martedì 25 giugno 2013

dimenticare l'esame di stato

articolo scartato da una rivista, perché non c'erano note eccetera. sulla scuola in 4 quadri il mio pensiero.



    Scoiattoli che si menano.


La crisi nella scuola

Enrico Manera

1.
Disagio
Affrontare il tema della scuola oggi vuole dire fare i conti con un disagio profondo, per la serie di nodi problematici che ad essa sono collegati, di cui solo chi ci vive quotidianamente pare essere consapevole. Ne è una prova il tono medio delle reazioni della 'società civile' che, recentemente, non ha trovato nulla di strano nel fatto che il governo intendesse aumentare da diciotto a ventiquattro le ore di lezione frontale per ogni docente, senza aumenti salariali.
La scuola pubblica, repubblicana e laica è uno spazio in cui si concentrano le contraddizioni culturali, economiche e sociali del presente, in una fase di trasformazione che tocca in primo luogo i suoi soggetti principali, gli studenti: è un luogo di formazione e di scoperta individuale, un punto di intersezione tra cultura alta e bassa, libresca e di strada; di avvicinamento alla politica, nel suo senso più ampio, attraverso cui guardare le pratiche di democrazia e di cittadinanza vissuta nel quotidiano.
La scuola è anche un ponte tra le generazioni, un mezzo di comunicazione con gli adulti fuori dalla famiglia, e quindi un punto di incontro e scontro tra visioni della realtà anche antagoniste; è il luogo dove si sperimentano e si mettono alla prove le relazioni di genere e gli affetti all'interno del gruppo dei pari e si testano le differenze tra l'involucro dell'ovvietà familiare e il diverso da sé in tutte le sue forme; è il luogo dove ci si confronta con fenomeni relativamente nuovi per l’Italia come le migrazioni internazionali, che fanno della scuola un laboratorio di multiculturalità molto più vivace e attivo di quanto non emerga dai media.
La scuola è un microcosmo, in qualche modo protetto ma ancora capace di durezza, che ospita sperimentazione, innovazione e accoglienza (ma anche nozionismo, conservazione e privilegio a seconda dei contesti); riflette quello che succede al suo esterno è un osservatorio privilegiato sul paese reale e su un mondo dell’adolescenza che i genitori non vedono nella sua integrità e che ogni adulto continua a pensare a partire dai propri ricordi.
La scuola è anche il modo in cui la società riproduce se stessa, o meglio intende riprodurre se stessa, perché nel frattempo è in essa che il cambiamento sociale si mostra prima che altrove. Da qui l'idea che la scuola sia al centro di dinamiche sociali emergenti di fronte alle quali la essa reagisce con strumenti datati e sempre meno efficaci.
Ragionare sulla scuola significa dunque mettere al centro della riflessione la crisi della nostra società e le possibilità di uscirne. Ma occorre ricordare che essa è un organismo plurale e complesso, che non può essere governato in base a logiche che non le appartengono.
