G. FILORAMO),

Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 39.

46 F. JESI, La civilisation glozélienne, in “Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria”, vol. III, ed. S.A.I.E.,

Torino, 1962, pp. 73-90, in particolare pp. 77-79.

47 L’argomento, citato in La civilisation glozélienne, è diffusamente trattato in: S. GIEDION, L'eterno presente. Uno studio sulla costanza e sul mutamento: vol. 1. Le origini dell’arte , trad. it di F. Jesi, Feltrinelli, Milano, 1965, pp. 91 ss; vol. 2.

Le origini dell’architettura , trad. it. di G. Bernasconi, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 7-9: il “desiderio di una vita più lunga, di una sopravvivenza dopo la morte” è “inestinguibile e universale”; nel caso degli egizi “la morte non significava fine, ma era piuttosto trasposizione nel ciclo cosmico dell'eterno rinnovarsi della vita”. Per analoghe considerazioni si veda: J. ASSMANN, La morte come tema culturale, trad. it di U. Gandini, Einaudi, Torino, 2002, pp. 5-6.

La continuità oltre i limiti della vita è un fattore che, come tutta la cultura, “scaturisce dalla consapevolezza della morte e dell’essere mortali”: i “fantasmi dell'immortalità” sono il bisogno da cui prende origine l'“operare culturalmente rilevante – l'arte, la scienza, la filosofia, la beneficenza”.

48 G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura , Einaudi 1996, p. 3.

49 Si veda per questi temi: A. ASSMANN, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. di S. Paparelli, Il Mulino, Bologna, 2002.

50 R. LUPERINI, Fra antico e moderno: l’incontro con i morti, testo dell'intervento tenuto al Convegno Memoria e Oblio: le Scritture del Tempo, Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura, Cavallino (LE), 24 -

26 ottobre 2007. http://luperini.palumboeditore.it:8080/luperini_site/articoli_web/ incontro morti/view

51 F. JESI, La civilisation glozélienne, cit., p. 79 (trad. nostra); cfr. ID., Spartakus , p. 85: “nell’istante della commozione” vi è “un presente eterno anche nel senso della specie, oltre che dell’individuo, come già intese Rilke nelle Elegie di Duino”.

52 Cfr. la nostra n. 6.

53 Originariamente Prefazione all'edizione italiana di H. JEANMAIRE, Dioniso, trad. it. di G. Glässer, Einaudi, Torino,

1972, ora in F. JESI, Materiali mitologici , pp. 121-140.

54 Ivi, p. 126.

55 Ivi, p. 127. Non passi inosservata la vicinanza di quest'idea con le parole di Malte a proposito dei ricordi dimenticati e ritrovati, che “divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi”, cfr. n. 23.

56 Ivi, p. 127.

57 Ivi, p. 128.

58 L'espressione è di Louis Gernet, citata in J. P. VERNANT, Mito e religione in Grecia antica, trad. it. di R. Di Donato,

Donzelli, Roma, 2003, pp. 62 sg.; Jesi si richiama a Gernet: l'alterità a cui fa riferimento, in opposizione alla permanenza delle idee platoniche, è quella dell'esperienza del tempo (Materiali mitologici , p. 130).

59 Ivi, p. 130.

60 Ivi, p. 129.

61 W. WELSCH, L'antropologia oggi , in Pensare l'attualità, cambiare il mondo. Confronto con Gianni Vattimo (a cura di . CHIURAZZI), Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 34.

62 F. JESI, Materiali mitologici , p. 139.

63 PLAT. Resp. 392 a; così in F. JESI, Mito, p. 14.

64 F. JESI, Letteratura e mito , p. 57.

65 Per questo tema si veda principalmente: F. JESI, Mito, pp. 105 sg.; ID., Materiali mitologici, p. 81 - 120; pp. 174-182;

p. 335-356 (si tratta dei saggi La festa e la macchina mitologica, Gastronomia mitologica. Come adoperare in cucina l'animale di un bestiario, e dell’Appendice ).

