Un posto senza stagioni. Sulla storia della malattia di Alzheimer
Enrico
Manera
«Molto
presto mostrò perdite di memoria in rapido aumento; non si
orientava in casa sua; spostava oggetti da una parte all’altra, si
nascondeva, a volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e
cominciava ad urlare. Durante il ricovero i suoi gesti mostravano una
completa incapacità. Era disorientata nel tempo e nello spazio.
Ogni tanto diceva che non capiva niente, che si sentiva confusa e
totalmente persa. A volte considerava l’arrivo del dottore come una
visita ufficiale e si scusava per non aver finito il suo lavoro, ma
altre volte urlava, avendo paura che il dottore la volesse operare;
oppure capitava che lo mandasse via indignata pronunciando frasi che
indicavano la sua paura che il dottore volesse
approfittare di lei. A volte completamente delirante; spostava le
lenzuola da una parte all’altra chiamando suo marito e sua figlia e
mostrando allucinazioni uditive. Spesso urlava per ore e ore con una
voce orribile. Dato che era incapace di comprendere ogni particolare
situazione, si innervosiva ogni volta che un dottore la voleva
esaminare. [...] Soffriva di seri disordini percettivi. Quando il
dottore le mostrava alcuni oggetti per prima cosa lei dava loro il
giusto nome, ma immediatamente dopo si era scordata tutto. Quando
leggeva ometteva frasi, pronunciava le lettere di ogni parola oppure
leggeva senza intonazione. In un testo scritto ripeté spesso le
stesse sillabe, omettendo le altre, e divenne confusa e assente.
Nelle sue conversazioni usava spesso frasi confuse, singole
espressioni parafrastiche (come «lattiera» invece che «tazza»), a
volte smetteva del tutto di parlare. Evidentemente non capiva molte
domande. Non si ricordava
l’utilizzo di oggetti particolari».
Così
Aloysius Alzheimer nel 1906 descrive lo strano caso di demenza di una
paziente di 51 anni, con una precisione che chiunque abbia incrociato
la malattia riconoscerà facilmente. L’incontro fra il dottor
Alzheimer e la signora Auguste D. avviene in un momento storico di
sviluppo delle scienze biologiche, psichiatriche e mediche: in lei il
medico tedesco riscontrava una forma di decadimento mentale talmente
anomalo da dedicarle uno studio approfondito, il
primo caso
di quella che nel 1910 nell'VIII edizione del manuale di psichiatria
di Emil Kraepelin sarebbe diventata Alzheimerische
Krankheit.
Storia
della malattia di Alzheimer
(Bologna, 2012) di Matteo Borri, ricercatore di storia della scienza,
ricostruisce con perizia una vicenda di storia della scienza e
chiarisce attraverso i dibattiti e la comunicazione intrascientifica
i processi di definizione di una malattia di pressante attualità,
sesta
causa di morte nel mondo, con costi sociali ed estremo disagio
psicologico ed economico per familiari e care
givers.
Una
dovuta premessa: da qualche anno mi confronto con difficoltà
con la malattia di mio padre Pietro. Questa
storia mi sollecita, affrontarla nella sua attualità mi sembra una
strategia di difesa coerente con la mia storia.
Se
ogni
epoca ha una 'propria' malattia che assume particolare significato in
relazione alla storia di un periodo per una determinata società
(come è stato nel tempo ad esempio per la peste, la tisi, il
cancro), la sindrome di Alzheimer è la malattia dell'estrema
contemporaneità. Un morbo non è solo una etiologia o una serie di
sintomi collegati ma diventa nella rappresentazione sociale una
misteriosa entità intorno alla quale si coagulano storie
individuali, immaginario, sentimenti, angosce; la medicina
contribuisce a questa costruzione nel definire la nosografia,
delineare le procedure di cura e intervento, comunicare a specialisti
e non le scoperte.
