martedì 8 novembre 2011

La guerra, la morte e il sacrificio



ho avuto due nonni che non ho mai conosciuto, entrambi hanno fatto la Grande guerra, entrambi sono stati disertori in seguito alla disfatta di Caporetto

fare un salto fuori dal cerchio in cui convivono sacrificati e sacrificatori
è il mio modo di mettere mazzi di fiori sulle loro tombe


Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia

Con crespe di faccia, affiorante

Sul lezzo dell’aria sbranata.

Frode la terra.

Forsennato non piango:

Affar di chi può, e del fango.

Però se ritorni

Tu uomo, di guerra

A chi ignora non dire;

Non dire la cosa, ove l’uomo

E la vita si intendono ancora.

Ma afferra la donna

Una notte dopo un gorgo di baci,

Se tornare potrai;

Soffiale che nulla del mondo

Redimerà ciò ch’è perso

Di noi, i putrefatti di qui […].

Clemente Rebora, Poesie sparse e prose liriche, (1913-1927) in Le poesie, Garzanti, Milano 1988











Mito e realtà della Grande guerra

di Enrico Manera

1.

Partirei da qui.

Il 4 novembre 1918, data della firma a Villa Giusti dell’armistizio con la nemica Austria finiva la guerra italiana, iniziata tre anni prima. Diversa era stata la vicenda europea, con un anno in più di combattimenti. La Grande guerra, è l’evento seminale, gravido di conseguenze, che apre il XX secolo, non solo per l’Italia in cui gli effetti del dopoguerra, con il mito della “vittoria mutilata', furono immediatamente visibili nella formazione dei fasci di combattimento, nel diffondersi dello squadrismo e nella nascita del fascismo. Eppure gli eventi successivi del ‘secolo (breve) dei genocidi’ hanno creato una sorta di cono d’ombra che è calato sulla guerra del 1915-18, producendo nella memoria pubblica una indigesta marmellata di vicende militari, canzoni dolorose, celebrazioni patriottiche.

Nel luglio 1914, in Europa si pensava che il conflitto non sarebbe stato lungo, e anzi sarebbe stato ‘benefico’: una grande guerra europea avrebbe “ricacciato indietro il socialismo per un mezzo secolo” salvando la borghesia (Pareto); avrebbe “ritemprato le energie” e condotto al potere “uomini con la volontà di governare” in alternativa a una estensione della violenza proletaria che tardava a venire (Sorel).

Il 1° agosto cinque parole, “Germania dichiarò guerra alla Russia”, telegrafate da un capo all’altro del mondo nel giro di venti minuti, mettevano fine alla belle époque: nei giorni successivi a questa dichiarazione, seguita a quella dell’Austria alla Serbia, entravano sulla scena le altre pedine dello scacchiere: Francia, Belgio, Germania, Inghilterra, Turchia, Giappone...

La guerra tanto attesa durò invece più di quattro anni.

Messo da parte l’episodio dell’eccidio di Sarajevo, l’arcinota scintilla che tutti ricordiamo, le cause del conflitto vanno ricercate in un quadro più generale di rivalità imperialistiche, di nazionalismi aggressivi, di ideologie variamente declinate dello Stato-potenza, di cui l’«assalto al potere mondiale» tentato dalla Germania è l'aspetto più eclatante. Ad andare in pezzi è quello che rimaneva del «sistema viennese», l’ordine internazionale logorato dalle radicali trasformazioni del XIX secolo e soggetto a tensioni continue.

Il tradizionale primato inglese era minacciato dal dinamismo dell’impero tedesco (1871) e dagli Stati Uniti, che cominciavano ad essere decisamente competitivi. Francia e Germania dopo Sedan e la questione dell’Alsazia Lorena, avevano più volte rischiato lo scontro in seguito a ‘incidenti’ coloniali.

La polveriera balcanica veniva a costituirsi dalle aspirazioni nazionalistiche dei paesi slavi, tra tutti la Serbia, che approfittando della decadenza dell’impero ottomano entravano in conflitto con quello austro-ungarico, un ‘mostro a due teste’ dal corpo di mille nazionalità, ormai incontrollabile.

Sui Balcani premeva la Russia in nome del panslavismo e dell’alleanza con la Serbia, mentre l’Italia aspirava alla conclusione del processo risorgimentale (e qualcosa di più) con Trento, Trieste, Istria e Dalmazia, impegnandosi in Libia e nel Dodecaneso ai danni del gigante turco.

Innescata la miccia solo una decisa e voluta azione diplomatica internazionale avrebbe potuto evitare la conflagrazione. Ma nessuno credeva nella pace: il nazionalismo e le ideologie di stampo coloniale, (sciovinismo, razzismo, aggressività imperiale) erano stato in grado di depotenziare ogni istanza di tipo cosmopolita e illuministico; l’internazionalismo e il pacifismo, partoriti dalle borghesie settecentesche e dai Lumi erano stati assorbiti dai ceti operai, nelle versioni marxiste, anarchiche, socialiste, e intrecciate con le istanze rivoluzionarie del proletariato e come tali erano giudicati pericolosi spettri in tutta Europa. Nessuno, dunque, cercò di fermare la guerra.

2.

Le mobilitazioni dei soldati per il fronte erano avvenute spesso in un clima di eccezionale entusiasmo.

Milioni di contadini, operai, commercianti, avvocati, studenti erano diventati improvvisamente soldati, nutriti con giustificazioni e motivi, disciplina e patriottismo. In ogni Stato la Nazione, quale che sia la sua natura o la sua identità, aveva diretto, orientato e compattato le masse schiacciando l’ opposizione pacifista, oltretutto assolutamente minoritaria: in un clima di ebbrezza e di trasporto era nata la “comunità di agosto” (in Italia sarà il “maggio radioso”) dentro la quale l’individuo scompariva per ritrovarsi in un “noi” contro di “loro”.

Gli oppositori della guerra, provenienti dalle file dei socialisti, anarchici o voci isolate come quelle di Romain Rolland e Bertrand Russell erano rimaste inascoltate: Jean Jaurés, punto di riferimento del pacifismo francese veniva ucciso dalla destra reazionaria francese; in Germania Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg venivano perseguitati e condannati come tutti i loro omologhi europei, possibili detrattori della guerra. Di fronte a una tale offensiva la Seconda internazionale aveva dimostrato tutta la sua debolezza e si era sfaldata.

In Italia il fronte interventista comprendeva diverse forze politiche e culturali, radicalmente eterogenee e accomunate dalla sola avversione per l’Italia giolittiana. Gli interventisti democratici ritenevano che la presenza dell’Italia in guerra dovesse realizzarsi a favore dell’Intesa, lo schieramento dei Paesi democratici contrapposti a quelli autoritari della Triplice. La guerra si sarebbe dovuta prefiggere la disgregazione dell’Austria-Ungheria e, come ultima manifestazione del Risorgimento, la piena affermazione del principio di nazionalità: il compimento dell’unità nazionale significava compensi territoriali rigorosamente limitati ai terreni italiani.

Per i nazionalisti l’intervento costituiva un valore in sé: avrebbe garantito il superamento delle frustrazioni nazionali grazie all’espansione imperialistica dell’Italia e alla lotta contro le prospettive di democratizzazione del Paese. La scelta dello schieramento al cui fianco combattere era indifferente purché si partecipasse alla guerra “sola igiene del mondo” e grande educatrice secondo il motto caro a schiere di intellettuali. La guerra “ci darà delle leve di uomini più decisamente preparati alla vita, capaci di sacrificio pronto e spirito di sofferenza, capaci di dolore, del dolore proprio e altrui senza eccessivi guaiti sentimentali e umanitari, meno fiacchi, più rudi e più maschi, meno immersi nella snervante consuetudine del piacere e del comodo, o nel dissolvente egoismo borghese”, scriveva Giovanni Boine nei suo celeberrimi Discorsi militari (1914).

