Emergono dal mio archivio scritti di qualche anno fa, che stavo dimenticando.
Invece sono sempre attuali. Questo è del 2003, e uscì su «l'Unità» per il 25 aprile.
Confermo tutto.
Resistenza, la disobbedienza come responsabilità civile
Enrico
Manera
Ha
scritto Claudio Pavone nella sua fondamentale opera del 1991
Una guerra civile,
ancora oggi non correttamente recepita dai più, che con la scelta
resistenziale “per la prima volta nella storia dell’Italia unita
gli italiani vissero in forme varie una esperienza di disobbedienza
di massa”. Il senso di tale affermazione investe l’intero assetto
della Resistenza nella molteplicità delle sue manifestazioni,
assumendo il senso di un clima generale che accompagna interamente
quei circa venti mesi che separano l’Armistizio dalla Liberazione.
Proprio
dall’8 settembre bisogna partire per ritrovare le tracce di un
primo significato di ‘libertà’ nella scelta resistenziale: il
suo essere un atto di disobbedienza, non «a un governo legale,
perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione», ma
«a chi aveva la forza di farsi obbedire» (Pavone).
Il
totale vuoto di potere creato dall’abbandono di ogni responsabilità
da parte del Re e dei generali in fuga verso Brindisi, aprì uno
spazio di libertà che per tutti si trasformò nell’esigenza di
scegliere da che parte stare. Massimo Mila descrive questa situazione
parlandone come di una “rivelazione a se stessi”, una nuova
possibilità di vita scaturita da scelte che venivano compiute spesso
in solitudine e la cui radicalità veniva modulata in base alla
situazione contingente, alla possibilità e alla determinazione. Nei
testi di Mila, di Ada Gobetti, di Franco Venturi, di Roberto
Battaglia, di Pietro Chiodi, emergono a questo proposito espressioni
come ‘gioia’, ‘infanzia’, ‘incoscienza’, ‘entusiasmo’,
‘fervore’, ‘energia’. Parole che testimoniano, oltre la
tragicità degli eventi, l’ebbrezza della libertà. Una realtà di
grande rilevanza educativa per una generazione, cresciuta negli
apparati totalitari del regime, che nella scuola elementare aveva
dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato:
“quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza!
E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza”.
Connessi
alla recuperata libertà furono, da subito, il senso di
responsabilità a cui si era chiamati e la dimensione collettiva del
fenomeno. Fin dal settembre 1943 si assistette a manifestazioni di
solidarietà e di aiuto della popolazione offerto agli sbandati e ai
fuggiaschi, in un clima diffuso di ‘resistenza passiva’. I
macchinisti rallentavano i treni o si fermavano per permettere ai
soldati di scappare; contadini e ragazze portavano cibo a ragazzi in
fuga e senza le idee chiare, tutti offrivano abiti borghesi.
Cominciava da lì quella resistenza civile che Anna Bravo ha definito
un “maternage di massa”, una gigantesca mobilitazione soprattutto
di donne tale da configurare un “enorme lavoro di tutela e
trasformazione dell’esistente – vite, rapporti, cose – che si
contrappone sia sul piano materiale sia spirituale alla terra
bruciata perseguita dagli occupanti”.
Una
tale rete di supporto fu la base su cui si erse la “resistenza
attiva”, i cui primi nuclei si sarebbero venuti a formare di lì a
pochissimo. Uomini di diverso orientamento politico, vecchi
antifascisti liberati o tornati dal confino, militari sbandati,
giovani renitenti alla leva, studenti e contadini, fecero la scelta,
collettiva e non individualista, di diventare “banditi”. Una
scelta fatta nella consapevolezza di essere portatori di una
legittimità e di una giustizia ormai scomparse dall’orizzonte
storico del tempo.
La
disobbedienza è, di per sé, il primo atto di una scelta
responsabile, nata all’interno di un ripristinato ‘stato di
natura’, in cui tutti, potenzialmente, sono contro tutti. Eppure
nei luoghi della Resistenza tra il 1943 e il 1945, sulle montagne,
nelle città, nelle fabbriche, nei campi di concentramento, nelle
case e nelle cantine, nelle osterie dopo l’orario di chiusura, si
ridefinivano i ruoli e i rapporti tra le persone. Rinasceva la
democrazia come confronto diretto e dialogo aperto, beninteso anche
con scontri e divergenze drammatiche di natura politica e
organizzativa. Non si dimentichino la fame, la povertà e le
condizioni proibitive in cui versava la popolazione di un paese in
guerra, frequentemente bombardato e con una rete di spionaggio e di
repressione durissima e violenta.
