Recupero dalla tesi di dottorato i paragrafi finali, in cui si parla di Jesi e il post-strutturalismo, e anche Foucault, sollecitato da un dialogo sorto tra amici dell'immaginario, con cui ci si legge ogni giorno e ci si vede molto meno di quello che si dovrebbe.
In sintesi, Jesi cita una sola volta Foucault direttamente, presumibilmente riferendosi alla Storia della follia, proponendolo come un modello per una storia della cultura e delle idee che tenga conto delle interazioni tra i saperi condivisi all'interno di una società. Da interviste con chi ci ha lavorato sappiamo che ne conosceva i testi e il valore politico.
Il resto dipende molto dallo sviluppo teorico che ne ha fatto Agamben. Bidussa sottolinea molto la somiglianza con il lavoro e il metodo di Georg Mosse; personalmente credo che molto dipenda anche da Barthes, da una lettura meditata di Lévi-Strauss, dalla semiotica militante legata alla riflessione politica (Rossi Landi, Eco) e da qualcosa di impalpabile ma profondamente diffuso e leggibile in tutta un'area e un periodo.
A margine, mi piacerebbe sapere - e proverò a indagare - nello specifico se Jesi avesse commentato con qualcuno la rivoluzione islamica in Iran nel 1979, che Foucault seguiva per il Corriere della sera (cfr. Belpoliti, 2014, link sotto), per il rapporto tra religione e politica, senza contare l'uso del mito e del martirio della specifica religio mortis sciita che è alla radice del 'recupero' del terrorismo suicida. Fosse rimasto vivo dopo il 1980 l'avrebbe visto, ne sono sicuro.
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2123
http://www.doppiozero.com/materiali/anteprime/la-chiave-del-paradiso
5.6
Memoria
e violenza
Ogni
società nasce ai propri occhi nel momento in cui si dà la
narrazione della sua violenza. […] La narrazione agisce e cambia
l’azione stessa mentre la racconta. La narrazione agisce
sulla sua azione
raccontata. Per tale motivo, cambiando ciò che essa racconta, essa
cambia se stessa raccontando. La narrazione come oggetto che cambia,
e che cambia il suo oggetto: ecco il prima assioma, o la serie
assiomatica da cui si dovrà procedere1.
Il cristallo, la
pietra o la statua sono le metafore operative di processi culturali
che implicano l’uso della grande simbolica pubblica e che indicano
i luoghi comuni condivisi nella società di massa, la prima che ha
dispiegato l’enorme potenziale comunicativo offerto da nuovi mezzi
tecnici: in questo modo Jesi ha potuto contribuire a descrivere i
«meccanismi perlocutivi della morte come grammatica generativa del
senso di potenza»2,
grazie ai quali il nesso tra memoria funeraria e eroismo si ritrova
rinsaldato nell’«immaginario collettivo della morte», tanto nella
«catena logica dei segni» che la descrivono e quanto nella sua
«sintassi perlocutiva (ovvero i modi e le articolazioni comunicative
di tali segni)»3.
In questa articolazione storico-ideologica rientra anche la nozione
del tempo mitico dell’eterno ritorno, fatto valere in chiave
comunitaria laddove il
riferimento al passato è premessa per un futuro assetto, una nuova
versione del valore palingenetico del mito risacralizzato nel
politico.
Sulla scorta di
Benjamin Jesi ha inteso contrapporre la «politicizzazione
dell’estetica» all’«estetizzazione della politica»4:
«non solo non si troverà
[in lui] l’abbandono della storia del pensiero e della critica
ideologica a favore di uno “status estetico” del mito, [egli] si
è impegnato per tutta la vita a mettere in guardia dal pericolo
ideologico insito in tutte le teorie del mito apolitiche»5.
Intendendo la decostruzione della storia del mito e delle mitologie
in senso profondamente etico e politico, il senso del suo lavoro
culturale si trova ricomposto nel discorso sulla costruzione borghese
del passato, che solca la storia della modernità fino alla cultura
di massa: ogni riga, dai saggi alle traduzioni alle pagine di
enciclopedia, vibra di pedagogia ‘illuminista’ poiché il
discorso prima sul fascino dell’antico e poi sull’omogeneizzazione
della cultura è anche una critica della divulgazione e della
semplificazione, funzionali alle logiche del potere. È in questa
direzione, accanto ad altri congegni di ordine sociale e culturale,
che la ‘macchina mitologica’ trova la sua ultima collocazione.
