Per graziosa concessione dell'autore rendo disponibile qui la versione di un intervento di Emiliano Rubens Urciuoli tenuto a Venezia, 6-7 settembre 2014 nell'ambito del master in Yoga Studies, all'interno del ciclo di lezioni Teoria e storia della governance religiosa dei viventi.
Emiliano Rubens Urciuoli
Antropo-tecnici, pastori e specialisti del soma. Ovvero: come la religione cattura, stilizza e
mette in scena la vita umana
PRIMA SESSIONE (sabato 6 settembre; h. 16-19.30)
Introduzione: definizioni di parole (e poco più...)
Il titolo che ho escogitato per questo modulo sarà al centro di questa sessione introduttiva perché
non è immediato e richiede una spiegazione. La presenza in sequenza di tanti paroloni-feticci
nasconde a malapena l’assenza di un termine forse atteso, tra i più inflazionati del discorso colto e
pseudo-colto contemporaneo: biopolitica. La biopolitica è un po’ il “convitato di pietra” di tutto il
modulo. Nascosta nel marmo delle parole di cui si parlerà, la biopolitica, come appunto il
personaggio del Don Giovanni, il Convitato di Pietra, incomberà quasi muta e imperscrutabile su
tutto il nostro incontro, sempre più inquietante, sfingea, per rivelarsi solo alla fine, durante l’ultimo
mortale banchetto. Come insegna la storia letteraria e linguistica di questa figura di Molière e di
Mozart, che è usata ormai a sproposito, a nominare qualsiasi presenza incombente ma invisibile,
anche poco spaventevole, vedremo il convitato di pietra della biopolitica secolarizzarsi: cioè,
conservando il suo significato, mutare e laicizzare i suoi significanti: conservare il suo potere e la
sua presa sugli uomini a spese dell’originario, ostentatamente cupo, aspetto religioso. Ma questo,
appunto, lo vedremo alla fine.
Il titolo e il sottotitolo del corso contengono due termini tecnici e altri due di significato generico e
uso corrente. I termini tecnici sono:
a) Antropotecnica
b) Specialistadelsoma
I termini di significato generico e uso corrente sono:
c) Pastore
d) Religione
Bisogna sempre diffidare dei termini di significato generico e di uso corrente, come “religione” e
“pastore”, ed è bene trattarli come se non fossero chiari. Come se li sentissimo per la prima volta e
ci risultassero estranei o opachi esattamente come i termini tecnici. Estraniare ciò che è generico e
corrente è fondamentale per riappropriarsene analiticamente (o per rifiutarlo, se il termine risulta
inservibile o inappropriato e dunque inappropriabile). Bisogna quindi assumere la distanza dal
familiare, allontanarlo da sé come da una prospettiva astronomico-satellitare. Questo metodo è stato
chiamato dal filosofo tedesco Peter Sloterdjik “astronomia culturale”, è stato inaugurato
probabilmente da Nietzsche (in un passo bellissimo e famoso tratto dalla Terza Dissertazione della
Genealogia della Morale) e consiste nell’osservare il nostro corpo celeste, il mondo in cui viviamo,
da un punto di vista simil-spaziale e nel leggerlo attraverso immagini di formazioni culturali carpite
da grande altitudine. Immagini troppo lontane per abitarle, immagini troppo aliene, troppo poco
familiari per riconoscervisi. Questo mio modulo, da questa siderale altezza, si presenta dunque
come un tentativo – rapido e sbrigliato per quanto possibile – di mappare e di circoscrivere, di
vedere dove si separano, dove si congiungono e dove si sovrappongono i territori semantici di
quattro continenti culturali denotati non più da due, ma da quattro termini tecnici: antropotecnica,
pastorato, expertise del soma e religione. A che scopo? Per provare in ultimo a capire e carpire ciò
che il sottotitolo promette, cioè come qualcosa come una religione possa “stilizzare, catturare e
mettere in scena la vita umana”. Il corso avrà una fisionomia un po’ meticcia, un po’ ibrida. Un po’
diacronica, un po’ sincronica, a metà tra il racconto storico e la mappatura concettuale.
Prefiguratevelo in generale come una mappa, che descrive un territorio (o meglio: quella somma di
territori di cui ho detto), ma su cui ogni tanto si aprono delle finestre temporali che gettano luce
sulla storia di quello specifico punto della mappa.
Ora vorrei definire e presentare brevemente le matrici delle quattro parole tecniche che compaiono
nel titolo e nel sotto-titolo:
a) “Antropotecnica” è parola tecnica ora molto à la page, come lo è il suo ideatore, il già
citato filosofo tedesco Peter Sloterdijk. Definisce – cito dal bestseller sloterdijkiano Devi
cambiare la tua vita – “l’insieme delle fisiotecniche e delle psicotecniche, delle dietologie e
degli allenamenti, incluse tutte le forme di esercizio e di lavoro [umano] sulla propria
vitalità” (2009, p. 43). La Yoga è un eccellente esempio di antropotecnica. Ma lo sono anche
il salto in lungo, la preghiera continua dei monaci del Monte Athos, la ginnastica e il digiuno
religioso. Più precisa e utile è però forse un’altra, bellissima e astutissima, definizione di
antropotecnica, quella cui faremo sempre riferimento, secondo la quale le antropotecniche
designano “le condotte fisiche e mentali basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani
delle culture più svariate hanno tentato di ottimizzare il loro status immunitario sia cosmico
sia sociale, dinnanzi a vaghi rischi per la propria vita e a profonde certezze di morire”.
Premetto subito che questa categoria interpretativa, satellitar-siderale, di antropotecnica è
una nozione piuttosto narcisistica e dispotica. Nelle intenzioni di S., infatti, essa da un lato
contiene in sé e chiarisce alcuni aspetti particolarmente vistosi delle cosiddette “religioni”,
che per S. costituiscono addirittura la “base”, il “contenuto reale” delle sedicenti religioni
(precisamente: il fenotipo ascetico-acrobatico). Il loro scheletro formale. Allo stesso tempo,
però, l’antropotecnica servirebbe a svelare la vacuità astratta della nozione di religione,
nozione nativa e ambientale, legata alla sua pretesa (infondata) di denotare una realtà
eccezionalmente separata dalla quotidianità degli stati ordinari: cioè qualcosa di molto più
sgargiante e superiore, potente e coinvolgente del semplice scheletro acrobatico. Mi spiego.
Secondo S. l’“antropotecnica” contiene, ad esempio, tanto le olimpiadi contemporanee che
l’ascesi cristiana e buddhista, ma denuncia i fallimenti tanto dell’Olimpismo (secondo la
visione ufficiale, romanticamente grecofila del barone De Coubertin, l’inventore delle
olimpiadi moderne) che del Cristianesimo che del Buddhismo come fantasmagorie utopiche,
smargiassate enfatiche che alla fine, in un modo o nell’altro, si sgonfiano e si rivelano tali,
insomma miraggi progettuali di una religione intesa come “categoria specifica dell’agire e
del vivere umano” (p. 115). Per così dire: i fondatori consapevoli e inconsapevoli delle
religioni storiche, così come i semplici impresari delle nuove religioni, progettano una
religione e si ritrovano con degli esercitanti impegnati in moduli di allenamento gelosamente
sorvegliati da gerarchie di funzionari. Per ora mi fermo qui: trattasi, come molti di voi
avvertiranno, di una visione personale e parziale della religione, che non condivido fino in
fondo. Quindi terrei il concetto, preziosissimo, di antropotecnica, lasciando da parte le sue
pretese un po’ totalitarie e distruttive. Dell’antropotecnica di S. vi avrà forse detto qualcosa
Roberto Alciati nel suo corso di gennaio sull’ascetismo. Non so se vi ha anche detto che a
questa nozione e al suo inventore è stato interamente consacrato un numero recente
dell’importante rivista di filosofia Aut Aut (luglio-settembre 2012), che vi consiglio
vivamente. Sull’antropotecnica e i suoi svariati (e apparentemente incommensurabili)
interpreti, gli antropo-tecnici, cioè coloro che vi si esercitano, torneremo più avanti nel corso
del modulo. Per ora ritenete tre elementi della definizione di antropotecnica: “esercizio” –
ovviamente –, “culture più svariate” e “status immunitario”.
b) “Pastorato”, a differenza di antropotecnica, è termine d’uso piuttosto comune che va
quindi, secondo il metodo dell’astronomia culturale prima abbozzato, “sideralizzato”,
estraniato e reso tecnico per essere qui utilizzato. Il suo significato tecnico è preso da un
altro filosofo, ben più importante di Sloterdijk, forse il più influente pensatore continentale
del secondo Novecento: Michel Foucault. F., nel suo corso al Collège de France del 1977-
1978, precisamente durante la lezione del 1o marzo 1978, definisce il pastorato come un
“insieme di tecniche e procedure” che configurano uno specifico “tipo di potere che ha per
oggetto la condotta degli uomini. Come strumento si avvale di metodi che permettono di
condurli, come obiettivo interviene sulla maniera in cui si conducono e si comportano”
(2004, p. 144). Vedremo che per F. il potere pastorale è all’origine di quella che egli stesso
definisce come la “governamentalità” occidentale moderna, cioè l’arte propriamente
moderna di “governo dei viventi” – per citare sempre il titolo di un suo corso, di due anni
successivo, appunto “il governo dei viventi”. Il pastorato quindi designa una realtà storica
singolare e definita, che inizia a delineare i suoi tratti nelle chiese proto-cristiane sotto
l’impero romano nel II-III sec. e.v.; un tipo di potere che si struttura compiutamente, si
dispiega e trova il suo apice nell’Occidente medievale cristiano; un tipo di potere che entra
in crisi alle soglie della modernità post-cristiana, esplodendo, disperdendosi e prendendo
appunto la dimensione secolarizzata della “governamentalità” statuale moderna. Ovvero –
cito sempre da F. – quella “forma specifica e assai complessa di potere” che si distingue
dalla più antica “sovranità” perché ha “nella popolazione il bersaglio principale,
nell’economia politica la forma privilegiata di sapere, nei dispositivi di sicurezza lo
strumento tecnico essenziale” (p. 88). In breve, secondo F., la medievale tecnica pastorale
cristiana, una volta entrata in politica, adattati alcuni tratti, espansi e potenziatine altri, darà
luogo al governo modernamente inteso. Tenete a mente, in questo caso, le parole-chiave
“governo”, “condurre” e “condotta”, perché torneremo, naturalmente, anche su questa
categoria tecnica di “pastorato” e di “pastore”, che si collega direttamente a quella
successiva:
c) Expertise del soma (o appunto “pastorato del soma”). Questa dell’esperto somatico è una
figura tratta dal vocabolario tecnico del sociologo e – cominciate a farci l’orecchio... - bio-
politologo britannico Nikolas Rose. Designa un tipo di autorità presente e operante nelle
cosiddette “democrazie liberali avanzate” e competente su questioni concernenti la nostra
esistenza somatica. È un esperto dello “stile di vita” che, in quanto tale, pretende di sapere e
di istruire su come si dovrebbero vivere vite migliori. Si distingue dal semplice medico per
l’estensione (al di là della diagnosi e della terapia) delle sue raccomandazioni e del suo
intervento in un’epoca ed entro un contesto politico, sociale e culturale in cui la salute è
diventata essenziale come telos consapevole della vita di quei tanti esseri umani che sono la
sua clientela. Nel suo libro La politica della vita (2007), Rose raduna sotto questa
denominazione una pletora di figure professionali attuali, che vantano competenze le più
svariate, aventi per oggetto la gestione di aspetti specifici della nostra esistenza somatica: tra
cui “infermiere, ostetriche, assistenti domiciliari ... terapeuti psicologici, logopedisti,
ergoterapisti, arteterapeuti, fisioterapisti ... ci sono nutrizionisti, dietologi, promotori
sanitari, esperti di ginnastica correttiva, di esercizi corporei e di fitness, e tanti consiglieri di
stili di vita salutisti. E ci sono i consulenti – consulenti per le dipendenze, consulenti
sessuali, consulenti familiari e relazionali, consulenti per la salute mentale, educativi,
genetici, consulenti per la pianificazione familiare, per la fertilità e per la riproduzione” (pp.
42-43). Ora, a differenza sia dell’antropotecnica sloterdijkiana, che è categoria trans-storica
e trans-culturale (attraversa le epoche e fende le culture), sia del pastorato foucaultiano, che
è invece categoria locale e storica di lunga durata (riguarda una cultura e presenta una certa
periodizzazione), l’expertise del soma e i suoi specialisti compaiono solo in epoca
contemporanea e contestualmente alle sofisticate “tecnologie di sicurezza” e ai pervasivi
meccanismi di “governo bio-politico delle vite” delle società a democrazia liberale avanzata.
Tutte queste nebulose entità concettuali verranno adeguatamente chiarite in seguito. Qui le
parole da cerchiare in rosso sono: “politica della vita”, che traggo direttamente dal titolo del
libro di Rose, ed “esistenza somatica”.
A questo punto, prima di alzare il sipario sul quarto termine tecnico del titolo, cioè “religione”, e
quindi anche prima di spiegare chiaramente in che senso e fino a che punto l’antropotecnica, il
pastorato e gli specialismi del soma, questi tre macro-tipi o classi di fenomeni produttori e gestori di
forme di vita, sono “religiosi” (o comunque connessi alla “religione”), voglio soffermarmi
brevemente su un secondo elemento generale di differenza tra le tre formazioni culturali già
introdotte. Il primo, come ho già detto, è di carattere spazio-temporale: se dovessimo geo-
localizzare e datare i tre fenomeni, diremmo che trans-storiche e trans-culturali sono le
antropotecniche, epocale e culturalmente localizzato il pastorato, specificamente contemporanee,
per incubazione e sviluppo occidentali ma a trazione mondiale le varie expertise somatiche. Il
secondo, vistoso elemento di differenza è di agentività (o di agency, se si preferisce la parola
anglosassone che designa la capacità di un soggetto di agire in base a scelte libere e consapevoli).
