altri materiali di archivio dal mio lavoro all'Unità dei primi 2mila
La deportazione dal Ghetto di Roma
Gianluca Garelli
Con la nascita della
Repubblica Sociale, il destino degli ebrei italiani – già
duramente provati dalla legislazione razziale in vigore dal novembre
del ’38 – è segnato, in vergognoso ossequio all’alleato
tedesco e sulla base dell’antisemitismo proprio di certe frange
fasciste. Due mesi dopo, il 30 novembre, il Ministero dell’Interno
avrebbe imposto l’arresto di tutti gli ebrei presenti nel nostro
Paese, considerati “nemici” dell’Italia, e il sequestro dei
loro beni. È previsto un premio per ogni ebreo catturato.
Comandi da eseguire? Non
è così: la giustificazione, se mai può esservene una, proprio non
regge. Nel marzo del ’43 il ministro bulgaro Dimitar Pesev aveva
avuto il coraggio di imporre al proprio governo e al re Boris III,
alleato con la Germania nazista, la revoca dell’ordine di
deportazione di 48.000 ebrei, verificando personalmente che i
prefetti avessero cura di astenersi dal commettere un’atroce
barbarie per volere di Hitler.
In Italia, invece, lo
zelo e l’impazienza dei nazifascisti hanno addirittura preceduto
l’ordinanza del Ministero di una ventina di giorni. All’inizio di
ottobre era stato accolto nella capitale un gruppo d’intervento
delle SS sotto la guida dal capitano Theodor Dannecker –
l’ufficiale che dal 1940 al ’42 aveva organizzato la deportazione
degli ebrei francesi, ed ora si apprestava a occuparsi di quelli
italiani. Dannecker si avvale della schedatura degli ebrei residenti
in Italia che il regime monarchico-fascista aveva attuato a partire
dal ’38, nonché dell’indirizzario completo degli ebrei romani
raccolto con ogni cura da una squadra di agenti della questura (al
comando del commissario Cappa).
La mattina del 16, i
poliziotti tedeschi sanno dunque a quali porte bussare.
Gli arresti durano dalle 5,30 alle 14. I catturati sono 1259: 363
uomini, 689 donne, 207 bambini, provvisoriamente sistemati nei locali
del Collegio Militare. Gli uomini vengono immediatamente separati
dalle donne e dai bambini. Dopo minuziosi controlli, all'alba del 17
vengono liberati i coniugi e i figli di matrimonio misto, e quanti al
momento della retata si erano trovati per caso nelle case dei
ricercati – nell’insieme 237 persone. Delle 1022 persone rimaste,
una sola non è ebrea: si tratta di una donna che non intende
abbandonare un orfano malato che le era stato affidato. Morirà con
lui nel lager.
Il
22 il treno giunge ad Auschwitz-Birkenau. A nessuno è permesso
scendere fino al giorno successivo. Poi incomincia la selezione: 839
prigionieri sono destinati immediatamente alla camera a gas (gli
anziani, i bambini, quasi tutte le donne). Gli altri 183 vengono
utilizzati come lavoratori schiavi. Alla liberazione del campo, solo
17 sarebbero risultati ancora in vita, tra i quali una sola donna.
Domenica
26 settembre 1943, ore 18 I presidenti della Comunità
Israelitica di Roma e dell’Unione delle comunità italiane sono
convocati dal Maggiore delle SS Herbert Kappler all’ambasciata
tedesca e invitati a consegnare 50 Kg d’oro entro un giorno e mezzo
(si otterrà poi la proroga di qualche ora). In caso contrario è
minacciata la deportazione di 200 ebrei.
Martedì
28, ore 18 Secondo le istruzioni di Kappler, l’oro richiesto
viene consegnato in via Tasso. Seguono estenuanti controlli per il
sospetto infondato dei nazisti che il quantitativo fosse inferiore al
previsto.
Mercoledì
29, mattina reparti delle SS asportano archivi, documenti,
registri e 2 milioni di denaro liquido dai locali della Comunità
Israelitica. Non trovano gli arredi del Tempio e gli oggetti di
pregio, messi precauzionalmente in salvo.
Sabato
9 ottobre Vengono arrestati parecchi ebrei segnalati in
precedenza per attività antifascista.