5.6.1 La
critica del linguaggio
L’ideologia è lo sfondo intellettuale
comune a più ambiti della cultura di una società o di un’epoca:
ogni forma di sapere, lungi dall’essere neutre, incorporano visioni
del mondo e si configura in termini storici come paradigma il cui
successo deve essere letto in rapporto al potere dominante, il quale
potrà servirsi del monopolio di quel sapere come forma di
legittimazione del proprio dominio. Mentre
Lévi-Strauss e Dumézil hanno costruito sistemi teorici separando la
morfologia della cultura dalla sua genesi e dalla sua funzione di
dominio, in un approccio marxista forma, origine e funzione di
un’ideologia appaiono sovrapposte e coincidenti: uno dei
presupposti della «teoria della riproduzione socio-culturale» è
che gli elementi ideologici riproducano in forma larvata il campo
sociale in cui sono prodotti, servendo gli interessi dei gruppi che
costituiscono la società6.
Si è già visto come nell’indagine
sul mito svolta da Jesi siano presenti: la ricerca di una genesi
storica dei fenomeni dal dichiarato valore anti-metafisico; la
delineazione di una teoria metapsicologica che implica la
rielaborazione di materiali cognitivi da parte di soggetti culturali
immersi nel dinamismo storico; l’individuazione di una storia della
ricezione che ne privilegia la funziona politica. In
questo senso Jesi ha elaborato la sua via personale alla sintesi di
marxismo e di antropologia che ha caratterizzato i suoi anni
sfociando in una semiolinguistica critica il cui intento è stato
quello di costruire una «controcultura»7.
L’analisi del linguaggio significa critica al pregiudizio
naturalistico e conservatore che assuma come ipostasi extrastoriche
quelle che sono istituzioni culturali specifiche di una determinata
organizzazione sociale8:
congiungendo Marx con Sapir e Benveniste la stessa canonizzazione
della cultura europea diventa il luogo di trasformazione della
metafisica classica in volto necessario della verità. Lo studio
della significazione
mette
capo al valore d’uso dei saperi
che
si
determina
storicamente e quindi alla loro decostruzione ideologica: obiettivo è
lo svelamento dei presupposti materiali per i quali alcuni
significati si sono sedimentati nel codice linguistico di una
comunità istituzionalizzandosi attraverso il linguaggio. Contro il
sapere che limitandosi alla descrizione della realtà amplifica
l’ideologia dominante la teoria critica mette in evidenza i
processi di costruzione ideologica associandola alle strutture
economico-sociali che ne spiegano la diffusione.
Con il concetto di
‘logotecnica’ Barthes ha designato le categorie costituenti
l’impalcatura di un determinato sistema culturale, trasformando
tutti i fatti significanti in oggetti della semiotica9:
il sistema sociale si regge sugli individui, i parlanti nella cui
lingua e nel cui agito i codici prendono vita e si modificano,
all’interno di rapporti comunicativi, permettendone la
riproduzione. Barthes teorizza una «nuova scienza linguistica»
volta a indagare «il progresso della solidificazione»,
«l’ispessimento lungo il discorso storico» delle parole, che
sarebbe stata «sovversiva» nella misura in cui avrebbe mostrato
«molto più che l’origine storica della verità: la sua natura
retorica, di linguaggio»10.
La demistificazione ideologica traccia la specificazione storica dei
codici culturali: tematizzare le produzione sociale che li ha
originati, mostrandone gli elementi di interesse attraverso
l’individuazione dei motivi di canonizzazione. Nonostante tutte le
prese di distanza da ogni corrente o prospettiva metodologica e le
dichiarazioni di volersi attenere a un basso profilo, la teoria
jesiana appartiene al suo tempo. La miticità in un sistema di segni
è l’aura di valore prodotta dalla macchina mitologica in virtù
della sua circolazione, secondo un processo che politicizza e porta
alle estreme conseguenze quanto era implicito nel programma
strutturalista: «Tutte le opere individuali sono miti in potenza, ma
è la loro assunzione in chiave collettiva che attualizza
all’occorrenza la loro “miticità”»11.