Il giovane Benito Mussolini, proveniente dalle file del socialismo rivoluzionario e massimalista, vide nella guerra l’occasione per dare un colpo mortale all’assetto dell’Italia e dell’Europa, abbandonando il Partito socialista e fondando «Il Popolo d’Italia» dalle cui colonne condusse una intensa campagna bellica. Con lui i giovani in ‘rivolta’ contro la borghesia, contro la corruzione e lo sterile parlamentarismo in nome di un socialismo nazionale e corporativo.

Il resto del Partito socialista, attraversato da un travaglio reale e profondo, era condannato all’impotenza nella sua condanna alla guerra e di fronte al fallimento dell’internazionalismo proletario, scegliendo di attestarsi sulla linea del «non aderire né sabotare».

Il sentimento maggioritario del Paese, profondamento segnato dal cattolicesimo, poteva definirsi neutrale; ma tale disposizione si rivelava minoritaria sul piano politico e non poteva saldarsi efficacemente con gli altri settori della società contrari alla guerra. L’Italia di Giolitti sceglieva un neutralismo pragmatico, pronto a diventare interventismo secondo le circostanze.

3.

La guerra espresse pienamente la sua modernità: moderni erano i soggetti, le masse, e gli armamenti: fanteria corazzata, artiglieria pesante, armi chimiche, marina, sottomarini, una pionieristica aviazione. Moderna fu l’invenzione del fronte interno giocata con le comunicazioni di massa e la propaganda, sul tema militarizzazione e sulla mobilitazione permanente della società, con il conferimento di ampissimi poteri alle autorità militari. Nei Discorsi militari di Giovanni Boine si legge: “l’esercito è, specie in una nazione moderna, come un generatore di ordine”, ma la situazione al fronte si sarebbe prospettatata ben diversa dalle aspettative degli intellettuali. Nonostante le innovazioni tecnologiche la Grande guerra fu soprattutto un combattimento terrestre, dove furono determinanti artiglierie e mitragliatrici. Il soggetto principale di un tale conflitto fu il “fante contadino”, l’involontario protagonista di un “grande macello”.

La mitragliatrice e il cannone a tiro rapido, la trincerazione e il filo spinato conferivano una netta superiorità alla difesa; le truppe subivano un fuoco di artiglieria lungo e pesante. Le vane offensive sulle linee di fuoco avvenivano dopo una lunga preparazione di artiglieria, con migliaia di uomini che avanzavano nello spazio tra le trincee. L’evoluzione dei combattimenti da questi presupposti non era stata prevista: dall’iniziale guerra di movimento, il fronte occidentale e quello italo-austriaco si stabilizzarono in una guerra di posizione. Per le truppe cominciava l’inferno della vita di trincea, in condizioni igieniche inesistenti, sotto bombardamenti e attacchi con il gas, tra rifiuti e cadaveri che marcivano nella “terra di nessuno”, il territorio che separava le opposte trincee.

Scrive Emilio Lussu, in Un anno sull'altopiano: «La vita di trincea, anche se dura, è un’inezia di fronte a un assalto. Il dramma della guerra è l’assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile rende tragiche le ore che la precedono». Ogni attacco, inutile dal punto di vista dei risultati, era preceduto da un intenso bombardamento: quando la fanteria usciva allo scoperto veniva falcidiata dall’artiglieria nemica e dalle mitragliatrici.

Nei momenti di tregua le lunghe ore di nulla si susseguivano in compagnia di topi e pulci, in attesa della posta e del rancio. La presenza costante della morte aveva effetti psicologici devastanti, tanto sui soggetti impreparati quanto sui volontari votati al nobile sacrificio della vita per la patria: “Nessuno uscirà da questa guerra senza essere diventato una persona diversa”, si legge in una lettera a casa di un volontario tedesco. La personalità creata dalla guerra era radicalmente eterogenea da quella dello stesso individuo cresciuto nella vita civile: si trattava di due vite, due memorie, di due identità distinte nella stessa persona, la cui dialettica oppositiva generava conflitti profondi. Una sistematica e colossale repressione unì regolamenti e disciplina a inaudite restrizioni di movimento, per milioni di soldati-massa, identici l’uno all’altro. La spinta aggressiva interna veniva continuamente frustrata dalla presenza di un nemico invisibile e onnipotente e imbrigliata nella ritualizzazione della violenza. Le ostilità venivano così indirizzate su obiettivi ‘impropri’ come gli ufficiali, lo Stato maggiore, la patria.

Se pressoché universalmente si creava lo spirito di battaglione e un inedito legame con i propri compagni di battaglia, altre potevano essere le direttive della vita psichica ed emotiva del soggetto in guerra. Clemente Rebora, raffinato intellettuale e poeta di ispirazione vociana, scopriva un afflato umanitario di fratellanza universale e si apriva a un misticismo laico e mazziniano; Ernst Jünger, scrittore e filosofo della vita eroica, assaporava il gusto del nichilismo e la “cura dell’orrore”, del soldato come macchina per uccidere. Per molti altri privi di strumenti culturali adeguati l’esperienza della guerra fu l’inizio di nevrosi e psicosi di diversa natura, in ogni caso di incubi lenti a scomparire. Recenti gli studi sull'internamento coatto psichiatrico di soldati colpiti da quello che oggi chiameremmo Post traumatic stress disorder.

Così, nel vano tentativo di guadagnare poche centinaia di metri si consumarono le inutili stragi di Verdun, Ypers, Gallipoli o del Chemin des Dames, dell’Isonzo, del Piave, del Grappa. Nel giugno 1916, sulla Somme, gli inglesi scaricarono oltre 1.500.000 proiettili sulle trincee tedesche, perdendo il giorno dell’offensiva oltre 60.000 uomini. Ventunmila solo nella prima ora.

Nel 1917 non si contavano gli episodi di ammutinamento, diserzione, forme di insubordinazione collettiva e individuale. All’imboscamento si affiancavano fenomeni di autolesionismo, false malattie ed episodi di follia. A cui gli alti comandi rispondevano con l’arma della rappresaglia violenta garantita dalla legislazione militare: fucilazioni sommarie, decimazione casuale di reparti, punizioni esemplari. A essere generato fu il disordine mentre l’‘angoscia’ (Angst, anguish, anxiety, angoisse), si dilatava a dismisura nell’esperienze umane e nelle sue rappresentazioni artistiche, rendendo quasi impossibile pensare un futuro che non fosse la spettrale realtà della morte.

4.

In questa situazione bellica, se lo sfondamento austro-tedesco a Caporetto fu una eccezione, altrettanto non si può dire di quella che fu la reazione di sbandamento e abbandono del fronte da parte delle truppe. È ormai assodato che Caporetto fu soprattutto una sconfitta militare: condizionati dalle abitudini degli anni di guerra di posizione i comandi italiani non seppero fronteggiare la novità della strategia offensiva austrotedesca, fondata sulla sorpresa, sulla scelta di colpire l’artiglieria e collegamenti e sull’infiltrazione di colonne agili e ben addestrate. Ma Caporetto restò, per molto tempo, un’onta nazionale, il simbolo del tradimento. La rotta che seguì ebbe le proporzioni bibliche di un esodo: oltre 40.000 furono i morti e i feriti; oltre 350.000 sbandati militari che ingorgarono le strade verso est inneggiando alla fine della guerra; 280.000 prigionieri, 3150 pezzi d’artiglieria, 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici e una quantità enorme di viveri, munizioni, materiale lasciato al nemico; 400.000 profughi civili a dare di Caporetto, nell’immaginario collettivo, fin dai giorni immediatamente successivi, quella rappresentazione di immane tragedia nazionale.

Il 7 novembre il generale Luigi Cadorna veniva sostituito da Armando Diaz, segnando una svolta nella gestione dell’esercito italiano. Diaz rimase in contatto costante con il governo; pose fine alle grandi, inutili, offensive; mitigò il duro regime disciplinare eliminando le decimazioni; migliorò le condizioni di vita al fronte assegnando turni più brevi in prima linea, rancio migliore, licenze sicure, servizi per la cura del morale di soldati e ufficiali. La vittoria difensiva sul Piave nel giugno 1918 e l’offensiva di Vittorio Veneto furono anche i risultati di tale mutamento nelle condizioni di vita dei soldati, ben più coscienti del proprio ruolo di quando erano partiti per la guerra.)

