venerdì 27 gennaio 2012

Ricordare


Il Quatuor di Messiaen è stato scritto in un campo di prigionìa ed eseguito per la prima volta in quel contesto con mezzi di fortuna. Credo sia una delle cose più impressionanti che abbia mai ascoltato. Alex Ross lo racconta in questo articolo.

Revelations: Messiaen's Quartet for the End of Time

by Alex Ross

The New Yorker, March 22, 2004.


The most ethereally beautiful music of the twentieth century was first heard on a brutally cold January night in 1941, at the Stalag VIIIA prisoner-of-war camp, in Görlitz, Germany. The composer was Olivier Messiaen, the work “Quartet for the End of Time.” Messiaen wrote most of it after being captured as a French soldier during the German invasion of 1940. The première took place in an unheated space in Barrack 27. A fellow-inmate drew up a program in Art Nouveau style, to which an official stamp was affixed: “Stalag VIIIA 49 geprüft [approved].” Sitting in the front row—and shivering along with the prisoners—were the German officers of the camp.

The title does not exaggerate the ambitions of the piece. An inscription in the score supplies a catastrophic image from the Book of Revelation: “In homage to the Angel of the Apocalypse, who lifts his hand toward heaven, saying, ‘There shall be time no longer.’” It is, however, the gentlest apocalypse imaginable. The “seven trumpets” and other signs of doom aren’t roaring sound-masses, as in Berlioz’s Requiem or Mahler’s “Resurrection” Symphony, but fiercely elegant dances, whose rhythms swing along in intricate patterns without ever obeying a regular beat. In the midst of these Second Coming jam sessions are episodes of transfixing serenity—in particular, two “Louanges,” or songs of praise. Each has a drawn-out string melody over pulsing piano chords; each builds toward a luminous climax and then vanishes into silence. The first is marked “infinitely slow”; the second, “tender, ecstatic.” Beyond that, words fail.


Di seguito un mio articolo del 2004 sulla questione del ricordare.









Il ricordo di Simonide. Considerazioni sulla memoria culturale

di Enrico Manera


Il dibattito filosofico sul senso della memoria in seno all’ermeneutica continentale trova un punto di non ritorno nella provocatoria affermazione di Pierre Nora (1984) secondo il quale “si parla della memoria solo perché non esiste più”. È indiscutibile che nella tarda modernità la gestione della memoria culturale sia problematica: l’abuso dei mass media e dei sistemi di memorizzazione esterna connessi ai new media hanno portato a compimento un processo di cesura del rapporto vivo con il ricordo, quello che secondo Platone sarebbe iniziato con l’invenzione della scrittura. Si tratta di un momento storico e culturale in cui il ricordo come ‘esistenziale’ appare in declino, e con esso il riconoscimento identitario individuale e collettivo che ogni memoria porta con sé.

Reinhart Koselleck nel 1994 ha scritto pagine desolanti sulla crisi della memoria vivente, che si sarebbe consumata quando i testimoni oculari dellaShoah sarebbero scomparsi del tutto sancendo la transizione “dal presente storico dei sopravvissuti (…) a un passato puro che si è ormai separato dal vissuto”. “Presto parleranno solo i documenti ufficiali, integrati e arricchiti da foto, filmati e biografie”. Per lo storico e filosofo, teorico della ‘storia dei concetti’, l’oblio è una drammatica, ineluttabile, inevitabile conseguenza del nostro tempo, malato di eccesso di scientismo e di riproducibilità tecnica dell’immagine. Il dileguarsi del ricordo soggettivo coincide con l’aumento della distanza e con il cambiamento della qualità della memoria: la memoria si dissolve nel fuoco della storia e l’esperienza storica si tramuta in oggetto di studio storiografico. Il ricordo appartiene allo sbiadire, sotto il segno della perdita della originaria carica politica e esistenziale.