Non si ha idea del tipo di disagio che si vive a scuola se non si tiene conto di alcune semplici questioni: bisognerebbe parlare di riforme dei programmi e dei metodi per un mondo che è cambiato e invece non abbiamo ancora risolto il problema della sicurezza dell'edilizia scolastica; dovremmo ancora capire cosa sta succedendo alle nuove generazioni in campo cognitivo di fronte a media multimediali (che ormai fa ridere chiamare 'nuovi') e invece ci si sta affrettando a santificare il tablet e a proporlo per tutti, senza tenere conto che in Italia si ha l'età media dei docenti più alta d'Europa e un corpo docenti precarizzato e falcidiato dai tagli di personale, praticamente inesistente sotto i quarant'anni.
La stessa classe dirigente che deplora la crisi di valori e l'ignoranza dei suoi giovani, a ben vedere dopo aver avallato politiche di desertificazione morale e culturale che ne sono all'origine, è quella che ha di fatto impoverito e umiliato il corpo docenti e distrutto l'idea di pubblica istruzione.
Quello che accade non può essere considerato un incidente: la scuola pubblica nell'ultimo decennio, oltre a essere andata incontro a tagli pesantissimi per quanto riguarda risorse e personale (che se avessero riguardato l'industria privata sarebbe state considerate epocali licenziamenti di massa), è stata oggetto di una controffensiva ideologica volta a delegittimarla in modo direttamente proporzionale alle politiche neoliberiste che hanno inteso disintegrare la nozione di 'educazione' sostituendola con quella di 'addestramento'.
Il ruolo dei docenti, la formazione e la condizione professionale (e psicologica) sono tanto importanti quanto sottovalutate, tanto dal punto di vista culturale quanto da quello salariale; lo dimostrano studi internazionali recenti (sistematicamente ignorati dalle politiche culturali) che correlano successo formativo, qualità degli insegnati, sviluppo umano di un Paese .
Se la scuola della Costituzione è indiscutibilmente un presidio di democrazia reale, inclusiva e partecipativa è il caso di ricordare che siamo di fronte a un vero e proprio deficit cognitivo che riguarda una cospicua fetta della società italiana: l'analfabetismo di ritorno di generazioni che hanno vissuto le scuole autoritarie (quelle che secondo la vulgata funzionavano ancora) si mescola con la resistenza alla scuola che viene offerta dalle fasce deboli o indebolite dalla crisi economica: un cittadino su tre non è in grado di scrivere o comprendere una frase anche breve. La ricerca sociale mostra che nella scuola la diseguaglianza continua a esistere: negli accessi, nell'abbandono, nella ripetenza e nel conseguimento dei risultati, rispetto agli esiti e alle competenze acquisite e in rapporto con la posizione sociale occupata. In altri termini, se per un breve periodo la scuola italiana è stata un fattore di mobilità sociale verso l'alto, da tempo essa non lo è più e riconferma differenze sociali che paiono sempre più ampie.
Non solo la scuola è in crisi, la crisi a scuola si sente, si vede più che altrove, semplicemente perché la società reale (non la sua rappresentazione mediatica e le astrazioni statistiche) passa dalle scuole, abitate da piccoli e giovani cittadini e cittadine che chiedono ogni giorno ragione della frattura tra il mondo ideale che i docenti spiegano e quello che vivono. La scuola non produce più cambiamento sociale ormai da tempo, quando va bene tampona il disastro, grazie all'impegno che ci lavora mette dentro nonostante tutto. Potrebbe non essere più in grado di fare neanche questo.

