giovedì 27 dicembre 2012

Feste di riposo, convalescenza e riflessione









nelle quali ho (ri)scoperto l'importanza di Bourdieu,

fondamentale, perché l'avevo- come dire - dimenticato e non è tra le priorità metodologiche di chiunque si occupi di scienze umane?

è Lévi-Strauss + Foucault senza svolazzi,
meglio è Bourdieu

partire da qui: 
Pierre Bourdieu, Il campo religioso
con due saggi dei curatori, Roberto Alciati e Emiliano R. Urciuoli (grazie)
aAccademia UP, 2012

e poi per una indispensabile metasociologia, che indaghi le ragioni e le posture di chi studia qualcosa
Pierre Bourdieu,
Questa non è un'autobiografia, Feltrinelli, 2005









questo invece sono io: 5.6.1 La critica del linguaggio
L’ideologia è lo sfondo intellettuale comune a più ambiti della cultura di una società o di un’epoca: ogni forma di sapere, lungi dall’essere neutre, incorporano visioni del mondo e si configura in termini storici come paradigma il cui successo deve essere letto in rapporto al potere dominante, il quale potrà servirsi del monopolio di quel sapere come forma di legittimazione del proprio dominio. Mentre Lévi-Strauss e Dumézil hanno costruito sistemi teorici separando la morfologia della cultura dalla sua genesi e dalla sua funzione di dominio, in un approccio marxista forma, origine e funzione di un’ideologia appaiono sovrapposte e coincidenti: uno dei presupposti della «teoria della riproduzione socio-culturale» è che gli elementi ideologici riproducano in forma larvata il campo sociale in cui sono prodotti, servendo gli interessi dei gruppi che costituiscono la società1.
Si è già visto come nell’indagine sul mito svolta da Jesi siano presenti: la ricerca di una genesi storica dei fenomeni dal dichiarato valore anti-metafisico; la delineazione di una teoria metapsicologica che implica la rielaborazione di materiali cognitivi da parte di soggetti culturali immersi nel dinamismo storico; l’individuazione di una storia della ricezione che ne privilegia la funziona politica. In questo senso Jesi ha elaborato la sua via personale alla sintesi di marxismo e di antropologia che ha caratterizzato i suoi anni sfociando in una semiolinguistica critica il cui intento è stato quello di costruire una «controcultura»2. L’analisi del linguaggio significa critica al pregiudizio naturalistico e conservatore che assuma come ipostasi extrastoriche quelle che sono istituzioni culturali specifiche di una determinata organizzazione sociale3: congiungendo Marx con Sapir e Benveniste la stessa canonizzazione della cultura europea diventa il luogo di trasformazione della metafisica classica in volto necessario della verità. Lo studio della significazione mette capo al valore d’uso dei saperi che si determina storicamente e quindi alla loro decostruzione ideologica: obiettivo è lo svelamento dei presupposti materiali per i quali alcuni significati si sono sedimentati nel codice linguistico di una comunità istituzionalizzandosi attraverso il linguaggio. Contro il sapere che limitandosi alla descrizione della realtà amplifica l’ideologia dominante la teoria critica mette in evidenza i processi di costruzione ideologica associandola alle strutture economico-sociali che ne spiegano la diffusione.
Con il concetto di ‘logotecnica’ Barthes ha designato le categorie costituenti l’impalcatura di un determinato sistema culturale, trasformando tutti i fatti significanti in oggetti della semiotica4: il sistema sociale si regge sugli individui, i parlanti nella cui lingua e nel cui agito i codici prendono vita e si modificano, all’interno di rapporti comunicativi, permettendone la riproduzione. Barthes teorizza una «nuova scienza linguistica» volta a indagare «il progresso della solidificazione», «l’ispessimento lungo il discorso storico» delle parole, che sarebbe stata «sovversiva» nella misura in cui avrebbe mostrato «molto più che l’origine storica della verità: la sua natura retorica, di linguaggio»5. La demistificazione ideologica traccia la specificazione storica dei codici culturali: tematizzare le produzione sociale che li ha originati, mostrandone gli elementi di interesse attraverso l’individuazione dei motivi di canonizzazione. Nonostante tutte le prese di distanza da ogni corrente o prospettiva metodologica e le dichiarazioni di volersi attenere a un basso profilo, la teoria jesiana appartiene al suo tempo. La miticità in un sistema di segni è l’aura di valore prodotta dalla macchina mitologica in virtù della sua circolazione, secondo un processo che politicizza e porta alle estreme conseguenze quanto era implicito nel programma strutturalista: «Tutte le opere individuali sono miti in potenza, ma è la loro assunzione in chiave collettiva che attualizza all’occorrenza la loro “miticità”»6.
Così Jesi in uno degli ultimi scritti:

La scienza del mito nella mia prospettiva tende ad attuarsi come scienza delle riflessioni sul mito, dunque come analisi delle diverse modalità di non-conoscenza del mito. La scienza della mitologia, per il fatto di consistere nello studio dei materiali mitologici in quanto tali, tende ad attuarsi innanzitutto come scienza del funzionamento della macchina mitologica, dunque come analisi della intera e autonoma circolazione linguistica che rende mitologici quei materiali. Uso la parola mitologia per indicare appunto tale circolazione linguistica e i materiali che la documentano. [...] Sono invece convinto che, per me oggi, il modo migliore di collocarmi di fronte ai meccanismi e alle produzioni mie e degli altri, antichi o contemporanei, consista nel riconoscere in alcune di quelle proposizioni un linguaggio non riducibile ad altri, assolutamente autonomo “riposante in se stesso” (Bachofen), dotato di alcune caratteristiche definibili con approssimazioni estremamente vaghe se – com’è inevitabile per definirle – si ricorre ad altro linguaggio7.