5.

Difficile parlare di gioia nella vittoria nel 1918: la Grande guerra ha falcidiato un’intera generazione. Su circa 6 milioni di mobilitati al fronte in Italia i morti sono stati 650.000, 1 su 10.

La sola Gran Bretagna, che poteva contare su 8 milioni di volontari (!) perse 800.000 uomini, oltre il doppio rimase invalido in modo permanente in seguito alle ferite o all’avvelenamento da gas.

Due milioni i morti russi, su 12 milioni di mobilitati, per un totale di perdite con i feriti e i dispersi che sfiora i 9 milioni. 6 milioni le perdite francesi, oltre 7 quelle di Austria e Germania.

Per chi ritornò il mondo non era stato più lo stesso di prima, poichè l’orrore visto da vicino aveva segnato inesorabilmente la continuazione della vita. La guerra di trincea e la morte di massa hanno portato a conoscere un mondo anomalo, un mondo senza donne, in cui i bisogni più elementari sono negati o contrastati. Il mito patriottico della guerra usciva sfigurato da sommosse e ammutinamenti che si era cercato di tenere nascosto: segnali inequivocabili del dissenso e del rifiuto della guerra da parte di un mondo sostanzialmente rurale e pre-moderno. L’impatto della guerra sugli intellettuali, in maggioranza solerti interventisti prima dell’esperienza del “grande macello”, è stato tale da modificare radicalmente le riflessioni sulla vita e sulla morte.

Gli effetti della Grande guerra sulla società in senso modernizzante furono epocali. Se il massacro dei soldati al fronte fu il correlato della società di massa all’indomani del suffragio universale, il prezzo pagato in trincea richiedeva un’adeguata partecipazione alla vita pubblica per masse di milioni di individui che si affacciavano sulla storia. Da sinistra molti ritennero che l’ora fosse scoccata: la via maestra era stata dettata dalla Rivoluzione d’ottobre che aveva mostrato come “punire i carnefici” e restituire agli umiliati il potere negato da un giogo secolare. Ma il fallimento del moto spartachista in Germania fu represso dalle truppe della Repubblica di Weimar affiancate dalle squadracce dell’estrema destra; in Italia ogni istanza di tipo socialista si scontrava con il nascente combattentismo e con il fenomeno squadrista, destinati a fondersi nell’esperienza fascista. Era chiaro che la direzione delle masse sarebbe toccata a chi sapeva parlare la lingua della guerra e che poteva capitalizzare volontarismo, frustrazione e rabbia, antiche e recenti, contro il sistema liberale.

6.

Da questo punto di vista la Grande guerra fu l'incubatrice del totalitarismo novecentesco e preparò la seconda guerra mondiale, senza che mai nel frattempo di vera pace si trattasse.

L’ordine internazionale scaturito dal conflitto 1914-1918 fu assai fragile: la «pace punitiva» che scaturì dal trattato di Versailles non rimosse le cause della catastrofe del 1914, esacerbandone al contrario ulteriormente le ragioni e le retoriche, in particolare tra Francia e Germania. La carta dei rapporti tra le potenze europee usciva modificata:

- dalla disintegrazione dell’impero austro-ungarico e di quello ottomano, territori immensi le cui aspirazioni all’indipendenza era state alla radice del conflitto.

- dalla rivoluzione bolscevica in Russia, con il suo portato di instabilità nelle relazioni internazionali post-belliche e con una frattura ideologica sconosciuta nelle epoche precedenti.

- dall'intervento diretto nelle questioni europee in grande stile con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel 1917.

Il resto è noto. Il nuovo instabile ordine internazionale poggiava su una Società delle Nazioni, impotente di fronte alla rinata potenza tedesca, inferocita dall’umiliazione, e all’età dei fascismi, che attecchirono in ogni dove e seppero farsi governo in Italia, Germania, Spagna, Ungheria, Romania...

La guerra che lo aveva generato diventò il primo tempo di una «guerra dei trent’anni del XX secolo». Gli storiografi revisionisti che, come Ernst Nolte, vedono nella seconda guerra mondiale la “guerra civile europea” che contrapponeva nazismo a bolscevismo, considerano il fascismo come la risposta necessaria di fronte al “pericolo rosso” che minacciava l’Europa, tendono a dimenticare l’importanza della Grande guerra e tutto ciò che da essa ha avuto origine. E a dimenticare che nel 1914 il fascismo era già diffuso allo stato potenziale.

7.

Arriviamo al centro del mio intervento: la memoria della guerra fu centrale nel discorso pubblico e nelle esistenze individuali del dopoguerra. Si trattò di fare i conti con un bilancio tragico, dando forma e voce al dolore dello sterminio di intere generazioni di giovani soldati, reso ancora più insopportabile dal non ritorno di un esercito di dispersi. Bisognava escogitare il modo per elaborare il lutto e trovare linguaggi idonei e proporzionati a esprimere una perdita di dimensioni inaudite. La soluzione fu l’ondata di monumentalismo in marmo e bronzo che calò sull’Europa, pur con le debite differenze che i singoli paesi e i singoli governi, autoritari o liberali, vollero attribuire alle celebrazioni della date degli armistizi. La commemorazione dei morti fu il perno centrale di una religione della patria, in nome della quale furono istituiti cimiteri militari, riti funebri collettivi, luoghi pubblici e privati della memoria. Poiché la cultura moderna, basata sullo straniamento, sul paradosso, sull’ironia risultava inadatta a sanare le ferite della memoria, fu un potente richiamo ai motivi tradizionali della cultura a tenere il campo, un insieme eclettico di immagini e concetti classici, romantici e religiosi che permettevano a chi aveva perso un caro di attribuire senso a quell’evento per lasciarselo alle spalle.

In Italia il fascismo si appropriò del nome dei morti da vendicare, facendosi interprete della guerra e monopolizzando la gestione della memoria: in tal senso il combattentismo non fu mai in grado di evolvere in senso pacifista a differenza di quanto poté accadere in Francia. Nel nome dei caduti, si volle la celebrazione della vittoria nazionale del 4 novembre, unanimistica e consensuale nell’unire autorità e popolo, militari e civili. In questa ottica nel 1921, terzo anniversario della vittoria, l’Italia volle celebrare, sull’esempio francese e inglese, il suo Milite Ignoto, realizzando un maestoso funerale civile degno di comparire negli annali della storia europea. Fu una manifestazione imponente come correlato simbolico per la morte di massa, per simboleggiare il lutto della comunità nazionale italiana, che ritrovava nei vincoli più familiari le sue radici più profonde. La salma di un soldato italiano sconosciuto, scelta da una madre triestina il cui figlio era disperso, (cfr Jesi CD 105) fu portata da Aquileia a Roma su un treno in un lungo viaggio caratterizzato da manifestazioni di partecipazione popolare luttuose e/o esultanti lungo i binari della ferrovia. L’eroe senza nome era un simbolo dal significato potenzialmente inesauribile: poteva essere il padre, il figlio o il marito, l’ex-commilitone, ma anche il “camerata” che aveva donato la propria vita per la grandezza della patria o il “proletario” sacrificato sull’altare di una guerra ingiusta. A Roma nel Vittoriano, la solennità del rito del funerale del Milite ignoto, l’anonimo figlio del popolo, fu resa ancora più grandiosa dall’imponente presenza di rappresentanze militari e della società civile, e dalla partecipazione commossa di una massa di cittadini romani e italiani. Il rito funebre per il Milite ignoto era diventato la più grande manifestazione patriottica che l’Italia avesse mai visto.

Quello del culto del milite ignoto è un caso eclatante di uso della morte per la costruzione delle identità politica, ma di lì alla cultura della morte declinata dal fascismo il passo è breve:

Vediamo questo documento:

Mussolini sul “Popolo d’Italia”

(“Il Popolo d’Italia” venne fondato da Benito Mussolini nel novembre del 1914, a seguito delle dimissioni dall’“Avanti!”, di cui era direttore dal 1912, e della rottura con il Partito socialista. Il nuovo quotidiano rappresentà la tribuna della campagna interventista di Mussolini).