2. Da dove viene la crisi
La crisi dell’istruzione superiore, in una narrazione di larga fortuna condivisa dal neoliberalismo in tutte le sue declinazioni e dal cattolicesimo conservatore, viene fatta risalire alla cultura libertaria del Sessantotto che avrebbe cancellato il senso del dovere, della fatica e del merito. Sul banco degli accusati finiscono puntualmente Don Milani, Gianni Rodari e addirittura il gruppo Giscel, a cui si devono le note tesi per una linguistica democratica, che vengono letti in modo riduzionista e macchiettistico e diventano i primi responsabili di quello che viene dipinto come una nuova barbarie.
Solo per memoria corta, ignoranza e malafede si può ignorare che la scuola, in particolare la superiore, fino agli anni sessanta era ancora fascistizzata nei programmi e nelle pratiche; dove non lo era era cattolicizzata, in senso preconciliare, e se non lo era era ipocrita, perbenista, censuale e provinciale, sorretta da tutele antropologiche e solidarietà di ceto che passavano sopra alla decantata severità; animata da docenti gentilianamente autoreferenziali, capaci tanto di carisma e di costruire vocazioni genuine quanto di allontanare per sempre dalla propria materia studenti traumatizzati. Un’istituzione che sui grandi numeri produceva già allora ignoranti, abulici e rancorosi, ancora oggi memori di pratiche didattiche poco tollerabili. Lo dimostrano le già citate statistiche sulle competenze degli adulti di oggi, in termini generali, per non dire dell’ignoranza che molti professionisti stimati hanno in ambiti diversi dal loro, senza che nessuno si scandalizzi più di tanto.
La democratizzazione è servita allora, sostengono i nostalgici della scuola che non c'è più, a livello di istruzione dell’obbligo per un paese in crescita, demografica ed economica, e poi si è trasformata in diritto al successo formativo che è falsa democrazia, appiattimento culturale e svilimento di contenuti, con la scuola che diventa la palude-parcheggio attuale. La colpa principale sarebbe dunque del Sessantotto che ha spazzato via ogni competenza e difficoltà scambiando banalità e superficialità per allargamento della base democratica.
Contro tale falsificazione va affermato che quel periodo ha costituito un argine importante contro pratiche didattiche autoritarie, antistoriche e deteriori, i cui echi non sono peraltro del tutto scomparsi (esiste ancora un gentilianesimo fantasma che abita programmi e didattiche).
Le radici del problema sono altre, e se proprio dobbiamo assegnar loro un’epoca, allora sono gli anni ottanta (che chi scrive ha vissuto da adolescente): la cultura dei licei era già in difficoltà rispetto alla colonizzazione della sfera dell’immaginazione, degli affetti e del desiderio che emergeva in modo evidente con i primi anni di massiccia televisione privata, l’esplosione della pubblicità, il craxismo, il narcisismo, il trionfo del kitsch, l’emulazione impacciata del mondo americano.
Da allora la cultura della borghesia tradizionale ha visto erodere i propri valori ‘grigi’ in favore di una logica economicista e edonista a cui si è ben presto abbandonata.
Fino a qualche decennio fa la cultura espressa dal liceo classico e scientifico era la cultura ‘alta’ delle credenziali e del codice di riconoscimento delle classi dirigenti; poi le élite hanno cominciato a identificarsi in altri valori che non prevedono più il sapere tradizionale: di fronte all’emergere di nuove ricchezze nell’Italia del boom economico l’ignoranza non è stata più un problema, mentre lo è progressivamente diventato non essere alla moda, non avere determinati stili di vita e non possedere certi status symbol.
Nell'età segnata dal 'berlusconismo' si può essere spaventosamente ignoranti e incompetenti nel proprio lavoro; si deve parlare apertamente di sesso greve, di gossip, tradimenti, crimini efferati con gusto voyeristico ma non si può essere poveri. Il valore mitologico dei beni di consumo, a cui hanno avuto accesso i ceti subordinati, ha giocato un ruolo chiave nell’emulazione sociale e nella costruzione del consenso, con una dilatazione del concetto di classe media schiacciata sempre più verso il basso e priva di qualsiasi specifica identità se non il circolo desiderio-consumo-successo.
La scuola, contrariamente a quanto sostengono editorialisti nostalgici del loro liceo classico e insegnanti che producono best-sellers apocalittici sulla scuola, non ha dunque innescato il declino. Lo ha subìto e gli si è avvitata intorno perché è l’unico istituto di socializzazione che ancora è settato sul ‘vecchio’ modello antropologico e sociale che attribuiva valore al sapere.
La scuola è stritolata da contraddizioni come questa. Funziona come un meccanismo, a tratti ottuso e inceppato, producendo valori umanistici e scientifici in cui nessun altro soggetto istituzionale sembra più credere, salvo rilanciare slogan di retorica impacciata. E lo fa con programmi e metodi alla cui efficacia molti docenti non credono più, con margini di libertà e di felicità sempre più stretti.
Difendiamo la scuola comunque, ma non possiamo non chiederci: a cosa deve servire la scuola oggi? Ci serve ancora questa scuola? E se non siamo d’accordo con una società che rifiuta la cultura e il suoi canoni, ha senso resistere e insistere con quella? E se sì e crediamo nel suo valore formativo, a cosa siamo disposti a rinunciare per poterla diffondere? Risocializziamo alla cultura i figli impoveriti della middle class, essendo più indulgenti nelle valutazioni e tollerando una mediazione inevitabilmente al ribasso? O, persa ogni fiducia nell'emancipazione della massa, proteggiamo i già bravissimi che vengono da famiglie che credono ancora nella cultura, tendenzialmente a reddito medio-alto, selezionandoli verso l’eccellenza?