–––––––––––– note______________

1 Bourdieu, che in tal senso può essere considerato paradigmatico, scrive: «I sistemi ideologici che gli specialisti producono attraverso e in vista della lotta per il monopolio della produzione ideologica legittima, riproducono sotto una forma irriconoscibile, attraverso la mediazione dell’omologia tra il campo di produzione ideologica ed il campo delle classi sociali, la struttura del campo della classi sociali [...]. La funzione propriamente ideologica del campo di produzione ideologica si svolge in forma quasi automatica sulla base dell’omologia di struttura fra il campo di produzione ideologica ed il campo della lotta delle classi». P. Bourdieu, Sur le pouvoir symbolique, «Annales E.S.C.», 1977, 3, pp. 409-410. Cfr. D. Dubuisson, Mitologie del XX secolo, cit., pp. 74 ss.
2Cfr. M. Solimini, Scienza della cultura e logica di classe, Dedalo, Bari, 1974, pp. 10 ss. La premessa teorica di questo progetto diffuso e dai vasti contorni consiste nella concezione per cui la funzione politica della lingua è individuata nel «realizzare una particolare organizzazione del mondo naturale-sociale, di ordinarlo in categorie di oggetti, di distinguerlo in maniera specifica [...] in azioni, funzioni, ruoli, istituzioni» (p. 135).
3 F. Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano, 1968, p. 215-216: «Sostenere che in un soggetto c’è qualcosa di extrastorico significa operare un privilegiamento fondato sul passato» che è il «punto essenziale per l’interpretazione di qualsiasi ideologia conservatrice, o reazionaria. [...] Gli oggetti che vengono detti oggi extra-storici altro non possono essere che oggetti costituiti dall’umanità in qualche fase precedente del suo sviluppo sociale. Sono questi oggetti che si vogliono difendere e conservare – e tanto meglio se il processo storico del momento ha istituito una macchina sociale che li conserva automaticamente».
4 Cfr. R. Barthes, Elementi di semiologia (1964), ed. it. Einaudi, Torino, 1966.
5 R. Barthes, Il piacere del testo (1973), ed. it. Einaudi, Torino, 1975, p. 42.
6 C. Lévi-Strauss, Luomo nudo (1971), cit., p. 590.
7 F. Jesi, «Così Kerényi mi distrasse da Jung», (auto)intervista su un itinerario di ricerca, in «Alias», n. 30, luglio 2007, p. 21 (Testo inedito parzialmente pubblicata in MM, pp. 365, 367-369).




giovedì 20 dicembre 2012

Natività







Iside allatta Horus bambino, Louvre



Celebriamo le feste.

Festeggiamo chi ci ama, le stagioni, le lune.
Ciascuno ritroverà la certezza che quaggiù c'è posto per lui.
Forse è questo, l'essenziale.
La festa crea un ordine solenne in cui ciascuno è confermato, nel proprio ruolo, nel proprio posto rispetto al tutto.
E' questo, credo, ciò che manca agli uomini del nostro tempo: la certezza di avere il proprio posto nella festa esuberante e tragica del mondo e della storia.
Ancor più dell'uguaglianza, è di questa sicurezza che gli uomini hanno bisogno.
Senza, prendono a mettere in dubbio il senso della vita, e vivere nell'immensità senza forma è insopportabile.
Perché tutto, nell'assenza di senso, si dissolve. E' il regno della grande noia dell'uomo, è il contrario della festa.

jeanne hersch



sabato 1 dicembre 2012

di un certo modo di narrare per immagini



dalla tesi di dottorato, a volte ritornano.




5.3 Potere (visivo) della letteratura

«Una grande entelechia con inclinazione mitologica, anzi con indole mitologica, che è lecito considerare come vera e propria forma fondamentale, con i tratti maliziosi di un essere ermetico»1.

L’importanza che Thomas Mann ricopre per Jesi si trova compendiata in questa descrizione del praeceptor Germaniae fornita da Kerényi, nella quale la dimensione mitologica appare centrale, e dalla quale si ricavano importanti considerazioni di ordine teorico: il romanziere è il paradigma della macchina mitologica della scrittura, capace di produrre materiali durevoli, cioè ad alto tasso di significatività, e di generare il sentimento dell’eterna presenza che costituisce la qualità principale della ‘miticità’.
Così Jesi:

La tecnica della citazione servì [...] a Thomas Mann per contrapporre alla storia [...] la sua scrittura stessa, in sé e per sé come il virtuosismo del violinista non rinvia al pezzo eseguito e tanto meno a ciò che il pezzo potrebbe comunicare, ma tende in fondo a distogliere dal pezzo per rinviare alla tecnica del suonare il violino2.

L’autore con «freddezza ascetica», «mediazione manieristica», «operata dalla scrittura di un virtuoso fra i materiali storici dell’io», diventa una macchina letteraria che ricompone e ricombina frammenti di natura eterogenea, trovati nella miniera della tradizione e della sua memoria. «Begeisterung»3 (‘ispirazione’) coincide con l’«involontaria citazione di luoghi comuni», che il critico potrà anche riconoscere, ma il cui valore e significato appaiono nuovi a partire dal contesto della loro riproposizione e dal loro accostamento. Jesi ha continuamente professato il valore della tecnica ‘per citazione’, in base alla quale la creazione si presenta come ricezione e rielaborazione inconscia e ‘automatica’: si veda questo commento sulla propria esperienza poetica, in cui è possibile riconoscere lo stesso approccio del critico.

Analoga situazione di “esilio” [ Jesi si riferisce alla «tradizione culturale e religiosa ebraica» n.d.c.] in termini di religione di cultura, di morale si configura nel linguaggio e nelle metrica di queste poesie. Nei confronti dei ritmi e degli stilemi tradizionali, l’atteggiamento del poeta ‘in esilio’ non è solo di parodia: egli si permette di usare i luoghi comuni di una tradizione composta di echi, brandelli e parole-chiave della poesia degli ultimi centocinquant’anni (o di proporne dei nuovi, coniati per imitazione e “simpatia”), al fine di entrare in contatto con l’unica poesia moralmente lecita durante l’ “esilio”: la poesia che è nella voce umana recitante secondo un determinato rituale e secondo una cadenza rituale, alcuni luoghi comuni.
A The Waste Land (per citare un esempio illustre) T. S. Elliot fece seguire sette pagine di note, denunciando almeno una parte delle innumerevoli citazioni intrecciate del poema. Lesilio non ha alcuna nota poiché l’autore intende sottolineare l’usufruibilità di ogni precedente poetico quale repertorio di anonimi luoghi comuni – i quali possono apparire bizzarrie estremamente soggettive, ma in realtà sono proprio luoghi comuni di una koiné che – in termini cronologici – principia con Ugo Foscolo e si chiude con Ezra Pound4.

In una lettera inedita ad Andrea Zanzotto, lo stesso tema emerge laddove Jesi individua per la scrittura

il dovere di esaurire la tradizione poetica fino a ridurla a una combinazione di luoghi comuni nel pieno rispetto delle sue intrinseche linee storiche di metamorfosi, e la convinzione del valore estetico del luogo comune in sé e per sé: del luogo comune lessicale, metrico, fonico, ecc. ridotto alla cosa passiva che effettivamente è. Si tratterà poi di sfruttarlo per il giusto verso5.

