venerdì 22 aprile 2011

Tutti pochi molti. Malera a Biennale Democrazia


Invitato nel salotto buono della città a parlare di filosofia, per meriti che egli stesso ignora, così parlò Arrigo Malera


1. Tutti - pochi. Pochi ma buoni? Possono tutti essere buoni, belli, avere una propria felicità da cercare?

La storia della filosofia associa ragione, bontà, bellezza e felicità, ai pochi contro i molti: in modo esplicito o sottinteso la conoscenza dell’essere è privilegio di un’élite a cui spetta la verità. Contro questo l’illuminismo e il marxismo propongono il diritto alla felicità per tutti e il rovesciamento del potere dei rapporti di forza aprendo le porte alla sintesi di virtù e felicità che le democrazie moderne cercano di realizzare politicamente; ma se la filosofia non fosse che una modalità storica della ragione che si pretende universale, ovvero l’ennesima narrazione di pochi sui molti?

0.

Poiché ho l’onore di aprire questa maratona e per affrontare il tema, posto nella sua forma più generale, ho pensato di tracciare un percorso storiografico, di taglio principalmente teoretico che fornisca dei binari entro i quali situare il dibattito; e data la vastità del tema, ho scelto dei riferimenti di tipo paradigmatico, che reputo tendenzialmente condivisi.

1. Esiste una tradizione che solca la storia del pensiero e che considera la filosofia una pratica di élite, libera e discorsiva per cui la ragione è sinonimo di bontà, felicità, bellezza, con caratteristiche positive appannaggio di pochi contro una serie di valori opposti che sono invece diffusi tra i molti.

Inoltre si può affermare dire che nella storia materiale della cultura, indipendentemente dagli enunciati teorici, la filosofia si è sempre pensata come aristocrazia del pensiero e pratica da grandi solitari.

Il primo riferimento a cui tutti abbiamo pensato è Eraclito: la contrapposizione tra svegli e dormienti è tra gli aristoi, pochi e migliori, contro la moltitudine indistinta del demos; coloro che sanno praticare la filosofia, il logos, hanno il privilegio della verità, la conoscenza ‘vera’ rispetto a quella degradata e incerta che deriva dalla sensibilità, peraltro legata alle istanze democratiche della scuola ionica a tendenza naturalistica.

L’impostazione è chiara e si ritrova anche nella struttura piramidale del modello sociale platonico con la nota divisione in tre classi: una vicenda di pochi, capaci di usare la ragione ed elevarsi al mondo delle idee, ‘oltre il cielo’, contro i molti, schiavi delle passioni e incatenati al mondo delle ombre e dell’apparenza e destinati al lavoro manuale della produzione e della distribuzione di beni e servizi.

Tale impostazione teorica si ritrova sostanzialmente inalterata nella linea della ‘grande’ metafisica che giunge attraverso la modernità fino almeno ad Heidegger (un pensatore che ha molta affinità con il pensiero greco più antico) laddove l’inautenticità caratterizza la vita quotidiana e banale a cui è condannata la massa dei ‘gettati’ vittime della ‘deiezione’, caratterizzati dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco, forma del si dice e si fa; questa è la traccia profonda della critica della modernità più strettamente politica che si trova in tempi diversi in critici dell’uniformità e del conformismo come Toqueville e Ortega; il correlato è inoltre il pessimismo antropologico dei molti pensatori come Pascal, Kierkegaard, Schopenhauer, non a caso ‘classici’ di un canone ultrafrequentato dalla storiografia crociano-gentiliana italiana.

La linea tendenzialmente gnostica nella filosofia può essere riassunta nella misantropia di Dostoevskij in Delitto e castigo: «Poi ho capito che a volere attendere che tutti fossero diventati intelligenti, sarebbe stato troppo lungo… poi ho capito ancora che questo non sarebbe stato mai, che gli uomini non cambieranno mai e che nessuno li può trasformare, e che non val la pena di sprecar fatica».

2.