Da queste problematiche muove il poderoso volume di Aleida AssmanRicordare. Forme e mutamenti della memoria culturale (Bologna, Il Mulino 2002). La proposta che emerge da questo saggio ricchissimo ed eclettico che fonde letteratura, storia delle idee e filosofia, si colloca in un orizzonte altrettanto lucido quanto quello di Koselleck, pur senza condividerne il pessimismo disperante.

“Più ci allontaniamo da Auschwitz più il ricordo di quei fatti e di quei crimini ci rimane dentro”, asserisce la Assman citando Linda Reisch. Per la studiosa tedesca viviamo oggi non un oblio ma un momento di acutizzazione del problema della memoria, dettato dalla delicata fase di passaggio cui va incontro ogni civiltà quando la memoria vivente del testimone, per non perdersi, deve diventare memoria culturale: si tratta una memoria ‘esterna’ sorretta da mediatori, monumenti, luoghi, musei, archivi, rappresentazioni mediatiche. La memoria culturale non è meno portatrice di senso di quella vivente, in quanto è alla base dell’identità sociale e collettiva quanto l’altra fonda l’identità dell’individuo.

La memoria culturale non si autodetermina, non è la irenica tradizione che si autopone: essa ha bisogno di essere fondata da mediatori attraverso miratepolitiche della memoria. La stessa memoria individuale si struttura in una persona in virtù della sua partecipazione ai processi comunicativi che avvengono all’interno di ‘quadri’ sociali; questi rendono disponibile e stabile il ricordo sotto forma di figure (eventi, persone, luoghi) che vengono trasposte in teorie, nozioni e simboli in grado di creare un’immagine del mondo e di orientare l’azione di un individuo in esso. L’identità dell’essere umano è data da quello che ricorda, come entità singola e collettiva; per guardare al domani nell’oggi bisogna trovare lo ieri nel ricordo.

È in questo passaggio alla memoria culturale che si apre il rischio drammatico della perdita: il ricordo individuale legato al vissuto andrà perso (‘come lacrime nella pioggia’ diceva il replicante di Blade Runner a nome di tutti i sopravvissuti); la memoria nuova verrà dall’‘esterno’ come artificiale, con il rischio della distruzione, della parzialità e della falsificazione, per poi arrivare a essere parte dell’individuo, pur in maniera mediata.

Se la memoria vivente perde terreno quando viene meno la generazione che ne era portatrice diretta, la memoria dei mediatori e quella politica si sostituiscono a essa per trasmetterne i contenuti. Pur alimentando la tradizione e la comunicazione, la memoria culturale non si risolve in essa e nel fare questo rende possibili rotture, conflitti e metamorfosi del senso: quando in un dato presente si ha la mancanza di quadri di riferimento al passato, si ha l’oblio di un dato culturale che coincide con mutamenti di senso e cambi di paradigmi storiografici.

È su questo terreno dunque che tutti gli uomini di cultura sono chiamati a rispondere oggi, per garantire il più ampio margine di fedeltà alla trasmissione di ciò che è avvenuto nel secolo appena trascorso, contro ogni forma di revisionismo strumentale, riduzionista, negazionista. La memoria non è pacifica, vive nel conflitto, chiede di essere custodita e difesa con responsabilità. Scrive la Assman che “i movimenti della memoria sono estemporanei e fragili ed avvengono normalmente sotto tensione”; è noto che il processo del ricordare si avvia in seguito a uno shock, un evento percepito come anomalia, come interruzione nel consueto tessuto delle cose, ma proprio per questo assolutamente rivelatorio. A questo si deve l’impatto che la Shoah ha su tutti noi quando entriamo nella sua orbita gravitazionale: mette in crisi il nostro essere distratti, interrompe il nostro non-pensarci e ci costringe a interrogarci.