Cosa voglio dire? Mentre le antropotecniche sono apparentemente volontarie e il pastorato è
oggettivamente direttivo, i nuovi esperti somatici operano entro una società che induce e, in alcuni
casi – pensiamo ai malati e alle donne –, obbliga ad assumersi la responsabilità del futuro sanitario
individuale e collettivo. Peraltro questi esperti abitano e definiscono una società in cui sono alcuni
decisori socio-politici a stabilire cos’è una questione bioetica e cosa no, quali aspetti della vita delle
popolazioni e dei singoli devono essere presi in carico e quali no. Vedremo che questi esperti, la cui
expertise è richiesta, consultata e negoziata (quanto agli effetti) dai singoli che a essi si rivolgono,
operano in una specie di zona di confine e di indistinzione tra costrizione e consenso. Tra
volontarietà e obbligo. Questo è un punto importante. Qui si apre la prima “botola”, il primo varco
extra-temporale che collega le tre nozioni tra loro e queste alla religione. Non abbiamo ancora
illustrato l’economia generale dei rapporti tra i vari protagonisti concettuali del corso, tra le
antropotecniche, le strutture del pastorato e le expertise smoatiche; non abbiamo ancora nemmeno
presentato la “religione” e spiegato in che modo qualcosa come la religione sia implicata in
determinati processi di presa in carica e gestione, di dressage e di messa in scena delle vite.
Tuttavia abbiamo già intuito che uno dei punti di accesso e di osservazione strategici dell’oggetto
del corso (appunto: “come la religione cattura, stilizza e mette in scena la vita umana”) sarà una
teoria dell’individualizzazione, cioè della costituzione dei soggetti attraverso pratiche sia di
assoggettamento sia di libertà. Questo andirivieni tra passività e attività, tra eteronomia e
autonomia, tra coazione e scelta, ci porta dritti dritti al fenomeno bio-culturale della “religione”.
d) Religione
“Che cos’è la religione?” è il titolo o l’argomento di almeno una dozzina di libri di introduzione alle
scienze delle religioni. In varie lingue. È d’obbligo, nei nostri studi, introdurre l’argomento
celebrando il carattere storicamente auto-riflessivo della disciplina e quindi ricordando che, un
secolo fa, nel 1912, lo psicologo americano James Leuba aveva enumerato giù una cinquantina di
differenti definizioni tecniche di “religione”. Il numero, nel frattempo, sarà perlomeno raddoppiato
e le varie definizioni sono andate assiepandosi sotto due grandi classi: quelle essenzialiste, che
vertono appunto sull’essenza della religione (che cos’è la religione?), e quelle funzionaliste,
interessate piuttosto a carpirne i codici operativi (come funziona la religione? A che cosa serve e a
chi?). Negli ultimi decenni, poi, anni segnati dalla critica decostruzionista (post-modernista e post-
coloniale) del concetto di religione, il quesito “che cos’è la religione?” ha come cambiato natura: da
rito interrogativo di ingresso del discorso tecnico sulle religioni si è trasformato nella domanda
provocatoria, tutt’altro che retorica, degli studi volti a suggerire e promuovere il ridimensionamento
e persino la dismissione dell’uso tecnico della parola “religione”. In quanto parola che è tanto più
analiticamente incapace e inopportuna quanto più è satura di potere e violenza: autentica “punta di
lancia” delle pratiche e dei discorsi missionar-coloniali dell’Occidente moderno. Storie grigie, storie
nere e storie nerissime, storie connesse inestricabilmente alla parola, al suo uso politico e sociale,
storie che raccontano del suo rapporto viscerale e singolare con “cristianesimo” e poi, via via, del
sua coloritura universale, stesa grazie al colonialismo. Storie, dicevo, di potere e violenza, la cui
riedizione, secondo alcuni, va esorcizzata bandendo e tabuizzando la parola. Al riguardo, se siete
interessati, posso segnalarvi i testi più significativi e influenti di questa impresa intellettuale di
liquidazione concettuale. Ma il nostro modo di aggirarci criticamente nel labirinto della religione
sarà diverso dall’esorcismo e dalla tabuizzazione dei decostruzionisti, banalmente perché io userò e
definirò la religione. Mi spiego. Quando prima ho parlato en passant di fenomeno “bio-culturale
della religione” stavo alludendo a una precisa concettualizzazione della religione che, senza
bypassare la questione definitoria, anzi proprio nell’atto stesso di definirla, ci fa fare un passo in
avanti nella direzione giusta –che poi è quella che io ritengo tale e che ho intrapreso per questo
corso. Questa concettualizzazione può essere ricondotta al religionista cognitivista Armin Geertz,
che, nel suo saggio-manifesto per una “teoria bio-culturale della religione”, riprende una sua più
antica definizione del concetto, per noi molto utile. Questa: “religione è ogni sistema culturale e
istituzione sociale che governi e promuova interpretazioni ideali dell’esistenza e prassi ideali in
riferimento a poteri o esseri transempirici (culturalmente) postulati” (2010, p. 305). Più avanti,
citando il neuroscenziato cognitivo Merlin Donald, Geertz parla della religione come del più
potente “sistema di governance cognitiva mai sviluppato” (p. 312), laddove con “sistema di
governance cognitiva” si intende uno strumento per “accedere a menti collettive e individuali e
influenzare il modo in cui vedono il mondo e si vedono l’un l’altra”. Parafrasando e assemblando le
due definizioni, possiamo decretare che le religioni sono dei sistemi di rappresentazioni e di
pratiche che fanno appello a degli esseri sovraumani e che servono a attivare determinate visioni del
mondo e della società per condurre determinate condotte nella società. Per dirla con meno caratteri
di un tweet: le religioni sono modelli di mondo che governano azioni sfruttando divinità.
Fermiamoci qui. Abbiamo introdotto i personaggi principali della mappa storica che ho allestito per
il modulo. Personaggi concettuali che saranno più o meno ricorrenti, più o meno ubiqui, ma che
rappresentano comunque snodi, soglie e indici essenziali del discorso che faremo. Quanto fin qui
detto si può riassumere, per ora, dicendo che l’oggetto del modulo sarà una sorta di vademecum
essenziale per provare a capire tre cose:
-
come le religioni come modelli teorici di mondo dotati di eccezionale forza pragmatica
arrivano a – termine cruciale – governare le nostre vite;
-
come questo governo si è storicamente prodotto, analizzando alcune formazioni culturali
particolarmente eloquenti come l’antropotecnica, il pastorato e l’expertise del soma;
-
intravedere se e come si possa uscire dal regime religioso dei cervelli e dei corpi per andare
dove.
[PAUSA]
PRIMA PARTE: ovvero il regime religioso dei cervelli. Esseri sovraumani, finzioni
memorabili, informazioni strategiche
In questa prima parte non mi occuperò ancora di come le religioni effettivamente governano le
nostre vite, ma di come si siano poste le condizioni perché vi riescano con un certo agio. Ora, che la
maggior parte degli esponenti attuali della nostra specie sia credente, che la stragrandissima
maggioranza delle generazioni precedenti lo sia stata, che anche chi oggi si dichiara ateo o
agnostico attivi più o meno consapevolmente, nella sua esistenza quotidiana, atteggiamenti e
aspettative, prassi e desideri del tutto indistinguibili da quelli dei credenti sono dati di fatto in sé
indiscutibili. L’esperienza comune qui suggerisce, immediatamente, molte più cose di quanti
argomenti io possa addurre ed esempi proporre. Non vale troppo la pena insistere su questa
evidenza empirica se non per sottolineare un aspetto su cui gli studi cognitivi sulla religione hanno
giustamente battuto, perché si presta e si è prestato a fin troppi equivoci: ciò che ci viene naturale,
ciò per cui sembriamo predisposti e, in parte, persino programmati non è “la religione” come
sistema, ma qualcosa che per il momento ci accontenteremo di chiamare “il religioso” e di
qualificare come atteggiamento e comunicazione di questo atteggiamento. Questa prima distinzione
tra la religione, come sostantivo, e il religioso, come aggettivo sostantivato, è molto più che
retorica. È fondamentale e sostanziale per due ragioni. La prima, intuitiva – che possiamo
cominciare a visualizzare, perché anche su questo l’esperienza quotidiana è di nuovo eloquente, più
delle mie parole – è che, mentre tratti comportamentali e culturali definibili come religiosi si
trovano anche al di fuori di ciò che convenzionalmente rientra nel dominio della religione
(pensiamo agli scongiuri, alle imprecazioni, ai piccoli rituali domestici, sportivi, sociali), le religioni
da parte loro incorporano anche elementi non strettamente religiosi (artistici, architettonici, legali
ecc.). La seconda ragione, che spiega anche la prima, quella intuitiva, è che tra il religioso e la
religione ci passa un bel pezzo di quella che tecnicamente si chiama la “storia profonda” e che
designa la storia, convenzionalmente preistorica, di come si è costituita ciò che un tempo si sarebbe
detta la “struttura umana”: il software fisico e psicologico che oggi noi esibiamo. Diciamo, in breve,
ma lo vedremo subito, che l’atteggiamento e la comunicazione religiosi compaiono assai prima
delle religioni e che la comparsa di un regime religioso delle menti e dei corpi precede logicamente
e cronologicamente l’affermazione delle religioni come sistemi strutturati di governo delle vite. Il
punto per noi fondamentale, per cui ci rivolgiamo alla storia profonda, è che non si può capire come
una religione come “sistema di governance cognitiva” – per riprendere la definizione di Geertz –
effettivamente ci governi, se non capiamo come si è creata e sviluppata la nostra cognizione
religiosa: quel modo propriamente religioso di vedere il mondo, noi stessi e gli altri, che è in larga
parte naturale, perché basato su meccanismi cognitivi che la selezione ha plasmato e premiato, e che
le religioni storiche, vecchie e nuove, hanno tutte cooptato ai loro fini. Si tratta di capire, in pillole,
come si sia formato il nostro modo religioso di pensare e perché proprio questo nostro credulo
cervello, col suo set formalmente molto ampio ma grammaticalmente assai standardizzato di
convinzioni e azioni in merito al divino, sia stato premiato rispettivamente da due tipi di selezione:
la selezione naturale e la selezione culturale. Cioè, in sostanza, la selezione che decide quali
esemplari fisici riescono a riprodurre e trasmettere a quanta più discendenza possibile il proprio
patrimonio genico e quali no (selezione naturale), e la selezione che determina quali idee e
rappresentazioni hanno più possibilità di essere ricordate, comunicate, immagazzinate e trasmesse e
quali no (selezione culturale). Per dirla con uno slogan: noi, esemplari attuali di HS siamo “nati per
credere”, ma i nostri antenati hanno probabilmente creduto per sopravvivere. L’atavismo
superstizioso di oggi potrebbe – dovrebbe – essere stato l’asso cognitivo nella manica di ieri.
Immagino che su questi temi Giorgio Vallortigara abbia speso molte e più precise parole delle mie.
Mi limiterò pertanto all’essenziale e al pacifico in questa mia spiegazione della genesi del
comportamento religioso come atteggiamento naturale. Diciamo che esiste oggi una sorta di
consenso di fondo tra tutte le cosiddette “teorie biologiche (o darwiniane) della religione” su una
mini-storia dell’origine delle credenze religiose. Farò riferimento a quella. In sostanza, le teorie
biologiche si distinguono da quelle non biologiche per il fatto che cercano di spiegare la religione
come modo per risolvere problemi evolutivi in ambienti ancestrali. Ebbene, le varie teorie
biologiche della religione sostengono concordemente che il fatto credere in alcuni esseri
minimamente controintuitivi, capaci di agire e di farci agire bene, fornendoci cioè informazioni
esistenzialmente strategiche, sia stato fondamentale per risolvere alcuni cruciali problemi
evolutivi in un ambiente preistorico oggettivamente ostile. Ossia, in fondo, per sopravvivere e
riprodursi in quelle condizioni. Potrei azzardarmi a dire che la formula magica, non delle religioni,
ma del religioso, è questa:
R = HADD + MCIC + SI
Una cosa alla volta. HADD è la sigla inglese di “Hyperactive agent detection device”, cioè
“sistema di riconoscimento di agenti iperattivo”. L’ha ideata, se non sbaglio, lo psicologo
cognitivo Justin Barrett ed è una cosa molto più semplice di quello che il suo nome fa temere. Si
tratta di un impulso (output) che dà luogo a un atteggiamento che è oggi naturale e innato,
automatico e universale e che consiste nell’interpretazione di stimoli (input) ambigui e di origine
oscura come effetti di azioni attribuibili alla volontà di agenti razionali invisibili. Questa è la
ragione per cui noi ancora oggi tendiamo ad attribuire di primo acchito attività, intenzionalità e
razionalità pratica a qualunque cosa in movimento violento, inatteso o improvviso. Il nostro sistema
percettivo si è sviluppato in modo tale da dotarci di una disposizione spontanea iperattiva ad andare
in cerca di agenti, capaci come noi di volontà, sentimenti e razionalità, ovunque percepiamo azioni
e movimenti. In altri termini, come ha detto il “mitico” filosofo della biologia Telmo Pievani: Homo
sapiens è una macchina costruita per attribuire stati intenzionali al mondo esterno. Siamo portati a
pensare che tutto ciò che si muove abbia una causa, e se qualcosa che non dovrebbe muoversi, o il
cui movimento percepiamo ma non abbiamo visto partire o comunque non sappiamo identificare,
improvvisamente si muove, allora vuol dire che è agito da qualcuno che, come noi, vuole, sa e
spera. Nulla è per caso: il caso non ci piace. Ora voi capite che le energie spese per ogni falso
allarme (il fruscio della foglia invece del respiro del predatore, il vento invece della freccia) sono il
prezzo pagato per ogni pericolo effettivo scampato. Il principio che regola l’HADD, il “meglio salvi
che dispiaciuti”, è costoso perché ci porta, prima che alla superstizione, all’ipersensibilità per i
“falsi allarmi” Ma si dà il caso che proprio questi falsi allarmi, come è stato scritto dal filosofo
americano Daniel Dennett, siano come “gli irritanti attorno a cui si sono formate le perle della
religione”. Vediamo come.