C’è però anche una traccia parallela di segno inverso: alla lettera gli svegli per Eraclito sono coloro che condividono il logos, per loro il mondo è unico e comune; l’esperienza linguistica e razionale collettiva è ciò che garantisce un cosmo oggettivo, non frammentato negli idioletti individuali. Gli uomini si riconoscono in un unico mondo a cui partecipano tutti insieme in una dimensione intersoggettiva di cui è garante il logos. Nel nome della comunità di logos la Stoà ha teorizzato il cosmopolitismo, la casa comune di uomini e dei, e su quella matrice c’è un universalismo che il cristianesimo ellenizzante ha fatto proprio e che si ritrova, attraverso il medioevo e il processo di secolarizzazione, dall’umanesimo di Erasmo e Moro fino nel pensiero giusnaturalistico, nelle tendenze panteiste e deiste del pensiero illuminista, e di conseguenza nei suoi risvolti politici: in età moderna mutatis mutandis la felicità di pochi deve diventare di molti, e la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 e quella dei Diritti dell’Uomo 1789 e 93 vanno in questa direzione sancendola come un diritto universale.

Il marxismo non fa che ampliare il progetto emancipativo dell’illuminismo in chiave sociale incastonandolo nella più ampia dimensione di un’antropologia materialistica ed economica, antiidealistica e antiélitaria: il proletariato è la moltitudine prodotta dallo stesso sistema di sfruttamento capitalistico, i pochi che preparano involontariamente la distruzione del sistema di cui godono i privilegi.

Il problema della modernità è diventato come realizzare l’emancipazione, l’uscita della minorità di cui il soggetto è il principale responsabile (Kant) o la società senza classi più giusta, ideale regno di giustizia che va conquistato attraverso la lotta di classe, che vuol dire innanzitutto coscienza di classe e critica dell’ideologia (Marx). Da queste due radici tra ‘800 e ‘900 vi è un’esplosione di riflessione in tal senso: Dewey, Russell, Bergson, la scuola di Francoforte, ma la lista è infinita. Non c’è filosofo che non abbia trattato il rapporto tra educazione e democrazia.

Il problema è come la bontà, la felicità, la bellezza possano passare da privilegio dei pochi a condizione stabile dei molti. E credo questo sia il problema di ogni forma di democrazia, se gli stati devono garantire la felicità individuale e comune.

Qui siamo di fronte al noto pessimismo della ragione e all’ottimismo della volontà: laddove una diagnosi descrittiva indica anche una cura prescrittiva che deve realizzarsi, nei termini di un progetto, un auspicio e una speranza, trovando però anche le modalità più adatte a tale fine.

3.

Nella post-modernità la stessa questione del ‘come’ superare la frattura tra pochi e molti si fa ancora più radicale.

Come ha mostrato Foucault la modernità significa messa in atto di processi di individuazione, soggettivazione (essere soggetti) e istituzionalizzazione (essere assoggettati), che con la società di massa si rendono ancora più forti e pervasivi, cortocircuitando potere e sapere e dando vita a complesse relazioni di pratiche e immaginari – i dispositivi – che possono essere considerate forme moderne di ‘mitologia’, almeno nel senso che hanno la stessa funzione trascendentale e sociale che il mito antico ha assolto nella generazione dei significati comunitari e individuali. La condivisione di una visione del mondo fonda il legame sociale e legittima il potere, fornisce risposte alle domande generali sulla realtà, plasma le coordinate elementari di senso del mondo. La circolazione di materiali mitologici svolge un ruolo fondamentale nella tessitura della struttura connettiva di una società e la politica diventa soft-power, arte di dirigere l’immaginazione delle moltitudini. E come Barthes ha mostrato ogni cosa può diventare un ‘mito’. Questo vuol dire che ogni forma di educazione è simultaneamente ideologia e imposizione di un potere e di una violenza; il paternalismo che ha già deciso la cornice entro la quale ogni identità desiderabile si inscrive e che si esprime così: sei libero di essere felice e buono nel modo in cui è già stato deciso che ciò avvenga.