La guerra è vinta, "Il Popolo d'Italia”, 5 novembre 1918

Stormo di campane, clangore di fanfare, sventolar di bandiere, cori di popolo: ecco ciò che è adeguato agli eventi ineffabili di questi giorni.

Ieri nelle città, nei borghi, nelle campagne d'Italia, bronzi sacri, trombe guerriere, voci umane delle moltitudini hanno levato altissimo nei cieli l'inno della vittoria. Le altre date famose della nostra storia plurimillenaria impallidiscono a confronto dell'ultima decade dell'ottobre 1918. (...)

La guerra è finita perchè abbiamo vinto. né poteva accadere altrimenti (...) Il martello italiano ha picchiato solo per quarantun mesi. L'incudine è in pezzi. Le parole di Diaz sono l'epigrafe. Stanno sulla pietra tombale del cadavere austriaco. Questo cadavere non ammorberà più l'atmosfera. I liberi popoli stanno purificandola. E' la vita, la più grande vita, che sorge dalla morte! Così, come noi abbiamo sognato, sperato, creduto-sempre.

Non mai, come in questo momento, abbiamo sentito in tutte le nostre fibre l'orgoglio intimo di essere e sentirci italiani. Ripetiamolo ancora. La nostra è stata guerra di popolo! La vittoria è vittoria di popolo. E' stato un cozzo spaventevole tra le forze del passato e quelle dell'avvenire. L'Italia, la nazione dell'avvenire, ha schiacciato le forze del passato e divelte le sbarre della vecchia prigione asburgica: ha liberato i popoli.

Maggio 1915. Ottobre 1918. L'inizio e la fine!

La volontà. La costanza. Il sacrificio. La gloria!

Nel 1919 Mussolini fondava il Movimento dei Fasci di combattimento, in piazza San Sepolcro a Milano:

ad essi aderiscono gli ambienti del reducismo post-bellico e dell'interventismo rivoluzionario-conservatore (futuristi, arditi, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari) che si portano dietro e atteggiamenti e ideologia bellica, con l'obiettivo di «perpetuare lo spirito di guerra in tempo di pace».

I fascisti riprendono la bandiera degli Arditi (un teschio con le ossa incrociate), ed tributano un culto religioso per il Gagliardetto, «simbolo della fede e della comunione squadrista, dell'unione morale dei suoi vivi e dei suoi morti» (dice Emilio Gentile, Il culto del Littorio, 1994).

Nel 1922 così recitava la formula di giuramento della Milizia fascista:

«Nel nome di Dio e dell'Italia, nel nome di tutti i caduti per la grandezza d'Italia, giuro di consacrarmi tutto e per sempre al bene dell'Italia».

L'evocazione continua della morte era intesa come atto di sfida di un “ottimismo tragico e attivo” che voleva affermare la propria fede nella vita e nell'immortalità della fama e dell'onore; così i funerali dei fascisti erano riti suggestivi e coinvolgenti: cortei, vessilli, bandiere, tamburi, fiaccole e si concludeva con il rito dell'appello, a cui la folla inginocchiata rispondeva «presente!».

8.

Ecco cosa intendo con mito della guerra e della morte nel sistema simbolico fascista. Da un punto di vista antropologico il mito è un dispositivo sociale che produce cultura, ovvero una struttura connettiva che consolida e genera identità attraverso la condivisione di simboli. Garantisce identità: per fare questo si presenta come discorso di verità efficace, perché si mostra come ‘vero’ da sempre, ponendosi come origine e fondazione si sottrae a ogni domanda su di sé e occulta la sua artificialità, arbitrarietà e infondatezza.

Jan Assmann, studioso contemporaneo di mondo antico e teorico della memoria cultura, ha elaborato in modo particolarmente chiaro il concetto di mitodinamica (Mythomotorik): il mito è un ricordo del passato che produce immagine di sé e speranza per obiettivi dell’agire, ha un riferimento narrativo al passato, che lascia cadere luce sul presente e sul futuro.

Esso ha: - funzione fondante, pone il presente sotto la luce di una storia che lo fa apparire dotato di senso, necessario e immutabile; - funzione controfattuale, a partire da carenze del presente evoca un passato eroico, che rende palese la frattura tra ‘un tempo’ e ‘adesso’, o tra l' 'adesso' e il 'poi'.

Così il culto del sacrificio del martire, sviluppa e usa il potenziale emotivo e l'autorità della morte per consacrare gli interessi del presente, proiettando retrospettivamente significato sul proprio operare.

Nel 1979 Furio Jesi, studioso torinese, ha applicato categorie analoghe ai miti politici moderni e contemporanei, parlando di «macchina mitologica»: poco prima della prematura scomparsa, in Cultura di destra, ha studiato l'uso del linguaggio 'mitologico' nella destra europea. Parole che allora come oggi risuonano inquietanti nella presunta maestà del loro maiuscolo: Tradizione, Razza, Patria, Sangue, Sacrificio, Fiamma, Morte, Natura sono alcuni dei termini totemici che ricorrono nella letteratura di destra, in quella ‘elevata’ dei padri fondatori (Evola, Romualdi), in quella della pubblicistica minore di tutto il ventennio italiano, in quella ulteriormente kitsch e zeppa di refusi che abbonda sui siti Internet.

Jesi identifica nelle «idee senza parole» −Spengler − il fulcro di un sistema di tecnicizzazione del mito, ovvero di strumentalizzazione politica del linguaggio volta a costruire un apparato rituale per coinvolgere gli individui nella comunità vivente della Nazione all’interno di un progetto totalitario. George L. Mosse ha chiamato «nazionalizzazione delle masse» questo processo di direzione dell’agire collettivo delle masse, il nuovo soggetto emergente tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sulla base dell’ideologia come «arte di dirigerne l’immaginazione», per creare una comunità di fede e di sentire.

Il processo certo viene da lontano: attestato nella tradizione guerriera antica il culto dei martiri, appartiene tanto al cattolicesimo quanto al risorgimento. Il valore della vita per un'ideale non è dissociabile dal ricordo dei morti, ma quello che è particolare qui è la tecnicizzazione e l'amplificazione che con l'età moderna viene fatta in Italia dal fascismo e in Europa dai diversi fascismi.

Inoltre vi è molta differenza tra chi ricordare chi accetta il rischio per battersi contro una forma di dominio, penso al Risorgimento o alla Resistenza, o celebrare in modo completamente acritico il massacro di un popolo di uomini mandati al macello nel nome dell'onore della nazione.

Cosa che fu fatta dal fascismo con la Grande guerra nella fase di costruzione della propria ideologia.

Dopo vent’anni di monumentalità fascista, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la bandiera della patria sarebbe diventata uno straccio. Sarebbe toccato alla Repubblica italiana fondata sul lavoro e nata dalla Resistenza riproporre un modello di Stato democratico come spazio pubblico tutto da ricostruire nel nome di un riscatto morale, sociale, economico. Una strada in salita.

Allora, per concludere e attualizzare il ricordo di questa giornata in senso pedagogico, ciò che emerge della Grande guerra andrebbe cercato nella solidarietà che una moltitudine senza nome di persone ha scoperto condividendo l'incubo e l'assurdità della trincea: la consapevolezza di appartenere a una lingua e a una cultura da parte di un mondo contadino, oltre l'appartenenza regionale e localistica, la scoperta di forme di fratellanza inedite, i mutamenti della società e la necessità di divenire cittadini consapevoli, il ruolo differente delle donne nella dimensione pubblica, ad esempio.

Il legame che gli uomini e le donne hanno scoperto nella difficoltà della guerra, non necessariamente doveva diventare lo spirito di corpo della squadraccia fascista, ma ha voluto dire consapevolezza della dimensione collettiva e di una storia mondiale.

Se si vogliono ricordare veramente i caduti, credo sia questo e non lo spirito della vittoria, quello che ci rimane di quel 4 novembre di 90 anni fa.