3. Verso dove?
Ogni vera riforma non può prescindere da un progetto di società più vasto e di ampio respiro: prima ancora dei dispositivi organizzativi sono le persone che fanno un’istituzione e il personale della scuola è oggi troppo in sofferenza per riuscire da solo nell’impresa titanica. L’età media dei docenti è alta, i loro carichi di lavoro sempre più gravosi e complessi e i cambiamenti sociali e culturali in atto nel mondo digitale sono incompatibili con la sola didattica frontale. Gli strumenti della valutazione oggettiva tratti dal mondo dell'industria e della certificazione della qualità non possono essere applicati a qualcosa come l'istruzione e l'apprendimento che sono incommensurabili, non misurabili e imprevedibili, se non riducendoli a una contabilità docimologica basta sul sistema quiz/nozionismo. Tanto nella produzione scientifica quanto nell'apprendimento vi sono elementi imponderabili che nessuna griglia potrà mai controllare.
Le analisi comparate dei sistemi educativi internazionali confermano che, in sistemi molto diversi, i risultati migliori basati sulle competenze degli studenti sono correlati all'alta qualità dell'insegnamento, animato dal senso di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi e da una missione civica e morale sottostante. In questo senso in Italia deve essere riconquistato il ruolo intellettuale del docente, che va accompagnato a una didattica che non può essere più solo quella frontale. In una situazione di crisi dell'educazione è necessario rivolgersi verso una pluralità di strumenti, dalla didattica in compresenza alla didattica laboratoriale, all'uso educativo delle nuove tecnologie comunicative.
Da questo punto di vista, l’uso dei diversi media deve essere insegnato e integrato con quello tradizionale. Come insegnante di storia e filosofia in un liceo nutro seri dubbi sul fatto che il canone letterario-filosofico tradizionale nella sua integrità conservi un potenziale significativo per l’oggi, troppo ancorato all’Ottocento e al primo Novecento nei suoi paradigmi di riferimento rispetto a svolte culturali più recenti; indipendentemente da questo credo che insegnando contenuti, anche questi contenuti, simultaneamente si insegni a imparare e decifrare la realtà; la difficoltà, la distanza, l’urto con la cultura e la complessità, vanno mantenute e si deve insegnare a superarle e a rispettarle. Di più, credo al valore di contraddizione, di utopia e di riscatto dell’opera d’arte e nell’importanza di mostrarlo attraverso una educazione estetica, oggi più mai completamente assente. Così come sono convinto del potenziale emancipativo del sapere e del suo valore ricreativo, senza la ricerca dell’immediata spendibilità del mondo del lavoro, che troppo spesso si trasforma in miraggio e ricatto.
Si tratta piuttosto di riconfermare a più generazioni che senza impegno, fatica e dedizione non si riesce a raggiungere risultati, quali che essi siano; di condurre una battaglia politica contro la dismissione dell’educazione pubblica, forti dell’idea che come docenti si ha un ruolo cruciale nella salute del Paese e che si possa essere contagiosi senza intraprendere crociate o missioni, e soddisfatti di poter indicare vie per la felicità della mente o anche solo di aver avvicinato i propri studenti a qualcosa di diverso da ciò che da cui sono partiti.
Troppi discorsi fatti sulla scuola, anche in buona fede e spesso da chi non ne sa più nulla, si reggono su implicite premesse logiche che di fatto negano la possibilità di cambiamento e di uscita dalla crisi, stabilendo che la cultura buona è una sola, è quella dei padri e va imparata come hanno fatto loro. Esiste una retorica sulla scuola che la pensa come se ci fossero ancora la Famiglia e il Sacro di cui deplora la fine (se mai ci sono state fuori dalla finzione che ne ha fatto la borghesia storica), senza il rumore di fondo e il bagliore disturbante dei media e senza il virus dell’accumulazione feticistica. Come se nel frattempo la sur-modernità e l’alienazione che tutti subiamo quotidianamente, e chi è nell’età dello sviluppo ancora di più, non esistessero o fossero l’invenzione di qualche astruso filosofo post-moderno che crea problemi inutili quando bastava Aristotele a dirci cosa dovevamo fare per essere felici.
Alla fine di ogni discorso che si voglia politico sulla scuola rimane il dato ineliminabile che dentro una classe si stabiliscono relazioni educative decisive per lo sviluppo di giovani soggetti in crescita entro un campo di regole prefissate, costitutivamente autoritarie e gerarchicamente ordinate, continuamente soggette a tensioni e rinegoziazione, in un ambito di variabilità enorme. Non si può non esserne consapevoli.
Personalmente credo che il sistema educativo nel suo insieme non riesca a uscire dalle logiche della metafisica tradizionale, tanto nei programmi quanto nelle pratiche. Ripensare la scuola di oggi significa anche rinunciare a pensare che l’identità di un soggetto – sapere chi si è, cosa si vuol fare, cosa si vuol diventare – sia un’ipostasi che sta al di sotto di tutto; come conferma il ruolo primario della scuola nella memoria di qualsiasi adulto, l'identità personale sembra piuttosto essere il risultato di un percorso di costruzione e ricostruzione, a volta lungo una vita, che prevede errori, sviste, cadute, fratture, ripensamenti, oltre che successi e soddisfazioni. Quasi sempre, tutto succede a partire da una scuola.
Un docente non sa niente di quello che è maturato nei suoi allievi dopo che li ha lasciati. Non gli è dato saperlo e se ne dimentica sempre. Quale che sia la scuola che verrà, penso che si debba recuperare la fiducia nel fatto che la scuola possa trasformare gli studenti, dando loro più strumenti per la loro personale via al mondo adulto. Questo significa rinunciare a voler riprodurre una nozione idealizzata di noi stessi. E fare in modo che il cambiamento, anche verso qualcosa che non conosciamo, possa non essere così male.