Se la macchina mitologica funziona nelle creazione, essa è operativa anche nella ricezione: ogni critico letterario ha di fronte sempre tutta la letteratura universale in una «sorta di solidarietà universale tra i documenti letterari»6. La macchina opera dunque nello spazio dell’immaginazione letteraria: «Bisogna supporre [...] l’esistenza di una sorta di “specchio” in cui si riflette tutta la letteratura universale per cui un critico, anche quando si occupa di una sola poesia, ha idealmente davanti tutta la letteratura prodotta nel mondo, che lo specchio gli riflette»7.
Questo mondo, che pare sovraumano e dietro il quale affiora la tentazione del tout se tient, è il più umano che ci sia: la letteratura è cosa di uomini e donne che condividono esperienze simili e che imparano a conoscere se stessi e gli altri attraverso i libri: significatività è anche trovare in un testo ciò che si è letto in altri, concependolo come luogo ideale, un altrove che mitologicamente qualcuno potrà assimilare al mondo archetipico o all’eterno ritorno dell’uguale8. Il linguaggio mitologico implica l’ipotesi della solidarietà universale tra tutti i documenti letterari e tra tutto l’avvenuto, perché l’immaginazione è indissolubile dal linguaggio mitologico, ma senza che per questo si dia il mito-sostanza, presunto «motore immobile del meccanismo del linguaggio mitologico»9.
Muovendo da questo considerazioni e in virtù della sua attenzione per l’immaginario collettivo e l’inconscio culturale, Jesi può essere ancora una volta avvicinato alla critica post-psicanalitica e post-strutturalista. In questo senso negli anni ottanta Deleuze, scegliendo il cinema come paradigma, avanzava l’idea di «automa spirituale», termine che definisce un pensiero che procede per innesco automatico su base inconscia e che mette in crisi la presunta completa autotrasparenza del soggetto10. Su questa concezione della narrazione-immagine Gianni Celati scrive che

non esiste nessuna immagine che si chiuda in sé, nella propria oggettività realistica; dietro ogni immagine ce n’è un’altra, che a sua volta si collega ad altre già viste; e ciò che forse determina la loro durata d’effetto, è la permanenza di una loro riconoscibilità, in cui si concentrano ere di figurazioni immaginative11.

I testi scritti con la sistematica pratica del montaggio e della citazione creano un’analoga rete di rimandi, di rinvii e di connessioni ad alto potenziale di significato, che implica un’attivazione dell’interpretazione di grado superiore a quella presente nella comunicazione, decodificazione e lettura ‘tradizionali’. Sono qui portate alle estreme conseguenze le premesse di Benjamin, «l’attualità di Proust, Kafka, Brecht, ma anche del surrealismo e del cinema» relativamente alla riflessione sugli «effetti anacronistici di conoscenza»12: con conseguenze valide per ogni ‘testo’ nella sua nozione più ampia, nel contemporaneo l’«immagine-movimento sembra essere in se stessa un movimento fondamentalmente aberrante, anormale» ma al contempo l’unica fondazione possibile, in quanto è «il montaggio stesso a costruire il tutto e darci in tal modo l’immagine del tempo»13.
Seppure l’immagine e l’emozione siano temi centrali del suo discorso su letteratura e teatro, Jesi non fece in tempo, o non volle affrontare la questione del cinema che era e sarebbe diventata invece oggetto di riflessione sistematica della critica estetica e politica. Il cinema d’avanguardia, mostrando la sua artificialità fino a diventare meta-cinema, non fa che riprendere quella riflessione sulla letteratura: invoca la necessità di una scrittura ironica, esibisce il segno della sutura e dell’autorialità, disinnescando così l’effetto ipnotico del mito-sostanza senza soffocare l’ emozione che l’immagine suscita14.

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1 K. Kerényi, Considerazioni preliminari, in Id. Felicità difficile, cit., p. 29, in Jesi, Materiali Mitologici, p. 17. Nelle stesse pagine Kerényi nel suo «ricordo» associava il «nitore dolce, quasi tendente all’oscuro» di una statua greca (un Ermes psicopompo dell’isola di Andros), alla «radiazione» o «aura» che incanta nei romanzi di Mann; Ivi, pp. 21-22; in MM, p. 9.
2 MM, p. 206.
3 MM, p. 209.
4 F. Jesi, Lesilio, nota editoriale, in «Cultura tedesca», cit., pp. 107-108. Il testo, risalente al 1969, doveva servire, su richiesta dell’editore Silva, da comunicato stampa per la raccolta di poesie Lesilio, cit.; di contenuto sostanzialmente analogo la Lettera a Piancastelli (in «Uomini e idee», nn. 23-25, Napoli, 1970, pp. 249 ss.) con cui Jesi interveniva in un ambito dibattito sulla poesia d’avanguardia suscitato dal direttore della rivista Corrado Piancastelli. Entrambi in Riga 31_Jesi, 2010.
5 Lettera a Zanzotto del 29 ottobre 1970, Archivio privato di casa Jesi.  Ora in Riga, 2010. Cfr. H. Bloom, Langoscia dellinfluenza. Una teoria della poesia (1973), ed. it. Feltrinelli, Milano, 1983, manifesto dei cosidetti Yale critics e dell’inevitabilità del mis-reading nella ricezione storica e testuale.
6 Jesi, Ermetismo e Linguaggio Mitologico, p. 189.
7 L. Piantini, Furio Jesi: tempo del segreto e tempo della storia, in «Il ponte», La Nuova Italia, Firenze, n. 6, giugno 1990, pp. 95-96.
8 Cfr. O. Pamuk, La valigia di mio padre (2006), ed. it. Einaudi, Torino, 2007, pp. 19-20, «La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino. Quando uno scrittore si chiude per anni in una stanza, evoca con il suo gesto l’esistenza di un’umanità unica, un mondo privo di centro» (ora anche in Id., Altri colori, Einaudi, Torino, 2008, pp. 496-7); si vedano anche le pp. 46 ss. sul «lettore implicito» e sulla teoria di W. Iser. Cfr. MM, pp. 38-50 sulla stanza del mitologo l’hortus conclusus che apre mondi.
9 ELM, p. 190.
10 «Il movimento automatico suscita un automa spirituale, cha a sua volta reagisce su di lui», esso designa «il circuito nel quale» i «pensieri entrano con l’immagine-movimento». G. Deleuze, Cinema 2. Limmagine-tempo (1985), ed. it. Ubublibri, Milano 1989, pp. 175-176.
11 G. Celati, Quando ho visto “Nel corso del tempo”, in «Riga», 28, 2008, p. 124.
12 G. Didi-Hubermann, Storia dellarte e anacronismo delle immagini, cit., p. 27; cfr. pp. 52-53.
13 G. Deleuze, Cinema 2., cit. pp. 48, 51.
14 Cfr. il cap. 2.

giovedì 8 novembre 2012

avanti con determinazione







in anteprima assoluta Enrico Manera regala a Arrigo Malera un estratto del libro a cui ha dedicato molte energie negli ultimi anni,