Di per sé l’HADD è in grado di riconoscere agenti invisibili, agenti segreti: non divinità. Perché
l’atteggiamento religioso possa nascere dall’atteggiamento intenzionale serve che almeno alcune di
queste azioni volontarie tendano a venire attribuite ad alcune entità, aventi determinate
caratteristiche. Ed è qui che entra in gioco il secondo elemento della formula magica del religioso,
l’MCIC, il concetto minimamente controintuitivo. In questo caso lo studioso di riferimento è
senz’altro l’antropologo francese Pascal Boyer. Pare che il nostro cervello abbia un debole, oltre
che per captare intenzioni, anche per le proposizioni contro-intuitive, che impieghiamo di più a
memorizzare ma che, una volta stoccate, si fissano meglio e decadono più lentamente di quelle
intuitive, ovvie, banali. Ma, a dire il vero, quelle che predilige di più non sono i guazzabugli
assurdi: sono determinati tipi di combinazioni concettuali non intuitive ma più facili da ricordare
delle combinazioni astruse, perché, appunto, minimamente controintuitive. Cosa vuol dire? Si tratta
di idee composte che si caratterizzano per il fatto di violare solamente una o due delle assunzioni di
base che tutti noi abbiamo naturalmente in relazione ad alcune categorie ontologiche, biologiche e
psicologiche fondamentali, come persona, animale o pianta, e strumento. Una pietra che parla è, ad
esempio, una nozione minimamente controintuitiva perché viola solo una delle assunzioni
spontanee di base relative a quella categoria: si tratta di una pietra che in più, come una persona,
parla. STOP. Una pietra invisibile fatta di pane e che parla è un’informazione assai interessante,
certo più della pietra fatta di pietra e che sta ferma, ma è troppo difficilmente classificabile e troppo
insensata perché la nostra attenzione, che è sempre stata una risorsa dispendiosa e finita, abbia il
potere di registrarla; è un’informazione troppo lussuosa perché il nostro ricordo possa trattenerla per
un tempo sensibilmente superiore a quello dello stupore e del divertimento che ci provoca; troppo
sgargiante perché si trasmetta da mente a mente senza sgretolarsi. Insomma, troppo cognitivamente
costosa in un ambiente ancestrale e poco rilassante, in cui i costi vanno centellinati.
A questo punto dovrei riferire tante altre cose, che preciserebbero, sfumerebbero e
complicherebbero la traiettoria fin troppo lineare e rozza del nostro ragionamento. Ad esempio – ne
dico solo una – va precisato che quando l’essere umano, nel suo sviluppo tecnologico, arriverà a
disporre di memorie esterne, supporti che alleggeriscono i costi della memorizzazione interna, le
combinazioni più incredibili conosceranno la loro rivincita: sono infatti quelle che rendono più
saliente, più interessante e quindi più replicabile una storia la cui sopravvivenza a questo punto non
dipende più solo dalle mie prestazioni mnemoniche “interne”. Questo spiega perché in tutte le
narrazioni religiose attualmente disponibili e verificabili la rilevanza dei concetti minimamente
controiuntuitivi diminuisce. Ma non posso dilungarmi oltre su questo, perché devo correre a
introdurre il terzo ingrediente della formula magica del religioso: quello che fa sì che da una
tendenza iperattiva ad andare in cerca di agenti e da un dispositivo per la produzione di entità
fittizie fascinosamente ricordabili si generi qualcosa come un atteggiamento religioso. Cioè appunto
una credenza, ossia un investimento, oltre che di attenzione, anche di fiducia, di speranza, insomma
un’apertura reale di credito verso alcune di queste idee-agenti. Torniamo all’esempio di prima. Una
pietra che parla per raccontare barzellette e una che parla per avvertirti che domani diluvia e che tua
madre è in pericolo non sono due pietre dallo stesso valore. La prima comunica un fatto spassoso
ma inutile, la seconda fornisce un’informazione strategica (SI = strategic information). Alla prima
non ha senso credere, credervi non è una reazione pertinente, alla seconda sì. Dal successo della
credenza nella seconda può significativamente dipendere – per riprendere le parole di Sloterdjikk –
la possibilità di immunizzarmi dinnanzi a rischi per la propria vita e a profonde certezze di morte.
Ne va, in altre parole, della mia vita, o per dirla in termini darwiniani, della mia fitness come
“abilità di sopravvivere e riprodurmi in un dato ambiente”. A quella pietra parlante è opportuno,
pertinente, vivamente consigliabile che io creda. E quanto più opportuno allora, scegliendo sempre
tra i concetti minimamente contrintuitivi, è credere all’anima parlante di mio nonno morto, che
conosce la mia storia, mi ama e mi dà consigli, esattamente come faceva in vita.
Mi fermo qui. Perché mi pare che da qui in poi il consenso, nelle teorie biologiche, cominci a
sgretolarsi, le teorie stesse si fanno intricate e discordi: si divaricano allorché il peso esplicativo
dell’organizzazione sociale, della differenziazione sociale, della divisione sociale del lavoro, della
strutturazione politica del potere interviene pesantemente a complicare e a diversificare il contesto
ambientale in cui si formano le credenze: un milieu che non c’è più in nessuna parte del mondo e
che non può essere ricostruito se non tramite delicati esercizi ed esperimenti di ingegneria inversa:
i più famosi sono quelli sulle credenze dei bambini per vedere in opera quelle strutture ataviche
della percezione e della cognizione che ho detto e immaginarsi il perché e il come della loro
insorgenza e della loro riproduzione. Dicevo che mi fermo qui, appena varcata la soglia delle
informazioni strategiche fornite dagli agenti invisibili, perché da questo momento in poi, la pesante
struttura di governance delle religioni, il loro hardware, comincia a premere e a pesare sempre più
fortemente sul software, il regime religioso dei cervelli; di qui in avanti i vincoli della selezione
culturale si impongono su quelli della selezione naturale confermandoli o contraddicendoli; di qui
in poi le teorie biologiche della religione, fondate sul darwiniano problem solving in ambienti più o
meno ancestrali, richiedono di essere integrate con spiegazioni non biologiche, che presuppongono
scenografie sociali già più diversificate e complesse: quelle che, ad esempio, si focalizzano su come
alcuni individui (o categorie di individui) di prestigio socio-religioso o socio-politico, sfruttando
precisi meccanismi cognitivi, possano diffondere e imporre le proprie rappresentazioni a scapito
di altre a loro meno favorevoli.
Pertanto, per quanto riguarda il regime religioso dei cervelli, quel software atavico che ci rende
macchine naturalmente programmate per credere a degli agenti invisibili e segreti, mi fermerei qui.
R = HADD + MCIC + SI. Questa formula si limita a descrivere quella che possiamo definire come
la posizione cognitiva ottimale che una data rappresentazione è chiamata a occupare se vuole avere
buone possibilità di generare un atteggiamento religioso in chi l’ha concepita, ascoltata, riferita.
Essa ci rende sensibili, esposti alla credenza come atteggiamento naturale. Il risultato è che la
finzione che la occupa può sperare di riprodursi come finzione religiosa. La finzione religiosa che si
riproduce può sperare di essere integrata, se non funzionalmente cooptata, convertita e riciclata in
una religione. La religione che la integra, addomesticandola all’interno di una determinata struttura
di potere, ha ottime possibilità di addomesticarci e di governarci.
[PAUSA]
SECONDA PARTE: dal regime dei cervelli alla disposizione dei corpi. Lo sciamanesimo e la
divisione del lavoro religioso
Adesso, con un passaggio che può sembrare brusco ma che è inevitabile, passerò ad analizzare una
configurazione religiosa particolare, che tutti conoscete almeno di nome. Essa per costituirsi ha
certamente goduto dei presupposti cognitivi di cui abbiamo appena detto, e forse di altri ancora. Ma,
oltre ad aver cooptato alla perfezione quel regime dei cervelli, evoluzionisticamente premiato e
geneticamente trasmesso, che abbiamo appena abbozzato, ha orchestrato anche un regime dei
corpi: una disciplina degli statuti, delle posizioni e delle prestazioni corporee. Per mostrare come la
disposizione (e differenziazione) religiosa delle menti ingrani perfettamente con la disposizione (e
differenziazione) religiosa dei corpi, mi servirò dello sciamanesimo.
Ho scelto di utilizzare come esempio lo “sciamanesimo” per almeno tre motivi. In primo luogo
perché, come per il concetto di “religione”, si tratta di un caso eccellente di concetto “analitico
comparativo e transculturale”: cioè di una nozione entrata nel linguaggio specialistico della
disciplina scientifica per comprendere e comparare tra loro fenomeni religiosi formalmente
analoghi riscontrabili in culture tanto lontane quanto differenti (dalla Groenlandia al Mesoamerica,
dal Giappone all’Africa centrale). Pensate che “sciamanesimo” è stato additato già nel 1903 da
Arnold van Gennep, etnologo francese tra i padri canonici dei Religious studies, come parola “tra le
più pericolose” del lessico nascente delle scienze religiose. Tuttavia, proprio per questa sua comoda
vaghezza, come religione, sembra non se ne possa fare a meno per descrivere comprensibilmente e
comparativamente determinate fattispecie religiose. In secondo luogo, lo sciamanesimo è
interessante come esempio, perché è stato per molto tempo e ogni tanto è ancora (temerariamente)
considerato come una sorta di Ur-religion, di “religione primordiale”, per quella sua ubiquità e per
quella sua elementarietà dei tratti che tutti voi potete facilmente figurarvi se pensate a uno
sciamano. Quando una volta si andava febbrilmente in cerca delle “religioni elementari” per capire
l’origine, la formazione, insomma la verità delle religioni storiche complesse, lo sciamanesimo,
insieme al totemismo, erano i candidati d’eccellenza. Ma c’è un famoso e astuto detto di Marx che
mi piace molto e che quasi deride questo radicato primitivismo (e populismo) etnografico. Recita
così: “l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia”, a voler significare che, a
differenza di quel che si è portati a credere, sono talora le forme più complesse della vita sociale a
racchiudere il principio di comprensione delle più rudimentali. Dunque, se volete capire il principio
di funzionamento dello sciamanesimo, prendete il sacramentalismo cristiano e non viceversa!
Guardate allo sciamano, che vi presenterò per ragioni di priorità logica e cronologica, oltre che per
esigenze di organizzazione del discorso, avendo in mente il magari più familiare prete cattolico. Vi
risulterà molto più utile e inoltre questo procedimento di “ingegneria inversa” (dal complesso al
semplice) è un esercizio mentale che, se usato con cautela e rigore, non smentisce il principio
metodico dell’“astronomia culturale”. Guardandolo dall’alto, il prete sfuma nello sciamano e fa
capire qualcosa dello sciamano che altrimenti non si vedrebbe. Infine – terzo motivo – ho scelto lo
sciamanesimo perché e soprattutto perché mi consente di mostrare, con una certa semplicità e con
altrettanta evocatività, come un’antropotecnica – ecco che iniziamo a giocare con questa parola... –,
cioè un’acrobazia estatica insieme fisica e mentale, funzioni anche come un dispositivo di realtà:
ossia come uno strumento per disporre, collocare, sistemare, ordinare gerarchicamente dei corpi nel
modello di mondo che essa configura. Un modello di mondo che solo in minima parte è ricopiabile
e scaricabile dai nostri cervelli, ma che per il resto è plasmato, rappresentato, fissato nelle strutture
sociali e quindi, a quel punto, incorporato, duplicato e fatto operare come struttura mentale, schema
di visione e divisione della realtà disponibile a essere replicato ad libitum.
Ora ho scelto una lunga definizione/descrizione del fenomeno sciamanico che aiuta moltissimo a
visualizzare tutto ciò. Benché l’abbia tratta da un articolo iper-specialistico, firmato da uno dei
massimi esperti attuali sull’argomento, è molto semplice. Recita così:
“Lo ‘sciamano’ è uno specialista religioso che, nel contesto di un rituale, ha l’abilità di viaggiare verso un
mondo non-umano (soprannaturale) per entrare lì in comunicazione diretta con esseri sovrannaturali
(divinità, spiriti ecc.) e quindi ritornare nel mondo umano. Un mondo soprannaturale costituisce uno spazio
che gli esseri umani ordinari, cioè gli individui privi di un dono speciale e di una conoscenza esoterica, non
possono normalmente raggiungere in vita. Lo spazio sovrannaturale (non-umano) non designa
necessariamente un mondo superiore o inferiore; può anche riferirsi ad altre categorie spaziali culturalmente
definite alle cui gli esseri umani di norma non hanno accesso. In ogni caso, lo sciamanesimo presuppone che
l’‘anima’ o qualche sorta di sostanza contenuta nel corpo dell’essere umano possa lasciare il corpo per
viaggiare in queste regioni sovrannaturali durante stati di incoscienza di vario genere (sogno, sonno o
malattia). Questo viaggio è pericoloso perché i non specialisti religiosi non conoscono la geografia del
mondo sovrannaturale o possono essere rapiti da esseri sovrannaturali ostili, cosa che impedirebbe
all’‘anima’ di fare ritorno. In questi casi essa deve essere recuperata dalle regioni non-umane e salvata da
uno specialista religioso, cioè dallo ‘sciamano’. Il viaggio extra-ordinario dello sciamano è di conseguenza
intrapreso per il bene di altri individui o della comunità”
Non so davvero da dove cominciare per commentare questo brano che, forse anche a sua insaputa, è
davvero densissimo. È una specie di aleph del mondo religioso: come nel racconto famoso di
Borges, è come aver trovato un punto nascosto in cantina dove si trovano “tutti i luoghi della terra
(religiosa), visti da tutti gli angoli”. Comincerei col segnalare tutte le opposizioni che questo testo
attiva o presuppone, sapendo che potrei essermene persa qualcuna per strada. Il sistema di
opposizioni che la configurazione sciamanica presuppone e dispiega. La prima, subito fortissima:
specialista religioso vs. uomo ordinario. La seconda: azione rituale vs. atto quotidiano. La terza:
comunicazione diretta vs. comunicazione mediata. La quarta: esseri sovrannaturali vs. esseri
naturali. La quinta: mondo umano vs. mondo non-umano. La sesta: anima vs. corpo. La settima:
individuo vs. comunità. Per tornare un secondo al discorso di prima, faccio notare che, mentre la
quarta, la quinta e probabilmente la sesta opposizione (l’idea di qualcosa come un’anima, distinta e
autonoma dal corpo) hanno probabilmente una forte base naturale e biologica, e laddove al
contrario la prima e l’ultima presuppongono l’esistenza di una (perlomeno embrionale)
differenziazione strutturale della società, che non è risolvibile ed esplicabile col focus biologico, la
distinzione azione rituale – atto quotidiano è proprio l’esempio perfetto di crocevia e di feedback tra
output dell’evoluzione biologica ed effetti dell’evoluzione culturale. Le teorie naturali (darwiniane)
del rito ci sono, ovviamente, e sono assai più recenti di quelle socio-culturali, che sono letteralmente
alla base della storia canonica della disciplina “scienze delle religioni”. Ma il punto decisivo è che
nessun rito religioso attualmente praticabile e osservabile, e nessun rito documentato in generale, è
significativamente esplicabile se non si ricorre a entrambi i tipi di spiegazioni. Chiusa parentesi.
