sabato 21 dicembre 2013

dies natalis



Iside allatta Horus bambino, Roma II sec.



Celebriamo le feste.

Festeggiamo chi ci ama, le stagioni, le lune.
Ciascuno ritroverà la certezza che quaggiù c'è posto per lui.
Forse è questo, l'essenziale.


jeanne hersch


mercoledì 11 dicembre 2013

lemmario - Illusione



sui blocchi di Torino 9 dicembre e seguenti.


"La ribellione fascista nasce sempre là dove un'emozione rivoluzionaria viene trasformata in illusione per paura della verità ". W. Reich





Lemmario - Illusione





Il termine latino illusio, che significa ‘ironia’, ‘derisione’, ‘scherno’ deriva da illusus, participio passato del verbo illudo (ingannare), composto dalla particella ‘in’ e dal verbo ‘ludo’ (gioco), con significato di ‘inserire in un gioco’, ‘prendersi gioco’.
A partire da questo campo semantico, il termine italiano designa la rappresentazione ingannevole che proviene da un errore dei sensi, in quanto deformazione dell’atto conoscitivo che porta a considerare reale ciò che è invece il prodotto dell’immaginazione e dell’astrazione. Esempio tipico di percezione alterata che produce un’apparenza fallace, ovvero non corrispondente al vero, si ha con l’illusione ottica, consistente in una differente interpretazione dei dati sensoriali, o con l’illusione prospettica, errore determinato dal modo in cui gli oggetti si offrono al punto di vista.

Da tale nucleo concettuale si irradiano i significati del termine che indicano inganno, falsità, astuzia, scherno, e in relazione al pensiero magico-religioso tradizionale, anche incantesimo, apparizione diabolica, tentazione, fino all’illusionismo, come tecnica artificiale volta a stupire e meravigliare a fini ricreativi.


In senso traslato, in un ambito che riguarda teorie e concezioni della realtà di tipo religioso, filosofico o scientifico il termine viene utilizzato per indicare una credenza infondata, un giudizio errato, un’opinione erronea o una dottrina non sostenibile: tale concezione presuppone il possesso di una verità, a partire dalla quale viene definita falsità ogni esperienza ad essa non riconducibile.

In una accezione che contempla una sfumatura di carattere emotivo, interna alla sensibilità romantica, si considera un’illusione un’ardente speranza che non si realizzerà mai: essa è desiderio inappagabile, ideale vagheggiato, ambizione impossibile, sogno non attuabile il cui mancato raggiungimento è causa di pena tormentosa o malinconica rassegnazione a seconda dei casi.

La poetica leopardiana vede ad esempio la giovinezza come età dell’illusione, fatta di speranze, sogni e progetti, destinata a infrangersi “all’apparire del vero”, quando la vita adulta con la sua brutale fattualità delude inevitabilmente ogni sogno e costringe a un’amara rassegnazione.

Ma se l’illusione appartiene al regno dell’immaginazione, può giocare un ruolo differente e positivo proprio rispetto a quanto di deludente la realtà possa presentare alla vita. Come capacità di rielaborare immagini, ovvero prodotti della ‘fantasia’, l’immaginazione può trascendere la realtà alla luce del possibile: nell’esperienza dell’avanguardia surrealista è sottolineata la potenza dell’inconscio, che liberato dalle costrizioni sociali e razionali è capace di produrre associazioni mentali nuove ed inedite, segni di una realtà differente da quella consueta. 

L’illusione diventa così parte di quella facoltà inventiva che esprime in forma automatica e incontrollata una implicita critica al mondo nella forma estraniante della visione, dell’allucinazione e del sogno.

sabato 30 novembre 2013

lemmario - Assurdo





Assurdo


Il termine latino absurdus significa ‘dissonante’, ‘stonato’ ed è composto da ab (particella che indica allontanamento) e surdus, forse dalla radice sanscrita svar/suar (suonare). Già nell’antichità in senso figurato assume il significato che ha in italiano: ‘assurdo’ è ciò che è in contrasto con l’evidenza logica, intrinsecamente contraddittorio, privo di fondamento razionale e di riscontro nel senso comune. Metafora musicale, è una ‘stonatura’ che diverge rispetto all’armonia interna a un discorso.
Nel linguaggio comune il termine è usato tanto come aggettivo che come sostantivo, (riscontrato anche nella forma ‘assurdità’) per designare un fenomeno (atto, evento, ragionamento) che contrasta con le opinioni consolidate e si presenta come sconveniente, stravagante, inopportuno.
In filosofia l’assurdo è stato utilizzato nei ragionamenti come strumento dialettico fin dai tempi dei sofisti, maestri di retorica e professionisti dell’argomentazione che hanno elaborato nell’Atene democratica le regole della dimostrazione: per difendere la validità di una tesi si mette in luce l’impossibilità dell’affermazione contraria. Tale proposizione viene respinta mostrando l’assurdità delle conseguenze a cui si andrebbe incontro qualora venisse accettata.
Esso compare nelle forme di irrazionalismo o di parziale rifiuto della ragione che hanno caratterizzato diverse teorie filosofiche di matrice religiosa. Nel cristianesimno è opzione a favore della priorità della fede sulla ragione: credo quia absurdum era una formulazione del cristianesimo delle origini (Tertulliano, II sec.) volto a negare compromessi con la ragione e la cultura filosofica (“bisogna cercare Dio in semplicità di cuore”); verrà ripresa dalla tarda teologia medievale (XIV sec.) secondo cui, Dio, potentia absoluta dalla volontà imperscrutabile, è in grado di agire in qualsiasi modo, persino violando le leggi di natura, come avviene nei miracoli. In tal senso la Rivelazione e la pratica liturgica devono essere accettate come mistero della fede, irriducibili all’esperienza alla ragione e incomprensibili dalla ragione umana.
L’assurdo come irrazionalità è riscontrato anche nella filosofia moderna. Nel pensiero, profondamente religioso, di Soren Kierkegaard (1813-1855) l’esistenza dell’individuo si rivela incompatibile con la dimensione sociale e con ogni forma di ottimismo: il senso della vita si rivela nella solitudine e nella radicalità richieste da una fede assoluta. Ne sono la prova la scandalosa e paradossale richiesta di Dio ad Abramo di sacrificare il proprio figlio Isacco e la stessa Passione di Cristo, misteriosa umiliazione del divino nell’umano.
Nel Novecento esperienze artistiche come il Teatro dell’assurdo mettono in luce le contraddizioni della realtà, nascoste sotto la loro parvenza di linearità; le avanguardie letterarie come il futurismo, il dadaismo e il surrealismo esprimono l’estraniamento e lo sgomento a cui la modernità, dalle devastazione delle guerre alla pervasività del sistema di fabbrica, sottopone gli individui cresciuti nell’ottocentesco mito ottimistico del progresso. L’esistenzialismo ripropone il tema dell’assurdo su un piano teorico che nega ogni trascendenza e la presenza di una ragione interna alla storia e al mondo: la vita è per Sartre gratuita, priva di senso e non riconducibile ad alcuna razionalità (“Esistere è essere lì semplicemente. Gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può dedurre”). L’essere è un puro dato materiale, fattuale ed opaco che non prevede alcun fondamento extraumano e sovrastorico. Il divino scompare dall’orizzonte dell’essere umano che deve assumere su di sé la responsabilità della determinazione del senso e del divenire della società e della storia.

domenica 24 novembre 2013

lemmario - Furore





@FacesPics


Furore


Il termine ha origine dal latino furor, sostantivo derivato da furere ‘essere fuori di sé, impazzire’; indica lo stato di sconvolgimento della personalità che si manifesta come passione scomposta, delirio, ira, tipico dell’individuo che perde il controllo delle sue azioni e si abbandona alla gioia, alla collera, all’aggressività o alla violenza, con un impeto dai tratti animaleschi o estremi, assimilabili alle forze della natura.
Nell’antichità classica il furore era considerato di orgine divina: derivava dall’invasamento, ovvero la possessione della volontà dell’individuo da parte di un dio che ne dirigeva le azioni (entusiasmo, dal greco en e theos significa letteralmente “pieno di un dio”) ed era un aspetto dell’esaltazione profetica e sacerdotale. Anche l’amore era considerato causa di delirio, uscita da sé e oltrapassamento del senso della misura, secondo una concezione radicatasi poi nel tempo (si pensi all’Orlando furioso o alla cultura romantica).
Il filosofo rinascimentale Giordano Bruno (1548-1600) esprimeva la sua etica dell’azione con il nome di “eroico furore”(il primo termine veniva ricavato da eros). Immerso in un universo panteista e animato da forze vive, l’uomo è “arso d’amore” per l’infinito; la vita deve essere sforzo appassionato verso il superamento di ogni limite, spinta all’azione attiva e consapevole per la trasformazione della realtà, tensione verso l’unità con la natura divina.
In età moderna il termine perde il significato riferito alla trascendenza per designare aspetti negativi del comportamento individuale o collettivo che trovano la loro origine nella dimensione sociale, con particolare riferimento alle manifestazioni dell’ira. Recuperando un significato presente già nel latino, “furore” ricorre nella descrizione dell’agitazione e dello scompiglio che caratterizzano i tumulti e le sollevazioni popolari, che le classi dirigenti percepiscono come disordine e discordia interne al corpo sociale.
Tra Otto e Novecento, alimentato dalle ideologie, il termine è connesso alla dimensione politica: può essere tanto il “furore nazionalista” diffuso negli stati europei durante la Grande guerra, quanto il risentimento antiautoritario e antiborghese che accompagna le manifestazioni socialiste e le lotte del movimento operaio e sindacale.
In Vittorini il furore nasce come rabbia sociale per l’umanità schiacciata dal predominio delle forze trionfanti del fascismo europeo e, contestualmente, per gli orrori della guerra di Spagna, la prova generale del secondo conflitto mondiale. La repressione in Italia impedisce ogni sfogo di tali “furori”, definiti quindi “astratti”, responsabili dello stato di malessere e di prostrazione psicologica del protagonista di Conversazione in Sicilia.
Furore è il titolo italiano del capolavoro di John Steinbeck The Grapes of Wrath (1939, letteralmente “L’uva dell’ira”): esso narra del tragico esodo attraverso gli Stati Uniti di una famiglia durante la Grande depressione degli anni trenta, quando il mito della prosperità americana fu distrutto da una crisi economica di proporzioni inaudite. Milioni di persone persero il lavoro e si ritrovarono a lottare per sopravvivenza: nel romanzo un’umanità disperata si trascina da uno stato all’altro, trovando paghe miserabili, lavori semi-schiavili e un padronato feroce, alla ricerca di una redenzione che si manifesta in piccoli gesti di solidarietà.
Una differente accezione del termine, utilizzato in un’espressione risalente alla società dello spettacolo, sembra testimoniare la rottura con la cultura dell’impegno, avvenuta nel secondo dopoguerra: “fare furore” significa suscitare grande entusiasmo e riscuotere successo. A perdere il senno sono i consumatori di cultura pop nel testimoniare il loro apprezzamento verso i divi del cinema, della musica e della televisione, di cui si dichiarano fan (fanatic). L’intera sfera linguistica, proveniente dal sacro, viene risemantizzata nel profano, testimoniando la sostituzione del divino con l’effimero nei meccanismi di produzione dell’entusiasmo.

sabato 16 novembre 2013

lemmario - nostalgia


pezzi di lavori che ritornano, questa serie era per un manuale di letteratura per licei.
a volte ci si racconta anche così.