Con Derrida si pone un’ulteriore frattura nella storia della metafisica: per paradosso la definizione dei problemi filosofici avviene attraverso la rimozione della specifica forma di mitologia su cui si è costruito l’occidente, la filosofia cioè nasce arbitraria e nella contingenza storica. Ed è una forma storica e particolare di pensiero che si pretende forma universale della ragione e che si naturalizza fino a coincidere con la realtà in virtù di una posizione di dominio.

Per Derrida «La metafisica – mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora chiamare la Ragione. [...] Mitologia bianca – la metafisica ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l’ha prodotta e che tuttavia resta attiva, irrequieta, inscritta in inchiostro bianco, disegno invisibile e nascosto nel palinsesto». Questo in altri termini può volere dire che la nostra filosofia è l’ennesima narrazione di pochi sui molti.

Siamo di fronte cioè a un vero problema di ordine metacognitivo: il discorso filosofico, benché sempre più diffuso, continua a rimanere appannaggio dei pochi, basti pensare che uno studio internazionale reso noto da Tullio De Mauro nel 2008 indicava come solo il 20% della popolazione italiana adulta possegga strumenti di lettura, scrittura e calcolo adeguati per orientarsi in una società complessa. E un discorso simile può essere fatto per ampie sfere delle società occidentali.

Questi pochi sono a loro volta stretta minoranza dentro una minoranza più ampia, il quarto di popolazione mondiale che dispone dell’80% delle risorse.

Il restante 75% di popolazione (che dispone del 20% di risorse) costituisce un’alterità e per secoli è stato inchiodato alla definizione di barbarie oggi continua scontare un drammatico sottosviluppo e un retaggio che il pensiero post-coloniale, in Italia totalmente negletto, sta cercando di delineare in termini altri rispetto a quelli della metafisica.

Il modo di invertire i rapporti tra molti i pochi passa per l’abbandono di ogni metafisica dell’identità: credo che i problemi teorici di cui dobbiamo occuparci per una vera democrazia innanzitutto cognitiva siano correlati alla crisi dell’educazione in Italia oggi e a tutto quello che comportano i grandi fenomeni migratori e più in generale la globalizzazione che ha cambiato il volto del pianeta: come produrre filosofia che non sia ennesimo parlarsi addosso tra idioletti iperspecialistici? Qual’è il posto dell’antropologia dei nostri saperi? Di quale nuova narrazione della realtà abbiamo bisogno? Come gestire l’empatia globale e la reazione d’indifferenza? Con quali discorsi possiamo uscire dalla retorica universalista e dall’inflazione democratica che finora ha provocato soprattutto chiusure identitarie e localismi fanatici?


mercoledì 6 aprile 2011

Anni ottanta /Buon compleanno, ieri


the smiths a top of the pops, 1984


http://www.doppiozero.com/dossier/anniottanta


Ci sono piumini gonfi e lucidi e jeans corti e stretti ovunque intorno a me, Snoopy è l'icona dominante, le sciarpe fluorescenti sono di gran moda nella scuola media dove cerco di costruire le basi della mia socialità tra la Scilla del teppismo giovanile e la Cariddi della cattolicizzazione integrale. Soprattutto cerco di non farmi pestare fuori dalla scuola di un quartiere periferico di Torino, elaborando strategie di popolarità alternative, la principale delle quali sarà la musica. In quell'epoca di tagli di capelli che gridano vendetta (cercare subito ‘mullet’ su google, giuro che l’ho avuto anch’io) qualcosa di nuovo sta succedendo e incomincio a percepirlo oscuramente. Quello di ‘paninari’ è un concetto ancora vago, che non promette nulla di buono. Tra noi ragazzi la televisione è una presenza decisiva, le parole chiave sono dettate dai programmi obbligatori, solo un attimo prima c’erano puffi e robot e adesso ti ritrovi il Drive-In, una serie di prodotti seriali che vanno da Hazzard al General Hospital, DJ Television e i film dell'orrore in seconda serata (anatema sit chi volle trasmettere L'esorcista in tivvù, chiedete agli analisti che ci hanno lavorato sopra nei decenni successivi), per non parlare di un numero non precisato di emittenti locali dalla programmazione commerciale invadente e chiassosa.