Così Jesi in uno degli ultimi scritti:
La
scienza del mito nella mia prospettiva tende ad attuarsi come scienza
delle riflessioni sul mito, dunque come analisi delle diverse
modalità di non-conoscenza del mito. La scienza della mitologia, per
il fatto di consistere nello studio dei materiali mitologici in
quanto tali, tende ad attuarsi innanzitutto come scienza del
funzionamento della macchina mitologica, dunque come analisi della
intera e autonoma circolazione linguistica che rende mitologici quei
materiali. Uso la parola mitologia per indicare appunto tale
circolazione linguistica e i materiali che la documentano. [...] Sono
invece convinto che, per me oggi, il modo migliore di collocarmi di
fronte ai meccanismi e alle produzioni mie e degli altri, antichi o
contemporanei, consista nel riconoscere in alcune di quelle
proposizioni un linguaggio non riducibile ad altri, assolutamente
autonomo “riposante in se stesso” (Bachofen), dotato di alcune
caratteristiche definibili con approssimazioni estremamente vaghe se
– com’è inevitabile per definirle
– si ricorre ad altro linguaggio12.
5.6.2
Essere fatti dalla storia
Bidussa sottolinea come la ricerca sul
rapporto tra sapere e potere in Jesi possa essere avvicinata a quella
di Foucault, in particolare per ciò che riguarda una interrogazione
dei testi intesa come «storia della loro formazione culturale, dei
segni in essi contenuti e delle macchine testuali cui essi rinviano,
della serialità entro cui si collocano»13.
Citando
Foucault lo stessi Jesi dichiara la necessità di studiare i processi
di conoscenza in relazione alle «interazioni» tra «tutte le
componenti della storia sociale, culturale, economica dei gruppi
umani»14,
sull’esempio di una storia della medicina come quella proposta dal
filosofo francese; la loro
affinità è anche nel metodo comune che affronta il divenire
monumento
del documento15.
Come scrive Le Goff già il progetto degli «Annales d’histoire
économique et sociale» dal 1929 implicava l’allargamento della
nozione di documento che si accompagna all’immensa dilatazione
della memoria storica; Paul Zumthor nel 1960 rilevava come il
passaggio «che cambia il documento in monumento» sia «la sua
utilizzazione da parte del potere»16,
tale da rendere la funzione di ‘intercomunicazione’ soprattutto
quella di ‘edificazione’: «il documento [...] è un prodotto
della società che lo ha fabbricato secondo i rapporti di forza che
in essa detenevano il potere»17.
Nel 1969 ne L’archéologie
du savoir Foucault ha messo
in luce l’importanza dell’analisi dell’archivio, ovvero del
modo in cui la storia viene collocata e concepita nella sua
restituzione:
la
storia è un certo modo che una società ha di dare statuto ed
elaborazione a una massa documentaria da cui non si separa. [...] la
storia nella sua forma tradizionale, si dedicava a “memorizzare i
monumenti del passato e a trasformarli in documenti e a far parlare
in se stesse quelle tracce, che in se stesse non sono affatto
verbali, o dicono tacitamente cose diverse da quello che dicono
esplicitamente; oggi invece la storia è quella che trasforma i
documenti
in monumenti,
e che, laddove si decifravano delle tracce lasciate dagli uomini e si
scopriva in negativo ciò che erano stati, presenta una massa di
elementi che bisogna poi isolare, raggruppare, rendere pertinenti,
mettere in relazione, costruire in insiemi. [...] Oggi il problema è
quello di costruire delle serie [...] di descrivere i rapporti tra
serie diverse, per costruire delle serie di serie, o dei quadri: da
ciò il moltiplicarsi degli strati, il loro disarticolarsi, la
specificità del tempo e delle cronologie loro proprie18.
L’archivio di Foucault, come i
materiali studiati da Jesi, prende l’aspetto di «corpo dinamico
relativo alle regole della sua costruzione», il cui fuoco è la
«macchina generativa» che fornisce l’unità del suo oggetto a
partire dal modo «in cui questo viene descritto e raccontato»19:
la storia delle idee è un’impresa di ricostruzione interessata al
contesto, ovvero all’individuazione delle cause che hanno portato
determinati autori a sostenere un certo tipo di idee; ma è anche
studio della ricezione nel tempo, ovvero del modo in cui le idee
sopravvivono a loro stesse e retroagiscono su epoche successive e
diverse, diventando altro.