Nostalgia


Il termine francese nostalgie, dal greco nostos (ritorno) e algia (dolore, sofferenza), è un neologismo coniato dal medico dell’Università di Basilea Johannes Hofer nel 1688 per indicare lo stato psicologico e patologico diffuso tra i soldati svizzeri in servizio all’estero: il “male del ritorno” colpisce chi è lontano dal proprio paese, con sintomi quali febbre, allucinazioni e delirio, che scompaiono al rientro a casa. Ogni riferimento al desiderio di Ulisse, che soffre nelle sue peregrinazioni lontano da Itaca, o al neoplatonismo, che considerava l’Essere divino come patria dell’anima esiliata in terra, sono quindi costruiti a posteriori, mediante l’‘invenzione’ di un termine che designa un sentimento antico.
Nostalgia è lo stato di tristezza e rimpianto per la lontananza di persone o luoghi cari, il desiderio struggente di ritornare a casa, all’infanzia e agli oggetti importanti del proprio passato, di cui è vittima il migrante, costretto alla lontananza per cause di forza maggiore. Nella Dissertatio medica Hofer classifica la nostalgia come una malattia dell’immaginazione: per quanto siano le condizioni materiali (clima, paesaggio, abitudini alimentari) a creare sofferenza, il malato richiama ossessivamente una rappresentazione ideale della patria d’origine che non è mai reale, in un vissuto che fonde memoria e desiderio, processi cognitivi ed emotivi.
Il concetto di nostalgia perde progressivamente la connotazione medica per entrare nella sfera del sentimento e dalla metà dell’Ottocento il termine viene fatto proprio dalla letteratura: si pensi a Carducci nelle Rime nuove, che vagheggia una vita all'insegna della solarità mediante la celebrazione della natura e del passato, o all’opera di Ungaretti, in cui il termine assume sfumature che tengono insieme biografia (la nascita in Egitto), condizioni materiali (la guerra) ed esistenziali (la condizione umana).
Sovrapponendosi alla malinconia, dolce inquietudine non disgiunta da un certo compiacimento, la nostalgia diviene propensione a chiudersi in se stessi, atmosfera spirituale del desiderio inappagato o dell’aspirazione irraggiungibile a cui sono cari i paesaggi autunnali e le ore del crepuscolo. Quali che siano le sue ragioni (emigrazione, esilio politico, persone perdute…) la nostalgia è sempre il rimpianto di una situazione percepita come migliore rispetto a quella attuale, che comporta l’idealizzazione del passato e dell’origine (da qui anche la definizione di nostalgico, per chi rimpiange un momento storico, un assetto politico trascorso e concluso).
In termini psicanalitici, Freud chiama “sentimento oceanico”la sensazione di unità illimitata con l’universo derivata dalla condizione del neonato che non distingue tra se stesso e la madre, immerso in un’unione simbiotica e indifferenziata. La nostalgia, o meglio la sua radice, diviene il correlato del distacco originario dalla madre, l’archetipo di ogni processo di crescita e cambiamento, che significa sempre allontanarsi da qualcuno o qualcosa: fare i conti con una primigenia beatitudine ormai perduta, vorrebbe dire, in definitiva imparare a vivere.

sabato 26 ottobre 2013

70 anni di Shoah. La razzia del ghetto di Roma


altri materiali di archivio dal mio lavoro all'Unità dei primi 2mila


La deportazione dal Ghetto di Roma

Gianluca Garelli


Con la nascita della Repubblica Sociale, il destino degli ebrei italiani – già duramente provati dalla legislazione razziale in vigore dal novembre del ’38 – è segnato, in vergognoso ossequio all’alleato tedesco e sulla base dell’antisemitismo proprio di certe frange fasciste. Due mesi dopo, il 30 novembre, il Ministero dell’Interno avrebbe imposto l’arresto di tutti gli ebrei presenti nel nostro Paese, considerati “nemici” dell’Italia, e il sequestro dei loro beni. È previsto un premio per ogni ebreo catturato.
Comandi da eseguire? Non è così: la giustificazione, se mai può esservene una, proprio non regge. Nel marzo del ’43 il ministro bulgaro Dimitar Pesev aveva avuto il coraggio di imporre al proprio governo e al re Boris III, alleato con la Germania nazista, la revoca dell’ordine di deportazione di 48.000 ebrei, verificando personalmente che i prefetti avessero cura di astenersi dal commettere un’atroce barbarie per volere di Hitler.
In Italia, invece, lo zelo e l’impazienza dei nazifascisti hanno addirittura preceduto l’ordinanza del Ministero di una ventina di giorni. All’inizio di ottobre era stato accolto nella capitale un gruppo d’intervento delle SS sotto la guida dal capitano Theodor Dannecker – l’ufficiale che dal 1940 al ’42 aveva organizzato la deportazione degli ebrei francesi, ed ora si apprestava a occuparsi di quelli italiani. Dannecker si avvale della schedatura degli ebrei residenti in Italia che il regime monarchico-fascista aveva attuato a partire dal ’38, nonché dell’indirizzario completo degli ebrei romani raccolto con ogni cura da una squadra di agenti della questura (al comando del commissario Cappa).
La mattina del 16, i poliziotti tedeschi sanno dunque a quali porte bussare. Gli arresti durano dalle 5,30 alle 14. I catturati sono 1259: 363 uomini, 689 donne, 207 bambini, provvisoriamente sistemati nei locali del Collegio Militare. Gli uomini vengono immediatamente separati dalle donne e dai bambini. Dopo minuziosi controlli, all'alba del 17 vengono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, e quanti al momento della retata si erano trovati per caso nelle case dei ricercati – nell’insieme 237 persone. Delle 1022 persone rimaste, una sola non è ebrea: si tratta di una donna che non intende abbandonare un orfano malato che le era stato affidato. Morirà con lui nel lager.
Il 22 il treno giunge ad Auschwitz-Birkenau. A nessuno è permesso scendere fino al giorno successivo. Poi incomincia la selezione: 839 prigionieri sono destinati immediatamente alla camera a gas (gli anziani, i bambini, quasi tutte le donne). Gli altri 183 vengono utilizzati come lavoratori schiavi. Alla liberazione del campo, solo 17 sarebbero risultati ancora in vita, tra i quali una sola donna.


Domenica 26 settembre 1943, ore 18 I presidenti della Comunità Israelitica di Roma e dell’Unione delle comunità italiane sono convocati dal Maggiore delle SS Herbert Kappler all’ambasciata tedesca e invitati a consegnare 50 Kg d’oro entro un giorno e mezzo (si otterrà poi la proroga di qualche ora). In caso contrario è minacciata la deportazione di 200 ebrei.

Martedì 28, ore 18 Secondo le istruzioni di Kappler, l’oro richiesto viene consegnato in via Tasso. Seguono estenuanti controlli per il sospetto infondato dei nazisti che il quantitativo fosse inferiore al previsto.

Mercoledì 29, mattina reparti delle SS asportano archivi, documenti, registri e 2 milioni di denaro liquido dai locali della Comunità Israelitica. Non trovano gli arredi del Tempio e gli oggetti di pregio, messi precauzionalmente in salvo.

Sabato 9 ottobre Vengono arrestati parecchi ebrei segnalati in precedenza per attività antifascista.

Lunedì 11 Un ufficiale SS, nonché cultore di paleografia, con scorta armata irrompe nelle biblioteche della Comunità Israelitica e del Collegio Rabbinico e fa asportare libri antichi e preziosi codici manoscritti, che su carrozzoni merci saranno portati a Monaco di Baviera.

Venerdì 15, sera Una donna ebrea, da Trastevere, diffonde nel Ghetto la notizia che i tedeschi possiedono una lista di 200 capi-famiglia ebrei e intendono portarli via con tutte le famiglie. Nessuno dà credito all’informazione.
Ore 23 All’albergo Vittoria (al di fuori del Ghetto) viene arrestata una coppia di ebrei triestini
Ore 24 circa Nel Ghetto, drappelli di soldati tedeschi iniziano a sparare in aria, poi a lanciare bombe a mano, e proseguono per più di tre ore, per impedire a chiunque di uscir di casa.

Sabato 16, ore 5,30 circa Le SS (reparti specializzati giunti a Roma da poche ore) dispongono sentinelle agli angoli delle strade del Ghetto; in base a vari elenchi dattilografati di nomi, salgono poi nelle case e bussano agli appartamenti corrispondenti; sfondano le porte che non vengono loro aperte e prelevano tutti gli abitanti (compresi gli ammalati gravi), concedendo loro 20 minuti per preparare il necessario per il “trasferimento”, secondo le istruzioni fornite in un apposito foglio. Le famiglie rastrellate, incolonnate per strada e percosse col calcio dei fucili, sono radunate in un’area di scavi vicina ai resti del teatro di Marcello.
Ore 13 Nel Ghetto ha termine l’operazione, che si è svolta intanto con le stesse modalità, anche se più rapidamente, negli altri quartieri dell’Urbe. Tutte le vittime vengono caricate in camion e poi ammassate nel Collegio Militare di Via della Lungara.

Lunedì 18, all’alba I prigionieri sono condotti in autofurgone alla stazione Tiburtina e stipati su carri bestiame.
Ore 13, 30 Il treno viene consegnato al macchinista e parte mezz’ora dopo.