Lunedì
11 Un ufficiale SS, nonché cultore di paleografia, con scorta
armata irrompe nelle biblioteche della Comunità Israelitica e del
Collegio Rabbinico e fa asportare libri antichi e preziosi codici
manoscritti, che su carrozzoni merci saranno portati a Monaco di
Baviera.
Venerdì
15, sera Una donna ebrea, da Trastevere, diffonde nel Ghetto la
notizia che i tedeschi possiedono una lista di 200 capi-famiglia
ebrei e intendono portarli via con tutte le famiglie. Nessuno dà
credito all’informazione.
Ore
23 All’albergo Vittoria (al di fuori del Ghetto) viene
arrestata una coppia di ebrei triestini
Ore
24 circa Nel Ghetto, drappelli di soldati tedeschi iniziano a
sparare in aria, poi a lanciare bombe a mano, e proseguono per più
di tre ore, per impedire a chiunque di uscir di casa.
Sabato
16, ore 5,30 circa Le SS (reparti specializzati giunti a Roma da
poche ore) dispongono sentinelle agli angoli delle strade del Ghetto;
in base a vari elenchi dattilografati di nomi, salgono poi nelle case
e bussano agli appartamenti corrispondenti; sfondano le porte che non
vengono loro aperte e prelevano tutti gli abitanti (compresi gli
ammalati gravi), concedendo loro 20 minuti per preparare il
necessario per il “trasferimento”, secondo le istruzioni fornite
in un apposito foglio. Le famiglie rastrellate, incolonnate per
strada e percosse col calcio dei fucili, sono radunate in un’area
di scavi vicina ai resti del teatro di Marcello.
Ore
13 Nel Ghetto ha termine l’operazione, che si è svolta
intanto con le stesse modalità, anche se più rapidamente, negli
altri quartieri dell’Urbe. Tutte le vittime vengono caricate in
camion e poi ammassate nel Collegio Militare di Via della Lungara.
Lunedì
18, all’alba I prigionieri sono condotti in autofurgone alla
stazione Tiburtina e stipati su carri bestiame.
Ore
13, 30 Il treno viene consegnato al macchinista e parte mezz’ora
dopo.
Il
rastrellamento del Ghetto di Roma nel racconto di Giacomo Debenedetti
di
Bianca Danna
Giacomo
Debenedetti (1901-1967), critico letterario, sfuggì
alla deportazione nascondendosi in casa di una vicina. Nel giugno ‘44
si unì alle formazioni partigiane attive sull'Appennino toscano.
Era
venerdì, la sera del 15 ottobre. Ogni venerdì, «all’accendersi
della prima stella, si celebrava il ritorno del sabato». Erano già
tutti in casa. Ma l’angoscia irrompe, turba il tempo del rito. «Una
donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia»,
è la prima figura umana che vediamo nel Ghetto. È venuta di corsa
da Trastevere, con il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha
in mano «una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con
tutte le famiglie». Nessuno vuole crederci, molti ridono.
«Credetemi! scappate, vi dico! - Vi giuro che è la verità! Sulla
testa dei miei figli! - Ve ne pentirete! Se fossi una signora mi
credereste». Nemmeno Cassandra, secondo Omero, fu creduta quando
annunciava la sventura della sua città, benché figlia del re. Qui
però l’Autore non intende scrivere epica o tragedia, ma cronaca
fedele ai fatti. E ha rintracciato molti testimoni di quella sera,
convinti che la «poveraccia», la «pazza» si confondesse con un
pericolo ormai scongiurato, vecchio di una ventina di giorni.
A
fine settembre, infatti, le SS di Kappler avevano minacciato di
deportare duecento ebrei - italiani doppiamente colpevoli, è il
pretesto: traditori dopo l’8 settembre e da sempre nemici della
Germania per razza - se la Comunità Israelitica di Roma non avesse
consegnato 50 chili d’oro. In un giorno e mezzo si raccolse l’oro,
con la vigilanza della Questura italiana, l’offerta ufficiosa di
aiuto del Vaticano (gradita ma poi non accolta) e l’imbarazzata, ma
generosa donazione di molti «ariani»; si portò l’oro in via
Tasso, a un certo capitano Schultz, maniacale nell’accertare che
gli ebrei non avessero frodato il Reich. Così non era, ma l’indomani
(29 settembre) i reparti di Kappler ripulivano i locali della
Comunità del denaro liquido, e l’11 ottobre la sua Biblioteca,
nonché quella del Collegio Rabbinico, di libri, manoscritti, codici
e pergamene. Finiscono così a Monaco di Baviera, forse sugli stessi
carrozzoni merci che serviranno cinque giorni dopo per caricare i
deportati, «le fonti autentiche di tutta la storia, fin dalle
origini, degli ebrei di Roma, i più vicini e diretti discendenti
dell’antico giudaismo». «Generazioni che parevano passate su
questa terra veramente come la schiatta delle foglie, attendevano dal
fondo di quelle carte che qualcuno le facesse parlare».