Enrico Manera
FURIO JESI
Mito, violenza, memoria


Molto più che storico delle religioni, mitologo e germanista, Furio Jesi (1941-1980) è stato un’importante voce italiana nel recente dibattito sul mito. Rifiutando il concetto stesso di ‘mito’ in favore di quello di «macchina mitologica» ha criticato l'uso ideologico della mitologia e ne ha mostrato l’indissolubile legame con la politica, come è avvenuto in particolare con la «tecnicizzazione del mito» da parte dei fascismi del Novecento. La sua critica al sapere mitologico, di cui si sono occupate la filosofia, la filologia e la storia delle religioni, è anche una riflessione sulla memoria culturale: decostruire i miti mettendo in luce la loro origine storica e antropologica significa indagare sulla costruzione delle identità delle società moderne e contemporanee attraverso il linguaggio.
In sintonia con il dibattito europeo successivo allo strutturalismo, Jesi ha espresso una teoria filosofica di matrice ermeneutica e ha dato vita a una scrittura saggistica che scopre molteplici connessioni tra i testi e assume forte rilevanza autobiografica; al tempo stesso ha avanzato l’idea che la mitopoiesi, la produzione di nuova mitologia, continui a operare tanto nello studio del mito quanto negli immaginari contemporanei.




«Il contenuto reale di un libro
è sempre altro in parte
da quello che si mostra»
C. Levi, Tutto il miele è finito, 1964,


Furio Jesi (1941-1980) è stato uno studioso dalla straordinaria varietà di interessi, capace di ibridare discipline e di intrecciare problemi apparentemente distanti grazie a un’erudizione profonda, un’intelligenza sottile e una scrittura formidabile. 

Nello studio del mito Jesi è una luminosa meteora che emerge per originalità di stile e di impostazione ed è al tempo stesso una cerniera tra gli studi legati a un umanesimo classico – Pettazzoni, Kerényi, Jung, Cassirer – e la ricezione in tempo reale di una nuova cultura, tra tutti Dumézil, Lévi-Strauss, Benjamin, Barthes. La costante che solca un’opera eterogenea per temi e soggetti donandole organicità e coerenza è la scienza della mitologia, o meglio la sua critica; questa, culminata nell’originale proposta della «macchina mitologica», alimenta l’intera produzione jesiana permettendole di muoversi in un territorio di sorprendente vastità. Spostando l’attenzione dal mito, concepito come una sostanza oggettivabile, alle forme mitologiche e alle modalità testuali di produzione di materiali mitologici, Jesi ha indagato il rapporto tra sapere e potere nel quadro di una filosofia del linguaggio: finzioni, miti, luoghi comuni sono entità dotate di un’esistenza nell’immaginario che non di meno alimenta pratiche diffuse e produce conseguenze reali, inserite in contesti storici pregni di interessi di ordine materiale e politico. Una simile ontologia della finzione è anche una teoria critica della cultura, perché interroga ciò che prima facie si presenta come naturale, eterno e dotato di legittimazione sacrale per mostrare cosa – uomini e idee, valori e presupposti – lo ha prodotto.

‘Mito’ è il nome di una rete intricata di strutture portatrici della memoria, solo apparentemente ovvia, ma che si rivela invece all’analisi filosofica essere ricavata per contrasto proprio dall’assenza di ciò che il termine designa: un mito come sostanza extraumana e extratemporale che non è mai possibile conoscere veramente come tale. Se per lungo tempo la filosofia ha pensato il mito come superstizione infantile e irrazionale, la riflessione contemporanea gli ha restituito una più ampia portata di significato e lo ha concepito come il frutto di una logica sui generis ma pur sempre prodotta dalla ragione. È sempre la razionalità, indagabile solo attraverso se stessa e nelle sue manifestazioni storiche, a essere in questione quando si parla di mitologie.
Jesi ha cercato di rispondere alle domande poste dall’intersezione di antropologia, storia delle idee e filosofia a sincrono con quanto succedeva nella riflessione contemporanea europea. Dopo aver abbandonato negli anni sessanta lo studio del mondo antico per dedicarsi alle interferenze tra mito, letteratura e politica nella cultura mitteleuropea, ha mostrato come la scienza del mito ne riveli la funzione di coesione comunitaria nel momento della sua difettività, quando cioè essa nell’età moderna del disincanto del mondo e della secolarizzazione, con la «morte di Dio», viene a mancare. Ciò che del mito è delineabile, con il tratto leggero di uno schizzo a matita che non ha la presunzione di essere scienza esatta, è allora la «macchina mitologica» che lo produce e che insieme produce se stessa.
La filosofia della mitologia di Jesi ha una funzione essenzialmente strategica di smascheramento e di demistificazione volta all’emancipazione in senso politico: decostruendo gli elementi di un meccanismo linguistico, logico e narrativo che produce le verità del potere e delle classi dominanti e le esibisce nel ‘mito’ (e in ogni mito), egli ha partecipato di una più generale cultura figlia della crisi della metafisica del secondo dopoguerra e poi dell’atmosfera post-strutturalista dai tardi anni sessanta, caratterizzata dalla riformulazione del marxismo. Rifiutando di pensare le categorie centrali della cultura in termini di ‘sostanza’, Jesi si rivolge a testi, immagini e scrittura attraverso una critica che si interroga, oltre che sul loro specifico contesto, sulla loro più generale capacità di generare significati: sul come della loro invenzione, con un movimento che ha i tratti del gioco di scomposizione dei materiali con cui il sistema della realtà si è eretto. Lo sguardo filosofico che Jesi ha gettato sul mito è principalmente un’analisi del plesso sacro-potere-letteratura e della ragione che si rispecchia in esso: oltre alla messa in luce di rilevanti momenti della storia delle idee è una riflessione sulla cultura stessa nelle sue accezioni più ampie. I suoi studi hanno una forte impronta antropologica che scopre la carsica presenza della sfera mitico-sacrale tanto nella cultura alta quanto in quella popolare e underground. Mitologia e sacralità, persi i loro tratti classici e tradizionali, continuano a innervare le pratiche sociali della contemporanea civiltà dell’immagine: musica, letteratura, arti, ma anche la ricerca di stati di coscienza alterati, la proliferazione di tecniche di cura del corpo, la dimensione pubblica della scienza e della tecnologia, i saperi condivisi che costituiscono il senso comune, la politica spettacolare e carismatica, l’economia come dogma. La mitopoiesi, la produzione continua di nuovi e diversi miti, è un fattore elementare della costruzione che gli uomini fanno dei loro mondi nel tempo; vero illuminismo è quello che, riconoscendo l’inemendabile presenza di miti nella vita umana, è capace di criticarne gli aspetti disumani e negativi per la giustizia sociale.

domenica 21 ottobre 2012

materiali per la protesta degli insegnanti


quando grande capo delle scrivanie pallide e giacche grige

parlano con lingua biforcuta

gli uomini e donne della grande tenda in cui giovani guerrieri e squaw imparano

dissotterano l'ascia di guerra

augh

vitello tonnato ha detto






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Materiali per la protesta degli insegnanti.
Usare a piacere






Arrigo Malera comunica

cari tutti e tutte,

Negli ultimi giorni si è molto parlato delle nuove iniziative che il ministero sta intraprendendo contro la nostra categoria professionale.