“L'Alzheimer”
è una malattia della memoria, del linguaggio, del comportamento, in
altri termini una malattia dell'identità,
in
cui la coscienza si fa intermittente e la complessità dell'agire
umano implode su sé stessa inesorabilmente, trasformando gli individui
in fantasmi del sé precedente e dando vita a nuove identità che
mostrano automatismi inceppati, ripetizioni aberranti e mancanze
continue, fatte di frammenti, lampeggiamenti e involuzioni su un
piano sostanzialmente inclinato. È una malattia che si
caratterizza per un danno cerebrale a cui corrisponde
una alterazione della personalità; in essa si rispecchia la
contemporanea sensibilità di tipo materialista che interpreta sempre
più i fenomeni alla luce degli aspetti biochimici, dei tratti
genetici, delle vicende adattative dell'evoluzione dell'umano.
Se
la tubercolosi era nella Montagna
incantata di
Mann un'allegoria del trapasso della vecchia Europa al Novecento, la
malattia di Alzheimer – non se ne abbia chi come me ha a che fare
con la malattia vera – sembra anche rappresentare a livello
metaforico la crisi dei paradigmi orientativi, la crisi della memoria
collettiva e del linguaggio comune che impedisce di distinguere con
chiarezza realtà e finzione. C'è qualcosa di molto contemporaneo
nell'egotismo, nell'idiotismo, nel narcisismo, nella paranoia,
nell'afasia e nell'irascibilità alternate, nell'incapacità di
reggere le frustrazione e di attendere, nella difficoltà di
comprendere, comunicare ed empatizzare, nella variabilità degli
umori e nell'incostanza che affligge i malati in termini patologici.
Non
a caso ne Le
correzioni,
uno dei più importanti romanzi contemporanei, la malattia è il filo
che lega insieme le vicende di una famiglia: Jonathan Franzen, dopo
aver creato una straordinaria figura paterna, ha poi raccontato la
sua vicenda autobiografica di figlio nel primo saggio di Come
stare soli
(2003).
In
tutto questo la senilità centra fino a un certo punto, non in quanto
tale ma per lo specifico significato storico che essa ha assunto:
negli ultimi anni nell'osservare pensionati che in un quartiere
periferico di una grande città post-industriale ogni giorno sciamano
tra le panchine di un giardinetto, le offerte degli ipermercati e le
visite ai cantieri, moltiplicando al cubo ogni luogo comune della
nostra società, ho avuto l'impressione che tutti
avessero
una qualche forma di demenza; sarà la lente deformante negli occhi
di chi guarda, ma da quando ho imparato a riconoscere le tracce della
malattia mi sembra di vederla in sempre più luoghi di questo paese.
Mi si sono chiarite molte cose quando un giorno il mio ottuagenario
genitore, contraddicendo a sorpresa oltre sessanta anni di
convinzioni politiche, ha avuto parole di simpatia per l'uomo
sorridente e affettato che ci fissava dai cartelloni pubblicitari. La
diagnosi della sua malattia era stata fatta da poco e in famiglia
nessuno ha avuto più dubbi. Nota a margine per i politologi: dove
significati, amici e parenti sono stati cancellati è riuscita ad
arrivare la strategia comunicativa del marketing politico.
La
malattia di Alzheimer è di particolare interesse dal punto di vista
epistemologico fin dall'inizio per i dubbi e i dibattiti che solleva.
Già
nel 1907 Giuseppe Muggia (Sulla
nosografia delle demenze) metteva
in luce la criticità del termine «demenza» e la sanzione di
irrevocabilità dell'indebolimento psichico:
«Demenza
è una diagnosi di stato: è la cachessia della mente. […] Dove
comincia la demenza? Quale è il punto in cui secondo i concetti
antichi s’è iniziata la trasformazione della forma, guaribile,
nella cronica irrimediabile? E se all’esito vogliam dare, secondo
le tendenze oggi prevalenti, un posto preminente nella diagnosi […]
quale manifestazione possiamo ritenere espressione di quel minimo
grado di dissoluzione mentale che ci consenta di dare a tutta la
forma morbosa la denominazione di demenza?».