Il
documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un
montaggio, conscio o inconscio, della storia dell’epoca, della
società che l’hanno prodotto, ma anche delle epoche successive
durante le quali ha continuato a vivere, magari dimenticato, durante
le quali ha continuato a essere manipolato magari dal silenzio. Il
documento è una cosa che resta, che dura e la testimonianza,
l’insegnamento [...] che reca devono essere in primo luogo
analizzate demistificandone il significato apparente. Il documento è
monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società
storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella
immagine data di se stesse. Al limite, non esiste un
documento-verità. Ogni documento è una menzogna. Sta allo storico
non fare l’ingenuo20.
La canonizzazione storica che ogni epoca
produce ricostituisce il passato in una forma strutturata di sapere
che è solidale con il presente, in senso inevitabilmente ideologico
e fondazionale. Ciò che si presenta come Verità deve essere inteso
dunque come la convergenza delle linee differenti che costituiscono
il dispositivo sociale della comunicazione. Accanto alla storia come
disciplina scientifica che perfeziona continuamente il suo metodo, il
sapere contemporaneo deve tenere conto che la storia in
quanto storiografia è anche
una versione mitologica del passato:
la macchina mitologica sta
al centro di un’indagine di fenomenologia dell’agire collettivo –
ovvero sulla trasposizione del mito in atti percepiti e pensati come
loro traduzione
coerente – che come quella foucaultiana riguarda il
nesso
tra le strategie
di istituzionalizzazione
(le modalità attraverso cui gli individui soggettivano la norma, la
riferiscono a se stessi e se ne impossessano) e le forme
di soggettivazione
(la formazione di uno stile di vita; altrimenti l’analisi di come
si produce la personalità etica, ovvero le regole che fondano la
soggettività)21.
La cultura socialmente condivisa
interviene a costituire l’identità dell’individuo, senza
sovradeterminarla, ma sorreggendola e orientandola, con modalità che
sulla base del livello di intensità potranno essere più o meno
performative. Il dispositivo culturale comunica i suoi contenuti, e
nello stesso tempo metacomunica le forme della sua espressione, nel
mito particolarmente performative: il “linguaggio delle idee senza
parole” di ogni mitologia moderna può esprimere attraverso la
forma in cui i significati sono veicolati l’idea stessa di
appartenenza e di intuizione, saltando la mediazione intellettuale e
spingendo all’azione.
Il
mito è il montaggio del testo: più precisamente: la
condizione che permette a un testo di presentarsi e accreditarsi come
verità.
Per questa via il mito non è il racconto, ma è la condizione del
raccontare, poi diviene le metafore in esso contenute, infine il
reticolo immaginario che lo sostiene e che lo fa apparire come
logico. In altri termini ciò che egli chiama mito è una condizione
testuale, un vincolo che lega sia chi costruisce il testo, sia chi lo
riceve attraverso una mediazione fondamentale: chi detiene il potere,
come arbitro o gestore del rapporto presente/passato, della memoria,
della sua formalizzazione, del reticolo gerarchico che in essa si
struttura, della forma discorsiva con cui esso si comunica. [...] Il
mito non è solo, né principalmente un racconto che rende digeribile
il presente, ma è il modo in cui una comunità riconosce se stessa e
comunica la sua sostanza all’interlocutore con cui entra in
rapporto o in conflitto22.
5.6.3
La macchina mitologica come dispositivo
Numerosi sono gli elementi che inducono
a vedere nel funzionamento della macchina mitologica, in particolare
per come è articolato nei testi più recenti, una forte analogia con
ciò che Foucault ha chiamato «dispositivo». Nel 1977 il filosofo
francese definiva con questo termine
un
insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni,
strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure
amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche,
morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto,
ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è la rete che si
stabilisce fra questi elementi [...] di natura essenzialmente
strategica, il che implica che si tratti di una certa manipolazione
dei rapporti di forza, di un intervento razionale e concertato nei
rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per
bloccarli, o per fissarli e utilizzarli. Il dispositivo è sempre
iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti
del sapere, che derivano da esso, e nella stessa misura, lo
condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di
strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere
e ne sono condizionati23.