Tornando alla definizione di sciamano, faccio notare che gli esseri sovraumani, che prima abbiamo
visto semplicemente muoversi nello spazio, ora assumono uno spazio; gli esseri sovrumani, che
prima abbiamo visto semplicemente agire, ora prendono servizio. All’interno della configurazione
sciamanica gli esseri sovraumani extra-ordinari vengono disposti nel mondo non-umano e possono
essere consultati dagli esseri umani ordinari, che stanno nel mondo umano e che consultano, per il
tramite essenziale dello “sciamano”, essere umano extra-ordinario. Guardate come opera lo
sciamanesimo sul doppio e correlato piano del regime dei cervelli e della disposizione dei corpi: se
credi nello sciamano – come fa per primo lo sciamano medesimo, che crede in se stesso, secondo
quel meccanismo circolare che Claude Lévi-Strauss, il grande antropologo, ha chiamato il
“complesso sciamanico” – ti disponi su tre livelli, coordinati e correlativi: 1) ti disponi come essere
umano che sta al suo posto nel mondo umano; 2) ti disponi come essere umano ordinario (privo di
status sciamanico) che sta al suo posto nello spazio sociale; 3) infine ti disponi come “cliente” (non
specialista) che sta al suo posto nello spazio rituale. Una triplice scaffalatura religiosa della realtà
(io uomo, io uomo comune, io uomo comune bisognoso di servizi religiosi) si delinea, si irradia e si
struttura a partire da questa semplice divisione del lavoro religioso: io sciamano, tu no. La
verticale dello sciamanesimo è quindi un’antropotecnica differenziale, una prestazione acrobatica
che può congiungere i mondi e gli esseri dei mondi solo assicurandone la corretta distinzione, e
viceversa. Osservato come antropotecnica, lo sciamanesimo si rivela come dispositivo che assegna
posti, ruoli, statuti, opportunità, limiti. Mostra anche che l’ottimizzazione dello status immunitario
del praticante (lo sciamano), cioè il potenziamento del suo benessere, della sua possibilità di
preservare la vita e differire la morte, dipende direttamente dalla possibilità di immunizzare gli altri,
una volta convinti di non potersi immunizzare da sé. Dietro un’antropotecnica – questo ci insegna
lo sciamanesimo – ci può essere una divisione del lavoro religioso e dunque un autentico furto di
risorse religiose: uno spossessamento originario di condizioni religiose di esistenza, cui segue una
ripartizione e una rassegnazione iniqua. Vedremo verso la fine del corso che è vero anche il
contrario, ossia che, per reagire ai monopoli e spezzare i dispotismi religiosi, cioè per ri-
spacchettare il lavoro religioso e rifare la scaffalatura del mondo, si muoveranno delle
antropotecniche.
Lo sciamanesimo mi serviva fondamentalmente per dire questo. Spero a questo punto di aver
centrato almeno in parte il duplice obiettivo di questa prima giornata: a) spiegare, in primo luogo, in
che senso le religioni possono integrare e magari cooptare e convertire ai propri fini un regime
cognitivo universale, che è geneticamente ereditato, è programmato per fabbricare un certo tipo di
credenze ed è dunque predisposto a ospitare determinati contenuti culturali di tipo religioso – ora
quanto e fino a che punto questo sfruttamento, da parte della religione, di meccanismi religiosi
configuri una vera e propria operazione di cooptazione, conversione e riciclaggio funzionale
(exaptation); e se questa operazione sia avvenuta e avvenga ancora a vantaggio o a detrimento
dell’individuo e dei gruppi sono due esempi classici di questioni ancora ampiamente dibattute e
comunque non affrontabili in termini generali; b) in seguito, si trattava di mostrare, tramite
l’esempio dello sciamanesimo, come un’antropotecnica religiosa elementare, esercitata da pochi
virtuosi, sia anche un potentissimo strumento per disporre e collocare al loro posto, nello spazio
cosmico, nello spazio sociale e nello spazio rituale, molti individui ordinari. Ora, nel tempo che
resta, ripartiremo da qui, riprendendo e precisando questa azione della religione come dispositivo;
con un flash, grazie a una semplice immagine, vedremo il dispositivo religioso manifestarsi
brevemente nella forma del rito. Si tratta di un’anticipazione, dato che domani ci toccherà
approfondire la gamma dei dispositivi religiosi, andando ad analizzarli più dettagliatamente con gli
esempi della legge, della regola e della verità su di sé. Prima di congedarci, dirò qualcosa di – spero
– non platealmente banale sulla forza dei dispositivi.
TERZA PARTE: il dispositivo e la scenarizzazione religiosi.
Riprendiamo il nostro discorso esattamente dove l’avevamo lasciato: sulla concettualizzazione e
sull’analisi dell’azione della religione come dispositivo. Il termine di “dispositivo”, oggi
letteralmente esploso nel discorso tecnico e comune, come spesso è capitato con le parole inventate,
o più spesso recuperate, declinate e ridefinite in senso problematico e critico da Michel Foucault, è
stato così definito dal filosofo italiano Giorgio Agamben. Filosofo nostrano tra i più letti e tradotti
all’estero, che ha insegnato peraltro proprio qui a Venezia. Questa la definizione di Agamben:
“Io chiamo dispositivo tutto ciò che, in un modo o nell’altro, ha la capacità di catturare, orientare,
determinare, intercettare, modellare, controllare e fissare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli
esseri viventi. Non solo dunque le prigioni, gli asili, i panottici, le scuole, la confessione, le fabbriche, le
discipline, le misure giuridiche [qui A. sta elencando tutti i dispositivi effettivamente studiati da F.], la cui
articolazione con il potere è in un certo senso evidente, ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la
filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, i computer, i telefoni cellulari e, perché no, il linguaggio stesso, forse il
più antico dispositivo nel quale, ormai da molte migliaia di anni, un primate, probabilmente incapace di
rendersi conto delle conseguenze che lo attendevano, ebbe l’idea di farsi prendere”.
Una bellissima definizione, degna di quell’eccellente pensatore che è Agamben. Come intuirete,
però, l’eccellenza della definizione, che è anche la ragione per cui A. l’ha forgiata, sta nella sua
fondamentale vaghezza, che la ridondanza sia dei verbi all’infinito che determinano la capacità del
dispositivo sia dei nomi comuni che esemplificano i vari dispositivi non fa che accentuare.
Agamben ci vuol dire che, a prender sul serio la parola che sta definendo, l’essere umano si trova
letteralmente immerso in dispositivi, il più ancestrale dei quali è quello con cui nomina tutti gli altri:
il linguaggio. Non dice però “immerso” in dispositivi, dice giustamente “preso”, cioè “ghermito”,
“catturato”. E non a caso. I dispositivi prima ci catturano (primo verbo), poi ci orientano (secondo
verbo) e quindi ci fissano (ultimo verbo) in azioni, pensieri e discorsi. Noterete che, venendo a noi,
di tutti gli esempi fatti solo uno, cioè la confessione – su cui torneremo e che è stata ampiamente
studiata, direi dissezionata da Foucault – ha una chiara e riconoscibile matrice religiosa. Noterete
anche che l’elenco meriterebbe di essere integrato con un esemplare di dispositivo che A. non
nomina ma la cui costituzione è, se non precedente, perlomeno correlativa e parallela a quella del
linguaggio: sto alludendo al nostro ipertrofico cervello quale clamoroso dispositivo che, come un
utilissimo perché flessibile coltellino svizzero, adatta ancora a ogni evenienza, e alla bisogna, lame
e lamette ataviche, di centomila anni fa, impostate per risolvere altri problemi. Il nostro cervello
tuttora preferibilmente ci cattura in alcune percezioni, visioni e pensieri (escludendone di primo
acchito altri), preferibilmente ci orienta, ad esempio, verso determinate interpretazioni e letture
della realtà (escludendone in prima battuta altre), possibilmente ci fissa in determinati
comportamenti (perlomeno complicando e svantaggiando la stabilizzazione di altri). Perché dico
questo? Perché quando il cognitivista Robert McCauley, in un suo famoso libro di tre anni fa,
titolava che la religione – ma io direi, capite, il “religioso” – è naturale e la scienza (cioè
l’atteggiamento scientifico) non lo è, intendeva proprio mostrarci come lavora il dispositivo
religioso che è il nostro cervello, rifiutando di primo acchito le spiegazioni di tipo scientifico.
Dunque, aggiungiamo pure il cervello umano all’elenco dei dispositivi fatto da Agamben e
qualifichiamo pure come religiosa una delle principali scene in cui da millenni ci cattura, ci orienta
e ci fissa. Una scena alquanto minimale, si intende, un canovaccio religioso piuttosto vago, perché
in tutto il resto, come ha mostrato già il nostro sciamano, ci siamo felicemente o tragicamente
infilati da soli, battendo altre strade che l’evoluzione per selezione naturale di suo non prescriveva.
Ora per mostrare all’opera un dispositivo di tipo religioso, posso fare l’esempio piuttosto canonico
di un rito, di un’antica cerimonia pubblica greca (poniamo: ateniese), un rituale all’incirca di fine V
secolo a.C. Diciamo l’età di Socrate, per intenderci. Socrate, il giorno delle Panatenee, la principale
festa religiosa della sua città, che se non sbaglio cadeva a ogni fine luglio, vedeva grossomodo
questo spettacolo:
“Un nugolo di uomini si avvia con passo cadenzato verso il tempio per onorare gli dei. Il loro procedere è
scandito dall’intonazione di una preghiera, le loro voci si confondono nel canto. Non sono ancora individui,
sono piuttosto un flusso, un ritmo, una melopea di parole. Un solo inno, che celebra la Gloria divina, li
muove insieme (li com-muove). Come in una danza, ogni movimento del corpo, ogni gesto, si ripete in
un’armonica modulazione, segnando l’incedere comune, un passo dopo l’altro. Poi, improvvisamente,
giunge la Domanda. Cade come un fulmine. Secca, oltraggiosa, tremenda: “Perché andate a onorare gli
dei?”. È una voce fuori dal coro, un’interferenza nel salmodiare, una perturbazione lungo il cammino. Al suo
sopraggiungere, il gruppo do uomini si arresta all’improvviso e, come di contraccolpo, fa un passo indietro.
La Domanda interrompe il canto, spezza il ritmo, sospende la prassi”
C’è un termine da poco inventato da un filosofo politico francese di nome Yves Citton che
visualizza molto bene il processo in atto: è “scenarizzazione”. È termine un po’ barocco ma utile
perché è iper-teatrale, come si addice a questa immagine, e perché contiene insieme l’idea di una
sceneggiatura, di una scenografia e di un effettivo potere di induzione all’assunzione scenica di
ruoli, posizioni e comportamenti all’interno di cornici narrative; cornici che permettono, una volta
attivate, di condurre le condotte degli esseri umani. Diciamo quindi che una cerimonia religiosa,
come quella qui descritta e fittiziamente interrotta, è un ottimo esempio di come un rito religioso (in
questo caso, un rito inerente alla religione civica della polis greca Atene) funzioni da dispositivo
religioso di scenarizzazione. Dico “dispositivo religioso di scenarizzazione” e non “dispositivo di
scenarizzazione religiosa”, perché, come l’esempio dello sciamano ha mostrato, la scena in cui sono
posto e fatto agire non è necessariamente e unicamente una scena religiosa, come una processione o
una messa: anche dentro una processione come questa, o una messa, le scene in cui la mia religione
mi pone sono molte di più: sono antropologiche (gli animali sono esclusi), sono di genere (donne e
uomini in posti diversi), sono sociali (i dominanti davanti, i dominati dietro), ecc. Prima di passare
domani ad analizzare tre dispositivi strategici di scenarizzazione religiosa, tre strumenti assai
familiari con cui le religioni catturano, orientano e fissano, voglio solo premettere due cose che
questa scena mi ha suggerito. Perché il quadro non risulti più plumbeo del dovuto. La prima: il fatto
che Socrate – immagino conosciate la sua vicenda, che in questa descrizione è stata come riassunta
e “romanzata” – possa estraniarsi dalla scena, osservarla da un ipotetico, osceno fuoriscena, persino
criticarla (appunto: “perché onorate gli dei?”), significa banalmente che ai dispositivi religiosi si
può sfuggire. Si può resistere. La loro presa non è né totale, né implacabile, né incondizionata. Il
fatto che Socrate, scampato al dispositivo religioso, incappi mortalmente in quello giuridico
(condannato a morte per empietà), dipende appunto dai rapporti, storicamente determinati, tra
dispositivi religiosi (cerimonia religiosa pubblica) e dipositivi giuridici (leggi). Seconda
osservazione, più articolata: quando mi capita di dire, per comodità ed esigenze di sintesi, che una
religione (o un rito) dispone, cioè cattura, orienta e fissa comportamenti e pensieri, ovviamente non
intendo assegnare al soggetto “religione” o al soggetto “rito” il ruolo di un vero e proprio soggetto
agente. Non c’è nessun signor “rito” e nessuna signora “religione” che ci dispone. Ci sono invece
dei signori – più raramente, delle signore – che dispongono la religione e i suoi riti in modo tale che
questi dispongano, in modo e in misura diversa, loro e noi. Intendo dire che, quando, come in
questo caso, lo spazio e il lavoro religiosi appaiono strutturalmente differenziati, quando cioè la
verticale della differenziazione ontologica e attributiva tra esseri umani e sovraumani, tra azioni
umane e azioni divine, tra vicende umane e vicende divine, risulta connessa e raddoppiata dalla
gerarchia delle differenze qualitative tra persone (specialisti religiosi e non specialisti) e tra sfere o
luoghi (spazi sacri e profani), allora vuol dire che qualcuno, qualche addetto alla religione che
guarda caso è anche uno adatto a gestirla, ha cominciato a disporre della religione per conto terzi e
a beneficio in prima istanza suo e di altri. Nel caso di religioni territoriali o universali consolidate
(pensiamo all’Atene e alla Roma antica, all’India vedica, alle chiese confessionali di età moderna),
questi altri sono, in genere, quelle che, con termine antico ma mai desueto, si chiamerebbero “classi
dominanti”. In alternativa, nel caso di nuovi movimenti religiosi (religioni new age, religioni di
internet e in internet, ma anche il cristianesimo e l’islam delle origini) sono perlopiù clientele sociali
specifiche e strategiche. Insomma, come ebbe a dire un grande sociologo e filosofo francese del
secolo scorso, Pierre Bourdieu, le religioni e le loro teo-dicee sono sempre delle “socio-dicee”, cioè
dei sistemi di pratiche e rappresentazioni pensati e fatti ora per affermare ora per consolidare,
sempre per provare a giustificare e a consacrare le proprietà specifiche e il potere sociale di una o
più platee sociali. Non è necessario che chi amministra la religione sia consapevole di questa sua
funzione di rafforzamento simbolico di un ordine sociale costituito o comunque di un’istanza
sociale costituentesi. La struttura del sistema religioso tradisce l’identità dei suoi principali
beneficiari o dei suoi esclusivi referenti di più e meglio di quanto non faccia la parola pubblica o
l’operare privato dei suoi amministratori. Tutto ciò, in definitiva, è stato rapidamente aggiunto solo
per dire che dalle religioni, che qualcuno ha storicamente modellato e formattato come mistiche
cassette degli attrezzi che catturano, orientano e fissano stili di condotta e di pensiero, si può per
principio sfuggire, resistere, opporre un altro racconto, un’altra storia, un altro modello di
mondo e di condotta. Per principio non vuol dire poterlo o volerlo per forza. Il come sfuggire, il
come resistere è un’altra storia.