Il legame tra il dolore e la memoria è noto agli antichi; il primo ricordo è sempre dei morti. Nel De oratore di Cicerone si trova uno dei miti di fondazione della memoria che ha come protagonista Simonide di Ceo (557-467 a. C.). Il poeta è l’unico sopravvissuto di un evento tragico durante un banchetto; il crollo del soffitto seppellisce tutti i commensali e rende irriconoscibili i corpi. Simonide, ricordando l’esatta posizione a tavola di tutti i commensali, permette il riconoscimento dei defunti e lo svolgersi delle esequie funebri, regolatrici dell’ordine cosmico. In tradizioni successive Simonide, raffigurato come un benevolo conduttore di anime, seppellisce uno sconosciuto trovato nella sua strada ricevendo doni preziosi che gli salvano la vita.

Questa figura del mito, nonostante il tempo trascorso e la provenienza remota, ha ancora qualcosa da dirci, nel senso che colui che ha memoria è portatore di pietas. Ovvero rispetto, devozione, attenzione, rettitudine, giustizia. Tutte cose di cui c’è molto bisogno oggi.

venerdì 20 gennaio 2012

Schu(h)ld über Alles. Apologia di una scarpa berlinese




Sto bene solo con le mie scarpe nuove/il resto non mi muove/io, io, io solo contro il mondo”

Tre allegri ragazzi morti, Prova a star con me…


È l’ora della confessione. Quello che mi preme è di giustificare come, disgustato dalla società dei consumi e dalle sue ricadute ambientali, economiche e criminali, livido e rancoroso verso legioni di uomini e donne costretti compulsivamente all’acquisto coatto, furibondo nei confronti di giovani-vecchi-bambini attanagliati da un’ossessione stilistica ferocemente narcisisitica, mi ritrovi a desiderare ardentemente un paio di scarpe. Da morirci sopra. Da studiarle sul sito, modello per modello.

Di tutto il resto potrei fare a meno: il fatto che i vestiti costino poco mi da un incredibile senso di leggerezza. Ti puoi permettere anche di acquistare molto: primo sguardo al colore e alla foggia, un occhio al tessuto e allo stato di conservazione e anche se non è la camicia definitiva va bene. Non credo all’Ultima delle Cose ultime da tempo immemore.

Con le scarpe è diverso. Quelle che si vedono in giro sono terribili, dozzinali, non hanno storia, hanno forme, colori, fibbie e lacci implausibili. Raccontano storie di sciatteria inaudita e gretta volgarità, testimoniano non solo il non-essere-pensate ma l’adesione triviale a tendenze di massa che mortificano l’individuo e la specie. E sto parlando solo di quelle maschili: per la scarpa a punta femminile vista nell’ultimo decennio si apriranno le porte dell’Inferno e si scateneranno i cavalieri dell’Apocalisse.

Non c’è nulla di così decisivo come le scarpe, per quel che mi riguarda.

Ricordo di averle sempre scelte con oculatezza, desiderio e dolore. Fin da bambino mi mancava il fiato al pensiero di stare sbagliando, ovvero di aver scelto delle scarpe con troppa leggerezza. Ricordo ancora con tenerezza scarpe da ginnastica futuriste che promettevano salti da supereroe e corse in bicicletta da campione. O le adorate scarpe antifortunistica nere con punta rinforzata che gridavano no future e tutto lo sconforto dell’adolescenza, riparate amorevolmente con nastro isolante nero, così simili alle mortificanti ortopediche da bambini (lo negavo con forza, allora).

Di stivali non ho mai avuto il coraggio: mozzati color cuoio con anello laterale, da cowboy e rocker al tempo stesso, texano nero oltraggioso e beffardo, anche tagliato alla caviglia e inciso da geroglifici di Tihuana; walker da motociclista, quelli di Fonzie, lievemente arrotondati e con fibbia più gentile, erano troppo persino da sognare, come portare simboli di regalità troppo ambiziosi per le proprie possibilità. E i sandali nordico-francescani e hippies che suggerivano salute, natura, libertà e purezza? Oppure la scarpa a punta elegante, stretta e ricamata nel cuoio, persino bicolore che può fare tanto intellettuale francese quanto jazzista newyorchese, purché non abbia la punta da carabiniere.