Enrico Manera

appendici

a. sulla storiografia

Dopo una sbornia di storiografia nazionalista e incentrata sugli aspetti militari diverse sono le ondate storiografiche: di taglio sociale, con la scoperta e la messa in luce della ribellione, del dissenso e del rifiuto della guerra da parte di un mondo sostanzialmente contadino, con l’affermazione di un’immagine meno levigata e consensuale del conflitto. Successivamente si moltiplicheranno le analisi sulla «guerra vissuta», con studi sui traumi mentali dei combattenti, mediante il ricorso alle fonti per la storia della vita militare e dell’esperienza bellica e l’adozione di nuove metodologie quali l’uso di categorie antropologiche e psicologiche. Attraverso la mediazione di fonti letterarie e linguistiche si aprivano inoltre nuove prospettive storiografiche nell’ambito della storia della cultura e delle idee, relativamente all’impatto della guerra sugli intellettuali e sulla cultura europea, sulla memoria collettiva, sul monumentalismo e sull’uso di questi da parte dell’autocoscienza europea. Fino alle recentissime grandi sintesi che abbracciano quadri complessivi, caratterizzate dall’esplorazione a tutto campo della guerra come primo macro-fenomeno della modernità, indagato in tutti i suoi aspetti.

c. l'industria

Tra gli effetti modernizzanti della Grande guerra l’aspetto industriale ricopre un ruolo centrale: lo straordinario sviluppo dell’industria bellica pose le basi per le fortune del grande capitalismo internazionale e ridisegnò i rapporti di lavoro tra lavoratori e padronato a partire dalla grande mobilitazione che costituì una svolta per l’economia e il mondo produttivo. È il fenomeno fu più intenso dove la modernizzazione scontava un certo significativo ritardo, come nel caso italiano.

La grande industria nasceva attorno alla guerra, dal poderoso sforzo, peraltro mai pienamente realizzato, di fornire all’esercito armamenti, munizioni, mezzi di trasporto, accessori, generi di supporto.

Le strutture produttive del paese furono potenziate per far fronte agli ordinativi statali e lo Stato concentrò le risorse del paese per indirizzarle alla produzione industriale. Remuneratività delle commesse e sgravi misero in moto un ampio ciclo di reinvestimenti che fecero ingrandire rapidamente le principali imprese.

I principali stabilimenti italiani vennero "mobilitati" e dichiarati "ausiliari" dell'esercito: i settori chiave della seconda rivoluzione industriale (siderurgia, cantieri, industrie meccaniche, chimiche ed elettriche) ricevettero accrebbero considerevolmente la loro quota sia degli addetti che del prodotto. La Fiat, tra il 1914 e il 1918 decuplicò il numero dei dipendenti (da 4.000 a 40.000 operai): il primo autoveicolo prodotto in ampia serie fu un camion, il 18 BL, costruito in 20.000 esemplari. Il gruppo Ansaldo toccò i 100.000 addetti, l’Ilva gli 80.000. Decretata nell’autunno del 1915 la mobilitazione industriale giunse a considerare al momento dell’armistizio 1.976 stabilimenti per 903.210 lavoratori in tutta Italia. Si trattava in definitiva di una enorme riqualificazione degli apparati produttivi che all’epoca si trovavano all’avanguardia tecnologica.

L’assenza degli uomini impeganti nel conflitto mobilitò nuovi strati di manodopera per le fabbriche, anche se gli operai qualificati necessari alla produzione, vennero “esonerati” dalla partenza per il fronte. Si intensificarono i movimenti migratori verso le città determinando un ulteriore accrescimento della popolazione urbana e degli strati proletari al suo interno; aumentò l’impiego dei giovani, e molti ambiti si aprirono alla manodopera femminile.

Negli stabilimenti ausiliari i lavoratori furono sottoposti alla disciplina militare e le infrazioni ai regolamenti di fabbrica furono punibili con il codice militare. Gli straordinari divennero obbligatori, con orari che arrivavano a oltre 70 ore settimanali. Gli operai non furono più liberi nemmeno di licenziarsi. I contratti di lavoro, all’epoca di carattere locale, riguardanti la singola impresa o al massimo il gruppo di aziende affini, furono prorogati per legge fino alla fine del conflitto. Il diritto di sciopero fu abolito. All’interno dei Comitati di mobilitazione si sperimentarono nuovi rapporti tra Stato e organizzazioni degli interessi. In particolare, gli industriali vennero chiamati a decidere, con i rappresentanti dell’esercito e del governo, il coordinamento e la distribuzione delle commesse e l’assegnazione delle materie prime e delle fonti di energia, delineando un sistema di stampo corporativo in cui lo Stato cedeva una parte di competenze pubbliche a organizzazioni degli interessi privati. Il pesante sbilanciamento nei preesistenti rapporti fra Stato e industria, a favore di quest’ultima, si aggravò, lasciando l’Italia sostanzialmente nelle mani di “satrapi” e “proconsoli” dei settori pesanti.

Lo Stato si mosse, nei confronti del mondo del lavoro e delle associazioni operaie in un difficile equilibrio di repressione e concessioni, dando attuazione a principi di stampo corporativo per ottenere collaborazione e pace sociale, secondo un modello di inquadramento e ricerca del consenso che il regime fascista avrebbe radicalizzato e fatto proprio. L’esperienza di mediazione sistematica del conflitto industriale durante il conflitto sarebbe stata la base dell’accordo per la concessione delle otto ore nell’immediato dopoguerra (febbraio 1919), ultimo atto di un tipo di relazioni destinato a scomparire nel clima di aspra conflittualità del biennio rosso.)

d. la questione femminile

In Italia furono 6.000.000 le famiglie coinvolte nel conflitto con il reclutamento di almeno 1 membro, 4.200.000 donne lavorarono la terra, 2.000.000 di donne svolsero attività extra agricole, 200.000 operaie furono occupate nelle industrie belliche, 30.000 donne furono impegnate nell'assistenza civile, 10.000 infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana e di associazioni minori.

I 600.000 caduti al fronte lasciarono 220.000 vedove di guerra. Tali cifre non potevano non influire in modo decisivo sulla questione femminile e nei rapporti di genere, ancora fortemente orientati a una asimmetria tale da lasciare le donne in una condizione paragonabile a quella della minorità.

I gruppi femminili, il suffragismo e l'emancipazionismo, prodotti della civiltà liberale ottocentesca, condivisero con quel sistema la crisi provocata dall'avvento della moderna società di massa: l’associazionismo femminile affiancò alle richieste per le riforme giuridiche e politiche (il diritto di voto e l’accesso alla sfera pubblica) la concreta attuazione di forme di assistenza, la preforma di quello che sarebbe stato il welfare (asili nido per bambini, mense per i poveri, ambulatori per i malati e guardie ostetriche). La guerra fu per le emancipazioniste l’occasione per ottenere il giusto riconoscimento: madrine, infermiere della Croce Rossa, animatrici dei Comitati di assistenza civile si prodigavano nell’assistenza, l’industria arruolava migliaia di operaie, le donne del mondo contadino gestivano il lavoro rurale, tutte conducevano il menage familiare in un mondo decisamente più difficile del precedente. Un tale accresciuto ruolo da parte delle donne non fu certo facile da accettare dagli uomini di ritorno dalla guerra. Ma qualsiasi rivendicazione fu messa a tacere dal coacervo di violenza nazionalista, combattentistica e fascista, ineluttabilmente maschile, che stava per rovesciarsi sul paese.

martedì 18 ottobre 2011

ancora immaginazione



non avevo fatto in tempo a pensare la questione dell'estetizzazione della politica, come fatto dirimente, per quanto riguarda la giornata della violenza estetizzante di chi realizza la sua apocalisse personale per vedersi filmato nelle manifestazioni, credendo peraltro di fare gesti politici, che il corpo dell'ennesimo dittatore viene esposto alla visione dell'occhio assoluto mediatico: quello di chi crede di aver visto tutto perché ha visto una immagine.
la violenza è prima di tutto nei nostri desideri, di vedere sempre di più.