Bene. A questo punto mi fermo. Domani, come promesso, analizzeremo brevemente due dispositivi
religiosi: la legge e la regola. Nell’operare questa scelta ovviamente trascureremo l’analisi di altri
dispositivi generalmente inerenti ai sistemi religiosi di governance cognitiva e sociale: il linguaggio
in primis, il mito e il rito (che abbiamo visto solo di sfuggita con l’esempio delle Panatenee). Ci
concentreremo sulla legge e sulla regola non solo perché in sei ore e mezza non si può dire tutto, ma
anche per delle ragioni meno triviali, meno burocratiche, che attengono all’itinerario scelto per il
nostro viaggio. Partiremo studiando le differenze e i rapporti tra legge e regola come dispositivi
religiosi di cattura, orientamento e stabilizzazione dei pensieri e delle azioni umane in riferimento a
una coppia di sistemi religiosi specifici. Perché dobbiamo necessariamente lavorare su degli esempi
e perché sono gli esempi che personalmente conosco meglio. Mi riferisco al giudaismo antico e al
cristianesimo antico. Domani ci occuperemo anche di che cosa accade quando un dispositivo
religioso, anzi una summa di dispositivi religiosi, assurge non solo genericamente ed
estensivamente a governo delle vite, ma propriamente e tecnicamente ad arte di governo delle vite;
vedremo infine cosa succede quando un sistema integrato di meccanismi e procedure di governo
religioso dei viventi, cioè un’arte religiosa di condurre gli uomini, entra in crisi di identità, si
dissemina, si sperde, si secolarizza.
FINE PRIMA SESSIONE
SECONDA SESSIONE (domenica 7 settembre; h. 9-12)
PRIMA PARTE: due dispositivi della religione: la legge e la regola
Legge e regola sono parole spesso usate nel gergo comune o semi-colto come sinonimi. Basta aprire
un giornale o ascoltare un notiziario per accorgersene. In realtà sono parole che possono designare
realtà diverse, pezzi di mondo diversi che costruiscono diversamente mondi più o meno simili.
Lasciando da parte le etimologie, di cui sono zeppi gli studi filosofici e filosofico-giuridici sul tema,
diciamo per iniziare che la legge rimanda primariamente alla sovranità, la regola alla vita. Detta
così, la questione pare un po’ rozza, schematica e astratta. Meglio ricorrere agli esempi.
Un’antico ebreo, abitante a Gerusalemme all’epoca in cui il tempio era ancora in piedi, prima che i
romani lo distruggessero nel 70 d.C., se era un pio ebreo, osservava la Torah. Torah significa
“insegnamento”, ma per lui quella era molto di più di una dottrina per quanto autorevole. La Torah
aveva valore di legge. Era la legge. La Bibbia greca, usata dai giudei di lingua greca nel mondo
mediterraneo antico, non a caso traduce il complesso di libri della Torah con Pentateukos, ma la
Torah, in quanto insieme di precetti divinamente posti, con nomos, cioè appunto “legge”. Il perché è
presto detto. La legge è qualcosa di più di un complesso di regole. La legge emana da un’autorità
personale o impersonale, individuale o collettiva (in questo caso, personale e individuale: Dio) che
decide e dice ciò che è vietato e ciò che è permesso e, all’interno di quest’ultimo, ciò che è
obbligatorio per un determinato numero di persone. La legge presuppone direttamente un’autorità
che se non ha nulla sopra di sé è “sovrana”, se ha qualcuno sopra di sé è “subordinata”, ma che in
ogni caso suddivide le cose secondo il codice preliminare del lecito e del vietato e dalla prospettiva
del vietato. La legge, certo, oltre a vietare di fare, comanda di fare e concede di fare. Ma è
nell’istituire il vietato che la legge entra nel mondo. Non a caso il Decalogo inizia con
l’instaurazione di un divieto, quello dell’idolatria: “Non avrai altri dei di fronte a me”. Il
monoteismo, cuore e motore della Legge ebraica, non è una regola: è un divieto. La Legge, anche
quella religiosa, si caratterizza per tre prestazioni fondamentali:
a) Ostativa. L’abbiamo appena visto, la legge vieta. “Questo no!”. Esempio già menzionato:
“Non avrai altri dei di fronte a me!” (primo articolo del Decalogo).
b) Iussiva. La legge comanda. “Questo devi!”. Un buon esempio è il secondo articolo del
Decalogo: “Onora il Padre e la Madre!”, oppure quel precetto del Deuteronomio che
diventerà una preghiera principe della liturgia sinagogale e che per Gesù di Nazareth
costituiva addirittura il primo di tutti i comandamenti: “Ascolta Israele (Shemà Israel). Il
Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, tutta la tua mente e con tutta la tua forza” (Mc. 12,29). Questo esempio dello Shemà
mostra chiaramente un comando (quello dell’amore incondizionato) seguire un divieto
(quello che fonda il monoteismo, escludendo dalla venerazione altri dei)
c) Metaforica. È la prestazione forse meno immediata della legge, perché è trasversale alle
altre due, ma, secondo alcuni giuristi, è quella specifica della legge, che la distingue, ad
esempio, dalla regola di un regolamento, dalla misura politica di un governo, dall’atto di
imperio di un tiranno. La legge sposta, cioè “trasporta un oggetto o un soggetto in un
diverso dominio di rilevanza metafisica, legale e politica” (Monateri 2014). Grazie alla
legge, quest’uomo è schiavo, quell’altro è suddito; questi è un bandito, lui è un combattente
regolare; io sono un direttore, tu un funzionario, egli un impiegato. Per la legge questa
uccisione è un assassinio, questa è nutrimento, quest’altra è un atto di eroismo. In funzione
della legge questa panchina è un bene mobile, questo “coccio aguzzo di bottiglia” è un
confine. Per fare un esempio di sfruttamento religioso della prestazione metaforica della
legge, possiamo citare il quarto precetto del Decalogo: “Ricordati del giorno di sabato per
santificarlo!” (Es. 20,8). Il settimo giorno della settimana è rimosso dalla sua irrilevanza
astronomica di giorno qualunque, è spostato su un piano metafisico e assurto a “sabato”,
giorno del riposo del Signore e del suo popolo.
Unendo queste tre prestazioni elementari, si può dire che la legge opera come segnatura e
ordinamento del mondo tramite segni e suoni, cioè parole. Si può dire anche che la cessazione
improvvisa dell’intera attività di denotazione della legge, la fine o la sospensione prolungata della
sua logo-nomia come potere di governare il mondo tramite parole, determinerebbe il crollo
dell’intera ontologia sociale del mondo. In altre parole, noi tutti dipendiamo, nelle nostre vite, da
equazioni legali come questa: x (edificio) vale come y (chiesa) in S (nel nostro Sistema giuridico).
È la formula dell’ontologia sociale secondo il filosofo americano John Searle, ma diciamo pure che
è la grammatica (legale) di tutte le nostre relazioni sociali. Alcune di queste, naturalmente,
altrimenti non ne staremo parlando, sono di tipo religioso. Ad esempio, è la violenza ordinaria e
legale di una qualche legge che fa sì che io o tu (individuo qualunque x) non possiamo salire
sull’altare della Chiesa dei SS. Apostoli e predicare e dare l’ostia improvvisandoci preti (cioè y).
Se questa, a grandissimi tratti, è la grammatica fondamentale della legge, come dispositivo anche
religioso di cattura, orientamento e fissazione delle vite, in che cosa si distingue la regola? La legge
non è forse un insieme di regole? Le regole non operano come legge, vietando e permettendo,
comandando e spostando cose e uomini da un ambito all’altro? Certamente sì. La legge religiosa (la
Torah, ad esempio), come molte altre leggi, si escarna dalla sua fonte, si scandisce in e si compone
di regole: il Levitico, libro della Legge per eccellenza, è una sequenza di regole cultuali, alimentari,
igieniche, sociali che soddisfano tutte le caratteristiche ontologiche e pragmatiche fondamentali
degli enunciati legali (sono sequenze di parole armate, cioè assistite dall’uso potenziale di una
forza, che vietano, comandano, spostano). Ma l’istituto religioso della Regola – questo è il punto di
divaricazione concettuale –, il dispositivo religioso della Regola funziona diversamente dalle regole
della legge. Vediamo come.
Per capire cosa sia e come funzioni il dispositivo religioso “regola” diverso dal dispositivo religioso
“legge”, fatto di regole, passeremo attraverso il dispositivo religioso “mito”. Prendiamo il mito
arcinoto del vitello d’oro, che immagino conosciate tutti. Il popolo ebraico, dato che Mosè tardava a
scendere dal Sinai dove stava ricevendo le tavole della Legge, si stufa e decide di costruirsi la statua
aurea di un dio dalle fattezze di un vitello per venerarlo, offrirgli sacrifici di comunione (pretesto
per mangiare e bere) e darsi a sfrenati divertimenti. Mosè finalmente scende, assiste alla scena,
spezza le tavole appena scritte sul Sinai, scatena un massacro, ottiene la grazia divina sui membri
rimanenti del popolo e ottiene che quelle stesse parole di legge, infrante nell’ira, siano re-inscritte
tali e quali da Dio su un nuovo supporto roccioso. Perché mi interessa questo mito? Perché mostra
plasticamente, grazie a una serie di immagini sequenziali, qual è il punto di vista della legge:
l’idolatria del vitello d’oro è infatti quell’infrazione che offre (subito) alla regola principale della
legge, il monoteismo, l’occasione di agire da regola di legge: generando cioè 1) una condanna, 2)
una punizione tramite uccisione forfettaria di amici, parenti, fratelli, 3) l’entrata in vigore effettiva
dell’ordine legale tramite il ripristino materiale del suo dettato (Dio riscrive le leggi). L’infrazione,
per dirla un po’ kantianamente, è la condizione di possibilità della regola/legge come esperienza
della regola/legge. La legge, per vigere davvero, ha bisogno dell’infrazione come percezione dei
suoi confini e dunque della sua possibilità di oltrepassamento. Non a caso i miti che descrivono stati
non normati, e che quindi in un modo o nell’altro non danno alla regola della legge alcuna
possibilità di agire, reclamano sempre la loro fine: i miti ricorrenti in molte culture e religioni
“dell’età dell’oro” e del “caos primordiale”, cioè rispettivamente i miti della regolarità/legalità
selvaggia senza esperienza e coscienza della legge (età dell’oro) e i miti della regolarità/legalità
negata senza esistenza della legge (caos primordiale), descrivono stati impermanenti, stati del
mondo che devono finire. L’età dell’oro non dura mai e il caos deve uscire di scena perché il mondo
inizi a funzionare come cosmo segnato, nominato e ordinato da leggi. Il normativo come pensiero e
come ordine inizia sempre con un’infrazione, che, come scriveva il filosofo e storico della scienza
francese Georges Canguilhem, è al contempo logicamente posteriore alla legge (perché l’infrazione
è violazione di un divieto posto) e storicamente anteriore alla legge (perché è l’esistenza precedente
di quello che diverrà infrazione che suscita l’intenzione normativa). Tutto ciò per spiegare meglio,
tramite un mito, quello che di fatto si era già detto prima: e cioè che la legge è un pensiero negativo
che muove dal punto di vista del vietato.
Tenendo presente quest’ultima affermazione, guardiamo invece questo altro testo:
“L’ozio è nemico dell’anima. Per questo in alcuni determinati momenti i fratelli devono essere occupati nel
lavoro manuale e in altri determinati momenti nella lettura divina. Crediamo dunque che questi due tempi
possano essere ordinati secondo la seguente disposizione: che da Pasqua fino al 1o di ottobre al mattino,
uscendo da prima, lavorino quasi fino all’ora quarta là dove ce ne sarà bisogno. Dall’ora quarta, poi, fino
quasi alla celebrazione dell’ora sesta abbiano tempo per la lettura. Dopo sesta, alzatisi da tavola, riposino sui
loro letti in assoluto silenzio; oppure, nel caso in cui qualcuno voglia leggere per conto proprio, legga in
modo da non disturbare gli altri ... [seguono istruzioni valide dal 1o di ottobre fino alla Quaresima e per la
Quaresima] La domenica, allo stesso modo, tutti si applichino alla lettura, tranne coloro che sono stati
incaricati dei diversi compiti. Se però qualcuno fosse così negligente e pigro da non volere o da non potersi
applicare a imparare o a leggere, gli si assegni un lavoro da fare, in modo che non resti in ozio... ”.