66 F. JESI, Mito, pp. 15-21. Per analoghe considerazioni: C. GINZBURG, Mito. Distanza e menzogna, in Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 40-81; M. BETTINI, Il mito tra autorità e discredito, in “L'immagine riflessa”, 1-2, XVII, 2008, pp. 27-64.

67 K. KERÉNYI, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, trad. it. di R. Giorgi, in ID., Scritti italiani (1955-1971) (a cura di G. MORETTI), Guida, Napoli, 1993, pp. 113-126.

68 D. BIDUSSA, Il vissuto mitologico, cit., p. 227. Per lo stesso argomento si veda anche ID., La macchina mitologica e la grana della storia. Su Furio Jesi , in F. JESI, L'accusa del sangue , Morcelliana, Brescia, 1993, pp. 93-128, in particolare

pp. 100 sg.

69 F. JESI, Letteratura e mito, p. 83; cfr. ID., Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, pp. 14-15: “Per migliaia di anni (i tempi

attuali costituiscono un'eccezione abbastanza relativa) il bambino fu, insieme con il vecchio, colui che sta per morire”; sul concetto di morte come “spazio interiore di eternità presente nell'esistenza dell'uomo” in quanto carattere della condizione umana si veda: ID., Spartakus , pp. 92-95 e ID., Bachofen, pp. 81-82.

70 F. JESI, L'esilio, cit., p. 114. Alla morte di Bruno Jesi è dedicata la lettera 7 del carteggio Jesi-Schiavoni, pubblicato in G. SCHIAVONI, Scegliere secondo giustizia. A proposito di alcune lettere di Furio Jesi , in “Cultura tedesca”, 12, 1999, cit., pp. 165-181.

71 F. JESI, Letteratura e mito, p. 10.

72 Ivi, pp. 10-11.

73 Si veda la voce Nome redatta da Jesi per l'Enciclopedia Europea Garzanti, Milano, 1976-80, vol. 8, pp. 100-101: in molteplici tradizioni “il nome non soltanto corrisponde all'essenza dell'oggetto, ma è quell'essenza [...]. Da questo punto di vista sono particolarmente indicativi i rituali egizi: ‘far rivivere il nome dei morti’ era la denominazione tecnica della pratica liturgica con cui i vivi, garantivano mediante offerte, la sopravvivenza dei defunti nell'aldilà”.

74 F. JESI, Letteratura e mito , p. 10.

75 Ivi, p. 11.

76 C. G. JUNG e K. KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino, 1972. Il libro contiene in particolare il saggio di Kerényi, Il fanciullo divino, pp. 45-106. Jesi nel dicembre del 1964 regalò a Kerényi Poemi conviviali e Myricae di Pascoli, di cui aveva scritto al maestro nella lettera del 21 settembre 1964 (cfr. F. JESI e K. KERÉNYI, Demone e mito, cit., pp. 16-17 e pp. 33-34).

77 F. JESI, Letteratura e mito , p. 12-13.

78 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 159-160; per un'analisi della radice biblica della metafora si vedano le pp. 161 sg.; cfr. ID., Rilke, pp. 15-16.

79 R. M. RILKE, I quaderni di Malte Laurids Brigge, cit., p. 39; ripresa in F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 122.

80 M. COTTONE, Esoterismo e ragione , Sellerio, Palermo, 1983, p. 57; cfr. F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 163.

81 R. M. RILKE, Poesie 1907-1926 , cit., p. 351.

82 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 160, n. 46; Jesi ha usato questi versi anche per la sua dedica sulla copia dei Poemi conviviali di Pascoli regalata a Kerényi (cfr. n. 74).

83 R. M. RILKE, Elegie Duinesi, cit., p. 25.

84 A. LAVAGETTO, Commento a R. M. RILKE, Poesie 1907-1926 , cit., p. 642.

85 F. JESI, Letteratura e mito, p. 12.

86 F. JESI, Germania segreta, p. 36. A questi temi sono dedicati testi cruciali nella produzione di Jesi: Bachofen, Cultura di destra, Mann.