In
questa situazione la facoltà di critica e il rimpadronirsi di sé si
riaffacciavano nella vita degli individui per diventare lo spazio
mentale e sociale su cui si sarebbe rifondato il Paese. La
disobbedienza della Resistenza diventa dunque sinonimo di
responsabilità civile, capacità di ridare dei significati alle
azioni e alle scelte dopo un ventennio di eterodirezione delle
coscienze e di un apparato totalitario retorico, pacchiano e tronfio
che aveva reso ridicolo il senso stesso delle istituzioni. Mentre le
maiuscole del littorio romano e dell’impero si sprecavano, i
soldati al fronte male armati ed equipaggiati erano stati i primi a
scoprire quanto ci fosse di drammaticamente falso nelle trite formule
del credere-obbedire-combattere e in difesa della patria a guardia
dei bidoni di benzina.
Se
le drammatiche condizioni della ritirata di Russia avevano spazzato
via ogni dubbio, così l’8 settembre fu il momento, percepibile da
tutti, del vuoto di potere assoluto e del crollo delle isituzioni.
Non “morte della patria”, come vuole certo revisionismo nostrano,
ma crollo definitivo del misero edificio costruito da una dittatura
che in vent’anni aveva eroso le già fragili fondamenta di uno
Stato in cui il processo di Nation
Building era
tutt’altro che compiuto. Moriva la patria monarchica e fascista,
bisognosa di fondarsi su valori altisonanti e ideologici perché
incapace di esprimerne di autenticamente umani. Ma lo Stato italiano
era morto ben prima, nel 1938, quando Mussolini con l’avallo della
monarchia aveva instaurato le leggi razziali, stabilendo la fine dei
diritti più elementari per i cittadini italiani di origine ebraica.
O, addirittura nel 1924 insieme a Giacomo Matteotti, senza che i
senatori liberali del Regno avessero fatto alcunché per ripristinare
lo stato di diritto; o il 28 ottobre 1922 quando con la passeggiata
romana in camicia nera, l’incapacità delle élites
liberali di rapportarsi con le emergenti masse popolari decretò
l’affidamento del potere a Mussolini da parte della monarchia.
Quando
era nata, la Repubblica di Salò aveva ripristinato un ordine
costituito con tanto di costituzione (quella carta di Verona che
annoverava gli ebrei come nazione nemica) eppure per la maggior parte
della popolazione era chiaro che la giustizia non stava da quella
parte. Anche chi non amava i partigiani li preferiva di gran lunga ai
tedeschi e ai fascisti perché sapeva benissimo chi era stato a
scatenare la guerra. La rete di solidarietà di cui godettero i
partigiani testimoniano al contrario una istintiva identificazione
con la giustizia e con la legittimità che rendeva non solo
possibile, ma anzi doveroso praticare la Resistenza.
Una
delle ragioni della differente qualità etica tra la scelta
resistenziale e quella fascista repubblicana (tra la ‘vita’ e la
‘bella morte’) sta nel fatto che l’opzione salodiana per la Rsi
non avvenne alla luce della critica, ma in quella della continuità
con un regime di cui si conoscevano i programmi e le efferatezze. Il
più delle volte, nei processi dopoguerra la scelta per la Rsi e la
commissione di crimini efferati furono giustificate dai fascisti con
la frase: “l’ho fatto perché mi è stato comandato”. Per non
parlare di quella citata da Pietro Chiodi che si sentì dire da un
marò della X mas “ che gli è sempre piaciuta la marina” e che
“nei partigiani non c’era”.
Le
giustificazioni incentrate sulla difesa e sull’onore della patria
non reggono se si pensa che oltre il 95% degli ufficiali tra gli
internati militari italiani, arrestati e deportati in Germania dopo
l’8 settembre rifiutarono di farsi reintegrare nell’esercito
saloino, non in quanto antifascisti (o, peggio ancora, ‘comunisti’),
ma proprio in quanto ufficiali dell’esercito di una patria di cui
difendevano l’onore.
Come
ha detto Claudio Pavone, in un ragionamento semplice e autoevidente,
profonda è stata la differenza etica che ha diviso chi ha fatto la
scelta resistenziale da chi ha scelto per la Rsi: da un punto di
vista collettivo e politico da una parte si combatteva per la libertà
e la democrazia, dall’altra si combatteva per un regime totalitario
e autoritario, al di là della buona o della cattiva fede nell’uno
o nell’altro campo.
A
chi oggi mette in discussione l’importanza del 25 aprile e il suo
valore collettivo per lo Stato e la società italiana, ricordiamo la
gioia di chi cinquantotto anni fa visse la Liberazione dal
nazifascismo. È Ada Gobetti, la vedova di Piero -lucidissima
intelligenza stroncata dalla violenza fascista nel 1926- a ricordare
l’aprile 1945 e il sentimento comune e condiviso: «Ebbene? –
gridai loro – rallentando la bicicletta. E tanta era in quei giorni
l’identità dei sentimenti e dei pensieri che essi intesero
benissimo il senso della mia domanda e, benché non mi conoscessero
come io non li conoscevo, risposero con un gesto allegro della mano:
– Se ne sono andati!».