Il rastrellamento del Ghetto di Roma nel racconto di Giacomo Debenedetti
di Bianca Danna


Giacomo Debenedetti (1901-1967), critico letterario, sfuggì alla deportazione nascondendosi in casa di una vicina. Nel giugno ‘44 si unì alle formazioni partigiane attive sull'Appennino toscano.

Era venerdì, la sera del 15 ottobre. Ogni venerdì, «all’accendersi della prima stella, si celebrava il ritorno del sabato». Erano già tutti in casa. Ma l’angoscia irrompe, turba il tempo del rito. «Una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia», è la prima figura umana che vediamo nel Ghetto. È venuta di corsa da Trastevere, con il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha in mano «una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con tutte le famiglie». Nessuno vuole crederci, molti ridono. «Credetemi! scappate, vi dico! - Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli! - Ve ne pentirete! Se fossi una signora mi credereste». Nemmeno Cassandra, secondo Omero, fu creduta quando annunciava la sventura della sua città, benché figlia del re. Qui però l’Autore non intende scrivere epica o tragedia, ma cronaca fedele ai fatti. E ha rintracciato molti testimoni di quella sera, convinti che la «poveraccia», la «pazza» si confondesse con un pericolo ormai scongiurato, vecchio di una ventina di giorni.
A fine settembre, infatti, le SS di Kappler avevano minacciato di deportare duecento ebrei - italiani doppiamente colpevoli, è il pretesto: traditori dopo l’8 settembre e da sempre nemici della Germania per razza - se la Comunità Israelitica di Roma non avesse consegnato 50 chili d’oro. In un giorno e mezzo si raccolse l’oro, con la vigilanza della Questura italiana, l’offerta ufficiosa di aiuto del Vaticano (gradita ma poi non accolta) e l’imbarazzata, ma generosa donazione di molti «ariani»; si portò l’oro in via Tasso, a un certo capitano Schultz, maniacale nell’accertare che gli ebrei non avessero frodato il Reich. Così non era, ma l’indomani (29 settembre) i reparti di Kappler ripulivano i locali della Comunità del denaro liquido, e l’11 ottobre la sua Biblioteca, nonché quella del Collegio Rabbinico, di libri, manoscritti, codici e pergamene. Finiscono così a Monaco di Baviera, forse sugli stessi carrozzoni merci che serviranno cinque giorni dopo per caricare i deportati, «le fonti autentiche di tutta la storia, fin dalle origini, degli ebrei di Roma, i più vicini e diretti discendenti dell’antico giudaismo». «Generazioni che parevano passate su questa terra veramente come la schiatta delle foglie, attendevano dal fondo di quelle carte che qualcuno le facesse parlare».
Qui, nel commento al furto della memoria storica del Ghetto, Giacomo Debenedetti lascia intendere il senso più alto, più toccante che il suo resoconto, e forse la letteratura intera, può assumere. Restituire, attraverso un paziente vaglio di testimonianze, le voci di chi fu costretto al silenzio. Farci rivedere ciò che videro, risentire ciò che udirono.
Spari verso la mezzanotte, bombe a mano sui marciapiedi del ghetto, grida colleriche di soldati, per due, tre ore (Così nessuno penserà di uscire, prenderanno tutti). I mamonni, gli sbirri, verso le 5 del sabato 16 ottobre bloccano strade e case del Ghetto. Da una casa della stretta via S. Ambrogio, la signora Laurina S. sente lamenti e grida. Si affaccia e vede passare in mezzo alla via del Portico le famiglie rastrellate, spinte avanti col calcio dei mitragliatori. In una scena corale - la cui regia, avverte il narratore, era «nelle cose stesse» - «le madri, o talvolta i padri, portano in braccio i piccini»; «i ragazzi cercano negli occhi dei genitori (…) un conforto che questi non possono più dare».
Passano vecchie inferme, giovani donne che implorano i soldati e ricevono percosse, un paralitico portato a braccia (finirà scaraventato sul camion «come un mobile fuori uso»). Laurina stessa, ascoltati gli ordini incomprensibili del caposquadra SS, leggerà ai vicini il biglietto che porta scritte a macchina, in tedesco e in italiano, le indicazioni per il “trasferimento”: hanno venti minuti per prendere con sé viveri per almeno 8 giorni, carta d’identità, eventuale valigetta con effetti personali, denaro e gioielli. Gli ammalati, anche gravissimi, non possono restare indietro. «Infermeria si trova nel campo».
Insomma, «il biglietto parlava chiaro». Eppure le ultime parole che Ester P., allora dodicenne, ricorda della zia («torna a casa, se no poi papà mi strilla») dicono come Loro continuassero «a pensare a un dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima». Del resto la salvezza di Laurina, grazie alla sua gamba ingessata, e quella degli uomini in fila per la distribuzione di sigarette, che nessun tedesco ebbe lo zelo di cercare, fanno ritenere a Debenedetti che la brutalità delle SS fosse, quella mattina, professionale più che sadica, malgrado le eccezioni: contava consegnare ai mandanti «un certo numero di ebrei», un migliaio circa, numero non solo raggiunto ma anche superato. Come scrisse Moravia in una sua introduzione a 16 ottobre 1943, «Il razzismo è un'ideologia di massa; e le sue vittime (...) sono anch'esse massa».
Li portano dapprima nella fossa di un’area di scavi, ai piedi della palazzina delle Antichità e Belle Arti, poi, sui camion, nel Collegio Militare, dove separano donne e uomini, «i più ben portanti (…) col capo volto verso il muro»: questo e altro, compreso il divieto, quasi sempre, di raggiungere le latrine, rende subito evidente «il proposito di umiliare». Si attende l’alba del lunedì per stivare tutti su carri bestiame, che lasciano la stazione di Roma-Tiburtino alle 14. La ricerca dell’esattezza fa registrare ancora il nome e la relazione del macchinista (a Orte, tentativi di fuga, repressi con le armi; a Chiusi, si scarica il corpo di una deceduta). Fino al termine della cronaca, l’accuratezza dell’indagine (il “metodo filologico”) rivela un “abito morale”, un “metodo umano”: quello che il Debenedetti saggista, pochi anni dopo, avrebbe teorizzato parlando delle Lettere di Gramsci (“Tener conto di tutti i fattori che compongono l'uomo; non sentirsi mai il diritto, o l'arroganza, di trascurarne alcuno”). Il rigore impersonale del resoconto, in 16 ottobre, non attenua mai la pietas di chi vorrebbe, e non può, sottrarre all’oblio altri particolari, altre impressioni: il viso di una bambina, dietro la grata del vagone piombato, che a una viaggiatrice su un altro treno era parso di riconoscere; il viaggio dopo che quel macchinista smontò; il nome dei nati nel cortile del Collegio Militare, il sabato notte: non certo “pellegrino in terra straniera”, come chiamò Mosè il figlio della schiavitù: «i due nati in quella notte senza Mosè erano pellegrini verso le camere dei gas».


La Carta di Verona, costituzione della Rsi

Tra il 14 e il 16 novembre 1943 il Partito fascista repubblicano si riunisce in cogresso a Verona:
“È stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti, ha chiesto l’abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà! Ci potremmo chiedere, con ciò, perché abbiamo, per vent’anni, lottato coi comunisti! Secondo questi ‘sinistroidi’, potremmo oggi addivenire all’abbracciamento generale anche con loro. Da tutte queste manifestazioni verbose si può facilmente arguire quanto pochi siano i fascisti che abbiano idee chiare in materia di fascismo…”. A parlare è lo stesso Benito Mussolini (peraltro assente) riferendo a Giovanni Dolfin dell’andamento del Congresso. Quella che avrebbe voluto essere una vera e propria Costituente, per “consacrare” con il mandato popolare un programma finalizzato a sconfiggere “sul piano delle idee e dell’adesione spontanea” (Frederick Deakin) il governo Badoglio al Sud e la nascente resistenza al Nord diventa un’assemblea caotica la cui unica conseguenza sarebbe stata l’inasprimento della politica antisemita, dei contrasti nell’Italia Settentrionale, e quindi l’accelerazione della guerra civile. A interrompere i lavori è addirittura la spedizione punitiva a Ferrara dove era stato ucciso il “camerata” Igino Ghisellini, molto probabilmente per una faida interna allo stesso Pnf. L’episodio diventa il pretesto per un’azione contro ebrei, antifascisti, comuni cittadini. Le squadre fasciste nel giro di poche ore rastrellano ottantaquattro persone, e per rappresaglia uccisidono undici ferraresi.
Parlare di costituente è alquanto improprio: nella nascente Rsi, stato fantoccio in mano ai tedeschi, sarebbe stata del tutto inconcepibile una dialettica fra partiti diversi. Come ha osservato Luigi Ganapini, una costituzione è un patto, “scaturisce da un accordo tra i cittadini. Ma c’è spazio per accordi o dibattiti nella Repubblica delle camicie nere? Partito – il partito fascista repubblicano quale si delinea dopo il trauma del tradimento – e Costituente non sono forse agli antipodi?”.
L’assemblea di Verona approverà senza discuterlo un manifesto, steso con l’interessatissima collaborazione dei tedeschi qualche giorno prima, e sottoposto bell’e pronto dal segretario Pnf Alessandro Pavolini al congresso. Si tratta di una carta in 18 punti, in cui lo spreco di slogan è pari soltanto alla quantità di contraddizioni. Rivendicando in termini piuttosto generici la natura “sociale” della costituenda repubblica, la carta proclamava fra le altre cose il cattolicesimo religione di Stato, attestando formale rispetto per gli altri culti non in conflitto con la legge e affermando all’art. 7, che “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica” (formulazione, pare, dovuta al ministro Preziosi). Nella sostanza, si trattava dell’ennesima tappa di un cammino incominciato esplicitamente negli anni precedenti il conflitto e nello specifico, con le leggi razziali del 1938 nella cieca, incondizionata e zelante accettazione delle politiche tedesche.
Il congresso di Verona rappresentò un confuso teatro di incontro e scontro di temi e slogan che avevano caratterizzato oltre vent’anni di regime; un dibattito, a tratti convulso, fra generazioni di fascisti, divise fra istanza di rinnovamento impossibile e nostalgici appelli per un ritorno allo squadrismo degli anni Venti, accompagnato da parole d’ordine vagamente anarcoidi e antiplutocratiche: è ancora Mussolini a commentare “E nessuno, dico nessuno di questi che hanno un bagaglio di idee da agitare, viene da me per chiedermi di combattere. È al fronte che si decidono le sorti della Repubblica… e non certo nei congressi!”.
Il manifesto di Verona avrebbe mostrato, a quanti desiderassero in qualche modo la restituzione di una parvenza di convivenza civile nell’Italia dilaniata dalla guerra e dal Ventennio, in che misura un tale disegno non fosse realizzabile attraverso la scelta di Salò.