Da
Monaco, dove lavorava Alzheimer, una serie di ricercatori italiani
(Perusini, Bonfiglio, Sarteschi) hanno avuto un ruolo chiave nella
determinazione della malattia: si consideri che in Italia tra il 1904
e il 1909
la riforma degli istituti manicomiali coinvolgeva le cliniche
universitarie nel servizio psichiatrico e determinava nelle facoltà
di medicina e negli ospedali l'istituzionalizzazione
della neuropsichiatria; si univano così studio delle malattie mentali e problematiche sociali, definizione della malattia e
allontanamento dalla società del malato.
Parlare
di una specifica demenza e trasformarla in una «entità clinica»
significava anche sancire da un lato la sovrapposizione di mente
e cervello
e dall'altro individuare in essa il fulcro dell'identità personale:
come sottolinea Borri tutti gli studi coevi di biologi, psichiatri e
neurologi compresi quelli psicanalitici di Freud e di Jung (che pure
furono contrastati), convergevano nel far coincidere «la patologia
mentale» con «la perdita dell’unità dinamica della
personalità». Nella storia delle idee, in un momento in cui la
scienza positivista aveva messo in crisi la nozione metafisica di
'anima', 'coscienza', 'psiche' e 'mente' dei filosofi si
intersecavano in via definitiva con il 'cervello' dei medici.
Il
peculiare tratto teorico di Alzheimer consiste in un atto di mapping
che
correla
comportamenti patologici a lesioni cerebrali: durante l’autopsia di
Auguste D. lo psichiatra aveva constatato la degenerazione di alcuni
particolari tessuti (le neurofibrille), un fatto inusuale da cui ha
inferito l'insieme della malattia. Da quel momento la descrizione
della malattia seguirà sempre la messa in relazione delle
«osservazioni intra
vitam»
con «i dati anatomici post
mortem»;
ancora oggi, a rigore, solo l'evidenza autoptica può confermare la
diagnosi della sindrome che viene formulata in vita sulla base di Tac
del paziente associate a test neuropsicologici (e che per questo
viene sempre definita «Sdat probabile»). La ricostruzione del
dibattito scientifico mostra inoltre altre criticità: nel lavoro di
definizione svolto da Kraepelin il decadimento psichico risulta
associato alla senilità, nonostante per Alzheimer questo non fosse
evidente: la vecchiaia diventava la specifica condizione della
malattia anche contro dati empirici che contraddicevano tale
affermazione, quasi a confermare l'idea che l'involuzione del
pensiero fosse naturale e non patologica. Nel Novecento la nozione di
giovinezza, con i correlati di forza, salute e vigore, sarebbe stata
decisiva e con essa il parallelo discredito dell'invecchiamento, che
perde per sempre la tradizionale associazione con la saggezza e
l'autorevolezza.
Ma
che cosa è
la malattia di Alzheimer? Nei diversi momenti del dibattito
scientifico, oggi aperto e al centro di progetti di ricerca, si sono
sostanzialmente confrontate due posizioni: da un lato quella
«classica» (riconducibile ad Alzheimer, Perusini e Bonfiglio) per
cui la patologia veniva pensata «come una forma morbosa ben definita
sia sul piano clinico sia su quello anatomico»; dall'altro l'idea
che non si tratti di una malattia specifica ma di una patologia «da
involuzione» con caratteristiche generiche. Beninteso: nessuno nega
l'esistenza di una serie di sintomi patologici, né sostiene che la
malattia sia tout
court una
creazione dei medici (tale è talvolta la semplificazione di Foucault
fatta dai detrattori del post-moderno). Dalle sollecitazioni della
storia della psichiatria risultano chiare dinamiche che possono
essere estese ad altre situazioni, richiami alla cautela critica
nell'ipostatizzazione della malattia che ogni nosografia e ogni
protocollo terapeutico portano con sé. In determinate circostanze
storiche uno schema diagnostico si è cristallizzato in un'entità
clinica: la psichiatria di Kraepelin, che ha fortemente influenzato
la medicina europea e nordamericana, si è incentrata con un processo
di «astrazione» sulla «malattia» trascurando gli «aspetti
dinamici dell'individuo malato».