Secondo la definizione di Deleuze un
dispositivo è una «matassa, un insieme multilineare, composto di
linee di natura diversa» che «tracciano processi in perenne
disequilibrio», tali da concatenarsi in maniera differente e
costituire il plesso «Sapere, Potere e Soggettività»24.
Per Agamben dispositivo è la rete che si stabilisce tra gli elementi
di un insieme eterogeneo, includente elementi di cultura materiale e
immateriale, dotata di «una funzione strategica concreta» inscritta
in una «relazione di potere» e come tale risultante «dall’incrocio
di relazioni di potere e relazioni di sapere»25.
Il sistema culturale di una società in un determinato momento
storico risulta costituito da più dispositivi: al centro
dell’indagine è «la relazione fra gli individui come esseri
viventi e l’elemento storico, intendendo con questo termine
l’insieme delle istituzioni, dei processi di soggettivazione e
delle regole in cui si concretizzano le relazioni di potere»26.
La nozione di dispositivo – «il modo in cui sono disposti i pezzi
di una macchina o di un meccanismo e per estensione, il meccanismo
stesso»27
– «nomina ciò in cui e attraverso cui si realizza una pura
attività di governo senza alcun fondamento dell’essere»28
e descrive così le modalità «di prassi, di saperi, di misure, di
istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e
orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti
e i pensieri degli uomini»29.
In un recente saggio
sull’argomento Nicola Bucci fornisce una lettura della macchina
mitologica in sostanziale continuità con questa:
se
il mito è il prodotto di una macchina antropologica e non una
sostanza reale, allora non esiste mito o mitologema che non sia
tecnicizzato (in questo senso, si potrebbe leggere la ‘macchina
mitologica’ esattamente nel senso di quei dispositivi sottesi alla
costituzione stessa del soggetto che Foucault chiama tecnologie del
sé).
[...] Una
macchina mitologia è un dispositivo, esattamente nell’accezione
foucaltiana, che articola una molteplicità di pratiche discorsive
dalle quali, in una certa misura, dipende l’antropogenesi del
soggetto30.
Quando Jesi descrive il funzionamento
della macchina mitologica intende mostrare come mitopoiesi sia anche
l’istituzione di saperi attraverso cui gli uomini nel tempo
costruiscono un mondo dotato di senso e di significato31
che include stratificazione sociale, rapporti di subordinazione e
logiche di dominio. Accanto alla necessità della critica Jesi ha
posto l’impossibilità di uscire dal circuito della macchina
mitologica: la denuncia politica della manipolazione del linguaggio è
anche la constatazione teoretica dell’impossibilità di uscire da
esso. L’uso
dei codici culturali da parte di un soggetto implica la loro
ri-produzione e messa in circolo; ogni analisi della soggettività
trascendentale si scontra con l’impossibilità di uscire dal
linguaggio che da quella stessa soggettività è prodotto. I
processi culturali si verificano all’interno di un dispositivo
sociale linguisticamente determinato nel quale gli individui sono
immersi e da cui risulterà il «il sé» come «processo di
individuazione che si esercita si gruppi o su persone» ma tale anche
da potersi «sottrarre ai rapporti di forza stabiliti come pure ai
saperi costituiti»32.
Le medesime forme del sapere/potere espresse da un’epoca sono al
tempo stesso la condizione per il cambiamento e l’innovazione: la
dimensione pragmatica del linguaggio non coincide con una nozione di
strumentalità totale, esattamente così come la langue
fonda la possibilità che si dia la parole,
già per
Saussure: se la prima è il
sistema di segni collettivo e universale che l’individuo trova
disponibili e non può creare né modificare, la seconda è l’aspetto
creativo del linguaggio. Questo dipende dal singolo individuo, poiché
è l’«atto di volontà e intelligenza» che ognuno può
rielaborare in modo creativo
a partire dai materiali cognitivi di cui dispone33.
Il linguaggio è «la più collettiva di tutte le istituzioni» ma
«anche la più privata»34.