estratto dalla “Carta di Verona”
Il primo rapporto nazionale del Partito Fascista Repubblicano: leva il pensiero ai caduti del Fascismo repubblicano sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle “foibe” dell’Istria e della Dalmazia, che si aggiungono alla schiera dei martiri della Rivoluzione, alla falange di tutti i morti per l’Italia; addita nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone fino alla vittoria finale e nella rapida ricostituzione delle Forze Armate destinate a operare accanto ai valorosi soldati dal Fuehrer le mete che sovrastano a qualunque altra in importanza e urgenza.[…]
In materia costituzionale ed interna

1. - Sia convocata la Costituente, potere sovrano, di origine popolare, che dichiari la decadenza della Monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la Repubblica Sociale e ne nomini il Capo.
2. - La Costituente è composta dei rappresentanti di tutte le associazioni sindacali e di tutte le circoscrizioni amministrative, comprendendone i rappresentanti delle provincie invase, attraverso le Delegazioni degli sfollati e dei rifugiati sul suolo libero […]
[…]
5. - L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica.
Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’Idea Rivoluzionaria.
La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico.
6. - La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.
7. - Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.
In politica estera
8. - Fine essenziale della politica estera della Repubblica dovrà essere l’unità, l’indipendenza, l’integrità territoriale della Patria nei termini marittimi e alpini segnati dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla Storia; termini minacciati dal nemico con l’invasione e con le promesse di Governo rifugiato a Londra. Altro fine essenziale consisterà nel far riconoscere la necessità dello spazio vitale, indispensabile a un popolo di 45 milioni di abitanti, sopra un’area insufficiente a nutrirlo.
Tale politica si adoprerà inoltre per la realizzazione di una "comunità europea" con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti princìpi: a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro continente; b) abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali; c) valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto assoluto di quei popoli, in ispecie musulmani, che, come l’Egitto, sono già civilmente e nucleamente organizzati.
(…)
18. - Con questo preambolo alla Costituente, il Partito dimostra non soltanto di andare verso il popolo, ma di stare con il popolo. Da parte sua il popolo italiano deve rendersi conto che vi è per esso un solo modo di difendere le sue conquiste di ieri, oggi, domani: ributtare l’invasione schiavista delle plutocrazie anglo - americane, la quale, per mille precisi segni, vuol rendere ancor più angusta e misera la vita degli Italiani. Vi è un solo modo di raggiungere tutte le mete sociali: combattere, lavorare, vincere.







venerdì 20 settembre 2013

Cefalonia. 7tantaResistenza


i miei archivi, sulla strage di Cefalonia. c'è la scuola media intitolata ai suoi caduti nel quartiere da dove vengo.




Cefalonia, 14-24 settembre 1943

Gli avvenimenti di Cefalonia


Enrico Manera

Quando l’8 settembre 1943 viene reso noto l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, firmato il 3 settembre a Cassibile, in Sicilia, il paese e le forze armate precipitano nel caos. Di fronte al tergiversare delle autorità italiane, che continuavano a rinviare l’annuncio dell’armistizio, la notizia è diffusa da Radio Algeri (controllata da angloamericani e da francesi degaullisti) alle 18,30. Solo in serata, dopo ore di silenzio, Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, in fuga verso Brindisi, fanno diffondere dalla radio un comunicato in cui l’armistizio è confermato. Alle forze armate e agli apparati amministrativi dello Stato non vengono date indicazioni di comportamento, se non quella di cessare in ogni luogo le ostilità contro le forze angloamericane e, ambiguamente, di difendersi contro attacchi provenienti «da qualsiasi parte» (sono le cosiddette ordinanze OP 44 e 45). Privi di direttive precise, i reparti del regio esercito iniziano a sbandarsi. Nella notte tra l’8 ed il 9 settembre le unità dell’esercito tedesco, calato in forza nel paese dopo il 25 luglio, cominciano a disarmare le truppe italiane e a occupare punti strategici, aree industriali e vie di comunicazione. Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle opposizioni, comunica la costituzione del Comitato di liberazione nazionale, lanciando un appello alla lotta e alla resistenza, senza nascondere la richiesta di sostituzione del governo in carica, della fine della monarchia e dell’istituzione della repubblica.
Per le truppe italiane fuori dal territorio nazionale, incapsulate dai reparti tedeschi che ne avevano praticamente accerchiato la maggior parte nelle settimane successive la caduta di Mussolini, la situazione diventa drammatica. Nell’isola di Cefalonia, nel mar Ionio, occupata dal regio esercito dalla primavera 1941, dopo la resa della Grecia di fronte all’aggressione italogermanica, è stanziata un po’ più della metà (11 700 tra soldati ed ufficiali) della divisione «Acqui», assieme al suo comandante, il generale Antonio Gandin; il resto (circa 10 000 uomini) è sulla vicina isola di Corfù. Il 14 settembre 1943 i militari italiani a Cefalonia, dopo una consultazione interna che coinvolge ufficiali e soldati, rifiutano di obbedire all’ordine dei tedeschi di consegnare le armi e di arrendersi, e si apprestano a resistere con le armi (non senza, nel frattempo, aver fucilato cinque greci che avevano manifestato in pubblico contro l’occupazione italiana che si protraeva da oltre due anni). Di fronte al rischio di un collegamento tra le truppe britanniche che nel frattempo hanno raggiunto Brindisi e le unità italiane che continuano a tenere diverse isole del Dodecaneso, i comandi tedeschi decidono di attaccare Cefalonia e Corfù e di applicare l’ordine, emanato il 10 settembre dal Comando supremo della Wehrmacht (OKW), secondo il quale gli ufficiali italiani che avessero dato ordine di resistere dovevano essere fucilati. La battaglia che ne segue si conclude tra il 22 e il 24 settembre: 1300 soldati e ufficiali italiani muoiono durante negli scontri, oltre 5000 vengono fucilati dopo essersi arresi, altri 1400, fatti prigionieri e caricati su alcune navi, scompaiono in mare. Dei circa 4000 sopravvissuti, 2500 verranno trasferiti nei campi d’internamento militare in Germania, mentre gli altri saranno utilizzati a Cefalonia come manovalanza coatta al servizio dei tedeschi fino allo sgombero dell’isola da parte della Wehrmacht, nel settembre 1944. Solo un piccolo gruppo di ufficiali e soldati riuscì a sottrarsi alla cattura e ad unirsi alle forze della Resistenza greca operanti nell’isola.
Se Cefalonia è il caso più noto, nella convulsa fase di sbandamento caratterizzata dall’assoluta assenza del re Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali in fuga (è il caso di ricordare che la mancata dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo italiano fu presa a pretesto dalle autorità civili e militari tedesche per dichiarare «franchi tiratori», e perciò passibili di fucilazione, quei militari italiani che avessero rifiutato di cedere le armi), gli episodi di resistenza che hanno come protagonisti membri dell’esercito italiano sono stati numerosi, da Corfù (anche in questo caso per opera degli uomini della divisione «Acqui») a Lero, a Scarpanto, a Spalato, a Barletta, al Moncenisio.
Finita la guerra, familiari delle vittime e superstiti di Cefalonia hanno promosso attivamente una mobilitazione per ottenere giustizia nei confronti dei 31 militari tedeschi responsabili dell’eccidio, che a Norimberga era stato definito «una delle azioni più arbitarie e disonorevoli della lunga storia del combattimento armato». In quella sede il generale Hubert Lanz, comandante del XII corpo d’armata da montagna, in cui erano inquadrate le unità responsabili della strage di Cefalonia, era stato condannato a 12 anni di carcere, di cui però solo cinque scontati. Le pressioni poc’anzi ricordate indussero all’inizio degli anni Cinquanta il Tribunale militare territoriale di Roma ad aprire un duplice procedimento, per «omicidio di prigionieri di guerra» contro gli ufficiali della Wehrmacht, ma anche, per «cospirazione e rivolta», contro 28 ufficiali italiani sopravvissuti che erano stati tra coloro che più attivamente si erano adoperati per convincere Gandin a resistere! Nel 1957 questo secondo gruppo fu assolto con formula piena, ma di una sentenza analoga avrebbero beneficiato, nel 1960, i tedeschi. L’andamento del processo fu pesantemente influenzato dalla situazione politica internazionale, che indusse le autorità politiche occidentali a sostenere la tesi di una Wehrmacht sostanzialmente immune da responsabilità nelle stragi naziste, totalmente addossate alla SS ed alla Gestapo, per favorire il riarmo della Germania in funzione antisovietica. Furono in particolare due ministri del governo Segni nel 1956, il liberale Gaetano Martino e il democristiano Paolo Emilio Taviani a impegnarsi in tal senso. Recentemente Taviani, intervistato da «l’Espresso», ha ricordato che «la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise […] l’Unione Sovietica stava invadendo l’Ungheria con tutte le ripercussioni che chi ha vissuto in quel periodo conosce bene».
La rivalutazione del caso Cefalonia da parte del presidente della repubblica Ciampi costituisce solo l’ultimo dei segnali di attenzione verso quei drammatici avvenimenti da parte della storiografia antifascista, dell’associazionismo democratico di ogni colore e di chi aveva combattuto per la Liberazione.