In ogni storia della medicina la rilevanza dei malati è dirimente nel mettere una patologia al centro dell'interesse della ricerca: è negli Stati Uniti che dagli anni settanta e ottanta arriva un cambio del paradigma diagnostico e esplode dell'attenzione verso lo status sociale e medico della malattia, lì dove per motivi sociali e statistici, complice l'allungamento della vita e la relativa neutralizzazione di altre cause di morte, si è conosciuto il problema su larga scala prima dell'Europa (il fatto che Ronald Reagan sia stato una malato eccellente pare abbia contribuito non poco alla circolazione del tema. Nota umoristica: che sia un prerequisito fondamentale per i leader repubblicani?). Il momento culminante di questo percorso si ha negli anni Ottanta con la stilizzazione manualistica della malattia attraverso la sua definizione secondo il DSM: di seguito i Criteri diagnostici per la Demenza Tipo Alzheimer:
In ogni storia della medicina la rilevanza dei malati è dirimente nel mettere una patologia al centro dell'interesse della ricerca: è negli Stati Uniti che dagli anni settanta e ottanta arriva un cambio del paradigma diagnostico e esplode dell'attenzione verso lo status sociale e medico della malattia, lì dove per motivi sociali e statistici, complice l'allungamento della vita e la relativa neutralizzazione di altre cause di morte, si è conosciuto il problema su larga scala prima dell'Europa (il fatto che Ronald Reagan sia stato una malato eccellente pare abbia contribuito non poco alla circolazione del tema. Nota umoristica: che sia un prerequisito fondamentale per i leader repubblicani?). Il momento culminante di questo percorso si ha negli anni Ottanta con la stilizzazione manualistica della malattia attraverso la sua definizione secondo il DSM: di seguito i Criteri diagnostici per la Demenza Tipo Alzheimer:
«Sviluppo
di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni
seguenti: 1) deficit della memoria [...] 2) una (o più) delle
seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del
linguaggio); b) aprassia (compromissione della capacità di eseguire
attività motorie nonostante l’integrità della funzione
motoria); c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare
oggetti nonostante l’integrità della funzione sensoriale [...];
d) disturbo delle funzioni esecutive [...]. Ciascuno dei deficit
cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa
del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un
significativo declino rispetto ad un precedente livello di
funzionamento. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e
declino continuo delle facoltà cognitive».
Borri
mostra come nel periodo 1910-1974 il processo della comunicazione
intrascientifica (rilevante per la formazione dei medici), abbia
integrato l’analisi delle singolarità dei casi clinici e il
«trasporto» dei dati sperimentali «nelle strutture concettuali
tipiche del manuale». Il percorso si inverte dal 1980 ad oggi,
quando dopo la 'canonizzazione' della malattia «l’istanza
conoscitiva si incentra sulla “costruzione” della patologia»:
«il caso clinico, i vari casi clinici, acquistano una funzione
comunicativa diversa e si caratterizzano sia come documentazione
della singolarità dei pazienti sia come momento conoscitivo che
deve essere messo in rapporto con i dati acquisiti e condivisi
espressi nel Manuale». Si sono inoltre aperte prospettive di studio
a livello molecolare, neurochimico e genetico con la possibilità di
svolgere indagini del funzionamento del cervello con le tecniche di
neuroimaging:
questo
è
un
formidabile strumento euristico ma al tempo stesso può essere un
rischio di ulteriore riduzionismo se una serie di luci che si
colorano su uno schermo diventano l'epifania della malattia.
In
un dibattito molto ricco (che supera di gran lunga le mie conoscenze
scientifiche) si assiste a una fase di continua revisione critica.