Già di per sé il decreto aprea è una vergogna perché smonta i decreti delegati e distrugge la democrazia scolastica, trasformando de facto la scuola in scuola privata.
Questo è uguale a quanto accadeva con Gelmini e passerà a breve.
Ma se l'attacco politico non bastasse sul piano sindacale si sta scrivendo per l'anno prossimo un piano che rivede drasticamente i nostri orari. Dopo l'annuncio delle cattedre a 24 ore per tutti, che doveva servire a farci paura per poi renderci più molli, si sta chiarendo il progetto, a mio avviso vergognoso.

L'obiettivo che si sta configurando è: cattedre a 18 con obbligo di 6 a disposizione per le supplenze, maternità, malattie e  spezzoni, ovvero cattedre non complete. Ovviamente non retribuite, e ovviamente stiamo parlando dei posti dei precari, che a questo punto sarebbero fuori per sempre. E di fatto pagano il prezzo più alto, rispetto a chi è 'di ruolo' ma comunque sotto minaccia di essere perdente posto-posto per combinato disposto '+ ore cattedra + allievi per classe'

Di seguito la bozza del decreto che si prepara http://banner.orizzontescuola.it/def.pdf


"A decorrere dal 1 settembre 2013 l'orario di impegno per l'insegnamento del personale docente della scuola seconaria di primo e di secondo grado, incluso quello di sostegno è di 24 ore settimanali. nelle sei ore eccedenti l'orario di cattedra il personale docente non di sostegno della scuola secondaria titolare sul posto comune è utilizzato prioritariamente per la copertura di spezzoni orario disponibili nell'istituzione scolastica di titolarità, nonché per l'attribuzione di supplenze temporanee per tutte le classi di concorso per cui abbia titolo, per posti di sostegno, purché in possesso del relativo diploma di specializzazione e per gli impegni didattici in termini di flessibilità, ore aggiuntive di insegnamento, di recupero di potenziamento.
Le ore di insegnamento del personale docente di sostegno, eccedenti l'orario di cattedra, sono prioritariamente dedicate all'attività di sostegno e, in subordine, alla copertura di spezzoni orari di insegnamenti curriculari, per i quali il personale docente di sostegno abbia titolo, e l'istruzione scolastica di titolarità.
L'organico di diritto del personale docente di sostegno è determinato a decorrere dall'anno scolastico 2013/14, in misura non superiore a quello dell'anno scolastico 2012/13. Il periodo di ferie retribuito per personale docente di cui al presente comma è incrementato di 15 giorni su base annua
Il personale docente di tutti i gradi di istruzione fruisce delle ferie nei giorni di sospensione delle lezioni definiti dai calendari scolastici regionali ad esclusione di quelli destinati agli scrutini, all'esame di Stato ed alle attività valutative. Durante la rimanente parte dell'anno la fruizione delle ferie consentirebbero un periodo non superiore a sei giornate lavorative subordinatamente alla possibilità di sostituire il personale che se ne avvale senza che vengano a determinazione di aggiuntivi per le finanze pubbliche".

A questo punto Profumo – e chi per lui – rivela di essere in mala fede e/o completamente incompetente in didattica, comunque inadatto al ruolo e strumento dell'ennesima manovra di taglio dei costi. Si tratta di una mossa inaccettabile che sfrutta l'ignoranza e il rancore dell'opinione pubblica.
E che personalmente ostacolerò perché offende doppiamente la mia qualifica di lavoratore e di intellettuale. I concorsi saranno banditi per una manciata di posti (avete visto la polemica sui programmi, ancora quelli previsti dalla Gelmini? sembrano la versione bignami di quelli di Gentile).
Personalmente vorrei una vera riforma e non l'ennesima fregatura. Purtroppo non si parla di questo. Sembrava che il Paese dovesse rinascere dalla scuola, invece le condizioni peggiorano.

La prossima settimana sarebbe opportuno che il Collegio docenti (al momento esiste ancora) votasse una mozione di protesta, sul modello di quelle che stanno facendo altre scuole. Parliamone quanto prima.
Rimaniamo tutti, immagino, in attesa di sapere quali iniziative sindacali nazionali verranno promosse e auspico che la mobilitazione sia diffusa e condivisa.


ce n'est qu'un début,



Cosa dire a chi parla per sentito dire oppure odia gli insegnanti ed è talmente schiavo che vorrebbe schiavitù per tutti




Forse non tutti sanno che… il governo ed il ministro dell’Istruzione hanno presentato nella Legge di stabilità 2013 alcuni nuovi provvedimenti che riguardano gli insegnanti della scuola media inferiore e superiore. In particolare, l’innalzamento dell’orario degli insegnanti da 18 a 24 ore di lezione frontale in classe. È un'iniziativa che ci colpisce duramente come lavoratori e professionisti, che avrà ricadute sulla qualità del nostro lavoro e sull'occupazione: chi resta lavorerà peggio e molti perderanno il lavoro. Forse è necessario spiegare ancora una volta che cosa fanno gli insegnanti.
Svolgiamo 18 ore in una classe, in un’aula multimediale, in un laboratorio, in una palestra, partecipiamo a uscite didattiche. A queste 18 ore, si aggiungono molte altre ore di attività «extracurricolari» essenziali per la vita della scuola per:

- aggiornare le competenze nelle materie d’insegnamento (spesso più di una – italiano, latino, storia, geografia; matematica e fisica; chimica e biologia...), per arricchire l’offerta formativa, (spendendo in libri, prodotti multimediali e informatici, mostre, ecc. - senza poter detrarre niente dalla dichiarazione dei redditi)
- preparare le lezioni: è falso che siano sempre uguali (ogni classe è diversa) e se avviene a casa propria è perché le scuole non sono dotate di mensa (talora di un bar, a spese proprie)
- preparare le verifiche scritte ed orali e correggerle – la durata di queste operazioni dipende della classe, dall’anno di corso, dalla materia, dalla tipologia di verifica da somministrare
- partecipare alle riunioni degli organi collegiali di classe, di dipartimento, d’istituto e ai consigli di classe con colleghi, con genitori e studenti – monte ore aumentato nel corso degli anni (in relazione alle cresciute esigenze dell’utenza, 80 ore su 200 giorni)
- predisporre piani di lavoro per ogni materia insegnata in ogni classe, piani di studio individualizzati per studenti diversamente abili e per studenti che devono seguire i corsi di recupero, tenere sia corsi di recupero durante l’anno scolastico, sia corsi estivi di preparazione per gli studenti con debito a settembre.
- effettuare ore di straordinario per coprire le supplenze giornaliere, molto spesso su due o più classi contemporaneamente (è una conseguenza dei tagli dell'organico già fatti)
- ricevere i genitori su appuntamento al mattino e in riunioni pomeridiane e preserali, per venire incontro alle esigenze delle famiglie
- partecipare agli esami di stato che si svolgono tra la seconda metà di giugno e la metà di luglio
-effettuare uscite didattiche di uno o più giorni (per le quali non riceviamo più indennità alcuna) -attività di progettazione per il POF, orientamento in entrata e in uscita, formazione classi, elezioni scolastiche, incontri con esterni, stage in aziende, corsi presso le università, gare per l’eccellenza, progetti di innovazione anche internazionali
Il nostro stipendio è bloccato. L'orario è allineato con la media europea: non così per quanto riguarda stipendi, spazi e strumenti di lavoro, nei quali siamo molto sotto gli standard.
Vogliamo continuare a fare il nostro lavoro, in condizioni che consentano agli studenti di crescere oggi per affrontare il domani. Chiediamo che il governo riveda l’aumento dell’orario, stabilizzi gli insegnanti cosiddetti 'precari' che hanno superato i concorsi e sono in possesso dell'abilitazioni, riduca il numero degli studenti per classe che spesso supera i trenta con grave pregiudizio della didattica; predisponga un serio piano di edilizia scolastica; aumenti e modernizzi le attrezzature scolastiche, fornendo spazi e strumenti adeguati a chi vive la scuola con investimenti e standard europei.
Vogliamo una vera riforma della scuola pubblica condivisa da docenti, studenti e famiglie.

Gli Insegnanti del liceo Giordano Bruno






Quando i liberali parlavano con cognizione di causa

Luigi Einaudi, 1913



“LA CRISI SCOLASTICA E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI.


… Da vent'anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all'ufficio, seduti ad emarginare pratiche.
A costoro può sembrare che i professori con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l'insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell'orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l'orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età ed un ufficio il quale rilascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola secondaria d'oggi in Italia.
Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l'esponente e nello stesso tempo un'aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media …".
(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913).

“SCUOLA EDUCATIVA O SCUOLA CALEIDOSCOPIO?
 (A proposito del disegno di legge Credaro)
… A me sembra che 18 ore di lezione alla settimana sia il massimo che possa fare un insegnante, il quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi alla lezione e correggere i compiti coscienziosamente ed attendere ai gabinetti di fìsica o chimica; il quale, sopra tutto, voglia studiare. Se il legislatore voleva davvero provvedere al bene della scuola doveva aumentare gli stipendi, come fece; ma insieme vietare in modo assoluto agli insegnanti di far lezione oltre le 18 ore settimanali in istituti sì pubblici che privati; non solo, ma doveva proibire assolutamente di dare ripetizioni private a scolari proprii od altrui. Meglio costringere all'ozio assoluto l'insegnante protervo nel non voler prendere un libro in mano, che costringerlo o permettergli di sfibrarsi in un lavoro di vociferazione, che può essere giudicato leggero solo da chi non ha l'abitudine dell'insegnamento …”.
http://www.archive.org/stream/gliidealidiuneco00eina/gliidealidiuneco00eina_djvu.txt