Il mito o simbolo, nell’accezione in
cui Jesi l’ha inteso, può essere dal punto di vista teoretico un
atto inventivo ‘originario’ solo perché emerge dalle macerie del
pregresso, nei termini di un’«improvvisazione che si appoggia a
una sapere implicito e ubbidisce a regole inconsce»: «affermando
che il simbolismo è un dispositivo cognitivo [...] ci troviamo di
fronte a un dispositivo autonomo che partecipa della costituzione del
sapere e al funzionamento della memoria insieme ai meccanismi della
percezione e al dispositivo concettuale»35.
Applicando questo principio all’interno di una teoria antropologica
della cultura moderna, che include il modo in cui il sapere
storiografico interagisce con i saperi del tempo presente, si ha così
nell’opera di Jesi la pratica di una teoria della ricezione in cui
l’archeologia del sapere come «storia critica» diventa una sorta
di «terapia mirante al recupero dell’inconscio inteso come
“rimosso” storico»36
che ricorda da vicino il
progetto benjaminiano di restituzione del passato a nuova vita. Come
per il critico berlinese, si
tratta di una «tendenza, allo stesso tempo distruttiva e
ricostruttiva» che «si fonda su una facoltà mimetica
intenta a stabilire
connessioni e similitudini straordinarie tra le cose (citazioni,
oggetti, parole, concetti e idee) sottratte alle rovine del loro
originario contesto funzionale di appartenenza»37.
In questo senso il concetto di macchina
mitologica permette di riconoscere come gli stessi meccanismi di
nominazione e comunicazione che operano nella sfera dell’immaginario
collettivo e sociale siano «spia indiziaria del meccanismo
associativo della mente»38.
«L’‘io’ non è un’entità presupposta, depositaria di un
segreto ontologico, ma coincide con la sua storia, col racconto che
egli fa. Il soggetto non è altro, in questa prospettiva, che il
prodotto della macchina mitologica, in quanto essa è in prima
istanza autobiografica»39.
Il soggetto pensante si rapporta alla
propria cultura come a un archivio o un repertorio, la cui
difettività o intermittenza è colmata dalla coscienza che coglie la
realtà nella continuità del pensato:
dispositivo è anche il sistema teorico elaborato dal pensatore come
fabbricatore di concetti o dallo scrittore come produttore di
immagini che appartiene al più ampio dispositivo culturale della
cultura, o delle culture, di un epoca. Ogni essere umano non può che
essere il risultato della catena di ricezione di discorsi, idee,
immagini e dei ‘testi’ che lo hanno preceduto:
la macchina mitologia-individuo interagisce con la macchina
mitologica-cultura.
Rifiutando esplicitamente di elaborare
una teoria generale della cultura, Jesi l’ha però intensamente
praticata e implicitamente tratteggiata in modo ampio e diffuso. In
questo senso la sua personale ermeneutica può essere definita
un
modo molto mascherato di comporre per citazioni una sorta di
autoritratto paradossale, fluido nel gioco di “commozione” e
“distanza”, che caratterizza altresì il suo approccio al mito.
Scienza del mito, critica letteraria e pedagogia costituiscono cioè
un intreccio solidale che caratterizza la sua immagine di studioso e
di “sapiente”40.
Nel 1980, in una lettera privata,
scriveva di non confondere la propria reticenza teorica con una forma
di nichilismo: «non è una semplice copertura di “valorismo”, ma
è preoccupazione di non sciupare valori stringendoli dentro le
gabbie delle definizioni e degli apparati operativi». La pratica
della riflessione condivisa e della scrittura, la critica e
l’ermeneutica, erano per lui un «parlare con
gli altri che è un
confonderli-illuminarli-metterli in crisi» del tutto simile al
proprio
«confondersi-illuminarsi-mettersi in crisi». Da questa condizione
di confusione-illuminazione-crisi si genera ogni rapporto personale
con i significati, secondo un’idea di interpretazione che, pur
essendo «già una formula», ha come senso ultimo la perorazione di
una «non formula, l’emozione, il vivere-uomini permanente»41.