Sulla funzione immaginativa in Culianu studioso e narratore 

Le vrai realisme en histoire, c’est de savoir que la realité humaine est multiple
M. Bloch

0.
Premetto che non sono né un romenista né uno storico delle religioni e mi sono avvicinato all’opera di Culianu recentemente e in relazione ad altri interessi specifici: l’opera di Eliade, di Jesi (il mio vero oggetto di ricerca) e studi sui viaggi dell’anima e su Giordano Bruno. Recentemente la pubblicazione de Il rotolo diafano è stata il punto di partenza di alcune riflessioni, che condivido con voi.
Quello che farò è un intervento in chiave di teoria della cultura, che permetta di inquadrare metodo e cornice epistemologica in cui Culianu ha esercitato la sua opera di studioso e, in particolare, di scrittore.
Il tema centrale da cui vorrei partire è dunque l'immaginazione:
a. come vettore di esperienza del sacro; e quindi come oggetto degli studi storici di Culianu;
b. come fattore antropologico di creatività umana, capace di attraversare le epoche nella storia delle idee;
c. come elemento di continuità tra studio storico e produzione letteraria, nel momento in cui fiction e non-fiction sono due momenti di una medesima attività intellettuale che trova nei ‘fantasmi’ il loro soggetto comune;
d. Da questo emerge un’ipotesi di interpretazione complessiva dell’opera di Culianu, per la quale mi rifaccio a Moshe Idel e Umberto Eco, entrambi suoi estimatori, e anche a lui legati da rapporti personali.
1. Immaginare l’alterità
Partirei dalla questione dell’immaginazione, intesa come facoltà cognitiva, per come è posta in Eros et Magié à la Renaissance (1984, ed. it. 1986). Qui nell’introduzione Culianu dichiara di volersi occupare di una costellazione rinascimentale, ma di derivazione antica e tardo antica, di scienze dell’immaginario in cui rientrano eros fantastico, arte della magia, memotecniche.
Eros è inteso nel senso platonico del termine: come attrazione e legame capace di mettere in comunicazione soggetti e mondi diversi, è quindi qualcosa in cui rientrano anche i viaggi dell’anima, le esperienze di estasi e di oltretomba, che sono al centro degli studi di Culianu.
Nella tradizione rinascimentale che riscopre l’antico il rapporto tra anima è corpo è garantito dalla stessa sostanza pneumatica di cui sono fatte le stelle: Phantasia è dunque la produzione dello spirito sidereo che trasforma i messaggi dei sensi in fantasmi percebili dall’anima: il pensiero è dunque attività fantasmatico, ha carattere immaginale ed è questa sua natura che garantisce la solidarietà tra il microcosmo e il macrocosmo. Si tratta di una considerazione di tipo storico che Culianu assume come propria premessa teoretica.
Eros è dunque sempre phantastico. Ogni desiderio è suscitato da fantasmi ed è appagato dai fantasmi, con una decisa attribuzione di importanza all’immagine e al potere visivo che avvicina molto Culianu a Warburg, e alla sua teoria delle «formule di pathos» cristalizzate nelle immagini.
Questo porta ad affermare che in Culianu c’è una vera e propria antropologia dell’immagine. In senso diacronico e comparatistico vale l’idea che l’immaginazione, la funzione di ritenere e produrre idee, sia operante a livello antropologico e in modo costante nella storia: così i sistemi di idee di un’epoca possono ritrovarsi nelle successive perché le idee, in virtù del loro carattere fantasmatico si trasmettono, e hanno carattere ricorrente. La trasmissione della tradizione, il cambiamento e l’iinovazione, prevede passaggi attraverso un «filtro ermeneutico», che è «una volontà selettiva e deformatrice» (Eros e Magia, p. 26) che ciò che caratteristizza ogni epoca.
Culianu parla di «ispirazioni involontarie provenienti dalle profondità dell’inconscio collettivo» (EM, p. 30). È una dinamica che va ben oltre la semplice idea di ripresa della tradizione: ne è un esempio il rapporto tra antico, ellenismo e rinascimento riguardo alla magia, che poi supera la cesura razionalistica imposta dalla Riforma (protestante e cattolica), sopravvivendo in forme alterata; o meglio, rispetto al concetto di sopravvivenza e alterazione (che si ritrova da Tylor, Cornford, Propp in poi) qui la differenza rispetto alla ripretizione avviene attraverso la diversa combinazione dei loro elementi. Come ha mostrato Patapievici la fonte di questa concezione ermeneutica è nella cultura rumena mutuata dal concetto di ‘cesura trascendente’ formulato da Blaga.
Colpisce il teorico della cultura che nell’introduzione di EM Culianu insista sull’attualità dell’eros magico e sulla continuità sugli aspetti erotico-poietici dell’immaginazione umana: in particolare: magia/scienza, comunicazione a distanza, trasporti rapidi, viaggi interplanetari sono idee ricorrenti che epoche differenti pensano e attualizzano in modi diversi.
La stessa immaginazione creativa è alla base delle scienze fisiche e l’eredità della magia è nelle psicologiche e sociologiche e contemporanee.
La magia è qui scienza dell’immaginario come «metodo di controllo dell’individuo e delle masse basato su una profonda conoscenza delle pulsioni erotiche individuali e collettive». Oltre alla primogenitura della della psicanalisi quindi il rinascimento anticipa la psicosociologia applicate e di massa: scienza della comunicazione ante-litteram e qualcosa che ha a che fare con la gestione dell’economia degli affetti e del desiderio, un tema ultra-contemporaneo che dalla critica dell’ideologia alla riflessione sulla sur-modernità più recente parla dell’oggi e dell’homo videns.
«Il mago del Rinascimento è sì psicoanalista e profeta, ma anticipa anche professioni moderne come quelle di capo delle relazioni pubbliche, propagandista, spia, uomo politico, censore, direttore dei mezzi di comunicazione di massa, agente pubblicitario» (Eros e magia, p. 9)
«il mago del De Vinculis è il prototipo dei sistemi impersonali dei mass-media, della censura indiretta, della manipolazione globale e dei brain-trusts che esercitano il loro controllo occulto sulle masse» (ivi, p. 145)
La magia è l’applicazione dell’eros, manipolazione di fantasmi, scienza dei bisogni immaginari e forza attiva in grado di determinare mutamenti dell’immagine del mondo. Magia è la capacità di suscitare impressioni persistenti sull’immaginazione altrui. Scrive Culianu: la «magia è reale?». In qualche modo sì, attraverso la «manipolazione attraverso l’immagine e il linguaggio».
Se ci spostiamo a prendere in considerazione l’ultimo Culianu, quello di Out of this world, 1991 (ed. it. I viaggi dell’anima) che precede di poco la morte, siamo di fronte di nuovo a una ripresa della tematica del viaggio dell’anima e dell’immaginazione, con una marcatura accentuata sugli aspetti teorici e sulla cornice epistemologica. Il lavoro di ricerca comparatistica su sogni, visioni, estasi che dallo sciamanesimo abbraccia esperienze letterarie moderne, è solo un momento di una più generale teoria della «trasmissione cognitiva» che spiega diffusione di idee e comportamente simbolici. Se Eros e magia ha quindi un sottotesto politico, in Out of this word la raggiunta stabilità dello studioso in America si avverte nel progetto di esplorazione di universi mentali e di definizione di un’ontologia dello spazio mentale: «infinito perché non vi è limite al nostro immaginare sempre più spazio» (VA, p. 5).
Ogni viaggio nell’alterità e nell’ulteriorità, del passato, dell’oltretomba, della letteratura, è in definitiva un viaggio dell’immaginazione.
Essa segue le regola della intertestualità: ovvero reciproca interazione tra passato e presente e predisposizione mentale a plasmare ogni nuova esperienza sui modelli precedenti (VA, p. 9). Modello complesso di trasmissione, è un’ermeneutica che implica ripetizione e innovazione: «l’uomo produce pensieri e, se possiede un modello per il suo pensare, i suoi pensieri sono prevedibili fin dall’inizio». Conviene sottolineare che l’intertestualità è un fenomeno mentale, in una nozione di testo allargata che implica anche testi non scritti. Coulianu allude a «pensieri umani stampati in eterno su qualche sorte di sostanza», come si legge nel racconto La sequenza segreta. Come non pensare alla nozione di «testo» di Derrida e a quella di «traccia» e «archi-scrittura»?
Inoltre qui è esplicito il rifiuto del modello, eccessivamente vago, dell’immaginario collettivo junghiano. Coincidente con l’immaginale (cfr. Corbin) la tradizione culturale è pensata in termini cognitivi come il risultato di un semplice insieme di norme tale da produrre, nelle menti umane e in un arco di tempo infinito, gli stessi risultati.
Questa «riconsiderazione attiva della tradizione» spiega la persistenza di pratiche e credenze attraverso la porosità dei tempi. «Ognuno infatti pensa una parte di tradizione, e talore viene da questa pensato; e in questo processo si raggiunge l’autoconsapevolezza cognitiva che ciò che è pensato è sperimentato, e tutto ciò che è sperimentato ha un riscontro in ciò che è pensato».
Patapievici ha mostrato in modo esauriente le fonti teoriche matematiche, fisiche, epistemologiche di Culianu, su cui non mi soffermo. Mi limito a rimarcare scelte delle citazioni di altri autori che Culianu trova affini.
Non è un caso che ritorni più volte tra gli autori citati Carlo Ginzburg, sia nei Benandanti che nella Storia notturna, con il suo modello di tradizione e reiscrizione dei saperi tradizionali in una lunghissima durata dei tempi, fin dal preistorico. Anche Ginzburg considerava la storiografia come viaggio all’inferi, alla stregua dei viaggi ultraterreni che studiava: Culianu annovera la pratica storiografica tra i viaggi nell’alterità nel senso che la stessa funzione teoretica dell’immaginazione che in alcuni momenti di storia della cultura è diventata esperienza di alterità, nel nostro codice epsitemologico opera attivamente nel sapere scientifico.
Non è qualcosa di diverso rispetto all’affermazione condivisa da Lévi-Strauss, da Blumenberg, da Detienne, da Jesi, che lo studio della mitologia sia la continuazione dell’elaborazione del mito stesso.
In Culianu il tema del fantastico è però svolto in modo originale: nel primo capitolo di I viaggi dell’anima si parla apertamente di quarta dimensione, con riferimenti matematici e fisici che mettono a dura prova il lettore e che chiamano in causa il movimento quadrimensionalista che da Hinton a Lewis Carrol a Abbot a Borges definisce e apre una pagina di storia delle idee che disgraziatamente spesso è diventata occultismo e si è squalificata dal punto di vista scientifico. Ma la tesi è chiara: l’immaginazione coincide con l’iperspazio o quarta dimensione, nel quale valgono differenti regole spazio temporali rispetto al mondo 3-D.

