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1.
Definizioni
Il
termine ‘storia’ deriva dal greco
Historia, «descrizione,
resoconto».
Già
nell’antichità indica la narrazione degli eventi prodotti dagli
uomini e poi gli eventi stessi.
Il
concetto di ‘storia’ si è configurato come singolare collettivo
verso la fine del XVIII secolo e indica:
a.
gli eventi
b.
la narrazione di essi e ricerca (l’attività dello storico).
c.
la filosofia sottesa a una nozione unitaria rispetto al senso della
storia.
I
significati non sono separabili poiché «le cose avvengono, ma è il
fatto di apprenderle retrospettivamente che costituisce
l’avvenimento»(Pierre Nora)
mentre
dal punto di vista teorico possono essere indicati come ‘storia’,
‘storiografia’, ‘filosofia della storia’.
«La
storia è rottura con la natura, provocata dal risveglio della
consapevolezza» (Jacob Burckhardt). Essa inizia quando l’essere
umano comincia a concepire il tempo non più in termini di processo
naturale ma riferendosi a una serie di eventi specifici in cui gli
uomini si trovano consapevolmente implicati e sui cui sono in grado
di influire consapevolmente. Il sapere storico inizia quando vi è
una frattura con l’«ovvietà» del mondo in cui si vive.
La
preistoria è diversa dalla storia, in quanto questa presuppone una
scrittura, e dunque delle fonti. Il che richiede forma raffinata di
autocoscienza; l’uomo moderno ha un alto livello di autocoscienza e
quindi di coscienza storica. La coscienza della determinazione
storica, richiede la capacità di pensare e di osservarsi mentre si
sta osservando: di essere soggetto e oggetto dello stesso atto di
osservare.
Erodoto
di Alicarnasso (V sec. a.C.) può essere considerato il primo
storico, reporter, antropologo, etnografo, viaggiatore. Scrive le
Storie
«perché le imprese degli uomini non siano dimenticate, non
sbiadiscano con il tempo» e per «mostrare per quale motivo Greci e
Barbari vennero a guerra tra loro». Formatosi nella cultura ionica
di Talete, Anassimandro ed Ecateo, intende portarsi lontano dal mito
e rivendicare il fatto che la storia abbia a che fare con la verità.
Ancora nel Settecento Voltaire, nell’Enciclopedie,
scriverà che la «storia è il racconto di fatti dati come veri,
diversa da favola, leggenda, mito, superstizione».
Erodoto
è ossessionato dalla memoria: essa è fragile, instabile, spesso
illusoria, inafferrabile e traditrice ma senza di essa non si vive.
L’individuo dotato di memoria ne è l’unico depositario; ma tutto
scorre e nello scorrere si trasforma.
«Perché la memoria ha una
sua verità particolare. Seleziona, elimina, modifica, esagera,
minimizza. glorifica, e anche diffama: ma alla fine crea una propria
realtà, una propria versione, eterogenea ma di solito coerente degli
eventi»
(Salman Rushdie).
Scopo
prefissato da Erodoto è tramandare la storia del mondo: è il primo
ad avere una simile idea, perché la gente ricorda solo quello che
vuole ricordare. Il passato non esiste, esistono solo sue infinite
versioni: per questo Erodoto svolge ricerche, compie indagini e
raccoglie opinioni, commentando spesso «di ciò esistono diverse
versioni».
Se
l’essere umano è tale per la capacità di raccontare storie e di
fare la storia bisogna accettare la soggettività e la sua azione
deformante, perché la storia è un ininterrotto succedersi di
presenti vissuti in modi differenti.
Alla
fine del V secolo ad Atene la rottura radicale è con Tucidide, lo
storiografo della Guerra del Peloponneso. Con lui si assiste alla
messa al bando di ciò che è mitico, ovvero prodotto di una cultura
memoriale, parziale, fallibile e incline alla produzione di credulità
e cose non-credibili per il gusto del racconto. Il mito è
‘archeologia’, nel senso di “vecchi racconti”; esso è
incompatibile con una nozione di verità correlata a una teoria
dell’azione basata su un progetto politico di potenza e
inseparabile dalla ragione sofistica. La verità risiede in un
discorso intessuto di «ragioni», che sono mezzi per agire, essa è
negli atti: storia è la scienza dell’utile, fatta per il presente.