Al centro di tutto c'è la pubblicità: attraverso le immagini della vita che si manifesta negli spot, il Mulino Bianco come paradigma con le sue merendine, sento che c'è qualcosa che non va in me, nella mia famiglia e nel blocco sociale da cui provengo. C'è una distinzione in quei corpi e nei cibi che rifulgono di luce perfetta che li fa sembrare puliti, giusti e perfetti, in contrasto a una sorta di pesantezza, lordura, disarmonia che investe invece le pastesciutte e fettine al burro; una nettezza che condanna per sempre il caffélatte della sera e la minestrina come superstizioni o una colpa imperdonabile. Lì, in quelle immagini c'è un mondo a cui sento di non appartenere, un mondo di levità, fragranza e sentire nobile che dice tutta la grevità e inadeguatezza che ci costituiscono (noi chi? famiglia, classe, quartiere, città, paese) contrapposta al nitore e alla finezza di pochi eletti, tra cui le ragazze più belle della mia scuola (come *******, amore adolescenziale che divenne uno struggente simbolo di chissà che cosa nel suo negarsi) che invece sono della stoffa di cui è fatto quel mondo. All'epoca, secondo quello che avrei scoperto essere un cliché abbastanza diffuso nella fenomenologia dello spirito piccolo-borghese, soffrivo molto di non poter accedere a quella sfera; anni dopo ho compreso che sentivo il richiamo della produzione della mitologia che sta alla base della civiltà borghese nell'analisi di Barthes, ma avrei dovuto aspettare almeno la lettura di Marx e Nietzsche per trovare il varco che mi consentisse di capire il modo di uscire da quel disagio.

Un varco verso la consapevolezza del controllo politico dell'immaginazione delle masse che in Italia ha moltiplicato a livello esponenziale i processi di mutazione antropologica di cui il berlusconismo negli anni ‘90 è stato risultato e nuova causa al tempo stesso. Il suo principio teoretico è l'estetizzazione della politica, che è alla base delle cultura dell'identità in versione post-moderna che da noi iniziava allora a radicarsi. Nella tarda modernità, con il combinato disposto di cultura dell'immagine insistita e narcisismo prometeico di massa, si rendono apprezzabili modalità di costruzione della realtà che superano la ‘tecnicizzazione’ scoperta del mito, fenomeno già conosciuto nel mondo antico e moderno. La novità è stata la creazione indotta di sempre nuovi ‘miti’ del consumo che, connessi allo sviluppo economico di massa e al tramonto definitivo di un mondo contadino e piccolo-borghese, hanno costituito il tessuto narrativo di una ideologia pervasiva a bassa intensità: una forma di ‘miticità’ con la quale, schematicamente, l'essere collassa sotto l'imperativo sociale del dover essere e che accompagna il variare del paesaggio dell’alienazione dalla predominanza dell’avere sull’essere a quella dell’apparire su entrambi.

Essere adolescenti negli anni ottanta ha significato un modo particolare di crescere, non più drammatico di altri ma comunque nuovo per salto di qualità ed entità di sollecitazioni comportamentali: uno sviluppo dentro schemi culturali dominanti di conformismo, omologazione, kitsch, desiderio di essere visti, smania di popolarità, implosione della critica, mancanza di autoironia e assorbimento dell'utopia, la grande sconfitta dei decenni precedenti, la quale sopravvive ambiguamente in nuove forme di estetizzazione pronte a farsi nicchia di mercato. Questo volto oscuro degli ottanta, per fortuna non l’unico, è quello che ritorna. Per chi l’ha già visto la prima volta non è affatto divertente.