87 G. PINTOR, Note critiche, in R. M. RILKE, Poesie tradotte da Giaime Pintor, Einaudi, Torino, 1942 e 1955, p. 125.

88 F. JESI, Rilke, p. 115. Il riferimento è a Gottfried Benn; cfr. R. M. Rilke, Elegie di Duino – Scheda introduttiva di Furio Jesi , in “Cultura tedesca”, 12, 1999, cit., p. 111.

89 Ivi, p. 39.

90 Ivi, p. 40.

91 Si veda per questo: R. LUPERINI, Fra antico e moderno: l’incontro con i morti, cit.

92 Lettera a W. von Hulewicz del 13 XI 1925, citata in F. JESI, Letteratura e mito, p. 106 e ID., Rilke, p. 48; cfr. L. MITTNER, La letteratura tedesca del Novecento, cit., p. 206: lo stesso passo è citato come esempio di resistenza alla “meccanizzazione dell'esistenza” nella modernità.

93 F. JESI, Rilke, p. 92.

94 A. LAVAGETTO, Commento a R. M. Rilke, Poesie 1907-1926 , cit., p. 642.

95 F. JESI, Germania segreta , p. 65.

96 La lettera è citata in R. M. Rilke, Elegie di Duino – Scheda introduttiva di Furio Jesi, in “Cultura tedesca”, 12, 1999, cit., p. 117.

97 “Rosa, oh pura contraddizione, gioia di non essere il sonno di nessuno, sotto tante palpebre”. Il testo è commentato in F. JESI, Germania segreta , p. 65, e ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 164.

98 F. JESI, Letteratura e mito , p. 113.

99 Ivi, p. 114.

100 Ivi, p.115.

101 F. JESI, Le postille di Rilke a Die Geburt der Tragödie di Nietzsche, in ID., Esoterismo e linguaggio mitologico, pp. 127-146, p. 131.

102 Ibidem.

103 Ivi, p. 130. Le annotazioni sono in R. M. RILKE, Sämtliche Werke in sechs Bänden, Insel Verlag, VI, 1966, p. 1164.

104 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 142.

105 Ivi, p. 144; cfr. ID., Rilke, p. 89.

106 F. JESI, Rilke, p. 44; cfr. M. COTTONE, Esoterismo e ragione , cit. p. 59.

107 F. JESI, Rilke, p. 96.

108 F. JESI, L'ultima notte, cit., p. 36-37. Sul senso del «distruggersi» cfr. ID., Spartakus , pp. 88-90, e il già citato manoscritto jesiano del 10 febbraio 1961 (n. 26): “Distruggersi in chi si ama significa gettare via tutte le limitazioni dei propri sensi – che costituiscono la propria identità – e quindi morire nell'emozione di amore e rinascere nella persona che si ama. Tutto ciò è possibile nell'ambito del solo amore, e porta all'immortalità ambedue gli amanti che si sono autodistrutti (come mortali) l'uno nell'altro, per rinascere in una sola persona immortale.109 in F. JESI, Letteratura e mito , pp. 85-94, p. 93.

110 F. JESI, Germania segreta , p. 199.

111 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 22-23.

112 M. COMETA, Mitocritica, in Dizionario degli studi culturali, http: www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/mitocri tica.html , p. 4.

113 Ibidem.

114 G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura , cit., n. 27, pp. 23 sg.

115 W. BENJAMIN, Angelus Novus, trad. it di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962, n. ed. 1995, p. 257.

116 Ivi, p. 258-9.

117 F. JESI, Materiali mitologici , p. 33.

118W. BENJAMIN, Angelus Novus, cit., p. 77.

119 F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico, p. 37.

120 F. JESI, Il testo come versione interlineare del commento, in Caleidoscopio benjaminiano (a cura di E. RUTIGLIANO e G. SCHIAVONI), Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 219.

121 Lettera a Giulio Schiavoni del 16 III 1973, in Carteggio Jesi-Schiavoni , in “Immediati dintorni”, cit., p. 329-332, p. 332.



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