Se
Erodoto è un viaggiatore in cammino, Tucidide è uno scrittore
concettuale: la memoria è ammessa, ma solo per la trasmissione di
esperienza sotto il controllo della ragione. Il sapere storico prende
le distanze dall’illusione mitica, la scrittura diviene una prassi
autorizzata, bandisce le memorie patetiche. La
verità è la fuori?
2. Ricostruzioni
La
storia come ricostruzione dell’intera realtà è una pia illusione.
In un racconto di Jorge Luis Borges l’imperatore della Cina chiede
ai suoi saggi una mappa del suo territorio sempre più precisa fino a
quando ci si accorge che quella che vorrebbe dovrebbe essere grande
quanto l’impero. Così è la storia… ci sono fonti, documenti,
resti, tracce, testimonianze: le fonti primarie comprendono materiali
contemporanei all’epoca che è oggetto di studio; le secondarie
sono testi appartenenti ad un’altra epoca ma riguardanti l’epoca
studiata. Lo spazio che ci separa dal passato che vogliamo indagare è
riempito da una serie di informazione materiali che costituiscono una
‘tradizione’, una catena di letture, idee e immagini. Ma ogni
fonte va ‘maltrattata’ e messa in connessione con tutte le altre.
Lucien
Febvre, celebre medievista della scuola de Les
Annales, che
nella Francia degli anni trenta del Novecento ha iniziato a
contaminare la storia con le Scienze sociali, scriveva:
«la
storia si fa senza dubbio con i documenti scritti. Quando ce n’è.
Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non ne
esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello
storico gli consente di utilizzare per fare il suo miele, in mancanza
dei fiori normalmente usati. Quindi con parole, con segni. Con
paesaggi e con mattoni, con forme di campi e con erbe cattive (…)».
La
storia non è e non può essere una collezione di eventi, società e
istituzioni; si corre il rischio che diventi una raccolta di
curiosità. La storiografia esige che si selezionino e si ordinino i
fatti del passato sulla base di un principio adottato dallo storico:
il che comporta sempre una forma di interpretazione.
Scegliere
secondo gerarchie di rilevanza implica la pluralità inevitabile dei
punti di vista, ma è necessario individuare fatti al centro di
relazioni, costruire una rete di significati. Senza di questa il
passato si trasforma in un accozzaglia di avvenimenti casuali
sconnessi e insignificanti e diventa impossibile fare storia.
Lo
storico è un animale che si chiede continuamente perché: Erodoto
parlava di «rintracciare i motivi», Montesquieu scriverà che
«esistono cause generali, morali o naturali e tutto ciò che avviene
è soggetto a queste cause. Per Max Weber interpretare significa
comprendere, che è l’operazione fondamentale della conoscenza
storica. Comprendere significa mettere capo a un’interpretazione
causale degli eventi: individuare
cause
ed effetti in base a un principio di significatività
significa discriminare le cose importanti da quelle irrilevanti,
selezionare ciò che dà un significato a un oggetto, che lo rende
tale, che gli è specifico. Questo implica un punto di vista, una
posizionalità che va dichiarata, e l’interprete deve cercare di
neutralizzare il più possibile l’aspetto deformante di essa.
L’oggettività
è un mito. Non è vero che i fatti parlano da soli, essi parlano
quando qualcuno li fa parlare: quali fatti, in quale ordine, in quale
contesto? Come il montaggio nel cinema, la verità di una storia si
manifesta nella sua narrazione, quando i pezzi dispersi, molteplici e
frammentati vengono montati in sequenza e riassegnati alla lettura e
comprensione.
3.
Situazioni
Per
Benedetto Croce «ogni storia è storia contemporanea»: la storia
consiste essenzialmente nel guardare il passato con gli occhi del
presente e alla luce dei suoi problemi. Il fatto stesso di scegliere
di cosa occuparsi presuppone un giudizio.
La
conoscenza storica ha un carattere relativo e storicamente
condizionato. L’opera dello storico riflette inevitabilmente la
società in cui opera: gli eventi e storico non possono sottrarsi al
flusso del divenire; lo storico è un individuo: è un fenomeno
sociale, il prodotto del suo tempo, interprete più o meno
consapevole della società a cui appartiene.