Scrive Peter J. Whitehouse (Il mito dell'Alzheimer, Milano, 2011) con mirabile capacità di sintesi:
Scrive Peter J. Whitehouse (Il mito dell'Alzheimer, Milano, 2011) con mirabile capacità di sintesi:
«è
verosimile che l’Alzheimer non sia il risultato di un singolo
fattore biologico e nemmeno il prodotto di una coppia di microscopici
“criminali”. Ricordate che, tra gli scienziati autorevoli che
conosco, pochi credono nel mito che l’Alzheimer sia una malattia,
un processo o una condizione precisa, e molti credono, come lo credo
io, che
l’Alzheimer sia un’etichetta generica che comprende molti dei
processi del normale invecchiamento cerebrale. L’invecchiamento
cerebrale è causato dall’interazione di fattori genetici,
ambientali e comportamentali. Quindi la traiettoria delle diverse
persone lungo il continuum dell’invecchiamento cerebrale varia
enormemente».
Da
questa discussione clinica risultano conseguenze rilevanti, istanze
capaci di influenzare norme e pratiche del settore. Come si è detto
in questione nella malattia è l'identità dell'individuo –
memoria, linguaggio, socialità:
«Se
la trama del nostro linguaggio è intessuta con la storia
individuale, con le architetture cognitivo - relazionali di ogni
persona, i cambiamenti dapprima solo percettibili e poi sempre più
evidenti e severi nel parlare, nel leggere e nello scrivere sono
segni di una difficoltà e di una sofferenza non di una parte della
persona ma della sua interezza individuale» (Borri).
È
decisivo che sia emersa la tendenza di tipo olistico che considera
«il cervello funzionante non come un insieme di zone separate ma in
modo globale e integrato» contro l'originario «dogma
localizzazionista» che pure continua a essere sviluppato. Tra i
tanti nomi svetta quello di Luria, notoriamente uno dei Nobel venuti
dalla scuola di Levi a Torino ed emigrato negli Usa a causa delle
leggi razziali, i cui studi «hanno condotto poi a una visione del
cervello come sistema articolato, descritto generalmente con la
metafora dell’architettura cerebrale: un disturbo qualsiasi nel
cervello chiama in causa non un singolo luogo ma un insieme di luoghi
diversi. L’immagine di un complesso architettonico permette di
collegare in modo plastico, immediato, il concetto di complessità
neuronale con quello di complessità della funzione linguistica».
In nome di questa complessità la persona malata (e non la malattia)
invoca attenzione e cura,
nel senso latino del termine. Scrive ancora Borri:
«Quando
è diagnosticata una malattia mentale cronica come la malattia di
Alzheimer le persone scompaiono dalla vita sociale. L’individuo e
la sua storia attraverso l’etichetta della malattia, resa realtà
ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che non ne
riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un
insieme di sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di
Alzheimer scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo. La
concezione organicista della malattia non è un’impostazione
neutra che si limita a descrivere l’individuo: se la salute mentale
è concepita come integrità neuronale, allora tutto ciò che mina
questa integrità (placche senili,
grovigli neurofibrillari, atrofia progressiva) riduce e infine
cancella l’individuo».
Si
tratta di andare verso la scrittura scientifica di una nuova storia
dell'invecchiamento cerebrale, dalla malattia verso l'individuo.
Credo che una tale prospettiva sia fondamentale non solo per la diade
medico-paziente, ma anche per chi è coinvolto personalmente dalla
malattia di un familiare. Diversi sono i segnali in tal senso, che
alla ricerca scientifica e farmacologica integrano approcci
terapeutici relazionali: per la mia famiglia è stato decisivo
prendere atto dell'approccio definito «conversazionalista». Si
distinguono nel linguaggio la funzione comunicativa,
di «inviare e riconoscere messaggi ricevuti», da quella di
«scambiare parole più o meno felicemente anche senza capire ciò
che si dice, indipendentemente dallo scopo di produrre informazioni»
(La
conversazione possibile con il malato di Alzheimer,
a cura di P. Vigorelli, Milano, 2004; si veda inoltre anche Lai,
1993). Se la prima è progressivamente compromessa al punto da
rendere la sua pratica frustrante per tutti, la seconda si mantiene
«miracolosamente intatta» per molto più tempo sulla base del
rispetto di norme come quella dei turni verbali, la capacità di
compiere gesti di cortesia e di pronunciare frasi gentili, competenze
che risalgono alla remota età infantile. Come scrive Franzen, «le
prima capacità sviluppate dal bambino – alzare la testa,
sorridere, mettersi a sedere senza bisogno d'aiuto – sono le ultime a scomparire nella persona affetta da Alzheimer». Se si accetta di
rinunciare agli aspetti semantici della comunicazione rimangono
integre strutture semiotiche che in qualche modo garantiscono ancora
relazione, soprattutto attraverso l'interazione corporea con i propri
cari, qualsiasi alterità essi stiano diventando.