4. Agenda per una rinascita della scuola
Recentemente la crisi attuale, che è frutto del neoliberalismo consapevolmente adottato ed è aggravata dal degrado etico della classe dirigente, ha portato moltissimi soggetti pensanti a ridiscutere il tema del bene comune: la scuola è un tema trasversale a esso, poiché come mostrano tutti gli indicatori, l'istruzione è la miglior risorsa per il benessere e la stabilità di un paese che abbia la giustizia come obiettivo primario. Chiunque metterà piede nel nuovo ministero si trova di fronte una situazione critica e una serie di risoluzioni già avviate fallimentari. Di seguito alcune cose che andrebbero fatte se si crede che il futuro dell’Italia dipenda dall’istruzione dei suoi cittadini: promuovere l’immagine del lavoro dell’insegnante come intellettuale e funzionario pubblico. Eliminare l’idea che il sapere sia addestramento a superare prove. Aumentare gli stipendi dei docenti. Ripristinare gli organici funzionali e le compresenze e smetterla con l’ossessione del completamento cattedre di diciotto ore. Abbassare il numero di allievi per classe a venti studenti (oggi sono fino a trenta) a fronte delle nuove richieste educative. Ritornare alla programmazione individuale e alle offerte formative con modalità meno rigide rispetto alle indicazioni ministeriali. Aprire una riflessione sui contenuti minimi e condivisi delle discipline incentrando i programmi sul Novecento e riformulando canoni oramai consunti. Incentivare l’informatizzazione e la formazione multimediale del personale segnato dal digital divide rispetto agli studenti. Migliorare biblioteche e risorse informatiche (pc e Lim, aule multimediali). Abbassare l’età pensionabile riconoscendo la delicatezza del ruolo del docente. Fare in modo che gli insegnanti si dedichino alla ricerca e alla formazione incentivando part-time e congedi. Aprire un osservatorio sulla sindrome del Burn Out per prevenire il crescente disagio della categoria. Organizzare nuove immissioni in ruolo ed eliminare il precariato. Stabilire regole chiare e canali realistici per la formazione dei futuri insegnanti. Affrontare le esigenze dei nuovi studenti migranti con appositi progetti in vista di una reale inclusione. Tutelare la disabilità in un’ottica non solo custodialista. Trovare forme di riconoscimento del merito condivise e premianti. Rilanciare una vera autonomia didattica con criteri di uniformità territoriale. Eliminare la logica della certificazione della qualità secondo modelli tratti dal mondo dell’industria e ispirati all’impossibile misurazione oggettiva basata sui test. Semplificare la burocrazia interna e potenziare le segreterie senza che i lavori gravino sui docenti. Monitorare gli edifici scolastici dal punto di vista della sicurezza e della vivibilità. Sostenere l’apertura delle scuole al territorio con la promozione di attività pomeridiane. Rivedere statuto e responsabilità del personale non docente considerandolo a tutti gli effetti personale educativo. Aumentare le risorse e le agevolazioni alle scuole tanto più difficile è il contesto socio-culturale in si trovano. Il tutto all’interno di un processo costituente che ridia centralità ai lavoratori della scuola, agli studenti e alle famiglie e li includa nei processi decisionali.
Qualsiasi provvedimento che non tenga conto di tutto questo non potrà avere efficacia reale.




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