«l’Unità», 11 maggio 2001



La memoria di Cefalonia e la malafede del centrodestra


Brunello Mantelli

«I soldati che combattevano nella divisa, con le stellette, e sotto la bandiera del Regio Esercito, per fedeltà a un giuramento e alla Patria, non avevano i requisiti del Partigiano che si batteva contro questi valori, e magari per altri non meno nobili, ma «di parte», come del resto diceva la sua qualifica, non di patria. Ecco perché i caduti di Cefalonia non potevano entrare nel sacrario della Resistenza. Ne avrebbero inquinato il Dna e il blasone». Così, il «Corriere della Sera» del 1° marzo 2001 commentava la visita di Ciampi a Cefalonia, sostenendo che «in Italia se n’era ogni tanto – ma ogni tanto – parlato come di cosa imbarazzante, perché politically uncorrect». La tesi viene ribadita il giorno successivo, sempre sul «Corriere», là dove si afferma che il presidente avrebbe «corretto la storiografia antifascista», espressione di una «sinistra che pretese subito di egemonizzare la Resistenza, escludendo» i militari. Il 4 marzo Ernesto Galli della Loggia, noto commentatore del quotidiano milanese nonché professore di Storia contemporanea all’Università di Perugia, rincara la dose sostenendo che eventi come Cefalonia sarebbero «stati dimenticati o "addomesticati" per anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra». Si innesca così un dibattito che coinvolge anche altri quotidiani e che, quasi sempre, non contesta l’assunto di partenza: la resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia come episodio ignorato dalla storiografia e assente dai libri di scuola. Tale «rimozione» sarebbe da ricondursi all’egemonia della storiografia antifascista, tesa a privilegiare la resistenza dei partigiani rispetto a quella dei militari.
Ma chiediamoci: il punto di partenza di queste affermazioni è vero? Facciamo qualche controllo. Quasi mezzo secolo fa, nel 1953, esce la Storia della Resistenza italiana, pubblicata da Einaudi. La scrive Roberto Battaglia, storico dell’arte, partigiano, comunista. All’eroica resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia che rifiuta, con un «tumultuoso plebiscito in cui tutta la divisione si pronuncia per la lotta contro il tedesco», di arrendersi alla Wehrmacht sono dedicate due fitte pagine, in cui le coordinate essenziali dell’evento vengono lucidamente tratteggiate: la pressione esercitata dagli ufficiali inferiori e dai soldati sul generale Gandin, comandante dell’unità, perché venisse respinto l’ultimatum tedesco; il già ricordato «plebiscito», che porta alla stesura di un comunicato in cui si risponde ai tedeschi che: «per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione “Acqui” non cede le armi»; il successivo attacco della Wehrmacht che, vinta la resistenza degli italiani, sfocia in un massacro indiscriminato dei prigionieri. La ricostruzione, sintetica ma esaustiva, di Battaglia influenza non pochi libri di testo: «i reparti dell’esercito all’estero lottano eroicamente ma sfortunatamente contro i tedeschi, come a Cefalonia e a Lero». Così il Corso di storia per i Licei e gli Istituti magistrali pubblicato nel 1973 da Petrini, di cui è autore Guido Quazza. Come Battaglia, Quazza è personaggio emblematico: storico, antifascista e partigiano, negli anni Settanta succede a Ferruccio Parri nella carica di presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Rappresenta perciò autorevolmente la storiografia antifascista.
«L’esercito si disgregò immediatamente e solo pochi reparti non si sbandarono: a Cefalonia, dopo alcuni giorni di combattimento, la guarnigione italiana fu costretta alla resa e poi completamente massacrata». È la sintesi di altro manuale largamente diffuso negli anni Settanta: il Corso di Storia per le scuole medie superiori steso da Franco Gaeta e Pasquale Villani e pubblicato nel 1974 da Principato. Paradossalmente, a non far cenno al rifiuto opposto da migliaia di soldati ed ufficiali alle profferte di resa della Wehrmacht sono invece i libri di testo di orientamento moderato (se non francamente conservatore). Se dai manuali passiamo alle sintesi, lo spazio dedicato a Cefalonia aumenta: «A Corfù e Cefalonia gli episodi più tragici e gloriosi: i reparti italiani si rifiutarono e ingaggiarono battaglia [...] I nazisti, sopraffatte le truppe italiane in durissimi scontri […] procedettero alla fucilazione della maggior parte dei superstiti. […] A Cefalonia la decisione di resistere con le armi [fu] assunta con un plebiscito tra ufficiali e soldati», così la Storia d¹Italia 1860-1995 pubblicata nel 1996 da Bruno Mondadori e scritta da Alberto de Bernardi e Luigi Ganapini, entrambi esponenti autorevoli degli Istituti storici della Resistenza. Per quanto riguarda gli studi specialistici, mi limito a citare il fondamentale La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi e pubblicato da Mursia nel 1993. Frutto di un convegno promosso dalla città di Acqui, che – retta allora da una giunta di sinistra – aveva istituito in ricordo della divisione martirizzata a Cefalonia un premio di storia, il volume raccoglie in 349 pagine nove saggi di studiosi italiani e tedeschi (tra cui Mario Montinari, dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, e Gerhard Schreiber, dell’omologo Ufficio storico della Bundeswehr).
Pare sufficiente a dimostrare che raffigurarsi una Cefalonia dimenticata dalla storiografia antifascista è una menzogna detta per ignoranza o per malafede. In entrambi i casi con lo stesso risultato: diffondere un senso comune che, attribuendo alla sinistra e alla storiografia a essa vicina rimozioni, censure e distorsioni della verità storica (non importa se del tutto inventate, come in questo caso) punta a sminuirne il ruolo nella lotta di Liberazione e nella costruzione della Repubblica democratica.
Un ultimo appunto: forse è fatica sprecata indignarsi perché giornalisti, anche autorevoli, scrivono senza documentarsi, è purtroppo costume diffuso nella categoria; ma da personaggi come Ernesto Galli della Loggia, da anni nei ruoli del ministero dell’Università, si deve pretendere che – prima di impugnare la penna – vadano a controllare le fonti. In questo caso bastava dare un’occhiata al vecchio e ben noto Battaglia.

«l’Unità», 11 maggio 2001

venerdì 6 settembre 2013

Lotto settembre


Nell'estate del 2001 iniziai a lavorare presso il service editoriale Alicubi e uno dei primi importanti lavori fu uno speciale per l'Unità, direzione Colombo, dedicato all'estate '43, sotto la direzione di Augusto Cherchi e con altri collaboratori. Attraverso un cut-up di documenti e fonti raccontavamo giorno per giorno l'Estate dei 45 giorni del Governo Badoglio. Venne un interessante esperimento di narrazione storica, nel fare il quale giorno per giorno imparai molte cose. Negli anni successivi scrissi molto in quel contesto.
A distanza di oltre 10 anni c'è ancora tutto. Qui ne mostro qualcosa. É ora di riportare alla luce i files archiviati.

7TantaResistenza inizia qui.

Versione originale dell'8-9-10 settembre 2001
qui


http://archivio.unita.it/risric.php?key=enrico+manera&ed=&ddstart=08&mmstart=09&yystart=2001&ddstop=10&mmstop=09&yystop=2001


sotto la trascrizione della prima giornata
da l'Unità. 8 settembre 2001, p. 29-30, poi in Cherchi e Manera, Estate 1943. Il crollo di una dittatura, 2 vv., Nuova iniziativa editoriale, Roma, 2002.


Mercoledì 8 settembre 1943
A cura di Augusto Cherchi, Enrico Manera, Gian Luca Caporale

Il governo Badoglio tenta di dilazionare l'annuncio dell'Armistizio e decide all'ultimo l'annullamento dello sbarco alleato su Roma. Gli Alleati, irritati, apostrofano duramente il governo italiano, dichiarano di aver perso ogni fiducia e di voler procedere ugualmente: viene annullata l'operazione Giant II ma nel pomeriggio viene comunicato attraverso Radio New York, prima che lo faccia il governo italiano, l'avvenuta firma dell'armistizio. I tedeschi si apprestano a occupare il territorio italiano denunciando il tradimento. Con loro, fino all'ultimo, il governo nega di essersi arreso agli Alleati. Gli antifascisti annunciano al Paese la mobilitazione contro i tedeschi e la Resistenza armata: ricevono dal governo armi che la polizia sequestrerà poco dopo. Dopo aver addirittura pensato di ritrattare l'armistizio, il Re finalmente decide di andare avanti. Badoglio dà l'annuncio ufficiale al Paese alle 19,42. La notizia si diffonde, come un'onda che travolge tutto. La guerra fascista è finita. Ma ne comincia un'altra. La Guerra di Liberazione. Da quel momento l'Italia non sarà più la stessa.

Ore 2 Il maresciallo Badoglio spedisce un telegramma al quartier generale alleato in Nordafrica, nel quale la prospettiva dell'attacco alleato, concordato e organizzato in concomitanza dell'annuncio dell'armistizio, viene completamente rimessa in discussione:
"Dati cambiamenti et precipitare situazione et esistenza forze tedesche nella zona di Roma non è più possibile di accettare l'armistizio immediato dato che ciò dimostra che la Capitale sarebbe occupata e il Governo sopraffatto dai tedeschi. (...). Operazione Giant 2 non è più possibile dato che io non ho forze sufficienti per garantire gli aeroporti. (…) Il generale Taylor è pronto a ritornare in Sicilia e rendere noto il punto di vista del governo ed attendere ordini. Comunicate mezzi e località che voi preferite per questo ritorno. Fine telegramma. Firmato Badoglio".