Qui,
nel commento al furto della memoria storica del Ghetto, Giacomo
Debenedetti lascia intendere il senso più alto, più toccante che il
suo resoconto, e forse la letteratura intera, può assumere.
Restituire, attraverso un paziente vaglio di testimonianze, le voci
di chi fu costretto al silenzio. Farci rivedere ciò che videro,
risentire ciò che udirono.
Spari
verso la mezzanotte, bombe a mano sui marciapiedi del ghetto, grida
colleriche di soldati, per due, tre ore (Così nessuno penserà di
uscire, prenderanno tutti). I mamonni,
gli sbirri, verso le 5 del sabato 16 ottobre bloccano strade e case
del Ghetto. Da una casa della stretta via S. Ambrogio, la signora
Laurina S. sente lamenti e grida. Si affaccia e vede passare in mezzo
alla via del Portico le famiglie rastrellate, spinte avanti col
calcio dei mitragliatori. In una scena corale - la cui regia, avverte
il narratore, era «nelle cose stesse» - «le madri, o talvolta i
padri, portano in braccio i piccini»; «i ragazzi cercano negli
occhi dei genitori (…) un conforto che questi non possono più
dare».
Passano
vecchie inferme, giovani donne che implorano i soldati e ricevono
percosse, un paralitico portato a braccia (finirà scaraventato sul
camion «come un mobile fuori uso»). Laurina stessa, ascoltati gli
ordini incomprensibili del caposquadra SS, leggerà ai vicini il
biglietto che porta scritte a macchina, in tedesco e in italiano, le
indicazioni per il “trasferimento”: hanno venti minuti per
prendere con sé viveri per almeno 8 giorni, carta d’identità,
eventuale valigetta con effetti personali, denaro e gioielli. Gli
ammalati, anche gravissimi, non possono restare indietro. «Infermeria
si trova nel campo».
Insomma,
«il biglietto parlava chiaro». Eppure le ultime parole che Ester
P., allora dodicenne, ricorda della zia («torna a casa, se no poi
papà mi strilla») dicono come Loro continuassero «a pensare a un
dopo nella vita di prima, con le abitudini di prima». Del resto la
salvezza di Laurina, grazie alla sua gamba ingessata, e quella degli
uomini in fila per la distribuzione di sigarette, che nessun tedesco
ebbe lo zelo di cercare, fanno ritenere a Debenedetti che la
brutalità delle SS fosse, quella mattina, professionale più che
sadica, malgrado le eccezioni: contava consegnare ai mandanti «un
certo numero di ebrei», un migliaio circa, numero non solo raggiunto
ma anche superato. Come scrisse Moravia in una sua introduzione a 16
ottobre 1943, «Il
razzismo è un'ideologia di massa; e le sue vittime (...) sono
anch'esse massa».
Li
portano dapprima nella fossa di un’area di scavi, ai piedi della
palazzina delle Antichità e Belle Arti, poi, sui camion, nel
Collegio Militare, dove separano donne e uomini, «i più ben
portanti (…) col capo volto verso il muro»: questo e altro,
compreso il divieto, quasi sempre, di raggiungere le latrine, rende
subito evidente «il proposito di umiliare». Si attende l’alba del
lunedì per stivare tutti su carri bestiame, che lasciano la stazione
di Roma-Tiburtino alle 14. La ricerca dell’esattezza fa registrare
ancora il nome e la relazione del macchinista (a Orte, tentativi di
fuga, repressi con le armi; a Chiusi, si scarica il corpo di una
deceduta). Fino al termine della cronaca, l’accuratezza
dell’indagine (il “metodo filologico”) rivela un “abito
morale”, un “metodo umano”: quello che il Debenedetti saggista,
pochi anni dopo, avrebbe teorizzato parlando delle Lettere di Gramsci
(“Tener
conto di tutti i fattori che compongono l'uomo; non sentirsi mai il
diritto, o l'arroganza, di trascurarne alcuno”). Il rigore
impersonale del resoconto, in 16
ottobre,
non attenua mai
la
pietas di chi vorrebbe, e non può, sottrarre all’oblio altri
particolari, altre impressioni: il viso di una bambina, dietro la
grata del vagone piombato, che a una viaggiatrice su un altro treno
era parso di riconoscere; il viaggio dopo che quel macchinista
smontò; il nome dei nati nel cortile del Collegio Militare, il
sabato notte: non certo “pellegrino in terra straniera”, come
chiamò Mosè il figlio della schiavitù: «i due nati in quella
notte senza Mosè erano pellegrini verso le camere dei gas».