Con
Weber viene elaborato il principio dell’«avalutatività dello
studioso», il quale deve descrivere
un fenomeno o un processo storico, separando la descrizione dal
giudizio che si da a questo («giudizio di valore»). Il relativismo
storico implica l’impossibilità di un giudizio assoluto, in quanto
non esiste un punto di vista metastorico: ma lo studioso deve cercare
di comprendere gli eventi dal punto di vista della struttura cui
l’oggetto appartiene. Comprendere non vuol dire giustificare: un
detective deve comprendere le ragioni di un assassino se vuole
scoprire la verità, pur non condividendole.
Bisogna
orientare la ricerca, selezionare una porzione di realtà da
illuminare e ogni ricerca è già sempre orientata dalla storicità
del soggetto. Questa consapevolezza deve guidare lo storico nello
sforzo maggiore possibile di oggettività, attivando quello che Carlo
Ginzburg chiama «il polo freddo dell’intelletto» per un progetto
intellettuale di ricostruzione/interpretazione scientifica.
«Il
passato è come un bel frutto staccato da un albero, non c’è la
vita effettuale, non l’albero che li ha prodotti, non la terra ne
gli elementi che hanno costituito la loro sostanza, non il clima che
prodotto la loro determinatezza, non l’avvicendarsi delle stagioni
che dominarono il processo del loro divenire. Non c’è il mondo, né
la primavera, ma solo la velata reminiscenza di questa realtà»
(Hegel).
La
storia non è: né il passato in quanto tale, né le concezioni dello
storico in quanto tali, ma i loro rapporti reciproci. Fare storia
significa instaurare un dialogo
tra presente e passato,
tra società di ieri e di oggi. Il comprendere storico sgorga da una
situazione determinata dal flusso degli eventi e dalla tradizione.
Esiste
una tensione tra il passato, l’oggetto che vogliamo conoscere, e il
presente, il punto da cui partiamo: la comprensione avviene in un
punto mobile in cui l’orizzonte del passato e quello del presente
si fondono insieme. La «fusione di orizzonti» teorizzata da H. G.
Gadamer
significa
rapportarsi al passato sulla base della nostra situazione presente,
tramite una mediazione operata dal pensiero.
4.
Relazioni
Inevitabile
condizionalità storica della soggettività non significa dunque
arbitrio e la pluralità di punti di vista, non significa che le
verità si elidono a vicenda. Per Edward Said oggettività
nell’approccio alla storia significa «sciogliere le pastoie
forgiate dalla mente, usare la propria mente in modo storico e
razionale per raggiungere una comprensione riflessiva. Saper entrare
in modo empatico, senza mai perdere la propria soggettività, nel
passato esaminandolo dal punto di vista del suo tempo e del suo
autore». La verità è più vicina nello spazio
dell’intersoggettività,
ovvero nella comunanza con altri interpreti. Ogni umanità non può
esistere nel proprio isolamento, perché la storia, sia nel senso di
ricerca condotta dallo storico sia nel senso di eventi del passato
che di tale ricerca sono l’oggetto, è un processo di carattere
sociale, al quale gli individui partecipano in quanto esseri sociali.
«La
storia non fa nulla: non possiede immense ricchezze, non combatte
battaglie. È l’uomo, invece. L’uomo vivente reale, che fa ogni
cosa, che possiede e che combatte» scriveva Marx.
«Il
bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove
fiuta carne umana, là è la sua preda», gli fa eco Marc Bloch nella
Francia degli Annales.
Oggetto
dall'indagine storica non è il passato in sé, bensì «gli uomini
nel tempo». Lo storico-orco è il «cacciatore» onnivoro di dati,
di tracce, di segni e testimonianze che divengono fonti intellegibili
soltanto se sollecitate da interrogativi originali, posti con rigore
metodologico e onestà intellettuale.
La
storiografia del passato, ma anche certa divulgazione
giornalistico-televisiva, praticava una storia ‘eroica’… come
se Cesare da solo potesse spiegare le trasformazione di Roma in senso
imperiale e se Hitler da solo potesse spiegare il nazismo e la Shoah.