2. Studiare e raccontare, fiction e non-fiction
Ne viaggi dell’anima, un unico mondo narrativo unisce magia antica e rinascimentale, tradizione alchemica, fantascienza, scienza, immaginazione poetica.
Il Culianu narratore continua il lavoro dello studioso con mezzi solo apparentemente diversi. Le rouleau diaphane (1986 e 1989, ed. it. 2011) è un romanzo composto da una prefazione e undici capitoli che combina il fascino della propria forma narrativa, per tasselli analogici ma non isomorfi che rinviano agli altri in modo ricorsivo e che appartengono a un medesimo discorso generale, con suggestioni erudite e arcane di un sapere magico-iniziatico che attraversa i secoli e mostra vie di conoscenza segrete.
Erede dei racconti di Borges, di Eliade, che al lettore italiano ricordano anche l’Eco de Il pendolo di Foucalt, tocca tutte le corde della fiction per palati fini: intellettuale e coltissimo per scrittura e temi, ha una scrittura magistrale nell'incedere per allusioni e suggestioni. Inoltre l'insistenza sul rapporto tra fenomeni cognitivi e religiosi è continua, in modo tale che la letteratura parte integrante dell’attività di studioso.
Coulianu ha un ché di malinconico struggente e sottilmente inquietante, oltreché visionario. Jesi ed Eco – solo per citare esempi di studiosi-narratori – sono più ironici, leggeri, euforici, giocosi. In Culianu c’è il tratto melanconico del filologo dilaniato per aver perso mondi migliori e qualcosa che ha a che fare con l'individuazione, la razionalità e la segmentazione dello spazio-tempo.
É stato già detto molto: mi limito a riprendere qualche aspetto tratto dai racconti le memorie del prof. William H., studioso controfigura, che ricorda la visione multipla dell’Aleph («uno dei punti dello spazio che contiene tutti gli altri punti»), esperienza di un tempo unitario, indiviso e contratto. Si tratta di un’allegoria dell’attività scientifica che implica stati di coscienza superiori, in cui la tensione al sapere assoluto si colloca nella sfera del misterioso e dell’inquietudine, per la propria impossibilità, o meglio per i costi che essa comporta.
O il racconto della fine di Al Kindî come passaggio dalla presenza a sé alla assenza, intesa come forma superiore di consapevolezza ulteriore alla soggettività limitata al principium individuationis.
Su tutta svetta la presenza ricorrente della Dea che è bellezza, Grazia, bellezza Gioia, Miss Emeralds, Mekor Hayym, incarnazione femminile della sophia e dell’eros, allusiva e sfuggente come la teologia dello smeraldo, in cui rientrano Afrodite, il verde, la spuma del mare e il sapore del sale. Il gioco dello smeraldo è un racconto breve perfetto, degno di antologia: qui lo stile narrativo è metanarrazione di uno stato estatico, che cela anche una felice autobiografica storia d’amore e la trasfigura.
Nel continuo gioco dell’autobiografia dell’intellettuale il tema della politica in rapporto alla religione entra con l’ironia, ad esempio sulla saggezza di Tozgrec, che incarna i saggi tutti i tempi e anche il rapporto con i media nella nostra epoca di risacralizzazioni a volte isteriche. Così come il racconto, del 1986, L’intervento degli zorabi in Jormania, e poi Jormania libera, capolavoro di allegoria politica che prefigura il crollo del regime di Ceausescu e dipinge in modo impietoso la violenza e la mancanza di libertà del socialismo reale: molti hanno letto la fine tragica dell’autore in connessione con le sue prese di posizione politiche.
Ma c’è anche spazio per la teoria della cultura attraverso il racconto come ne La sequenza segreta, in cui la propria visione della coscienza multidimensionale è narrata con un falso eresiologico di Giovanni di Cappadocia, (che è poi l’intelletto separato di Averroè): Giovanni è «il pazzo somaro» che aveva una griglia
«che gli permetteva di predire tutti pensieri futuri, perché il mondo non è che un pensiero fra gli altri ed è stato creato unicamente per dare agli uomini l’opportunità di pensare. Quando tutti i pensieri saranno stati pensati, il mondo cesserà di esistere».
Qui Culianu entra nella sua teoria della storia, sulla questione dell'anacronia e della porosità dei tempi. Il tempo non è immobile; l’accesso al passato lo ricrea; lo svolgimento del passato è adesso. Siamo oltre l’ermeneutica della fusione di orizzonti: come si è già detto la fisica relativistica e dei paradossi temporali (di Eistein, Podolski e Rosen) è in grado di spiegare questa concezione, ma mi sembra che Culianu ricordi (e esorbiti oltre) Benjamin, nella critica dell’illusione spazio-temporale, che il critico berlinese, in una sintesi di neokantismo, messianismo ebraico e marxismo soreliano, considerava «superstizione del continuum storico delineata dallo storicismo».
Certo la tensione scientista e sur-positivista di Culianu, soprattutto dell’ultimo, attento alla cibernetica e all’informatica lo distanziano da questo.
Lo si vede nella questione della lingua, che potrebbe avvicinarlo a Benjamin, attraverso le comuni fonti cabbalistiche e la mediazione di Scholem, in Sul linguaggio della creazione, in cui il protagonista – ancora una volta professore, controfigura dell’autore – entra in possesso di una misteriosa scatola contenente il segreto della lingua con cui Dio ha creato il mondo. Qui è raccontata la macchina di Lullo che interessava così tanto lo studioso negli ultimi mesi di vita, precursore dei personal computer, come ha appena mostrato Patapievici.
Al di là delle differenze in entrambi i pensatori l’immaginazione è il luogo dell’«attualità» del passato.
Questo per ribadire ulteriormente come Coulianu sia estraneo alla tradizione occultista, come anche Umberto Eco ha sottolineato (1997, un nota recensione su «Repubblica» del famoso libro di Ted Anton Eros, Magic and the Murder…).
Scrive Eco: «Il fatto è che Culianu non ha mai asserito che il mondo sia governato da forze magiche, ma semplicemente che esiste un universo delle idee che si sviluppano in modo quasi autonomo, attraverso una combinatoria astratta, e queste combinazioni interferiscono con la storia, con gli eventi materiali, in modi spesso imprevedibili, provocando effetti diversi. (…) Culianu riteneva che "le idee formano sistemi che possono essere visti come oggetti ideali" e che questi oggetti ideali si uniscono e si separano attraverso una combinatoria di tipo matematico (più che una alchimia, una chimica o forse una fisica delle idee). La sua concezione era in gran parte affine a quella dello strutturalismo di Lévi-Strauss, che Culianu rileggeva alla luce di una teoria morfodinamica di tipo quasi biologico.»
Il fascino per l’irrazionale non porta mai all’abbandono del piano razionale, al limite all’eccesso di iper-razionalismo. Non c’è occultismo ma scienza complessa, alternativa e antiriduzionista, che al limite i più possono giudicare spericolata.
L’immaginazione rimane sempre e comunque sul piano umano: è interessante come le spiegazioni di Culianu siano sempre demistificanti. Ad esempio nello studio dell’estasi oltre al momento fenomenologico c’è anche quello eziologico: all’origine delle credenze della mobilità dell’anima e volo, come si legge nelle Appendici di Eros e Magia, vi sono tradizioni sedimentate, tecniche di potenziamento dell’immaginazione, pratiche rituali, leadership carismatiche, fenomeni di gruppo, uso di allucinogeni.