La
Carta di Verona, costituzione della Rsi
Tra il 14 e il 16 novembre 1943 il
Partito fascista repubblicano si riunisce in cogresso a Verona:
“È stata una bolgia vera e propria!
Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono
manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi.
Qualcuno, infatti, ha chiesto l’abolizione, nuda e cruda, del
diritto di proprietà! Ci potremmo chiedere, con ciò, perché
abbiamo, per vent’anni, lottato coi comunisti! Secondo questi
‘sinistroidi’, potremmo oggi addivenire all’abbracciamento
generale anche con loro. Da tutte queste manifestazioni verbose si
può facilmente arguire quanto pochi siano i fascisti che abbiano
idee chiare in materia di fascismo…”. A parlare è lo stesso
Benito Mussolini (peraltro assente) riferendo a Giovanni Dolfin
dell’andamento del Congresso. Quella che avrebbe voluto essere una
vera e propria Costituente, per “consacrare” con il mandato
popolare un programma finalizzato a sconfiggere “sul piano delle
idee e dell’adesione spontanea” (Frederick Deakin) il governo
Badoglio al Sud e la nascente resistenza al Nord diventa un’assemblea
caotica la cui unica conseguenza sarebbe stata l’inasprimento della
politica antisemita, dei contrasti nell’Italia Settentrionale, e
quindi l’accelerazione della guerra civile. A interrompere i lavori
è addirittura la spedizione punitiva a Ferrara dove era stato ucciso
il “camerata” Igino Ghisellini, molto probabilmente per una faida
interna allo stesso Pnf. L’episodio diventa il pretesto per
un’azione contro ebrei, antifascisti, comuni cittadini. Le squadre
fasciste nel giro di poche ore rastrellano ottantaquattro persone, e
per rappresaglia uccisidono undici ferraresi.
Parlare di costituente è alquanto
improprio: nella nascente Rsi, stato fantoccio in mano ai tedeschi,
sarebbe stata del tutto inconcepibile una dialettica fra partiti
diversi. Come ha osservato Luigi Ganapini, una costituzione è un
patto, “scaturisce da un accordo tra i cittadini. Ma c’è spazio
per accordi o dibattiti nella Repubblica delle camicie nere? Partito
– il partito fascista repubblicano quale si delinea dopo il trauma
del tradimento – e Costituente non sono forse agli antipodi?”.
L’assemblea di Verona approverà
senza discuterlo un manifesto, steso con l’interessatissima
collaborazione dei tedeschi qualche giorno prima, e sottoposto bell’e
pronto dal segretario Pnf Alessandro Pavolini al congresso. Si tratta
di una carta in 18 punti, in cui lo spreco di slogan è pari soltanto
alla quantità di contraddizioni. Rivendicando in termini piuttosto
generici la natura “sociale” della costituenda repubblica, la
carta proclamava fra le altre cose il cattolicesimo religione di
Stato, attestando formale rispetto per gli altri culti non in
conflitto con la legge e affermando all’art. 7, che “Gli
appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra
appartengono a nazionalità nemica” (formulazione, pare, dovuta al
ministro Preziosi). Nella sostanza, si trattava dell’ennesima tappa
di un cammino incominciato esplicitamente negli anni precedenti il
conflitto e nello specifico, con le leggi razziali del 1938 nella
cieca, incondizionata e zelante accettazione delle politiche
tedesche.
Il congresso di Verona rappresentò un
confuso teatro di incontro e scontro di temi e slogan che avevano
caratterizzato oltre vent’anni di regime; un dibattito, a tratti
convulso, fra generazioni di fascisti, divise fra istanza di
rinnovamento impossibile e nostalgici appelli per un ritorno allo
squadrismo degli anni Venti, accompagnato da parole d’ordine
vagamente anarcoidi e antiplutocratiche: è ancora Mussolini a
commentare “E nessuno, dico nessuno di questi che hanno un bagaglio
di idee da agitare, viene da me per chiedermi di combattere. È al
fronte che si decidono le sorti della Repubblica… e non certo nei
congressi!”.