Questo brano è tratto dal cap. 48 della Regula Benedicti, la più importante e influente collezione di
norme di vita ascetica dell’occidente monastico. È stata scritta in Sabina da un oscuro
antropotecnico cristiano alla metà del VI d.C., postumamente quanto artificiosamente assurto a
fondatore del movimento monastico che prende il suo nome (i benedettini). La regola, per dirla
proprio tutta, è stata redatta riciclando ben sei capitoli, sui tredici complessivi, da una più lunga
regola, di poco precedente, detta la Regola del Maestro. Di che si tratta? Questa regola è definibile
come “una norma che non si riferisce a atti ed eventi, ma all’intera esistenza di un individuo, alla
sua forma vivendi” intesa appunto come “vita regolare”. “Una vita” – ha scritto ancora Giorgio
Agamben – “che sembra confondersi senza residui con la regola” (2011, p. 15). Senza residui. Vita
vel regula, et regula et vita: sono formule con cui alcuni testi regolari medievali rendono o
tradiscono questa ambiguità di fondo della vita religiosa regolare. Vediamo brevemente in che
senso una vita interamente regolata è vita ed è vita diversa da quella localmente normata dalla
legge.
Per mostrare la differenza esistente tra il tipo di dispositivo religioso della legge e il tipo di
dispositivo religioso della regola come strumenti differenti di cattura, orientamento e stabilizzazione
delle vite, potremmo collocare i comandamenti del Decalogo e le istruzioni per il lavoro manuale e
la preghiera della Regola di Benedetto ai due poli estremi di un continuum normativo. Il che
significa che il Decalogo e la Regola di Benedetto non sono i migliori rappresentanti del loro
genere, i tipi medi della legge religiosa e della regola religiosa: sono piuttosto i tipi estremi, gli
esemplari più sgargianti che ci permettono di tracciare meglio i confini tra specie altrimenti
difficilmente distinguibili di dispositivi religiosi. Si possono così identificare almeno tre elementi
che, incarnati per modo di eccellenza in questi due esempi estremi, divaricano i generi e aiutano a
fissare una soglia qualitativa tra la legge e la regola.
a) Il punto di vista. Se il punto di vista della legge è quello del vietato, il punto di vista della
regola è quello dell’obbligatorio. Non nel senso che la legge vieta soltanto e la regola
obbliga soltanto, ovviamente. Anche la legge mosaica obbliga e anche la regola benedettina
vieta. E vieta tantissimo. Il punto di vista coincide piuttosto con il trattamento di ciò che è
indeterminato: per il sistema della legge tutto ciò che rimane indeterminato è
tendenzialmente lecito, per il sistema della regola tutto ciò che è indeterminato è
tendenzialmente vietato. La legge, come pensiero negativo, tende a dire tutto ciò che non va
fatto. La regola, come pensiero positivo, prova a esplicitare tutto ciò che va fatto. Ad
esempio: nella regola di Benedetto non si fa menzione della danza. Anche nel Decalogo o
nel Levitico non si fa menzione della danza. Ma tutti noi, da questa doppia assenza,
intuitivamente deduciamo che nei monasteri benedettini, almeno secondo le intenzioni della
Regola, non si danza, mentre nella Palestina antica gli ebrei, almeno secondo le intenzioni
del Levitico, potevano danzare. A questo si collega immediatamente un secondo elemento di
distinzione.
b) Dimensione e qualità del non-detto. Mentre la legge può permettersi di essere eterea e al
contempo esaustiva, perché il commento e l’interpretazione ovviano alla sua sideralità e alla
sua astrattezza, la regola è tanto più riconoscibile come tale quanto più è pulviscolare e
punta alla saturazione disciplinare delle vite dei suoi sottoposti. Sull’esegesi della Torah non
si sono solo riempiti degli scaffali delle biblioteche: sulla sua intenzione e sulla sua
estensione si sono affrontati e separati gruppi, si sono prodotte religioni. Nel caso esemplare
del regime monastico benedettino, tutta la vita del monaco è regolata h. 24 da quanto è detto
nel testo regolare. Non solo tempi e spazi, forme e contenuti di parole e azioni, ma persino la
qualità e la cronologia dei silenzi sono prescritte. C’è un passaggio del cap. XLII della
Regula Benedicti, nemmeno dei più bizzarri, che precisa persino il numero di pagine
(quattro o cinque) che un monaco a digiuno può leggere dopo la celebrazione dei Vespri, e
non da libri qualunque, ovviamente, ma solo dalle Conferenze di Cassiano, dalle Vite dei
Padri e da qualche altra opera di edificazione. Il risultato di tutto ciò è che delle regole non
ci sono glosse scritte. L’interpretazione è essenzialmente risolta nell’esecuzione (quattro o
cinque pagine? Me la vedo io; cos’è opera di “edificazione”? Faccio io). Quindi, mentre nel
sistema della legge, il non-detto, che è anche non vietato, è una lacuna fisiologica che va
scritta, per il sistema della regola il non detto, che è anche non vietato, è un residuo
patologico che va eseguito. Vale anche il contrario: laddove la legge corre il rischio della
superfetazione, e la sua patologia è il pleonasmo, la regola non deve mai preoccuparsi di
dire troppo perché nella sua fisiologia rientra la lungaggine.
Ciò detto, si insinua già il sospetto che, se la vita eccedente, non catturata e non disposta (ma anche
non protetta) da nessuna legge, è designabile come pura vita, o come vita stessa, la vita come
integralmente istituita nella forma della regola non è più veramente vita: o meglio, non è la stessa
vita che è presa in carico dalla legge. Che cosa sia questa vita lo vediamo subito introducendo un
terzo elemento che, oltre a quello relativo al punto di vista e alla qualità del non-detto, divarica
definitivamente le figure della legge e della regola. È un elemento decisivo, che chiama in causa la
difficile questione della legalità della regola. Proviamo a riassumerlo.
c) Che corrisponda a un atto ufficiale del senato romano sulla proibizione dei baccanali o a una
prescrizione del Levitico interna al capitolo sugli animali commestibili, il testo della legge e
delle regole legali riceve e rimanda a una struttura della sovranità: c’è un potere (divino,
umano, divino e umano in sodalizio di incarnazione o di rappresentanza), un potere
legittimo di fatto prima che di diritto, da cui la legge promana e che questa legge emana. Un
sistema legale funziona così, il Decalogo funziona così. La regola regolare e il sistema
regolare, invece, non funzionano così e, invece che dalla struttura della sovranità e dalla
forma della legge, sono segnati dalla struttura dell’esemplarità e dalla forma dell’arte.
Premessa: le discussioni dotte sulla natura giuridica delle regole monastiche sono di lunga
data e complicate da riassumere. Preferisco schivarle. Diciamo in breve che chi scrive la
regola (l’oscuro autore della Regula benedicti) non è un legislatore, e chi ne è garante (ad
esempio, l’abate del monastero benedettino) è giudice solo per analogia di funzioni o per
assimilazione di linguaggi. Questa distinzione è stato posta fin da subito: al padre mitico del
monachesimo cenobitico, l’egiziano Pacomio, fu detto dal suo leggendario maestro: “Sii per
essi un esempio (typos) e non un legislatore (nomothetes)”. Le cose poi si complicano, come
ho detto, ma il nocciolo della questione resta. Cioè resta il fatto che la figura della regola
non può ripiegarsi totalmente nella forma della legge. E non può farlo perché a definire il
suo referente (il monaco) non è l’obbedienza a un ordine generale che vale per tutti o a un
ordine particolare emesso a nome di tutti: a fare il monaco è – perdonate il giochino –
l’habitus, cioè l’esercizio ripetuto di una forma di obbedienza tipizzata, cioè incarnata da
modelli, che assomiglia più all’esercitazione di un arte magistrale, ossia realizzata da e in
alcuni maestri, che non alla sottomissione a un dispositivo legale, emanato da un legislatore
e applicato da un giudice – questo per quanto la Regula benedicti menzioni all’inizio sia
l’obbligo positivo dello Shemà sia i precetti negativi e positivi del Decalogo, escludendo
quelli insensati per la vita monastica (“Onora il padre e la madre”) e adattandone alcuni alla
situazione monastica; e questo nonostante il fatto che gli abati comminino pene conseguenti
a un giudizio di infrazione della regola.
Per concludere, un’arte dalla pretesa totalitaria e dalla presa totalizzante, esercitata ogni giorno h.
24 su se stessi, non è certo una tecnica di bottega qualunque, che richieda un apprendistato
ordinario. Ma ancora meno, quest’arte, questa antropotecnica è una legge che segna e ordina
segmenti di vita come stati di cose e di fatto, stati nudi di vita da essa catturati. Che arte e che vita
sono queste? Difficile dirlo. Agamben ha ipotizzato che si tratta di un’arte che, inseguendo modelli
di vita, produce il fatto della vita stessa che dovrebbe modellare. Produce un fatto che prima non
c’era. La legge, è vero, investe una vita (la mia, la vostra), in genere fin dalla sua nascita,
archiviandola tra le altre vite. Ma qui la vita è quasi la regola e la regola è praticamente la vita.
Giustamente, a parer mio, Agamben ha scritto che vita e regola entrano qui in una “zona di
indifferenza”, segnata dal venire meno della stessa possibilità di distinguerle.
Mi fermo qui. Facciamo ora una pausa, prima del rush finale attraverso il pastorato cristiano e le
pastorali post-cristiane e non cristiane moderne
[PAUSA]
SECONDA PARTE: il pastorato e la confessione, ovvero il governo religioso di verità
Fin qui, in modo sbrigliato quanto schematico, abbiamo visto come qualcosa come delle religioni
arrivano a catturare, orientare e fissare pensieri e azioni degli esseri umani. Abbiamo alluso al mito,
dato un’occhiata al rito, analizzato più da vicino i dispositivi della legge e della regola. C’è una
parola che ho taciuto deliberatamente, che ho nascosto come una carta coperta pronta a fare il suo
ingresso nel gioco al momento opportuno e più redditizio. È la parola “verità”. La verità non è di
per sé un dispositivo religioso di governo delle vite. La veridizione, cioè l’atto di dire-la-verità su
qualcosa o qualcuno, può esserlo, lo è stato e lo è ancora entro quella cultura occidentale cristiana
che ha fatto della verità un’autentica ossessione conoscitiva. C’è un’altra parola, “governo”, che
invece ho usato più volte, e che insieme alla sinora mai menzionata “verità” dona la formula
scheletrica dell’ultimo dispositivo propriamente religioso che analizzeremo: il pastorato. In effetti,
la storia del pastorato occidentale cristiano, che, in realtà più che un dispositivo, è una struttura di
convergenza e di cooperazione tattica di vari dispositivi religiosi (un dispositivo di dispositivi), è la
storia della costituzione di un governo religioso della verità, basato sulla verità e che innalza la
verità a strumento strategico di governo. Bisogna intendersi su che genere di governo si tratti e su
quale verità si fondi.
Ho già detto, all’inizio del modulo, che il benemerito Foucault ha teorizzato e descritto lo
spostamento e il recupero dell’arte di governare gli uomini dall’ambito della pastorale cristiana a
quello del governo delle società umane, intervenuto a partire dalla fine del XVI – inizio XVII
secolo. Cioè, con il costituirsi delle nuove strutture politiche del moderno, debutta e si sviluppa una
sorta di pastorale di stato. Per esigenze di tempo e insufficienza di competenza, non farò qui la
storia del pastorato cristiano, che – detto per inciso – nasce e si sviluppa a partire dall’istituto paleo-
cristiano della penitenza, poggia su una base almeno figurale ebraica (il Dio pastore e il gregge da
salvare) ed entra in crisi in età moderna per varie ragioni esterne, ma anche per effetto di alcune
insurrezioni di condotta o, come le chiama F., “controcondotte” maturate all’interno del campo del
pastorato. Una di queste rivolte interne coincide con un’antropotecnica assai antica, l’ascetismo, un
eccesso della mortificazione virtuosa che, come vuole Sloterdjik, nell’immunizzare lo status vitale
dell’acrobata religioso, del rinunciante, del digiunante, del flagellante, lo impermeabilizza anche al
potere del pastore. Nemmeno posso, commentando e riassumendo le complesse ricerche di
Foucault, svolgere un’analisi approfondita dei tratti salienti che caratterizzano ancora oggi la sua
funzione, dei suoi debiti formali verso alcune tecnologie di governo greche ed ebraiche e dei suoi
prestiti governamentali alla storia dello stato. Guarderemo quindi al pastorato un po’ di sbieco,
come correndogli affianco e partendo da una definizione-descrizione data dallo stesso Foucault
(2005, p. 124-125):
“[Il pastorato cristiano] è un’arte del condurre, del dirigere, dell’accompagnare, del guidare, del prendere per
mano, del manipolare gli uomini, del seguirli passo passo; un’arte che ha la funzione di farsi carico degli
uomini individualmente e collettivamente per tutto il corso della loro vita e in ogni momento della loro
esistenza [...] Nessuna società e nessuna civiltà è stata più pastorale delle società cristiane dalla fine del
mondo antico fino alla nascita di quello moderno. E credo che questo potere pastorale non possa essere
assimilato a – o confuso con – le procedure impiegate per sottomettere gli uomini a una legge o a un sovrano.
Non può essere neppure assimilato a metodi impiegati per educare i bambini, gli adolescenti o i giovani, o
alle ricette per convincere gli uomini, persuaderli o soggiogarli più o meno contro la loro volontà. In breve, il
pastorato non coincide né con una politica, né con una pedagogia, né con una retorica. È qualcosa di
completamente diverso. È un’arte di governare gli uomini”
Noterete subito alcune cose. La prima: molte parole-chiave già incontrate nel corso del modulo
ritornano. “Arte” è introdotta parlando della regola monastica. “Condurre” è stato un Leitmotiv del
corso: l’abbiamo usato per definire la religione come “sistema di governance cognitiva” e per la
definizione di “scenarizzazione” operata dal rito religioso delle Panatenee. “Condurre” e “condotta”
sono parole su cui F. ha esercitato un grande investimento tecnico e su cui la filosofia post-
foucaultiana continua a rimuginare. Infine “legge”, “sovrano” e “governo”, parola, quest’ultima, la
più usata di tutte, la cui definizione tecnica adesso daremo perché ancora manca all’appello.