Badoglio convoca nelle prime ore del mattino il Ministro degli interni Ricci e gli da ordine di "preparare un piano per il trasferimento degli organi essenziali del governo fuori Roma", sovrapponendosi così alle iniziative già precedentemente organizzate dal generale Rossi, vice di Ambrosio.
Ore 8 Il telegramma del capo del governo italiano, giunto alle 5.30 viene decodificato e spedito a Biserta dove nel frattempo si è trasferito il generale Eisenhower. Tra le 11.30 e le 12 il testo arriva anche nelle mani del generale Castellano, che rimane sbigottito; dirà in seguito:
"Non potevo supporre nemmeno lontanamente che si potesse non ottemperare agli impegni presi con la firma dell'armistizio, né potevo ammettere che a Roma non si fosse capita l'enorme importanza del concorso americano alla difesa della capitale e lo si fosse rifiutato".
Ore 11.35 Il generale Taylor spedisce un breve messaggio a Eisenhower: "Situation innocuous", è il segnale convenzionale di sospensione dell'operazione Giant II. Badoglio telefona al generale Roatta per avere conferma delle deficienze di carburante segnalate da Carboni e addotte come motivo dell'impreparazione italiana. Roatta si reca immediatamente al Viminale. Decidono insieme al generale Ambrosio, finalmente tornato da Torino dopo due giorni d'assenza, di inviare al comandante Eisenhower "un messaggio di primo piano" per mano del vice capo di stato maggiore, generale Rossi. Questo è il testo di quel memoriale:
"La parte italiana aveva la netta impressione che lo sbarco nella zona Salerno-Napoli avvenisse verso il 12 settembre. In conseguenza aveva preso le disposizioni per rafforzare per tale data la difesa della capitale, e per ricevere e proteggere la divi- sione aviotrasportata americana. Non è perciò pronta alla data dell'8 settembre. Ma, a parte questo, sono intervenute le seguenti circostanze:
- Considerevole aumento delle forze germaniche a nord ed a Sud- Ovest di Roma (divisioni 3° panzer granadiere e 2 ° paracadutisti);
- Distruzione di depositi munizioni e carburanti causa i bombardamenti aerei;
- Fortissima diminuzione da parte germanica nei rifornimenti di carburanti;
- Afflusso in Toscana, a Nord dell'Arno, di due divisioni germaniche (65° - 305°) e di aliquote di due divisioni corazza- te (Hitler-24°) che erano prima situate ad Ovest di La Spezia ed a Nord dell' Appennino.
In conseguenza le forze italiane destinate alla difesa della Capitale ed alla protezione della divisione aviotrasportata, si sono trovate a corto di munizioni e di carburante e non ancora rinforzate da due divisioni provenienti dal Nord; e perciò non nella situazione di assolvere efficacemente i loro compiti, mentre d'altra parte le forze tedesche a portata erano molto più forti di prima. Ne sarebbe derivato, qualora si fosse attuato il primitivo programma:
- Rapida occupazione di Roma da parte germanica ed insediamento di un governo tedesco-fascista;
- Conseguente pericoloso disorientamento dell'opinione pubblica e delle truppe;
- Grave situazione per le forze aviotrasportate americane man mano sbarcate.
Allo stato attuale delle cose la parte, italiana considera come la più opportuna la condotta seguente:
1. Rafforzare secondo il programma già previsto, ed accumulando proprie scorte di munizioni e carburanti, la difesa della Capitale e la protezione della divisione paracadutisti.
2. Pubblicare la richiesta di armistizio al momento in cui sia iniziato il secondo grosso sbarco, ed esso abbia già fatto progressi tali da impegnare le truppe germani- che a portata. Il chè permetterebbe di ridurre al minimo il periodo di tempo in cui le truppe italiane si troverebbero a dover fronteggiare da sole le truppe germaniche (le quali - nel frattempo - potrebbero ancora aumentare attorno a Roma).
3. Questo secondo grosso sbarco dovrebbe avvenire il più vicino possibile a Roma, allo scopo di attirare le truppe germaniche situate a portata della Capitale, ed a quello di tagliare fuori le truppe tedesche situate più a Sud. Se la necessità di far proteggere detto sbarco dall'aviazione da caccia, non permettesse di effettuare lo sbarco attorno a Roma, esso dovrebbe almeno essere attuato nella zona di Formia, Gaeta, Terracina, Littoria sulla quale potrebbe concorrere la caccia partente dalla zona di Salerno. Si potrebbe anche considerare il caso di un'occupazione dei campi di aviazione della Corsica orientale (Borgo-Ghisonaccia). Ma questa operazione preventiva non è semplice, perché avvenendo prima dell'armistizio, le truppe italiane potrebbero bensì ritirarsi sulle montagne ed astenersi da attacchi ai campi predetti ed alle truppe alleate che li proteggerebbero, ma non potrebbero ancora impedire che tali attacchi fossero attuati dalle truppe germaniche dell'isola (brigata SS. Reichsfuhrer).
4. Non fare seguire immediatamente l'armistizio da atti di ostilità italiani contro le truppe germaniche. È importante, infatti, che la iniziativa di tali ostilità sia presa, come quasi sicuramente avverrà, dalla parte germanica, perché in questo caso non ci sarebbe la minima incertezza da parte della popolazione e delle truppe nel combattere i tedeschi. Si tratterebbe, perciò di fare arrivare la divisione aviotrasportata solo diverse ore dopo la proclamazione dell'armistizio (nella notte successiva, se l'armistizio è proclamato al mattino - nella seconda notte, se 1'armistizio è annunciato alla sera). Naturalmente, se (cosa improbabile) la parte germanica non prendesse lei l'iniziativa delle ostilità, la parte italiana le prenderebbe ugualmente al momento dell'arrivo della divisione in parola.
5. La data del secondo grosso sbarco e la distanza di tempo dell'arrivo della divisione aviotrasportata dalla proclamazione dell'armistizio, debbono essere chiaramente prestabilite, e comunicate il più presto possibile.
6. Non è nell'interesse alleato che Roma e il Governo Italiano cadano in mano germanica, e che le truppe italiane dell'Italia Centrale siano messe fuori causa.
Il disorientamento della Nazione e delle rimanenti truppe sarebbe grave, e l'aiuto da parte italiana nella susseguente lotta in comune ne sarebbe decisamente compromessa. È interesse invece per gli angloamericani che la Capitale rimanga in mano italiana, che rimanga in funzione lo stesso Governo che ha richiesto l'armistizio, che tutto il Paese e le truppe, italiane siano concordi al cento per cento, nella lotta contro i tedeschi (Iniziativa delle ostilità da parte loro) e che tutto l'organismo governativo e militare italiano sia subito in condizioni di intraprendere una collaborazione attiva, organizzata, ed in forze colle truppe alleate".
Ore 12 Il re riceve l'ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, il quale ricorderà l'incontro e le parole del sovrano:
"L'Italia non capitolerà mai"(...) Al termine della conversazione, il re ha sottolineato di nuovo la decisione di continuare sino alla fine della lotta a fianco della Germania, con la quale l'Italia è legata per la vita e per la morte".
Ore 12.30 Castellano ritenendo di poter ancora persuadere il governo a mantenere fede agli impegni, spedisce il seguente telegramma:
Mancanza nell'annunciare per radio l'armistizio alle ore 18.30 di questo pomeriggio sarebbe considerata dal comandante in capo come mantenere l'impegno solenne già firmato stop Se l'annuncio dell'armistizio non venisse fatto all'ora fissata tutti gli accordi verrebbero a decadere alt Comandante in capo dichiara che mancato annuncio potrebbe avere conseguenze disastrose per l'avvenire dell'Italia stop".
Dopo una rapida consultazione con Roosevelt e Churchill, Eisenhower decide "che quanto era stato previsto per l'annuncio doveva essere attuato". Un aereo viene inviato per prelevare Castellano e portarlo al quartier generale alleato a Cartagena. Dopo mezz'ora di attesa in piedi nel cortile della palazzina, Castellano e l'interprete Montanari sono introdotti in una grande sala dove sono presenti Eisenhower, Alexander e Cunnigham e un imponente numero di generali e ammiragli. Al saluto dell'inviato italiano nessuno risponde. Eisenhower legge il comunicato di Badoglio, afferma di non poter accettare quella richiesta - l'annuncio dell'armistizio sarebbe stato dato ugualmente - e sottolinea il suo fermo disappunto nel caso in cui il capo del governo italiano non avesse fatto lo stesso; in quel caso, aggiunge apostrofando Castellano, riterrebbe che "il governo italiano e voi abbiate giocato una brutta parte". Viene dato a Castellano un messaggio per il governo italiano. Giungerà a Roma solo alle 16.30.
Ore 15 Giunge il telegramma di Eisenhower che autorizza i generali Rossi e Taylor, incaricati di gestire l'operazione militare su Roma, a raggiungerlo alle ore 19 a Tunisi.
Ore 16.30 Radio New York anticipa la notizia dell'armistizio italiano. Le truppe tedesche iniziano i rastrellamenti dei soldati italiani e l'occupazione dei punti strategici, delle aree industriali e delle vie di comunicazione. Giunge al governo a Roma il telegramma di risposta di Eisenhower, intimante l'annuncio dell'armistizio. Il testo afferma quanto segue:
"Dal comando in capo alleato al maresciallo Badoglio. 8 settembre 1943 N. 45
Intendo trasmettere alla radio l'accettazione dell'armistizio all'ora già fissata. Se Voi o qualsiasi parte delle Vostre forze armate mancherete di cooperare come precedentemente concordato io farò pubblicare in tutto il mondo i dettagli di questo affare. Oggi è il giorno X ed io aspetto che Voi facciate la Vostra parte. Io non accetto il vostro messaggio di questa mattina postici- pante l'armistizio.
Il Vostro rappresentante accreditato ha firmato un accordo con me e la sola speranza dell'Italia è legata alla Vostra adesione a questo accordo.
Secondo la vostra urgente richiesta le operazioni aviotrasportate sono temporaneamente sospese. Avete intorno a Roma truppe sufficienti per assicurare la momentanea sicurezza della città, ma io richiedo esaurienti informazioni secondo le quali disporre al più presto per l'operazione aviotrasportata. Mandate subito il Generale Taylor a Biserta informando in anticipo dell'arrivo e della rotta dell'apparecchio. I piani sono stati fatti nella convinzione che Voi agivate in buona fede e noi siamo stati pronti ad effettuare su tale base le future operazioni militari. Ogni mancanza ora da parte Vostra nell'adempiere a tutti gli obblighi dell'accordo firmato avrà le più gravi conseguenze per il Vostro Paese. Nessuna Vostra futura azione potrebbe più ridarci alcuna fiducia nella Vostra buona fede e ne seguirebbe di conseguenza la dissoluzione del Vostro Governo e della Vostra Nazione. Generale Eisenhower".