1
J. P.
Faye, Violenza,
in Enciclopedia
Einaudi,
vol. XIV, cit., pp. 1081, 1101. Cfr. D. Bidussa, Epifanie
del mito. La funzione del mito nella ricerca di Furio Jesi e di
George L. Mosse,
testo dell’intervento al convegno Furio
Jesi: Mito e antropologia,
Ferrara, 10-11 maggio 1991. Atti inediti conservati presso
l’Archivio del centro etnografico ferrarese (privi di
numerazione).
2
D.
Bidussa, La
macchina mitologica,
In «Immediati dintorni», cit., p. 305.
3
Id.,
La
ricerca storica e la questione del mito,
cit., pp. 158. Cfr. A. M.
Banti, L'onore della nazione.
Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII
secolo alla Grande guerra,
Einaudi, Torino, 2005, in particolare pp. 377-78, studio, con
particolare riferimento alla storia letteraria, sui «dispositivi
discorsivi» relativi ai concetti di «nazione» e «discendenza»
delle grandi narrazioni nazionali.
4
W. Benjamin,
L’opera
d’arte
nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica
(1936), ed. it. Einaudi , Torino, 2000, pp. 46-48.
5
M. Gigliotti, C. Rapisarda e F. Sepe, Mythenforschung
und Ideologiekritik bei Furio Jesi,
in F. Jesi, Kultur von
rechts, cit., p. 239.
6
Bourdieu, che in tal senso può essere considerato paradigmatico,
scrive: «I sistemi ideologici che gli specialisti producono
attraverso e in vista della lotta per il monopolio della produzione
ideologica legittima, riproducono sotto una forma irriconoscibile,
attraverso la mediazione dell’omologia tra il campo di produzione
ideologica ed il campo delle classi sociali, la struttura del campo
della classi sociali [...]. La funzione propriamente ideologica del
campo di produzione ideologica si svolge in forma quasi automatica
sulla base dell’omologia di struttura fra il campo di produzione
ideologica ed il campo della lotta delle classi». P. Bourdieu, Sur
le pouvoir symbolique,
«Annales E.S.C.», 1977, 3, pp. 409-410. Cfr. D. Dubuisson,
Mitologie del XX secolo,
cit., pp. 74 ss.
7Cfr.
M. Solimini,
Scienza
della cultura e logica di classe,
Dedalo, Bari, 1974, pp. 10 ss. La premessa teorica di questo
progetto diffuso e dai vasti contorni consiste nella concezione per
cui la funzione politica della lingua è individuata nel «realizzare
una particolare organizzazione del mondo naturale-sociale, di
ordinarlo in categorie di oggetti, di distinguerlo in maniera
specifica [...] in azioni, funzioni, ruoli, istituzioni» (p. 135).
8
F. Rossi Landi, Il linguaggio
come lavoro e come mercato,
Milano, 1968, p. 215-216: «Sostenere che in un soggetto c’è
qualcosa di extrastorico significa operare un privilegiamento
fondato sul passato» che è il «punto essenziale per
l’interpretazione di qualsiasi ideologia conservatrice, o
reazionaria. [...] Gli oggetti che vengono detti oggi extra-storici
altro non possono essere che oggetti costituiti dall’umanità in
qualche fase precedente del suo sviluppo sociale. Sono questi
oggetti che si vogliono difendere e conservare – e tanto meglio se
il processo storico del momento ha istiuito una macchina sociale che
li conserva automaticamente».
9
Cfr. R. Barthes, Elementi di
semiologia (1964), ed. it.
Einaudi, Torino, 1966.
10
R. Barthes, Il piacere del
testo (1973), ed. it.
Einaudi, Torino, 1975, p. 42.
11
C. Lévi-Strauss, L’uomo
nudo (1971), cit., p. 590.
12
F. Jesi, «Così Kerényi mi
distrasse da Jung»,
(auto)intervista su un
itinerario di ricerca, in
«Alias», n. 30, luglio 2007, p. 21 (Testo inedito parzialmente
pubblicata in MM, pp. 365, 367-369).
13
D.
Bidussa, La
ricerca storica e la questione del mito,
in «Nuova corrente», n. 143, 2009, p. 157. Id.,
La macchina mitologia e la
grana della storia,
p. 107.
14
F. Jesi, Cesare Pavese e il
mito: dix ans plus tard, in
«Il lettore di provincia», nn. 25-26, Ravenna, 1976, p. 7.