Seconda osservazione sulla definizione di pastorato: si tratta, almeno per la sua seconda parte, di
una definizione negativa, che procede quasi per esclusione precisando ciò che il pastorato non è,
negando quindi l’equivalenza apparente tra il pastorato e altre specie di potere: il pastorato non è né
una politica (qui intesa come tecnica giuridico-politica, di governo degli uomini tramite la legge,
come parola armata dal diritto), né una pedagogia, né una retorica (tecnica di direzione degli uomini
tramite la parola agghindata dall’eloquio). Quando poi alla fine F. definisce seccamente, troppo
seccamente il pastorato come “arte di governare gli uomini”, il lettore, anche quello che non ha letto
le pagine precedenti del testo, in cui F. inanella varie definizioni di governo tratte dagli albori della
scienza moderna del governo (Machiavelli, Bodin, de la Perrière, ecc), anche l’ascoltatore che si è
appena sintonizzato sul discorso foucaultiano capisce che per “governo” qui egli intende quello che
ha elencato sopra. Ovvero: “un’arte del condurre, del dirigere, dell’accompagnare, del guidare, del
prendere per mano, del manipolare gli uomini, del seguirli passo passo”; soprattutto “un’arte che ha
la funzione di farsi carico degli uomini individualmente e collettivamente per tutto il corso della
loro vita e in ogni momento della loro esistenza”. Infine, come F. stesso ha sintetizzato alla fine del
suo corso, introducendo nella definizione di pastorato il riferimento al soggetto che esercita questo
potere, ossia il pastore, il pastorato è
“un’attività che si incarica di condurre gli uomini lungo tutta la loro vita, sottomettendoli all’autorità di una
guida responsabile di ciò che fanno e di ciò che può capitare loro”.
È questo il tipo specifico di governo, come modus, come ars, come tecnica particolare e storica di
esercizio del potere finalizzato al perseguimento di obiettivi concreti, che il pastorato occidentale
cristiano “insegna” e cede allo stato moderno, il quale lo revoca, lo collega, lo associa, lo integra e
lo sussume nell’esercizio stesso della sovranità politica – cioè nel governo inteso come istanza
suprema delle decisioni esecutive e amministrative nei sistemi statali. Il governo Renzi o il governo
Hollande non si concepiscono nello stesso modo, non sviluppano la stessa azione e non si pongono
gli stessi obbiettivi del governo di Augusto, di Carlo Magno o di Federico II. Foucault ci sta
suggerendo che, per capire come ci governa oggi il potere esecutivo di uno stato sovrano (es.: il
governo Renzi), dobbiamo dimenticarci gli antichi sovrani e i loro ministri: dobbiamo passare
attraverso il potere pastorale che Carlo Borromeo, vescovo di Milano, e i preti della sua diocesi
esercitavano a suo tempo sulle anime dei lombardi.
Focalizziamo lo sguardo sul pastorato. C’è un modello generale preesistente a cui quest’“arte”
inedita si richiama e che quest’arte attiva? E poi come è possibile “farsi carico degli uomini
individualmente e collettivamente per tutto il corso della loro vita e in ogni momento della loro
esistenza”. La prima domanda interroga il tipo di governo, la seconda introduce la questione della
verità, che ci interessa di più. Le due questioni sono tra loro legate. L’arte di governo, che il
pastorato elabora e consegna alla politica moderna, è “precisamente l’arte di esercitare il potere
nella forma e secondo il modello dell’economia”. Come modello di esercizio del potere, il
pastorato, in altri termini, è un’economia delle anime – secondo un’espressione che F. erroneamente
attribuisce al Padre della Chiesa Gregorio di Nazianzo. Alt un attimo! Prendete il termine moderno
corrente di “economia” e allontanatelo, estraniatelo da voi secondo il metodo, ormai acquisito,
dell’astronomia culturale. Dimenticate la borsa, la finanza, la deflazione, le facoltà di economia,
Mario Draghi, Pier Carlo Padoan ecc. e pensate a o immaginate quel tipo di potere, se vogliamo
“privato”, che Aristotele contrapponeva all’esercizio pubblico della sovranità nella polis. Il potere,
appannaggio del cittadino adulto libero maschio, di disporre bene e di gestire oculatamente le
proprie cose al fine di preservarle e incrementarle: schiavi, figli e moglie inclusi, esseri umani,
dunque, in primis. Potere su persone (o quasi persone) bisognose di gestione, potere su cose proprie.
Non su un territorio. Insomma, da questa altezza, che non dà accesso visuale al significato corrente
del termine “economia”, ma in compenso ci fa vedere le affinità gestionali tra il potere del padre di
famiglia greco e il prete medievale cristiano, si può osservare come il pastorato faccia uscire
l’economia da quella dimensione domestica implicata dal suo costrutto greco (oikos-nomia) per
portarla dove? a) per spostarla sul piano molto più vasto e ambizioso dell’umanità (alias della
cristianità) intera; b) per riferirla e finalizzarla non più alla prosperità della casa, ma alla salvezza
delle anime. Il pastorato dunque, come la legge, si caratterizza per una prestazione metaforica
essenziale: traspone il modus amministrativo dell’economia dalla prosperità della casa alla salvezza
delle anime, senza passare direttamente per il modello politico alternativo della sovranità, per il suo
mezzo (la legge) e per il suo fine (l’obbedienza alla legge). Il pastore, a differenza del sovrano, cura
le anime: al contrario del monarca costituzionale, governa senza regnare. Come si esplica allora
questo potere religioso che, come vedremo subito, prenderà solo “di traverso” il rapporto con la
legge?
Il pastorato come economia delle anime è per definizione benefico: il potere del pastore, a
differenza di quello del sovrano, ha una finalità esterna alla sua conservazione e alla sua obbedienza
ed è la salvezza del suo gregge. Per centrare l’obiettivo, il pastore ha il dovere di vegliare sul gregge
secondo modalità che richiedono uno sforzo al contempo titanico e paradossale: il pastore deve
avere gli occhi puntati su tutti e su ciascuno (omnes et singulatim) e deve vegliare per tutta la durata
della vita e in ogni momento dell’esistenza di tutti e di ciascuno. Questo, almeno, è il programma
ideale, codificato nei testi cristiani sulla pastorale e – sia chiaro – in quanto tale perfettamente
irrealizzabile. Questa missione tuttavia non sarebbe nemmeno concepibile e predicabile se, nella
struttura del pastorato, non figurassero due elementi essenziali. Il primo: la risposta che il singolo
rivolge all’attività di cura individuale, congiunturale e vitalizia del suo pastore deve essere di
obbedienza pura, cioè fine a se stessa, volta a raggiungere nient’altro che lo stato di obbedienza
entro un rapporto che si rinnova sempre e mai si rovescerà – l’ultimo, nella situazione pastorale, che
non è la situazione evangelica, rimane ultimo, non sarà mai primo. La sua sottomissione deve essere
individuale, cioè riferita esclusivamente all’individuo pastore che individualmente lo segue, lo
dirige e lo cura – il rapporto è di uno a uno ed è personale, cioè senza mediazioni generali come può
essere una legge, un principio d’ordine o semplicemente un punto di ragionevolezza. La sua
dipendenza deve essere integrale, tale cioè che non garantisca alcuna libertà e non porti ad alcuna
padronanza di sé e degli altri – non c’è uno stato positivo, uno scatto di status guadagnato dal
soggetto grazie alla prostrazione richiesta dalla prestazione di obbedienza. Niente assoluto controllo
delle passioni, niente maggiore presenza a se stesso, nessuna particolare beatitudine, identificazione
con Cristo, illuminazione. Tutta la conoscenza che si produce, tutta l’identificazione che si crea non
è con una verità – ecco che siamo arrivati... – che si conquista, ma con una verità che si auto-
produce rivelandola, dissecretandola, escarnandola da sé attraverso la confessione al proprio
pastore. Una verità che non è la verità intima ma con ricadute pubbliche di Edipo, non è la verità
metafisica ed etica di Platone e non è la verità cosmica e terapeutica del Buddha. Tutto ciò che c’è
da sapere, tutto ciò che il pastore deve sapere per ottemperare alla sua funzione è la piatta, familiare
verità dei pensieri malevoli e degli atti disdicevoli e sconci e in genere pubblicamente innocui,
insomma dei peccati da confessare.
La confessione mi interessa perché offre al contempo il punto di ingresso del pastore nell’anima che
deve amministrare, il punto di ingresso della questione della verità nel nostro discorso sui
dispositivi religiosi di cattura, orientamento e stabilizzazione delle vite, e il punto di ingresso della
legge in una tecnica di governo religioso, il pastorato appunto, che, in quanto governo in forma di
economia, non coincide con lo strumento di applicazione e accettazione di nessuna legge. Anche
qui, non farò la storia della confessione cristiana, della sua nascita dal rituale assai drammatico e
teatralizzato di penitenza pubblica dell’esomologhesi, dei suoi rapporti con la pratica filosofica
dell’esame di coscienza e dei suoi intrecci con la pratica obbligatoria monastica e facoltativa-elitaria
laica della direzione di coscienza. Attraverso la confessione voglio essenzialmente mostrare come si
possa governare religiosamente con la verità, oltre che col rito, col mito, con la legge e con la
regola. Come si possa catturare, stilizzare e scenarizzare la vita delle persone attraverso un certo
tipo di verità che, a differenza di quella del dogma, non è pubblica, ma privata; a differenza di
quella del dogma, è una verità prodotta da colui al quale la si strappa e che al contempo ne riceve
gli effetti; una verità che, ancora contrariamente al dogma, non si impone e non si accetta per legge,
ma semmai si serve puntualmente e tatticamente della legge per essere prodotta e rivelata.
Vi propongo un esempio contemporaneo che è una sorta di manuale per il “dir vero” della
confessione. Un esempio che è più eloquente delle mie parole, più eloquente persino della
confessione il cui dire vuole regolamentare e istruire. Ricordate? Il dispositivo religioso della regola
è loquacissimo: dice tutto su come il monaco è. Il dispositivo religioso della veridizione
confessionale è invece quasi muto, ma serve a far dire al confessante tutto quello è (o meglio quella
parte di sé che è tutta la verità che si vuole ottenere da lui). Ebbene qui vi propongo una sorta di
prontuario contemporaneo per la retta confessione dei ragazzi, che parla (molto) di e in vece del
suo dispositivo al fine di far parlare bene e di loro i suoi disposti. Confesso di averlo tratto da
internet, semplicemente digitando sul motore di ricerca “che cosa dire quando ci si confessa”. Come
primo link, mi è apparso questo vademecum firmato da un certo Don Leonardo Maria Pompei. Ho
evidenziato in corsivo le fattispecie di peccato, mentre ho sottolineato le istruzioni disciplinari. È un
testo lungo quanto formidabile:
“Bisogna quindi anzitutto distinguere tra oggetto obbligatorio e necessario della Confessione e oggetto
consigliato e raccomandato di essa.
È strettamente obbligatorio confessare i peccati mortali, ovvero quelli aventi una materia grave (in sé o per le
“proporzioni” della trasgressione) e che siano stati commessi con piena avvertenza (rendendosi conto della
gravità di ciò che si stava facendo) e deliberato consenso (non sotto la spinta di violenza o altra gravissima
causa). Tanto per fare qualche esempio di comuni peccati che sono sempre mortali per la gravità della
materia in se stessa, possiamo citare i sacrilegi, le irriverenze, le bestemmie, il falso giuramento, l’omessa
santificazione del giorno festivo, l’uso di droga, le percosse, l’impurità in tutti i suoi generi e specie,
l’inverecondia e l’immodestia. Ci sono invece alcuni peccati che diventano mortali quando la materia da
“lieve” diventa “grave”. Per esempio il furto, che è peccato veniale quando cade su oggetti di scarso valore,
mentre è peccato mortale quando l’entità della cosa rubata o ingiustamente trattenuta è considerevole; le
mancanze nei confronti dei genitori, che diventano gravi quando sono ingiurie o quando sono disubbidienze
in cose di grande entità; le volgarità e le parolacce, che diventano gravi quando sono a sfondo sessuale o
quando sono dette con odio per ferire e colpire il prossimo. Questi peccati vanno confessati non in maniera
generica, ma per specie: non basta dire “ho peccato contro il Secondo Comandamento”, perché un conto è la
bestemmia, un conto il falso giuramento, un conto la nomina inutile del nome di Dio, della Madonna o dei
santi; non basta dire “ho commesso atti impuri”, perché altra cosa è l’adulterio rispetto ai rapporti
prematrimoniali, o al peccato impuro solitario, ecc. Va inoltre specificato il numero, perché tanti sono i
peccati mortali quante sono le volte che si sono commessi e ciò determina un profondo aggravamento sia
della situazione della coscienza sia delle pene dovute per il peccato (che faranno fare il Purgatorio
nonostante l’assoluzione). Quando non si ricorda il numero preciso, bisogna dare al confessore “l’ordine di
grandezza”, avvicinandosi il più possibile alla verità. Se un penitente sa di aver colpevolmente “mandato in
vacanza il Padre eterno” durante il periodo estivo, non sarà per lui sufficiente dire “ho mancato alla Santa
Messa”, ma dovrà appunto specificare “per tutto il periodo estivo”. Se si confessa un bestemmiatore abituato,
dovrà far chiaramente capire che non è che gli sia scappata una bestemmia in un momento di collera, ma che
più volte ha offeso il nome di Dio, ecc. Infine vanno specificate le circostanze quando queste mutano la
natura del peccato oppure ne aggravano o diminuiscono la gravità. Se si è bestemmiato dinanzi a un figlio
piccolo, bisogna specificarlo, perché questa aggravante (il vero e proprio scandalo dato a un piccolo dal
proprio genitore) è quasi più grave del peccato commesso; così come se si è mancati alla Santa Messa,
avendo dei figli piccoli che devono avere nei genitori un modello e uno sprone per imparare l’osservanza
della Legge di Dio. Se si è commessa qualche impurità, bisogna specificare se il complice, per esempio,
fosse sposato in Chiesa (anche se divorziato), perché l’atto si trasforma immediatamente in adulterio che è
molto più grave della fornicazione semplice, ecc. Similmente se si è mancati alla Santa Messa non per
negligenza ma per improvvisi problemi che hanno reso molto difficile la partecipazione (se non addirittura
moralmente impossibile: la malattia personale, un incidente stradale, il ricovero improvviso di una persona
cara), bisogna specificarlo; così come se fosse scappata una bestemmia in preda all’ira da parte di chi non ha
questa abitudine e si è ritrovato con un’espressione blasfema uscitagli dalla bocca senza nemmeno capire
come è successo; oppure i peccati che sono stati commessi per ignoranza anche se colpevole (cosa che
avviene quando si trasgredisce gravemente la Legge di Dio, senza sapere o avere la piena consapevolezza
della gravità del peccato, per difetto di formazione della coscienza, ecc.).