Per non parlare del numero quarantacinque, che gli anni Ottanta dei pantaloni stretti e corti amplificavano in modo crudele. Oltre a piacerti un modello deve starti anche bene, ovvero non deve essere mostruosamente gigante e deformato dalla scala maggiore. E in più deve anche essere comodo perché ci cammini, il piede è il secondo cuore e la terra è il mondo, il modo come cammini il rapporto con le Grandi madri. Ho sempre mortificato i miei piedi per non farli sembrare troppo simili a quelli di Pippo. In più ho ereditato con il dna mitocondriale dell'adorata genitrice, oltre al naso obliquo e qualcosa del suo dolce e sperduto sguardo mediorientale, una tendenza a forme di sofferenza del ditone, come quella cosa che da piccolo chiamavo ‘unghia incarnata’ con raccapriccio teologico di medici e pedicure.

Picchiata verticale, artigli crudeli ghermiscono e lacerano qualcosa di morbido e indifeso, viscere umide e oscure. La scarpa è sempre stata, per me, promessa di felicità, ma forse non sono solo. Nel 1952 solo la metà della popolazione italiana aveva un paio di scarpe buone. Basta a farne un oggetto la cui eccedenza di significato rispetto alla funzione essenziale straborda in modo tale da riempire di gioia il perfido simbolista psicanalitico (psicanalista simbolico?) che campeggia stabilmente nell’emisfero sinistro del mio cervello?

Ogni scrivente non fa che compiere un atto di sacrificio umano su se stesso, pubblico ma al riparo. Sono qui, nudo, a dichiarare il mio amore incondizionato, cieco, spasmodico e irrazionale per un paio di scarpe.

Ma tutto questo non importa. È che forse non le avete mai viste.

La prima volta che è successo a me, ai piedi di un amico, restai come paralizzato da tanta bellezza, chiesi timidamente di cosa si trattava, senza dimostrare troppo interesse. Ero già nel tunnel della scaramanzia da desiderio, capite? Lui minimizzò, miserabile, e mi parlò stancamente di questa scarpa tedesca, cara e di difficile reperimento. Ma l’importante era carpire l’informazione principale: dove trovarle. L’amore viene sempre con difficoltà: sbagliai negozio famoso e tutto si tramutò in una delusione. Poi ammetto che ho anche oltre cose a cui pensare, così, felice comunque che esistessero oggetti di tale perfezione, il tempo riprese a passare.

Era da un po’ che mi trascinavo di scarpa in scarpa senza convinzione, quasi rassegnato alla biblica maledizione che affiancava al ‘partorirai con dolore, spine e cardi mangerai’ anche un definitivo ‘avrai scarpe brutte e scomode’: ora tutto stava per cambiare, lo sentivo. Qualcosa stava per succedere. E accadde, precisamente quando un giorno, per caso, le rividi nella vetrina di un negozio altrimenti privo di qualsiasi attrattiva, quelli che ridefiniscono i confini tra classi e ceti nella tarda modernità, genere extra-lusso bohemien-bourgeois, tanto-non-ti-starà-mai-bene, sovradimensionato e difficilmente frequentabile per uno come me.

Estasiato dalla contemplazione rimasi a lungo di fronte alla vetrina, non so per quanto tempo. Da qualche parte un circuito di cellule altamente specializzate del mio organismo registrava in silenzio il corrispondente sostitutivo simbolico degli oggetti di scambio che avrei dovuto versare per poterle avere. Un sesto del mio stipendio, un terzo del mio mutuo, dieci cd, forse il reddito mensile di un villaggio in Burkina Faso.

