in anteprima assoluta Enrico Manera regala a Arrigo Malera un estratto del libro a cui ha dedicato molte energie negli ultimi anni,
Enrico
Manera
FURIO
JESI
Mito, violenza, memoria
Molto più che storico delle
religioni, mitologo e germanista, Furio Jesi (1941-1980) è stato
un’importante voce italiana nel recente dibattito sul mito.
Rifiutando il concetto stesso di ‘mito’ in favore di quello di
«macchina mitologica» ha criticato l'uso ideologico della mitologia
e ne ha mostrato l’indissolubile legame con la politica, come è
avvenuto in particolare con la «tecnicizzazione del mito» da parte
dei fascismi del Novecento. La sua critica al sapere mitologico, di
cui si sono occupate la filosofia, la filologia e la storia delle
religioni, è anche una riflessione sulla memoria culturale:
decostruire i miti mettendo in luce la loro origine storica e
antropologica significa indagare sulla costruzione delle identità
delle società moderne e contemporanee attraverso il linguaggio.
In sintonia con il dibattito
europeo successivo allo strutturalismo, Jesi ha espresso una teoria
filosofica di matrice ermeneutica e ha dato vita a una scrittura
saggistica che scopre molteplici connessioni tra i testi e assume
forte rilevanza autobiografica; al tempo stesso ha avanzato l’idea
che la mitopoiesi, la produzione di nuova mitologia, continui a
operare tanto nello studio del mito quanto negli immaginari
contemporanei.
«Il contenuto reale di un libro
è sempre altro in parte
da quello che si mostra»
C.
Levi, Tutto
il miele è finito,
1964,
Furio Jesi (1941-1980) è stato uno studioso
dalla straordinaria varietà di interessi, capace di ibridare
discipline e di intrecciare problemi apparentemente distanti grazie a
un’erudizione profonda, un’intelligenza sottile e una scrittura
formidabile.
Nello
studio del mito Jesi è una luminosa meteora che emerge per
originalità di stile e di impostazione ed è al tempo stesso una
cerniera tra gli studi legati a un umanesimo classico – Pettazzoni,
Kerényi, Jung, Cassirer – e la ricezione in tempo reale di una
nuova cultura, tra tutti Dumézil, Lévi-Strauss, Benjamin, Barthes.
La costante che solca un’opera eterogenea per temi e soggetti
donandole organicità e coerenza è la scienza della mitologia, o
meglio la sua critica; questa, culminata nell’originale proposta
della «macchina mitologica», alimenta l’intera produzione
jesiana permettendole di muoversi in un territorio di sorprendente
vastità. Spostando l’attenzione dal mito, concepito come
una sostanza oggettivabile, alle forme mitologiche e alle modalità
testuali di produzione di materiali mitologici, Jesi ha
indagato il rapporto tra sapere e potere nel quadro di una filosofia
del linguaggio: finzioni, miti, luoghi comuni sono entità dotate di
un’esistenza nell’immaginario che non di meno alimenta pratiche
diffuse e produce conseguenze reali, inserite in contesti storici
pregni di interessi di ordine materiale e politico. Una simile
ontologia della finzione è anche una teoria critica della cultura,
perché interroga ciò che prima facie si presenta come
naturale, eterno e dotato di legittimazione sacrale per mostrare cosa
– uomini e idee, valori e presupposti – lo ha prodotto.
‘Mito’
è il nome di una rete intricata di strutture portatrici della
memoria, solo apparentemente ovvia, ma che si rivela invece
all’analisi filosofica essere ricavata per contrasto proprio
dall’assenza
di ciò che il termine designa: un mito come sostanza extraumana e
extratemporale che non è mai possibile conoscere veramente come
tale. Se per lungo tempo la filosofia ha pensato il mito come
superstizione infantile e irrazionale, la riflessione contemporanea
gli ha restituito una più ampia portata di significato e lo ha
concepito come il frutto di una
logica sui
generis
ma pur sempre prodotta dalla ragione.
È
sempre la razionalità, indagabile solo attraverso se stessa e nelle
sue manifestazioni storiche, a essere in questione quando si parla di
mitologie.
Jesi ha
cercato di rispondere alle domande poste dall’intersezione di
antropologia, storia delle idee e filosofia a sincrono con quanto
succedeva nella riflessione contemporanea europea. Dopo aver
abbandonato negli anni sessanta lo studio del mondo antico per
dedicarsi alle interferenze tra mito, letteratura e politica nella
cultura mitteleuropea, ha mostrato come la scienza del mito ne riveli
la funzione di coesione comunitaria nel momento della sua
difettività, quando cioè essa nell’età moderna del disincanto
del mondo e della secolarizzazione, con la «morte di Dio», viene a
mancare. Ciò che del mito è delineabile, con il tratto leggero di
uno schizzo a matita che non ha la presunzione di essere scienza
esatta, è allora la «macchina mitologica» che lo produce e che
insieme produce se stessa.
La
filosofia della mitologia di Jesi ha una funzione essenzialmente
strategica di smascheramento e di demistificazione volta
all’emancipazione in senso politico: decostruendo gli elementi di
un meccanismo linguistico, logico e narrativo che produce le verità
del potere e delle classi dominanti e le esibisce nel ‘mito’ (e
in ogni mito), egli ha partecipato di una più generale cultura
figlia della crisi della metafisica del secondo dopoguerra e poi
dell’atmosfera post-strutturalista dai tardi anni sessanta,
caratterizzata dalla riformulazione del marxismo. Rifiutando di
pensare le categorie centrali della cultura in termini di ‘sostanza’,
Jesi si rivolge a testi, immagini e scrittura attraverso una critica
che si interroga, oltre che sul loro specifico contesto, sulla loro
più generale capacità di generare significati: sul come
della loro invenzione, con un movimento che ha i tratti del gioco di
scomposizione dei materiali con cui il sistema della realtà si è
eretto. Lo sguardo filosofico che Jesi ha gettato sul mito è
principalmente un’analisi del plesso
sacro-potere-letteratura e della ragione che si rispecchia in esso:
oltre alla messa in luce di rilevanti momenti della storia delle idee
è una riflessione sulla cultura stessa nelle sue accezioni più
ampie. I suoi studi hanno una forte impronta antropologica
che scopre la carsica presenza della sfera mitico-sacrale tanto nella
cultura alta quanto in quella popolare e underground.
Mitologia
e sacralità, persi i loro tratti classici e tradizionali, continuano
a innervare le pratiche sociali della contemporanea civiltà
dell’immagine: musica, letteratura, arti, ma anche la ricerca di
stati di coscienza alterati, la proliferazione di tecniche di cura
del corpo, la dimensione pubblica della scienza e della tecnologia, i
saperi condivisi che costituiscono il senso comune, la politica
spettacolare e carismatica, l’economia come dogma.
La mitopoiesi, la produzione continua di nuovi e diversi miti, è un
fattore elementare della costruzione che gli uomini fanno dei loro
mondi nel tempo; vero illuminismo è quello che, riconoscendo
l’inemendabile presenza di miti nella vita umana, è capace di
criticarne gli aspetti disumani e negativi per la giustizia sociale.