Giovani guerriere della cultura che vanno all'estero



Signor ministro, mi piacerebbe che questa mail arrivasse fino a Lei e non ad uno dei suoi segretari o membri del suo staff, per poterLe trasmettere, con le mie parole, tutta l'indignazione che provo per le Sue ultime dichiarazioni e per i provvedimenti che il Suo governo intende prendere riguardo alla scuola .
Mi presento: mi chiamo Antonietta Brillante; sono dottore di ricerca in filosofia politica; ho ottenuto tre abilitazioni alll'ultimo concorso indetto alla fine degli anni 90;  sono entrata di ruolo nella scuola pubblica nel 2004 e attualmente insegno filosofia e scienze della formazione presso il Liceo  Forteguerri di Pistoia.
In base a quanto ho appena letto su alcuni quotidiani, Lei  ha argomentato la proposta di portare a 24 ore settimanali l'attività di insegnamento dei docenti della scuola secondaria, sostenendo che "bisogna portare il livello di impegno dei docenti sugli standard dell'Europa occidentale".[*]
Mi chiedo e Le chiedo se Lei è mai stato in una scuola di un Paese dell'Europa occidentale, possibilmente del nord-Europa. E' un interrogativo che non mi pongo da oggi, ma che oggi, a fronte delle Sue ultime dichiarazioni, si fa più impellente ed esige una risposta precisa.
Ebbene, io Le posso dire che  ci sono stata. Quattro anni fa, sono stata in Danimarca, in un paesino dello Jutland, Skive, per due settimane. Ho accompagnato una classe ad uno scambio e, dal momento che insegno in un Liceo pedagogico, abbiamo visitato, full-time, per 14 giorni, scuole di ogni ordine e grado: dai Kindergarten ai Licei. Le posso anche dire che le nostre scuole, per quanto riguarda le strutture, i materiali didattici, gli spazi e i tempi della didattica, sono proprie di un Paese arretrato e sottosviluppato: e di questo, la responsabilità è di chi ha deciso, da vent'anni a questa parte che, prima, per entrare in Europa, poi, per far fronte alla crisi, bisogna tagliare la spesa pubblica, cioè la scuola, la sanità, le pensioni (sia mai le spese militari - vedi  acquisto degli F 135 - o le missioni militari all'estero). Per inciso, "ricette" per le quali non è necessario un governo di "tecnici", né lo stipendio di ministro o di parlamentare: le saprei proporre pure io, che mi occupo di altro e  ho ben altre competenze.
A Skive mi sono resa conto che, per quanto riguarda il curriculum di studi e la didattica, con eccezione di quella che prevede l'uso di laboratori, noi non abbiamo niente da invidiare ai Paesi europei. Non solo il livello di preparazione dei colleghi danesi non era certo superiore al mio o a quello di molti colleghi italiani, ma ho anche rilevato che, per quanto riguarda lo studio analitico dei testi e delle fonti (siano essi letterari, storici o filosofici), mediante il quale gli alunni conseguono  diverse competenze, molti docenti italiani potrebbero avere qualcosa da insegnare a quei colleghi.
A Skive ho anche scoperto che i colleghi danesi, che lavorano 18 ore alla settimana, per un anno scolastico di 200 giorni, percepiscono uno stipendio medio di 3.000 euro (parlo di 4 anni fa), a fronte di uno stipendio, quale è il mio, di 1.380 euro, che tale resterà fino al 2017. Non solo: i colleghi di Skive, quando hanno compiti da correggere, inviano una copia in un ufficio a Copenaghen, che calcola il tempo medio di correzione per il numero di alunni e computa, su quelle basi, un compenso aggiuntivo. I docenti di Skive non devono controllare gli alunni durante i lunghi intervalli e neppure hanno l'obbligo di incontrarsi con i genitori, perché il rapporto privilegiato è quello diretto: docente-discente (unica eccezione: 5 minuti di colloquio a quadrimestre, concessi ai genitori degli alunni che frequentano il primo anno).
Ministro, sono questi gli standard europei!
Io sono un'ottima insegnante: non solo perché ho un livello di preparazione nelle mie discipline  persino superiore a quello che è richiesto ad un docente di scuola superiore, ma perché ho la capacità - lo attestano i riconoscimenti degli ex alunni e delle loro famiglie - di coinvolgere gli studenti, di sollecitare la loro attenzione, il loro interesse e la loro curiosità. Sono una professionista e come tale voglio essere considerata e trattata. Questo significa anche, signor ministro, che io non lavoro 18 ore, perché, quando torno a casa, leggo, studio, mi auto-aggiorno; preparo nuovi percorsi didattici e di approfondimento adeguati alle classi nelle quali mi trovo ad insegnare, che sono diverse ogni anno, e per le quali è prevista, proprio dal Suo Ministero, una programmazione ad hoc. Correggo i compiti, tanti compiti e non faccio test a crocette, "a risposta chiusa", per i quali la correzione richiederebbe meno tempo e fatica, perché ritengo che con quei test i ragazzi imparerebbero poco e la stessa valutazione non sarebbe adeguata, ma propongo quesiti a risposte aperte e saggi brevi. E quando correggo, non mi limito a fare segni rossi, ma suggerisco alternative corrette. Ha idea di quanto tempo ci voglia?
Io non sono un'eccezione tra i docenti della scuola italiana, perché, fortunatamente, le nostre scuole possono contare su una grande maggioranza di professionisti, che credono nel loro lavoro e lo svolgono con passione ed impegno: che lo praticano come Beruf.
Quanto all'aumento delle ore di insegnamento: Lei sa cosa significa insegnare, cioè svolgere attività didattica per lo più frontale o lezione guidata, perché non abbiamo altri strumenti a disposizione,  per 24 ore alla settimana? Lo ha mai fatto?  Le posso dire una cosa: ho svolto diversi lavori prima di incominciare ad insegnare e nulla è più faticoso che guidare un gruppo di alunni sulla strada della conoscenza, del sapere. E' una fatica fisica e mentale. E quello che affermo non ha niente a che vedere con il problema della disciplina, con il fatto di dover alzare la voce per farsi ascoltare: un problema che non ho mai avuto,  neppure quando svolgevo supplenze temporanee o insegnavo nella scuola secondaria di primo grado a ragazzini più piccoli.
E a proposito di standard europei, signor Ministro, mi fa piacere informarLa che a  Skive, e nelle altre scuole danesi che ho visitato, i miei colleghi non solo non hanno cattedre di formica verde, ma hanno un piccolo studio dove possono fermarsi, nelle ore  libere tra un impegno e l'altro, e correggere compiti, studiare,  riposarsi. Hanno in dotazione computer; hanno sale-professori attrezzate con cucine, salottini con tavolini e divani, distributori gratuiti di bevande calde e fredde. Vuole venire a Pistoia, signor ministro, a vedere che cosa ho a disposizione io, nella mia scuola, quando devo restare intere giornate, perché ho riunioni pomeridiane, e non posso rientrare a casa, non tanto perché la mia abitazione dista 40 km dalla scuola, ma perché il servizio di trasporti regionale è talmente disastroso sulla linea Firenze-Pistoia, che sono costretta a trascorrere intere giornate fuori casa?
Venga, e le mostrerò volentieri  la sala-professori, i bagni per gli insegnanti e, se vorrà vederli, anche quelli per gli studenti; se viene quando il freddo sarà arrivato, si copra bene, perché lo scorso anno, a gennaio, per diversi giorni,  la temperatura, nelle aule, non superava i 10°. Le mostrerei volentieri le lavagne di ardesia, dove  tento di presentare mappe concettuali con gessi talmente scadenti che le cimose polverose non riescono a cancellare i segni. Le mostrerò le poche aule che hanno carte geografiche degne di un mercato del modernariato e quelle invece ancora più spoglie, dove, però, può darsi che penzoli un crocifisso privo di una gamba o di un braccio.
Lei afferma che i soldi risparmiati aumentando le nostre ore di lezione, cioè impiegando meno personale docente e aggravando le difficoltà di una scuola già stremata, verranno investiti in futuro per creare scuole di standard europeo. Non le credo. Sono false promesse e pure offensive per chi nella scuola pubblica lavora e per chi crede nella sua funzione e importanza.  Se  quella fosse stata la Sua intenzione e l'intenzione del Suo governo, avreste dovuto cominciare perlomeno a darci dei segnali nel corso di questi mesi: non solo questi segnali non ci sono stati, ma quelli che abbiamo visto e vediamo vanno in direzione opposta: l'affossamento e la distruzione della scuola pubblica (per non parlare dell'università).
Il demagogismo non mi attira, né mi attraggono le pulsioni anti-casta. Eppure, signor Ministro mi sento di dirLe che Lei, come molti uomini e donne che hanno responsabilità politiche, siete, parafrasando il titolo di un bel libro di Marco Belpoliti, "senza vergogna": ed è ora, invece, che la vergogna venga riscoperta come virtù civile, e diventi il fondamento di un'etica pubblica, per un Paese, la cui stragrande maggioranza di cittadini e di non-cittadini  non merita di essere rappresentata e guidata da una classe politica e "tecnica", ammesso che questa parola abbia un senso,  weberianamente miope, non lungimirante, sostanzialmente incapace di pensare all'interesse pubblico e di agire per esso.
Domani sarò in pazza, signor ministro, a gridare con la poca voce che ho la richiesta delle Sue dimissioni! 