Il manifesto di Verona avrebbe
mostrato, a quanti desiderassero in qualche modo la restituzione di
una parvenza di convivenza civile nell’Italia dilaniata dalla
guerra e dal Ventennio, in che misura un tale disegno non fosse
realizzabile attraverso la scelta di Salò.
estratto
dalla “Carta di Verona”
Il primo
rapporto nazionale del Partito Fascista Repubblicano: leva il
pensiero ai caduti del Fascismo repubblicano sui fronti di guerra,
nelle piazze delle città e dei borghi, nelle “foibe” dell’Istria
e della Dalmazia, che si aggiungono alla schiera dei martiri della
Rivoluzione, alla falange di tutti i morti per l’Italia; addita
nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del
Giappone fino alla vittoria finale e nella rapida ricostituzione
delle Forze Armate destinate a operare accanto ai valorosi soldati
dal Fuehrer le mete che sovrastano a qualunque altra in importanza e
urgenza.[…]
In
materia costituzionale ed interna
1. - Sia convocata la Costituente, potere sovrano, di origine popolare, che dichiari la decadenza della Monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la Repubblica Sociale e ne nomini il Capo.
2. - La Costituente è composta dei rappresentanti di tutte le associazioni sindacali e di tutte le circoscrizioni amministrative, comprendendone i rappresentanti delle provincie invase, attraverso le Delegazioni degli sfollati e dei rifugiati sul suolo libero […]
[…]
5. - L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica.
Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’Idea Rivoluzionaria.
La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico.
6. - La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.
7. - Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.
1. - Sia convocata la Costituente, potere sovrano, di origine popolare, che dichiari la decadenza della Monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la Repubblica Sociale e ne nomini il Capo.
2. - La Costituente è composta dei rappresentanti di tutte le associazioni sindacali e di tutte le circoscrizioni amministrative, comprendendone i rappresentanti delle provincie invase, attraverso le Delegazioni degli sfollati e dei rifugiati sul suolo libero […]
[…]
5. - L’organizzazione a cui compete l’educazione del popolo ai problemi politici è unica.
Nel Partito, ordine di combattenti e di credenti, deve realizzarsi un organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’Idea Rivoluzionaria.
La sua tessera non è richiesta per alcun impiego o incarico.
6. - La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.
7. - Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.
In
politica estera
8.
- Fine essenziale della politica estera della Repubblica dovrà
essere l’unità, l’indipendenza, l’integrità
territoriale della Patria nei termini marittimi e alpini segnati
dalla natura, dal sacrificio di sangue e dalla Storia; termini
minacciati dal nemico con l’invasione e con le promesse di Governo
rifugiato a Londra. Altro fine essenziale consisterà nel far
riconoscere la necessità dello spazio vitale, indispensabile a un
popolo di 45 milioni di abitanti, sopra un’area insufficiente a
nutrirlo.
Tale politica si adoprerà inoltre per la realizzazione di una "comunità europea" con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti princìpi: a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro continente; b) abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali; c) valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto assoluto di quei popoli, in ispecie musulmani, che, come l’Egitto, sono già civilmente e nucleamente organizzati.
Tale politica si adoprerà inoltre per la realizzazione di una "comunità europea" con la federazione di tutte le Nazioni che accettino i seguenti princìpi: a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro continente; b) abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali; c) valorizzazione, a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto assoluto di quei popoli, in ispecie musulmani, che, come l’Egitto, sono già civilmente e nucleamente organizzati.
(…)
18. -
Con questo preambolo alla Costituente, il Partito dimostra non
soltanto di andare verso il popolo, ma di stare con il popolo. Da
parte sua il popolo italiano deve rendersi conto che vi è per esso
un solo modo di difendere le sue conquiste di ieri, oggi, domani:
ributtare l’invasione schiavista delle plutocrazie anglo -
americane, la quale, per mille precisi segni, vuol rendere ancor più
angusta e misera la vita degli Italiani. Vi è un solo modo di
raggiungere tutte le mete sociali: combattere, lavorare, vincere.