3. Alle scoperta dell’Incognita
Culianu ha dichiarato apertamente le premesse implicite del suo lavoro, non solo in tanti passi nelle opere ma nell’ultimo periodo anche in articoli come System and History in «Incognita», 1990, la rivista che fondò e diresse.
Qui leggiamo che storia è la risultanza di interazione sequenziale di sistemi di pensiero, che sono extratemporali, compiuta dalle menti umane mediante processi che avvengono nel tempo. «Intersezione sequenziali di sistemi che mostrano 3 caratteristiche:
1) derivano un insieme di idee logiche di base
2) esistono nella loro dimensione che non è la dimensione della storia
3) sono attivati dalle menti umane in una sequenza imprevedibile.
In breve i sistemi possono essere definiti come logici, sincronici e mentali allo stesso tempo».
Un’ottima sintesi critica si ritrova in Moshe Idel (Ascensions on high in Jewish misticism, 2005 ) che si è confrontato con l’opera di Culianu, di cui condivide molti aspetti di metodo: un eclettismo metodologico, al crocevia tra fenomenologia, strutturalismo, storia delle idee. Nell’amico e collega individua una visione della religione e della creatività umana basata su differenti combinazioni di elementi basilari. Si tratta di elementi cognitivi: categorie della mente umana che condizionano la comprensione delle esperienze o delle rivelazioni.
Idel, storicizzando il percorso delle scienze religiose, parla di un’evoluzione da forme di spiegazione di tipo trascendente a forme di tipo immanente, di cui l’approccio di Culianu è solo il più recente. Si parva licet mi sembra si possa intravvedere una dialettica tra maestro e allievo e persino ipotizzare una correlazione tra giovani studiosi come Coulianu e Jesi nel rapporto con i loro maestri, Eliade e Kerényi. Entrambi si muovono su una eredità metafisica che rielaborano in senso metapsicologico in un diverso quadro epistemico.
Originate da un approccio teologico e metafisico, spiegazioni storiche divengono sociologiche, psicologiche e poi cognitive, fino a quelle post-moderne che attribuiscono priorità al testo, rispetto all’autore e alle sue intenzioni.
In più rispetto a Eliade, Culianu è un intellettuale urbano, sradicato e mondialista che ritrova se stesso negli stati Uniti, dopo aver transitato tra Romania, Italia, Olanda, differente dal maestro che veniva da un mondo rurale dominato dalle nozione di ‘naturale’ e ‘organico’. La sua vicenda personale di fine millennio, per di più negli anni ottanta americani, implica una diversa nozione dello spazio e della società in termini di psicologia individuale: da qui l’idea che l’intera sfera della creatività sia data da differenti combinazioni di elementi basilari che ritornano in varie forme di interazione.
É stato già ampliamente detto prima di me: per Culianu è un dato di fatto che la trasformazione sia dovuta all’organizzarsi e all’adattamento di medesimi elementi in sempre nuove forme di ricombinazione in senso post-strutturalista. I problemi che poneva riguardavano piuttosto il modo in cui dagli stessi elementi basiliari emergano i sistemi; o l’individuazione dei fattori che determinano l’attualizzazione delle possibilità latenti; o è il ruolo dei soggetti individuali nei processi culturali. L’attualizzazione è il risultato di circostanze storiche indipendenti da individui o gruppi? O è il risultato di scelte umane che uniscono alcuni elementi e li proiettano nella storia?
Idel suggerisce che quest’ultima possibilità sia la meno congruente con la visione generale di Culianu, per cui il sistema è più forte dell’individuo. In sintonia con gli anni ottanta e con la forte influenza post-strutturalista di Foucault e di Derrida in particolare negli ambienti accademici degli Stati Uniti, Culianu attribuisce priorità alla struttura e la concepisce capace di sovradeterminare la creatività umana.
Nel rifiuto di ogni determinismo sociale politico o economico, gli elementi ricombinanti attraversano i tempi storici in base a logiche imprevedibili: una visione non diversa dal neo-nietzschianesimo foucaultiano di Paul Veyne negli anni ottanta, relativismo estremo che parla di pluralità e analogie dei mondi di verità in base a programmi di verità retti da logiche e discorsi omologhi e sovrapponibili e giudica impossibile una vera scoperta delle cause del divenire storico; ma con un forte componente logico-cognitivista e una tendenza al sapere assoluto neo-hegeliana.
La soggettività è dunque un fattore derivato e non primevo, un prodotto dell’immaginazione benché ne sia il luogo. Qualunque cosa essa sia, come scrive Culianu «un misterioso meccanismo del mio cervello o una cospirazione divina» (RD, p. 177).


Appendici:
Qui si apre una pagina che riguarda la filosofia della storia di Coulianu: già in EM si parla della censura dell’immaginazione operata da Riforma e Controriforma, cesura che coincide con la nascita della modernità: oggi, in un mutato rapporto tra conscio e inconscio, la capacità di controllare i processi immaginari è nulla, e questo spiega anche il potere mitologico dei totalitarismi.
Viviamo in un mondo «senza cultura e senza verità», in cui il ‘disagio della civiltà’ è al massimo grado e le nevrosi croniche: prodotto della civiltà della Riforma che con orientamento unilaterale rifiuta il valore dell’immaginario.
Da qui la speranza di un nuovo Rinascimento con restituito ruolo dell’immaginazione, rinascimento della scienza psichica o pneumatica che possa invertire regressione psico-sociale e reazionarismo politico (EM, pp. 324 ss.).
Ecco un altro aspetto della epistemologia post-illuminista di Coulianu, in cui
«Tutte le visuali del mondo sono valide, che esse sono parimenti distanti dalla Verità e che tra esse non c’è continuità» (p. 9); «tutte le rete di idee e o programmi collettivi e individuali si valgono l’un altro» (p. 11). Nel ridimensionamento delle cause economiche e militari, ogni sistema culturale è basato sui miti.]