«I
grandi uomini esprimono la volontà del tempo. Compiono l’essenza
del proprio tempo, realizzandolo. Essi rappresentano forze già
esistenti o che contribuiscono a suscitare, al tempo stesso prodotto
e agente del processo storico, rappresentante e creatore delle forze
sociali che trasformano il mondo e le teste degli uomini» (Hegel).
Bisogna
cancellare l’idea che i «grandi uomini» siano fuori dalla storia,
per imporsi ad essa grazie alla loro grandezza, come «pupazzi a
molla che saltano miracolosamente fuori dall’ignoto interrompendo
la continuità reale della storia» (Edward Carr).
5.
Distinzioni: ogni
cosa è illuminata dalla luce del passato
Cultura,
identità, memoria collettiva, radici e origini sono parole chiave
per ogni discorso sul sapere storico. Storia e politica sembrano
essere legate in modo inestricabile, in particolar modo nel dibattito
pubblico, nei media, nelle scuole e nella storia non-professionale,
dove suscitano polemiche e dispute infinite. La legittimazione del
presente avviene dal passato: esso è il fondamento su cui si
costruisce la società, la quale sembra aver bisogno di qualcosa che
ne garantisca solidità e coesione. Ma se noi siamo il nostro
passato, allora chi controlla il passato, o meglio la sua immagine, è
in grado di esercitare un dominio generalizzato sulle coscienze. Si
parla oggi di ‘politiche della memoria’ e ‘uso pubblico della
storia’ per indicare questa forte influenza che il sapere storico è
in grado di esercitare sulla realtà presente.
La
‘memoria collettiva’ è un patrimonio di idee, fatti, valori,
narrazioni, miti condivisi da una collettività che in essa si
rispecchia. La società celebra se stessa e suoi fondamenti
attraverso un apparato ‘rituale’ come avviene il 25 aprile o nel
Giorno della memoria: ricordare quelle date significa riconfermare i
valori e i significati che quegli eventi hanno espresso. La
Liberazione dal nazifascismo, come premessa della democrazia, e la
liberazione di Auschwitz, come promemoria del sistema
concentrazionario o di sterminio nazista per scongiurare il ritorno
della violenza. La memoria collettiva si costruisce, servendosi della
storia.
Storia
e memoria collettiva non sono sempre parallele: ogni società sceglie
l’evento in cui rispecchiarsi e con cui rappresentarsi. Il regime
fascista celebrava la Marcia su Roma e aveva abolito il 1° maggio,
festa socialista dei lavoratori.
In
ciò la storia, come progetto di ricostruzione scientifica è
differente dalla memoria: perché la storia ospita una pluralità di
memorie, ognuna con i suoi eccessi, con l’emotività e talvolta l’
inattendibilità.
La
storia orale e la raccolta di testimonianze sono strumenti
importanti, soprattutto per la divulgazione della storia nel suo uso
educativo. Ascoltare un reduce dal campo di concentramento o un
anziano partigiano serve a avvicinarci alla storia e a vivere
un’esperienza di empatia, di condivisione del dolore. Ma per il
valore scientifico della storia la memoria in quanto testimonianza è
una fonte tra le altre, deve essere confrontata con l’intera serie
di testi, documenti e tracce. Perché se la storia smette di essere
scientifica non saremo più grado di distinguere le interpretazioni
corrette da quelle scorrette dal punto di vista metodologico. Ed è
il metodo a determinare la validità di una scienza. Cosa
distinguerebbe la verità dalla finzione? Se tutti «hanno sempre
ragione» la verità si dissolve e una dittatura diventa una
questione di punti di vista.
Per
questo è importante distinguere la nozione di ‘revisione critica’
da quella di ‘revisionismo’: come la scienza la storia vive di
ipotesi destinate a cristallizzare, ma soggette a verifica,
modificazioni, confutazioni. Il mondo dello storico, come quello
dello scienziato, non è una riproduzione fotografica del mondo
reale, ma un modello, un’ipotesi di lavoro, che mette lo storico in
grado di dominare e comprendere il mondo stesso. La storia è dunque
per essenza revisione dei risultati precedenti, perché
quell’orizzonte di cui parlavamo prima è mobile.