Loro erano lì, suola confortevole e comoda con struttura di legno ipersottile e tomaia in cuoio. Disegno essenziale e minimalista, comfort naturale e sapienza artigianale, gusto mitteleuropeo e precisione nordica, passione mediterranea e colore latino. La sintesi delle più belle scarpe che abbiate desiderato e che mettereste per ritirare un nobel per la letteratura, un premio a Cannes, un Grammy nei primi Novanta, quando ancora voleva dire qualcosa. Tutto il meglio della Germania in un condensato calzabile di autorevolezza, stile, distinzione. La sensazione di essere posseduto dallo spirito di architetto berlinese che si ciba sommessamente di noodles thai-viet e ascolta post-rock elettroacustico mentre disegna su carta riciclata trabeazioni in acciaio e trasparenze radicali in vetro, putrellando il mondo e sottraendolo così all’instabilità.

La Germania nella mia vita sono i crucchi cattivi della seconda guerra mondiale che hanno quasi ucciso mio padre poco più che bambino, che hanno minacciato di morte i nonni e di distruzione per mezzo del fuoco la casa avita; ma sono anche gli ingegneri del Tüf di Monaco che mio padre ammirava e che considerava al pari di divinità benevole e amichevoli negli anni Settanta, la cui vicinanza poteva come per miracolo trasmettere doti superumani di precisione e professionalità ma che restavano inarrivabili nella loro lingua ignota e incomprensibile. Papà non ha mai saputo leggere il biglietto di auguri per il pensionamento fattogli pervenire dal suo collega tedesco preferito, ex combattente della Lutwaffe con una passione per i cavalli. In quegli anni gli mentivo traducendo con fantasia gli “auguri migliori per una serena vecchiaia piena di interessi”.

Germania è Tina, la deliziosa ragazzina tedesca che incontravo al mare nelle vacanze degli anni Ottanta e di cui ero l’inverso simmetrico mediterraneo, con cui giocavo comunicando in lingua edenica e pre-babelica, prima di tutte le tentazioni e di ogni timore. È la poesia di Novalis e di Hölderlin della quinta liceo, la potenza geometrica e regolare di Kant e quella circolare e vorticosa di Hegel prima e di Heidegger poi negli anni dell’Università. E l’incanto nel raccontare di Thomas Mann, il mormorare sommesso di incantesimi di Rilke, il sentirmi piccolo di fronte a Goethe che ancora oggi mentre scrivo, mio malgrado, mi sgomenta. È l’indicibile della Shoà, la mostruosità della tecnicizzazione del mito su scala industriale che ha manifestato il Male in tutta la sua radicalità, l’anima di uno sventurato paese venduta a Mefistofele nella corsa all’autoaffermazione; la caduta vertiginosa e senza perdono nell’abisso dell’orrore ma anche la capacità di rinascere dopo aver riflettuto a lungo, in silenzio, su se stessi, producendo qualcosa di nuovo e diverso dal proprio passato e dalle colpe dei padri. Certo, non tutti, non dappertutto. Ma non mi risulta che altri paesi lo abbiano fatto veramente o meglio, sempre pronti a nascondersi dietro all’immagine del demonio colpevole.

La mia Germania, qualunque cosa sia, è qualcosa di molto simile, aggrovigliato in modo inestricabile e inspiegabile alla mia vergogna di stare di fronte agli altri, con una vitalità eccessiva, un’altezza manifesta, un’incapacità di essere invisibile. L’opaco senso di colpa che costituisce il nucleo remoto e profondo di quanto accade sulla superficie increspata dei miei giorni.

Non sono entrato subito nel negozio, ho aspettato. Volevo ci fosse in anche la compagna della mia vita e la severa ma giusta consigliera della mia immagina pubblica. Certe cose vanno condivise.

Vedendo il negozio ebbe un tuffo al cuore, dopo un attimo di esitazione si sistemò i meravigliosi capelli color del miele del castagno nella vetrina, come avrebbe fatto per entrare da Tiffany e mi prese per mano. Prepàrati - mi disse - ti amo perché mi fai sentire una principessa e proietti sul nostro futuro splendore, fortune e strade che abbondano di rugiada e focacce al miele - o qualcosa del genere.