Come
molti dei trenta-quarantenni di oggi nei primi anni ottanta guardavo
una serie televisiva misteriosa e inquietante intitolata nella
versione italiana Ai
confini della realtà,
la mitica Twilight
Zone che
oggi la critica considera un classico della fantascienza televisiva.
Nell'episodio che più mi fece paura, e la serie poteva veramente
fare paura, il protagonista in un contesto sereno e bucolico a un
certo punto vedeva la sua realtà farsi disturbata, coma
attraversata da interferenze di tipo elettromagnetico: i suoi
interlocutori ripetevano sempre la stessa cosa, in modo tale che lui
si trovasse inascoltato e continuamente dentro a terribili deja
vu di
cui era l'unico ad accorgersi. Gli spettatori scoprivano poi che il
vissuto del protagonista era una simulazione virtuale prodotta
artificialmente nella mente di individui, in realtà tumulati in
teche e collegati a stimolatori cerebrali, più o meno come in Matrix
ma
senza interattività: i disturbi erano dovuti al malfunzionamento di
una 'macchina della felicità' in un mondo distopico del futuro che
non ne aveva più. Ho vissuto finora l'Alzheimer di mio padre come
una cosa del genere, una condanna senza scampo destinata a ripetersi
senza tregua. Anche dire 'l'Alzheimer di qualcuno' tradisce a livello
linguistico la tendenza a pensare a una malattia che diventa il
soggetto della storia, una Cosa
o Alien
che espropria un individuo amato dalla sua identità e ne fa un
estraneo non proprio simpatico. Da un po' mi sforzo di pensare che la
sua condizione sia una forma di vita poco conosciuta che, in
determinate condizioni stabilizzate e almeno fino a un certo punto,
un'adeguata cura farmacologica, una famiglia salda e coesa, una
meticolosa rete di supporto, una pazienza infinita (e una certa
disponibilità economica) possono rendere sopportabile a un figlio
non convivente.
Quello che mio padre Pietro vive è per lo più una differente percezione dello spazio e del tempo, anacronica, sfocata e eternamente presente, simile a un momento estatico, in cui quindi l'angoscia della morte, che della percezione del tempo è l'ombra, scompare dall'orizzonte; in questo altrove lo stesso posto può diventare ogni giorno una nuova scoperta e si possono condividere narrazioni, gesti, abitudini e ritualità che, nel loro eccesso di insensatezza, ideologicità e arbitrarietà, hanno il medesimo statuto di momenti ritenuti normali. Un altrove in cui possono aprirsi inaspettate finestre sul sé, di inedita tenerezza per chi rimane dentro al tempo.
Quello che mio padre Pietro vive è per lo più una differente percezione dello spazio e del tempo, anacronica, sfocata e eternamente presente, simile a un momento estatico, in cui quindi l'angoscia della morte, che della percezione del tempo è l'ombra, scompare dall'orizzonte; in questo altrove lo stesso posto può diventare ogni giorno una nuova scoperta e si possono condividere narrazioni, gesti, abitudini e ritualità che, nel loro eccesso di insensatezza, ideologicità e arbitrarietà, hanno il medesimo statuto di momenti ritenuti normali. Un altrove in cui possono aprirsi inaspettate finestre sul sé, di inedita tenerezza per chi rimane dentro al tempo.