Ma
il ‘revisionismo’ consiste nell’uso strumentale della memoria e
della storia riorganizzato dai mass media sulla base di esigenze
politiche contingenti. Ne sono esempi lampanti la negazione
dell’esistenza dei campi di concentramento, in cui si cerca di
cancellare fatti documentati, o la tendenza a sfumare il giudizio sul
fascismo, comparando i numeri dei morti con quello di altre
esperienze totalitarie, sfumando, omettendo e ritoccando le versioni
dei fatti. Monopolizzata dai media, la storia è soggetta alla
semplificazione e all’uso strumentale. Stampa, radio, immagini sono
per noi la condizione stessa degli avvenimenti.
È
proprio qui che dovremmo cercare le ragioni della crisi della
cultura: «un’epoca dominata dall’incertezza, fuorviata da falsi
ideali, assaltati da falsi profeti del rinnovamento continuo, ha una
certa difficoltà a riconoscere le proprie radici» (Carr).
6.
Direzioni
Il
nostro passato ci segue sempre, «ciò che abbiamo sentito, pensato,
voluto è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé,
incalzante alla porta della coscienza» (Bergson).
L’Identità
di un individuo o di un gruppo sociale si fonda sulla sua memoria e
sulla sua storia. Sapere chi si è e da dove si viene è una cosa
buona. Per questo è importante il sapere storico. Già Erodoto
sapeva che i mondi sono molti e sono tutti diversi. Sono tutti
importanti e bisogna conoscerli, perché – ammesso che siano poi
così separabili – le altre culture sono specchi che riflettono la
nostra, permettendoci di capire meglio noi stessi. Io mi conosco
attraverso l’immagine di me stesso che gli altri mi restituiscono
nella relazione dialogica. È impossibile definire la nostra identità
finché non la si è confrontata con le altre. Conoscere ciò che è
diverso da me, è quindi innanzitutto un modo per sapere chi sono.
La
storia fornisce strumenti, categorie concettuali per la comprensione
della realtà, e anche se il passato non si riproduce mai allo stesso
modo, in quanto è fatto di complessità, fratture e andamenti
irregolari, conoscerlo aiuta a orientarsi sulle base di analogie.
La
storia deve essere dunque: scienza della padronanza del passato,
coscienza del tempo, scienza del cambiamento e della trasformazione.
È
tipico dello storico chiedersi non solo «perché?» ma anche «verso
dove?». Il pensiero storico è sempre teleologico perché la
comprensione del passato consente uno sguardo penetrante sul futuro:
solo chi conosce il passato vive correttamente il suo presente e può
pensare il futuro. Il tempo è un’esperienza dinamica. Passato,
presente, futuro sono dentro di noi come memoria, coscienza,
immaginazione, pensava Agostino di Tagaste.
Per
Edward Carr «fare storia implica una determinata concezione di ciò
che è ragionevole per l’umanità». Domandarsi ‘cos’è la
storia?’ significa domandarsi qual è il nostro giudizio sulla
società in cui viviamo.
E
farlo significa contribuire alla determinazione dell’azione verso
il futuro. Speranza o apocalisse?
Ogni cultura vive
sempre all'interno di una rappresentazione collettiva di se stessa, e
le nostre rappresentazioni individuali si collocano sempre nel solco
di una rappresentazione collettiva. Non esiste una realtà in sé che
sia indipendente dal significato che noi le attribuiamo nel nostro
rappresentarla collettivamente e individualmente. La realtà si
costruisce socialmente attraverso una cultura condivisa.
La
cultura, di cui la storia è il territorio, intesa come arricchimento
delle prospettive sul mondo, allarga il campo delle rappresentazioni
possibili, offrendoci i mezzi per interrogare l'esistente e per
immaginarne uno diverso. La cultura apre qualche finestra sul futuro.
Lasciarsi
catturare dalla vertigine del passato e instaurare un dialogo con il
tempo è dunque un modo per accrescere il proprio dominio cognitivo
sulla società presente. «La storia è una forma di verità che
riguarda il mondo. Esercitarla è un modo di cercare il senso della
nostra esistenza» (Huzinga).
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