15
D. Bidussa,
Il vissuto mitologico,
cit., p. 214 ss.; cfr. Id.
Mito
e storia in Furio Jesi,
«Humanitas»,
4, 1995, p. 589.
16
J. Le Goff, Documento/monumento,
in Enciclopedia Einaudi,
vol. 5, Einaudi, 1977, p. 44.
17
Ivi,
p. 45.
18
M. Foucault, L’archeologia
del sapere. Una metodologia per la storia della cultura
(1969), ed. it. Rizzoli, Milano, 1971, p. 10-11.
19
D. Bidussa, Il vissuto
mitologico, cit., p. 218.
20
J. Le Goff, Documento/monumento,
cit., p. 46.
21
D. Bidussa, La macchina
mitologica e la grana della storia,
cit., pp. 107 ss. L’autore riconosce analogo intento a studiosi
come Canfora (L. Canfora, L’uso
politico dei paradigmi storici
[1982], Laterza, Roma-Bari, 2010) e i già citati Mosse e Ginzburg.
22
D. Bidussa, Macchina
mitologica e indagine storica,
cit. p. 158-159.
23
M. Foucault, Dits et écrits,
vol. III, pp. 299-300. La traduzione è di G. Agamben, in Che
cos’è
un dispositivo?, Nottetempo,
Roma, 2006, p. 7
24
G. Deleuze, Che cos’è
un dispositivo? (1989), ed.
it. Cronopio, Napoli, 2007, p. 11. Si tratta dell’ultimo
intervento pubblico di Deleuze all’interno dell’incontro
internazionale Michel
Foucault philosophe, Parigi,
9-11, gennaio 1988.
25
G. Agamben, in Che cos’è
un dispositivo? cit, p. 7.
26
Ivi,
p. 12.
27
Ivi,
p. 14.
28
Ivi,
p. 19.
29
Ivi,
p. 20. In Agamben il concetto di dispositivo è ulteriormente
dilatato: «Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia
in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare,
intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le
condotte le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Non
soltanto, quindi le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole,
la confessione, le fabbriche, le discipline, le misure giuridiche
ecc, la cui connessione col potere è in un certo senso evidente, ma
anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia,
l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i
telefoni cellulari e – perché no – il linguaggio stesso che è
forse il più antico dei dispositivi», G. Agamben, Che
cos’è
un dispositivo?, cit., p.
21-22.
30
N. Bucci, Dispositivi
mitogenetici e macchina antropologica,
in «Nuova corrente», n. 143, 2009, pp. 131, 138.
31
Per una discussione critica sulla
mitologia della scienza e sul rapporto tra tecnicità, sacro e
politica cfr. A. Bardin, Individuazione,
tecnica e sistemi sociali. Epistemologia e politica in Gilbert
Simondon, Tesi di dottorato
in Filosofia politica e storia del pensiero politico, Università di
Padova, XXII ciclo, 2007-2009 (su Jesi, p. 305).
32
G. Deleuze, Che cos’è
un dispositivo, cit., p.17.
33
G. Agamben, L’origine
e l’oblio,
in «Risalire il Nilo», cit., p. 156-157.
34
R. Barthes, Introduzione
(1959-60) a Il grado zero
della scrittura (1953), ed.
it. Lerici, Milano, 1960, p. 13.
35
D. Sperber, Per una teoria
del simbolismo. Una ricerca antropologica
(1974), Einaudi, Torino, 1981, p. IX.
36
E. Melandri, La linea e il
circolo (1968), Quodlibet,
Macerata, 2004, p. 134, cfr. anche p. 530 dove la teoria di Foucault
è definita «teoria strutturalistico-diacronica».
37
G. Cuozzo, L’angelo
della melancholia, cit., p.
97.
38
D. Bidussa, Macchina
mitologica e indagine storica,
cit., p. 158.
39
N. Bucci, Dispositivi
mitogenetici e macchina antropologica,
cit., p. 143.
40
M. Cottone, Scienza del mito
e critica letteraria. Conoscere per composizione,
in «Studi filosofici», XIV-XV, 1991-1992, p. 237.
41
Ivi,
pp. 235-236: F. Jesi, lettera a M. Cottone del 2 gennaio 1980.