Antonietta Brillante
[*] Piccola nota informativa: è vero che i "colleghi europei" hanno un orario settimanale di 24 ore, ma le loro "ore" sono di 45 minuti. Fatevi i conti: anche noi - secondo questo calcolo, lavoriamo già 24 ore! Non tutti lo sanno, e certamente non lo sa il ministro. [ap]


Lettera dalla scuola media: la vita vera, insomma

Egregio Signor Ministro,
ho letto come tutti la sua proposta di aumentare dall’anno prossimo a noi professori l’orario a 24 ore di docenza in classe. Gratis, naturalmente, nel senso che queste ore in più non saranno seguite da alcun aumento di stipendio. Ce lo chiede l’Europa, dice lei, per adeguarci agli standard degli altri paesi comunitari. E sarà vero, se Lei lo dice. Ma, da docente, non capisco perché, a questo punto, anche il mio stipendio non si dovrebbe adeguare a quello dei colleghi stranieri, che è notevolmente più alto.
Ma anche lasciando stare i soldi, Egregio Signor Ministro, a farmi star male è proprio tutto il tono delle interviste da Lei rilasciate sull’argomento, a cominciare da quel “Con gli insegnanti ci vuole il bastone e la carota” citato nell’incipit. A casa mia il bastone e la carota sono cose che si usano con gli asini. Se Lei per primo, signor Ministro, ha una così alta considerazione della nostra categoria da considerare gli insegnanti equiparabili ai somari, cominciamo bene.
Entrando però nello specifico del Suo provvedimento, ci sono parecchie cose che non mi tornano (del resto sono un asino, me l’ha cortesemente fatto capire Lei).
Per esempio mi sfugge come alzare per tutti a 24 ore la presenza in classe dovrebbe portare automaticamente un miglioramento della qualità dell’insegnamento. A scuola, e sono la prima a riconoscerlo, ci sono anche docenti che fanno poco o nulla. Ma non certo per una questione di orario. Ora poltriscono per 18 ore, fategliene fare 24, poltriranno per 24 in classe, esattamente allo stesso modo.
Chi invece si troverà nelle peste causa aumento dell’orario di docenza saranno quegli insegnanti che lavorano bene. Perché vede, Egregio Signor Ministro, da quanto si capisce queste ore in più, che farò gratis et amore dei, non saranno ore aggiuntive nelle mie classi. Fosse così, sarei anche contenta. Attualmente io alle medie ho 6 ore di italiano, 4 di storia e geografia. Vogliamo aumentare la qualità dell’insegnamento? Concedetemi di farne almeno 8 di Storia e Geografia e due in più di Italiano per classe. Potrei lavorare meglio, approfondire il programma, avere più tempo per i recuperi di chi rimane indietro e per fare esercitazioni.
No, quelle 6 ore in più serviranno ad ammollarmi un’altra classe da seguire, e risparmiare così i soldi dello stipendio di un collega. Il che vuole dire, Egregio Signor Ministro, che io già oggi, con le classi stipate di 27/30 alunni, ho circa 90 ragazzini da seguire con le mie 18 ore; con 24 ne avrò circa 120. non voglio neanche pensare ai colleghi di altre materie, tipo lingue. Secondo lei, facendo anche un mero conto a spanne, la qualità del mio insegnamento migliorerà?
No, peggiorerà. Perché adesso le ore a casa, nel pomeriggio, quelle che tutti credono dedicate al riposo, le passo a correggere pacchi di compiti, temi, test di grammatica: sono almeno quattro a quadrimestre, tacendo di quelli che assegno per casa e dei compitini di Storia e Geografia. E altro tempo lo spendo perché, pensi un po’, mi devo preparare le lezioni che tengo in classe: sono asina, che vuole, non sono capace di entrare alla mattina improvvisando. Ho bisogno, la sera prima, di prepararmi gli schemi, il materiale da consegnare, pensare a cosa dire perché poi ogni classe è diversa, e la lezione va impostata in modo differente.
Tutto questo, Egregio Signor Ministro, lo faccio oltre alle ore in cui sono in classe, ma è sempre lavoro. E sono costretta a farlo a casa non perché sono privilegiata, ma per un semplice motivo logistico: a scuola, dove è la mia sede di lavoro, non ho né un ufficio né una scrivania, e il computer che uso per trovare i materiali o crearli è quello che mi sono comprata con i miei soldi, perché la scuola non me lo dà.
Evidentemente ai tecnici del suo Ministero e a Lei tutto questo sfugge, perché pare che mi sia computato come “lavoro” solo il tempo che passo in classe, e tutto il resto non esista. Bene, ne prendo atto. Ma la conseguenza di tutto ciò è che, aumentandomi il tempo di docenza e il numero di alunni, avrò meno spazio per fare il resto. Il che vuole dire, Egregio Signor Ministro, che ridurrò giocoforza il numero di compiti scritti, riciclerò i materiali uguali per ogni classe senza personalizzarli. Finirò per lavorare di meno a casa e sicuramente peggio a scuola: non per cattiva volontà mia o per deliberata voglia di sabotare il Suo meraviglioso progetto, ma per forza di cose. Quindi il grande risultato della Sua idea non sarà, come dice, aumentare l’efficienza della scuola e la qualità, ma peggiorarla: chi non ha mai fatto un tubo continuerà a non fare nulla, chi invece riusciva bene o male a insegnare qualcosa, si vedrà costretto a ridurre quanto prima era sempre riuscito a fare, perché lo sforzo fisico di stare anche solo cinque ore di fila in classe con ragazzi adolescenti e preadolescenti, con i quali non ti puoi distrarre un attimo, si farà sentire.
Per cui, Egregio Signor Ministro, da docente che ogni giorno entra in classe, questo le volevo dire. Approvi pure il nostro aumento di ore di docenza, per altro passando a tutti il messaggio che noi insegnanti siamo degli scansafatiche privilegiati che fino ad oggi han lavorato poco. Avrà il plauso popolare e Le riuscirà di certo, perché la società, dopo anni di martellamento mediatico, ne è già convinta, e la applaudirà. Ma non gabelli questo taglio per uno strumento per aumentare la qualità della scuola, o migliorare l’efficienza di noi docenti. E’ solo l’ennesimo taglio imposto ad una categoria che al momento non ha la forza di opporsi, né i mezzi, perché non facciamo neppure un lavoro considerato socialmente fondamentale, come i tassisti, ad esempio. In fondo siamo solo quelli che formano le prossime generazioni: degli asini che meritano un po’ di bastone e manco la carota, ha ragione Lei.


Gli orari dei colleghi europei.


Da cui si evince che i ministri non sanno cosa succede in Europa: altrimenti starebbero zitti sapendo che  i colleghi lavorano lo stesso tempo cattedra, le ore aggiuntive non sono di lezione frontale e sono ben retribuite visto che i colleghi vengono pagati anche il doppio e prendono straordinari per correggere i compiti, in più hanno tutti le lim e spazi comuni degni di questo nome


http://www.edscuola.it/archivio/ped/orari.html