Ovviamente le scarpe non c’erano. Un solo paio per numero, un solo modello. Prenòtati e sappi che c’è una lista e l’attesa può essere lunga-, sentenziò oracolare un commesso occhioazzurro, ricciolo dionisiaco, camicia newyorchese e jeans da seicento euro almeno a giudicare da come erano stinti.

L’ansia mi distruggeva e il mio cuore non riusciva a darsi pace. Ma gli dèi sanno premiare chi ha fede. Nei mesi successivi ho studiato la scarpe lungamente, servendomi della rete, l’onnisciente aleph dei nostri anni e dell’esauriente sito del laboratorio che in Berlino produce l’oggetto dei miei desideri. Mirabile prodigio che dona sollievo alla gola riarsa. Ho imparato i nomi dei modelli, ora conosco i termini tecnici che indicano il diverso tipo di pelli, ho guardato in faccia chi le produce, dai designer ai magazzinieri e ho scoperto che posso ordinare tutti i modelli che voglio e scegliere tra tanti e diversi colori. Apoteosi della felicità e strazio insopportabile allo stesso tempo: come fare a scegliere tra tanta magnificenza? Aspettavo il mio paio ordinato nel mio negozio di Torino, e mio dio, ragiona – mi dicevo - dovrai almeno provarle una volta. Ma il tormento del desiderio non conosce consolazione né parole atte alla sua descrizione.

Infine sono arrivate: sono stato chiamato dal commesso ieratico che, oso pensare, mi ha preferito a un miscredente perché ha letto nei miei occhi la fede e una superiore appartenenza alle cerchia dei veri credenti.

Mi precipitai nel negozio. Le ho provate: non erano solo bellissime, ma anche molto comode, l’archetipo della scarpa da uomo numero quarantacinque con punta arrotondata e eleganza tardo-moderna. Ero felice.

Non è stato facile, certo. Mentre, come ebbro, passavo alla cassa per strisciare una prepagata con il mio sacchetto sottomano, già pensavo a quanti altri modelli avrei potuto avere e sospiravo, chissà quando.

Ma un cuore fedele e devoto, provato dall’attesa e fortificato nella speranza, conosce la quiete della saggezza. La vita scorreva, migliore. Il mondo sorrideva stendendo sul mio volto rughe di saggezza e i primi fili argentati. Da allora la sete inestinguibile che mi attanagliava si è trasformata in piacevole rito di rinnovamento, giustificato da lavori e occasioni sociali che accompagnano l’entrata nel mondo adulto. La continuità dell’ordine del cosmico è garantita ed è sorretta da esso.

Ne ho avute un altro paio due anni dopo, a Berlino, la mia città ideale: anche lì non è stato facile, schiantato dal peso del privilegio della scelta, ma sembra che io stia imparando a gestire l’ansia del piacere che quelle scarpe mi procurano.

Nel frattempo ho cominciato a studiare il tedesco, che importa se per vendicare l’orgoglio di famiglia o per mettere più possibile distanza da tutti, o semplicemente perché mi piace. L’antica traduzione di fantasia del biglietto di auguri lasciato a mio padre non era poi neanche così distante dalla realtà, forse anche più lirica.

Braci sacrificali si estinguono lentamente. Becchi adunchi hanno dilaniato quanto rimaneva del mio pudore, presto il sole e la pioggia cancelleranno i segni dell’osceno banchetto che si è consumato.

Stare nel mondo senza le mie scarpe mi sembrerebbe inaccettabile, ma non sono io che inquinato i pozzi e reso impossibile il camminare a piedi nudi. Traccio confini verso l’esterno e verso l’interno, tengo dritta la schiena e cammino sereno con loro, senza vergogna, in attesa del mondo di significati che non siamo stati capaci di creare.