Ore 17. 45 L'ambasciatore tedesco Rahn, dopo aver ascoltato l'annuncio della radio sta- tunitense, telefona immediatamente al generale Roatta per chiedere spiegazioni. Questi risponde:
"Questa comunicazione di New York è una sfacciata menzogna della propaganda inglese, che io devo respingere con indignazione".
Ore 18 A Roma i rappresentanti del Comitato delle opposizioni sono riuniti a casa Bonomi. Giunge la notizia che gli Alleati sono sbarcati a Salerno e che la radio alleata ha dato l'annuncio della resa italiana e della conclusione dell'armistizio. Gli antifascisti vengono colti di sorpresa: nei giorni precedenti si era sparsa la voce che l'annuncio dell'armistizio sarebbe stato dato verso il 15 settembre. "L'avevamo tanto atteso che quando venne non ce l'aspettavamo", ricorda Giorgio Amendola. La riunione viene immediatamente sospesa e riaggiornata per le ore 8 del giorno successivo. I militanti, - tra loro Amendola, Longo, Trombadori, Forti, Boccanera, Secchia, Scoccimarro - si mobilitano immediatamente per preparare sedi più sicure, ritirare le armi promesse dal governo, preparare giornali e stampati. Per le strade della capitale i tedeschi sono in agitazione.
Ore 18, 15 Comincia la riunione del Consiglio della corona, a cui partecipano il Re, Badoglio, il ministro della Real casa Acquarone, il ministro degli Esteri Guariglia, i ministri della guerra e delle tre armi, Sorice, Ambrosio, Roatta, Carboni, Castellano e Marchesi.
Ore 18, 30 Il Servizio informazioni militari (SIM) comunica di aver intercettato un messaggio da Radio Londra, che notifica la richiesta d'armistizio da parte dell'Italia e l'accettazione delle medesime dei comandi alleati. Il messaggio intercettato è quello del generale Eisenhower inviato da Radio Algeri che recita:
"Qui il generale Dwight Eisenhower, Comandante in Capo delle Forze Alleate.
Le Forze Armate italiane si sono arrese incondizionatamente. Come Comandante in Capo Alleato io ho accordato un armistizio militare i cui termini sono stati approvati dai Governi del Regno Unito e della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. In questo modo ho agito nell'interesse delle Nazioni Unite. Il Governo italiano ha accettato questi termini senza riserve. L'armistizio è stato firmato da un mio rappresentante e da un rappresentante del maresciallo Bado- glio e diviene effettivo da questo istante. Le ostilità fra le Forze Armate delle Nazioni Unite e quelle dell'Italia sono adesso terminate. Tutti gli italiani che col nuovo accordo aiuteranno a cacciare l'aggressore tedesco fuori dal suolo italiano avranno l'assistenza e l'aiuto delle Nazioni Unite".
Il messaggio viene seguito da un proclama del primo ministro britannico Churchill:
"Le Nazioni Unite informano che l'armistizio concluso dal generale Eisenhower con l'Italia è strettamente militare e non com- prende nessuna clausola di natura politica, economica o altra. Queste clausole verranno determinate a suo a suo tempo. Di conseguenza, gli articoli dell'armistizio non verranno per ora pubblicati e nemmeno comunicati al parlamento inglese. Si può dire, comunque, che, per effetto dell'armistizio, il maresciallo Badoglio si obbliga a respingere con le sue forze qualunque attacco da qualsiasi parte provenga".
Dopo aver preso conoscenza dell'annuncio alleato la riunione del Consiglio della corona riprende con un breve riassunto della situazione fatto dal generale Castellano; subito il generale Carboni e il ministro Sorice definiscono inqualificabile l'atteggiamento degli alleati e propongono la denuncia dell'armistizio. Prende la parola il maggiore Marchesi che sostiene invece con forza l'opportunità di procedere con quanto previsto dalla firma, supportato anche da Castellano e Guariglia. Sentite le posizioni il Re toglie la seduta, trattenendosi con Badoglio. Dopo pochi minuti il capo del governo esce dalla sala. Il sovrano ha scelto l'armistizio.
Si legge nei Taccuini di Benedetto Croce:
"Alle 18.30 tornavo a casa da una piccola passeggiata quando Adelina mi ha detto di aver udito alla radio che è stato concluso l'armistizio con gli angloamericani".
Ore 19 L'ambasciatore Rahn si reca al Ministero degli esteri su invito di Guariglia che gli comunica:"Devo dichiararvi che il Maresciallo Badoglio, vista la situazione militare disperata, è stato costretto a chiedere un armistizio". L'ambasciatore tedesco risponde: "Questo è tradimento della parola data". Guariglia ricorderà in seguito: "Io sono convinto che, se anche Rahn riteneva inevitabile l'uscita dell'Italia dal conflitto, egli fu sorpreso dalla notizia dell'armistizio perché sperava di poter assecondare per parecchio tempo ancore il giuoco di quei capi militari tedeschi, che intendevano guadagnare tempo per rafforzare maggiormente il loro dispositivo difensivo in Italia". Alla stessa ora Rossi, accompagnato da Taylor, giunge a Tunisi e conferisce con Eisenhower, ripor- tando il punto di vista di Badoglio: "Il maresciallo giudica impossibile l'aviosbarco della divisione per la notte fra l'8 e il 9 e chiede di ritardare di pochi giorni l'armistizio per rendere possibile detta operazione. Rassicura il comando alleato dei suoi sentimenti di collaborazione e di lealtà e prega di voler richiamare il gen. Taylor per rendere meglio edotto il Comando alleato della situazione".
Ore 19,30 Giunge a Roma il telegramma del generale Eisenhower a cui Badoglio risponde:
"La mancata ricezione del segnale d'azione convenuto per radio e il dilazionato arrivo del vostro n ̊ 45 non ha consentito di radiodiffondere la proclamazione all'ora convenuta. La proclamazione avrebbe avuto luogo come richiesto anche senza il vostro messaggio, essendo per noi sufficiente l'impegno preso. L'eccessiva fretta ha effettivamente trovato i nostri preparativi incompleti e causato ritardo".

Ore 19, 42 Dagli altoparlanti delle radio di tutta Italia - nei locali pubblici, nelle piazze, nelle strade, nelle case - si diffonde la voce del capo del governo. Il maresciallo Badoglio legge l'armistizio:

"Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell' intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".

Il nome del comandante alleato pronunciato da Badoglio suona "Aisenover".
Ore 21 Il re Vittorio Emanuele III, la regina Elena, il figlio Umberto, l'aiutante Puntoni, gli ufficiali di ordinanza, un cameriere e una cameriera, giungono al Ministero della guerra entrando dall'ingresso secondario.

La reazione dell'ex duce. Mussolini, custodito a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, viene informato dal maresciallo Antichi dell'armistizio. Secondo la testimonianza del militare, alla notizia
"era scattato in piedi gesticolando; aveva scaraventato via, lontano da sé il libro che stava leggendo, poi si era messo ad accusare Badoglio di tradimento. Subito aveva preannunciato rappresaglie tedesche. "Questo è un gran brutto giorno per l'Italia" urlò "vedrete ora i tedeschi cosa faranno!" poi scuotendo la testa aveva aggiunto: "non tollereranno mai questo tradimento!".
Si prepara la repubblica di Salò. Nella notte su un treno speciale allestito appositamente, in Prussia orientale, vengono radunati i gerarchi fascisti presenti in Germania. Göbbels spiega:
"Pavolini, Ricci e il figlio del duce sono ora al quartier generale a prepara- re un appello al popolo italiano e alle forze armate italiane. Sono stati scelti per formare un Governo neofascista che agisca in no- me del duce. Dovranno prendere residenza nell'Italia settentrionale non appena le condizioni si siano là consolidate (...) Farinacci deve arrivare nel corso del pomeriggio per integrare l'opera di questo triumvirato".
La situazione delle forze alleate. In Calabria le forze Alleate si trovano, dopo cinque giorni dallo sbarco, a 160 Km a nord di Reggio Calabria e non hanno praticamente incontrato resistenza.
L'ambivalenza del governo. A Roma nella notte il generale Carboni, sulla base di accordi presi in precedenza con il Comitato delle opposizioni per armare la popolazione contro i tedeschi, fa consegnare a Luigi Longo due autocarri contenenti delle armi, che sono scaricate e immagazzinate in luoghi diversi da Guido Carboni, figlio del generale, Felice Dessì, monarchico e confinato politico, da Longo stesso e da altri militanti comunisti. Poco dopo la polizia, evidentemente ben informata, circonda alcuni depositi e sequestra gran parte delle armi, fucili e bombe, e delle munizioni.
Le reazioni popolari. Andrea Damiano, sfollato da Milano, si trova a Montalto Pavese; nel suo diario racconta come ha vissuto la notizia:
"Oggi verso sera due ragazzotti che passavano per la strada dissero alla mezzadra, uscita ad attingere acqua: "Hanno fatto la pace". Mia cognata, che era fuori anche lei, mi guardò con due occhi tramortiti. "Hai sentito?" Corremmo alla radio. Un disco inciso ripeteva le parole con le quali Badoglio comunicava la notizia dell'armistizio. Mia moglie era giù nella vigna con mio suocero e i figli. Corsi giù a dar loro la nuova. Trovai mio suocero che saliva su per l'erta, appoggiato a una lunga canna, seguito dagli altri. Gli grido da lontano: "Armistizio, la guerra è finita!" Egli sostò appoggiato alla canna, facendo gli occhi piccoli e aggrottando la fronte per intendere le parole che gli gridavo. Poi capì, e riprese a salire a capo chino. Mi dissi: "Guarda come è apatico". Poi mi avvidi che ero apatico come lui. Mia moglie accolse la nuova con una faccia grave. Risalimmo tutti e tre il pendio fino alla costa, in silenzio. Badoglio ha concluso il suo messaggio con parole oscure, o fin trop- po chiare: "Qualunque tentativo di aggressione, da qualunque parte venga, sarà respinto con le armi". Da chi può venire questa aggressione, se non dalla Germania? Chi giubila è l'uomo dei campi. Mentre scrivo giungono dal paese echi di canti: sono tutti all'osteria. Il popolino è felice, noi no. Perché? Non volevamo la pace anche noi? Ma stasera la plebe non ha coscienza dell'abisso nel quale siamo precipitati. O forse ce l'ha fin troppo, ma non gliene importa. Pace, tutti a casa, ciucche alla domenica, e regni chi vuole. "A Nadal se spusamma!" mi gridò uno, sfrecciando in bicicletta, giubilante. In questo giubilo c'è la rivoluzione di domani. Brucia più scorie questa gioia, pronta a tramutarsi in furore rivoluzionario, che le nostre benpensanti doglie. Notte calma. Poc' anzi sono uscito sull'aia e ho guardato il cielo, vuoto sotto le stelle. Non più rombi di apparecchi incursori. Attorno al cadavere della patria è un gran silenzio".

Il priore di San Giusto a Montalbini, in Toscana descrive l'evento così:
"La sera dell'8 settembre 1943 si vedono in lontananza tanti fochi come per la vigilia di S. Giovanni. E poi comincia da tutte le chiese uno scampanio a festa che riempie l'aria di un'insolita allegria. Cosa c'è? Dopo poco "la galena" ci annunzia l'armistizio. Io non suono le campane. Sulle sciagure della patria non si gioisce, ma si piange. Io non suono le campane. Comprendo che la guerra non è finita, comprendo che i tedeschi sono "diavoli"; sono ostinatamente tenaci e quindi, avendoli in casa, la guerra non è finita ".
L'«Avanti!», giornale del Psiup, prepara il comunicato ufficiale dal titolo: "La guerra fascista è finita. La lotta dei lavoratori continua". Un sintetico articolo informa sui fatti e sull'annuncio dell'armistizio; "Nel nome dei morti i vivi promettono" una rinascita del paese nel nome di chi ha combattuto. Un Appello ai soldati tedeschi in Italia invita alla diserzione e all'"affratellamento" con gli italiani, a "rendersi indipendenti dal fascismo, dall'oppressione nazista, da Hitler" per una "pacifica ricostruzione dell'Europa". Il foglio si chiude con La parola d'ordine del partito:

"Lavoratori. L'Armistizio con le Nazioni Unite è stato firmato. (...)Difendete la Pace contro chiunque e con ogni mezzo! Via i nazisti dall'Italia! (...)Via il re fascista! (...). Esigete un governo popolare che ridia la libertà e che avvii alla vostra suprema aspira- zione: la repubblica Socialista!". 

un articolo

da l'Unità 25 aprile 2003

Resistenza, la disobbedienza come responsabilità civile


Enrico Manera

Ha scritto Claudio Pavone nella sua fondamentale opera del 1991 Una guerra civile, ancora oggi non correttamente recepita dai più, che con la scelta resistenziale “per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in forme varie una esperienza di disobbedienza di massa”. Il senso di tale affermazione investe l’intero assetto della Resistenza nella molteplicità delle sue manifestazioni, assumendo il senso di un clima generale che accompagna interamente quei circa venti mesi che separano l’Armistizio dalla Liberazione.
Proprio dall’8 settembre bisogna partire per ritrovare le tracce di un primo significato di ‘libertà’ nella scelta resistenziale: il suo essere un atto di disobbedienza, non «a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione», ma «a chi aveva la forza di farsi obbedire» (Pavone).
Il totale vuoto di potere creato dall’abbandono di ogni responsabilità da parte del Re e dei generali in fuga verso Brindisi, aprì uno spazio di libertà che per tutti si trasformò nell’esigenza di scegliere da che parte stare. Massimo Mila descrive questa situazione parlandone come di una “rivelazione a se stessi”, una nuova possibilità di vita scaturita da scelte che venivano compiute spesso in solitudine e la cui radicalità veniva modulata in base alla situazione contingente, alla possibilità e alla determinazione. Nei testi di Mila, di Ada Gobetti, di Franco Venturi, di Roberto Battaglia, di Pietro Chiodi, emergono a questo proposito espressioni come ‘gioia’, ‘infanzia’, ‘incoscienza’, ‘entusiasmo’, ‘fervore’, ‘energia’. Parole che testimoniano, oltre la tragicità degli eventi, l’ebbrezza della libertà. Una realtà di grande rilevanza educativa per una generazione, cresciuta negli apparati totalitari del regime, che nella scuola elementare aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: “quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza”.
Connessi alla recuperata libertà furono, da subito, il senso di responsabilità a cui si era chiamati e la dimensione collettiva del fenomeno. Fin dal settembre 1943 si assistette a manifestazioni di solidarietà e di aiuto della popolazione offerto agli sbandati e ai fuggiaschi, in un clima diffuso di ‘resistenza passiva’. I macchinisti rallentavano i treni o si fermavano per permettere ai soldati di scappare; contadini e ragazze portavano cibo a ragazzi in fuga e senza le idee chiare, tutti offrivano abiti borghesi. Cominciava da lì quella resistenza civile che Anna Bravo ha definito un “maternage di massa”, una gigantesca mobilitazione soprattutto di donne tale da configurare un “enorme lavoro di tutela e trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si contrappone sia sul piano materiale sia spirituale alla terra bruciata perseguita dagli occupanti”.
Una tale rete di supporto fu la base su cui si erse la “resistenza attiva”, i cui primi nuclei si sarebbero venuti a formare di lì a pochissimo. Uomini di diverso orientamento politico, vecchi antifascisti liberati o tornati dal confino, militari sbandati, giovani renitenti alla leva, studenti e contadini, fecero la scelta, collettiva e non individualista, di diventare “banditi”. Una scelta fatta nella consapevolezza di essere portatori di una legittimità e di una giustizia ormai scomparse dall’orizzonte storico del tempo.
La disobbedienza è, di per sé, il primo atto di una scelta responsabile, nata all’interno di un ripristinato ‘stato di natura’, in cui tutti, potenzialmente, sono contro tutti. Eppure nei luoghi della Resistenza tra il 1943 e il 1945, sulle montagne, nelle città, nelle fabbriche, nei campi di concentramento, nelle case e nelle cantine, nelle osterie dopo l’orario di chiusura, si ridefinivano i ruoli e i rapporti tra le persone. Rinasceva la democrazia come confronto diretto e dialogo aperto, beninteso anche con scontri e divergenze drammatiche di natura politica e organizzativa. Non si dimentichino la fame, la povertà e le condizioni proibitive in cui versava la popolazione di un paese in guerra, frequentemente bombardato e con una rete di spionaggio e di repressione durissima e violenta.
In questa situazione la facoltà di critica e il rimpadronirsi di sé si riaffacciavano nella vita degli individui per diventare lo spazio mentale e sociale su cui si sarebbe rifondato il Paese. La disobbedienza della Resistenza diventa dunque sinonimo di responsabilità civile, capacità di ridare dei significati alle azioni e alle scelte dopo un ventennio di eterodirezione delle coscienze e di un apparato totalitario retorico, pacchiano e tronfio che aveva reso ridicolo il senso stesso delle istituzioni. Mentre le maiuscole del littorio romano e dell’impero si sprecavano, i soldati al fronte male armati ed equipaggiati erano stati i primi a scoprire quanto ci fosse di drammaticamente falso nelle trite formule del credere-obbedire-combattere e in difesa della patria a guardia dei bidoni di benzina.
Se le drammatiche condizioni della ritirata di Russia avevano spazzato via ogni dubbio, così l’8 settembre fu il momento, percepibile da tutti, del vuoto di potere assoluto e del crollo delle isituzioni. Non “morte della patria”, come vuole certo revisionismo nostrano, ma crollo definitivo del misero edificio costruito da una dittatura che in vent’anni aveva eroso le già fragili fondamenta di uno Stato in cui il processo di Nation Building era tutt’altro che compiuto. Moriva la patria monarchica e fascista, bisognosa di fondarsi su valori altisonanti e ideologici perché incapace di esprimerne di autenticamente umani. Ma lo Stato italiano era morto ben prima, nel 1938, quando Mussolini con l’avallo della monarchia aveva instaurato le leggi razziali, stabilendo la fine dei diritti più elementari per i cittadini italiani di origine ebraica. O, addirittura nel 1924 insieme a Giacomo Matteotti, senza che i senatori liberali del Regno avessero fatto alcunché per ripristinare lo stato di diritto; o il 28 ottobre 1922 quando con la passeggiata romana in camicia nera, l’incapacità delle élites liberali di rapportarsi con le emergenti masse popolari decretò l’affidamento del potere a Mussolini da parte della monarchia.

Quando era nata, la Repubblica di Salò aveva ripristinato un ordine costituito con tanto di costituzione (quella carta di Verona che annoverava gli ebrei come nazione nemica) eppure per la maggior parte della popolazione era chiaro che la giustizia non stava da quella parte. Anche chi non amava i partigiani li preferiva di gran lunga ai tedeschi e ai fascisti perché sapeva benissimo chi era stato a scatenare la guerra. La rete di solidarietà di cui godettero i partigiani testimoniano al contrario una istintiva identificazione con la giustizia e con la legittimità che rendeva non solo possibile, ma anzi doveroso praticare la Resistenza.
Una delle ragioni della differente qualità etica tra la scelta resistenziale e quella fascista repubblicana (tra la ‘vita’ e la ‘bella morte’) sta nel fatto che l’opzione salodiana per la Rsi non avvenne alla luce della critica, ma in quella della continuità con un regime di cui si conoscevano i programmi e le efferatezze. Il più delle volte, nei processi dopoguerra la scelta per la Rsi e la commissione di crimini efferati furono giustificate dai fascisti con la frase: “l’ho fatto perché mi è stato comandato”. Per non parlare di quella citata da Pietro Chiodi che si sentì dire da un marò della X mas “ che gli è sempre piaciuta la marina” e che “nei partigiani non c’era”.
Le giustificazioni incentrate sulla difesa e sull’onore della patria non reggono se si pensa che oltre il 95% degli ufficiali tra gli internati militari italiani, arrestati e deportati in Germania dopo l’8 settembre rifiutarono di farsi reintegrare nell’esercito saloino, non in quanto antifascisti (o, peggio ancora, ‘comunisti’), ma proprio in quanto ufficiali dell’esercito di una patria di cui difendevano l’onore.
Come ha detto Claudio Pavone, in un ragionamento semplice e autoevidente, profonda è stata la differenza etica che ha diviso chi ha fatto la scelta resistenziale da chi ha scelto per la Rsi: da un punto di vista collettivo e politico da una parte si combatteva per la libertà e la democrazia, dall’altra si combatteva per un regime totalitario e autoritario, al di là della buona o della cattiva fede nell’uno o nell’altro campo.
A chi oggi mette in discussione l’importanza del 25 aprile e il suo valore collettivo per lo Stato e la società italiana, ricordiamo la gioia di chi cinquantotto anni fa visse la Liberazione dal nazifascismo. È Ada Gobetti, la vedova di Piero -lucidissima intelligenza stroncata dalla violenza fascista nel 1926- a ricordare l’aprile 1945 e il sentimento comune e condiviso: «Ebbene? – gridai loro – rallentando la bicicletta. E tanta era in quei giorni l’identità dei sentimenti e dei pensieri che essi intesero benissimo il senso della mia domanda e, benché non mi conoscessero come io non li conoscevo, risposero con un gesto allegro della mano: – Se ne sono andati!».