I peccati mortali vanno confessati tutti, anche quelli molto lontani nel tempo, di cui non si abbia la certezza
di averli già portati dinanzi al tribunale della divina Misericordia. La Confessione, infatti, copre solo i peccati
non confessati per dimenticanza, ma comporta sempre in sé l’obbligo che, qualora affiorino nella memoria
peccati anche molto antichi che si è certi o quasi di non aver mai confessato, essi vengano umilmente
confessati alla prima Confessione utile. Sembra assai probabile l’opinione di chi ritiene, in caso di peccati
molto antichi, che nonostante l’obbligo di confessarli alla prima occasione utile, il fedele possa accostarsi
alla Comunione sacramentale, diversamente da ciò che accade qualora, nel presente, si commetta un peccato
mortale, nel qual caso non bisogna per nessun motivo accostarsi all’Eucaristia senza premettere la
Confessione sacramentale.
Gli altri peccati (quelli veniali) e le imperfezioni morali non costituiscono oggetto obbligatorio di
Confessione, ma la Chiesa ne “raccomanda caldamente” la confessione, dato che una coscienza che li
sottovaluti si espone grandemente al pericolo di cadere in mancanze gravi e comunque, nel caso di peccati in
senso stretto (piccole maldicenze, atti di superbia, bugie, volgarità non eccessive, scatti di collera, ecc.), si
offende comunque Dio e si “aumenta” il tempo di purgazione che sarà necessario affrontare in Purgatorio
prima di accedere alla visione beatifica. Un’anima poi che voglia santificarsi non può in nessun caso e per
nessun motivo prendere alla leggera venialità e imperfezioni, altrimenti cadrà inevitabilmente nelle
sciagurate sabbie mobili della mediocrità e della tiepidezza, perderà un numero considerevole di grazie
divine, farà molto meno bene (o lo farà molto peggio) di quello che dovrebbe o potrebbe”.
Esaminiamo altre procedure di produzione della verità. Il re di Tebe Edipo voleva sapere chi e
perché aveva mandato la peste e la morte sulla sua città. Svolgendo varie indagini, scopre che la
ragione erano un regicidio e un incesto e che il colpevole inconsapevole era lui. Il re, in quanto
sovrano, anche ricorrendo alla parola armata della legge, mettendo assieme pezzi di informazioni,
arriva a conoscere e a dire una verità pubblica che non conosceva lui, che, nella sua integrità, non
conosceva nessuno dei suoi e che solo casualmente riguarda lui. Il Buddha voleva sapere che
cos’erano la vecchiaia, la morte e la malattia e, attraverso una serie di antropotecniche, arriva a
guadagnare una verità cosmica, ontologica ed esistenziale sul mondo, sull’essere e sulla vita. Il
cinico Diogene, interrogato, diceva la verità sociale sul potere in faccia ai potenti che avrebbero
potuto bastonarlo, punirlo, ucciderlo. Possiamo andare avanti: non troveremo nessuna procedura di
produzione e manifestazione di una verità prima nascosta che assomigli alla veridizione
confessionale, come innestata nel sistema pastorale, e che non derivi in un modo o nell’altro da
essa. Qui il confessante, preso nel rituale ora solo più discorsivo della confessione, dice una verità
individuale che riguarda lui stesso, che conosceva da prima, che per uscire deve superare delle
resistenze interne, che contribuisce a riscattarlo, a purificarlo, a salvarlo perché è esposta, per filo e
per segno, con dovizia di particolari e secondo una disciplina precisa della parola a un altro
individuo, il pastore, che non la conosceva, che non può rivelarla (salvo casi eccezionali) che la
apprezza perché la attendeva, che la estorce fino in fondo, la sfila tutta, la trasforma in penitenza e
quindi in qualcosa che si ripercuote immediatamente su chi l’ha prodotta. Guardate che se tutto ciò
non ci sconvolge e non ci turba e solo perché, come è stato detto e ridetto, viviamo in un mondo
confessionale in cui il soggetto confessante ha spopolato, si è disseminato un po’ ovunque
diventando un protagonista indispensabile per il funzionamento di varie macchine aleturgiche, cioè
sistemi organizzati di saperi e poteri volti alla produzione della verità. Prima di chiudere con il
pastorato e il suo dispositivo di veridizione confessionale, avevo promesso di dire almeno qualcosa
sul rapporto che quest’arte psico-economica intrattiene con la legge, mostrando come la confessione
rappresenti il punto di ingresso della legge in questa tecnica di governo religioso. Il pastore, come
l’abate, come lo sciamano, a differenza di colui che sovrintende a un rito pubblico greco,
sorvegliandone tempi, spazi e modi dell’esecuzione, non è un uomo della legge. Non pronuncia e
non applica la legge. Si serve tuttavia della legge almeno su due piani: a) il sistema religioso in cui
il pastorato nasce, si sviluppa ed entra in crisi è stato per lungo tempo religione imperiale
(cristianesimo niceno-costantinopolitano), poi religione di stato in vari stati (il cattolicesimo). Non
solo, diremmo con Marx, esso ha goduto per tantissimo tempo, in molti luoghi, di un quasi
monopolio dei rapporti religiosi di produzione, cioè dei copyright della produzione,
dell’amministrazione e della circolazione del bene di salvezza, ma i suoi dogmi e le sue disposizioni
giuridiche verso i laici valevano come leggi. Tutto il suo diritto interno verso l’esterno era legge.
Diremmo quindi che il potere pastorale non si esercita come legge, ma è sostenuto da varie leggi; b)
il luogo strategico di sutura tra la funzione del pastore e l’anima di ogni sua pecora, cioè la
confessione, è uno di quelli su cui si posa la legge. Voglio dire: l’intervento del pastore sarà pure
mirato, circostanziato e calibrato su ogni singola pecora e per questo l’obbedienza integrale della
pecora sarà pure diversa dalla sottomissione al sovrano, cioè alla legge. Resta il fatto che il canone
XXI del Concilio Laterano IV (1215) impone, per legge, a tutti i cristiani, di entrambi i sessi che
abbiano raggiunto l’età della ragione, l’obbligo di confessarsi almeno una volta all’anno per Pasqua,
che si abbia coscienza o meno di avere peccato in qualcosa. Scrive Foucault: “Essere cristiani
comporta di qui la necessità di confessarsi”. Vedete come, nel suo luogo cruciale di aggancio e di
presa delle anime, il potere pastorale si giuridifica. Si esercita per legge e, come è proprio della
legge, si territorializza (è d’obbligo, salvo autorizzazione, rivolgersi al proprio prete, quello della
propria parrocchia) e si collega a una pena (si prevedono sanzioni speciali sia per i fedeli che si
rifiutano, sia per i preti che si sottraggono). Legge, territorio, penalità; governo, persona +
popolazione, cura: il circuito della sovranità politica e quello del governo economico si coalizzano,
si incontrano e si chiudono ad anello attorno al soggetto a tutto vantaggio della sua religione. Ora
l’ultima pausa e – giuro – l’ultima tranche di lezione.
[PAUSA]
TERZA PARTE: dei in disarmo, pastori dell’anima in crisi e nuovi, rampanti esperti del
soma.
Facciamo un bel bilancio consuntivo. Abbiamo parlato di regime dei cervelli e di disposizione dei
corpi. Abbiamo menzionato o direttamente assistito alla cattura, all’orientamento e alla
stabilizzazione dei pensieri e delle azioni degli esseri umani tramite il mito, il rito, la legge, la
regola, la verità su di sé, e chissà quanti altri dispositivi che ho mancato di menzionare. Questo è un
po’ il film che abbiamo visto in questi due giorni: più horror che commedia, devo ammettere,
perché questo è il mio sguardo, questa è la mia (largamente imprestata) sceneggiatura e regia, il mio
personalissimo montaggio della pellicola “il governo religioso dei viventi”. Altre scene, più allegre
e ottimistiche, sono ovviamente girabili, ma personalmente non saprei come montarle tutte assieme
in un film. La mia visione negativa della religione è tutto sommato un affare di marxismo e di
montaggio. Un’altra storia, al momento, non saprei raccontarla. Ora, prendiamo la definizione di
religione da cui siamo partiti. Cito: “religione è ogni sistema culturale e istituzione sociale che
governi e promuova interpretazioni ideali dell’esistenza e prassi ideali in riferimento a poteri o
esseri transempirici (culturalmente) postulati”. Definizione alla mano, vediamo che, di tutti quei
dispositivi di cui abbiamo parlato, solo “mito” e “rito” sono quasi esplicitamente menzionati – un
mito religioso è grossomodo un’interpretazione ideale dell’esistenza che fa riferimento a poteri o
esseri transempirici; un rito religioso è grossomodo una prassi ideale che fa riferimento a poteri o
esseri transempirici. La legge, la regola e la verità su di sé non compaiono nella definizione e
nemmeno mi risulta siano mai stati utilizzati, a livello specialistico-scientifico, come elementi
definitori di “religione”. Non c’è nulla di specifico della religione nei dispositivi della legge, della
regola e della veridizione su di sé. Se poi andiamo addirittura alla definizione di “religioso”, come
designazione di processi comunicativi attraverso cui si separano alcuni eventi e fatti come speciali,
perché agiti da esseri sovraumani, diremmo invece che non c’è più nulla di necessariamente
religioso nei tipi di dispositivi che abbiamo visto: un mito può anche essere politico, un rito può
essere militare o sportivo. Certo, gli dei sono stati sempre presupposti come attivi in ogni
dispositivo di governo religioso analizzato, ma gli dei, di per sé, sono poca cosa. Se sono un
prodotto secondario dell’iperattività intenzionale del nostro cervello, se sono dei parassiti malefici o
benefici di strutture cognitive ereditate dall’età della pietra, possono essere sostituiti, quando i loro
servizi non si rivelano più all’altezza dei tempi o quando addirittura le funzioni che hanno cooptato
non sono più così determinanti per la nostra esistenza individuale e collettiva. Non solo l’ateismo
pratico, ma anche quello teorico, come visione consapevole del mondo, avanza e guadagna adepti.
E lo fa senza che noi, presumibilmente, nel quotidiano, impieghiamo più tempo, rispetto a cento o
mille anni fa, a processare razionalmente ogni input, ogni informazione che riceviamo dall’esterno.
Crediamo per vivere, ma sempre di meno, statistiche alla mano, crediamo agli dei. La popolarità del
pensiero scientifico fa progressi, certo. Ma il punto vero, come aveva capito il filosofo, sociologo e
gesuita Michel de Certeau, uno che non era né marxista né cognitivista, è che la credenza, a
differenza della scienza, è solo una “modalità dell’affermazione e non (anche) un contenuto”. Un
nostro modo di vivere (e di sopravvivere) consistente in un certo modo di affermare che è sempre in
cerca di oggetti. In questo senso – cito – “le Chiese, o le religioni sarebbero non già delle unità di
riferimento [atemporali e stabili], bensì delle varianti sociali nei rapporti possibili tra il credere e
l’oggetto in cui si crede. Sarebbero cioè state configurazioni (e manipolazioni) storiche particolari
dei rapporti che le modalità del credere possono intrattenere con le serie dei contenuti disponibili”.
Dire che le Religioni e le Chiese sono “varianti sociali” implica che, col variare delle condizioni
sociali, altre configurazioni del credere sono possibili, altre manipolazioni del credere sono da
attendersi. Saltiamo a piè pari il tema, tutto novecentesco, delle religioni politiche, delle religioni
secolari, delle religioni civili, sportive, musicali, ecc. dove ogni aggettivo designa, in modo più o
meno opportuno, la sfera investita da una credenza in fuga o in vacanza dal divino. Vediamo
piuttosto che cosa può esserne dei pastori, e del loro potere, quando si fa a meno degli dei.
Nel 1982, in una conferenza presentata a Strasburgo, il già citato sociologo francese Pierre
Bourdieu, abbozzando una diagnosi sul suo tempo, si azzardò a parlare di “Dissoluzione del
religioso”. Bisogna sapere che Bourdieu, per ragioni prettamente autobiografiche, è uno di quegli
analisti sociali cristiano-centrici e cattolico-centrici che quando parlano di “religioso” generalmente
intendono “cristiano-cattolico”. Inoltre B. in quanto sociologo del potere e pensatore
fondamentalmente ostile alla religione, tutto intende fare tranne che contribuire a dare consistenza
ontologica autonoma al fenomeno religioso. Quindi, nell’evocare una qualche crisi “del religioso”,
presumibilmente sta alludendo alla condizione presente di chi la religione la amministra, la
manipola, la capitalizza. Leggendo il testo brevissimo della conferenza questo sospetto trova
conferma. Il testo di B. sulla “dissoluzione del religioso” è in realtà un testo sull’intervenuta
“irriconoscibilità del chierico”, cioè del pastore, ergo del prete cattolico, per effetto della
sopraggiunta incapacità, da parte dello stesso prete cattolico, di imporre a se stesso e ai laici ciò che
per secoli gli è riuscito di imporre: ossia la definizione legittima di ciò che è religioso (la mia
religione, il mio mandato divino, la mia cura d’anime) e la fissazione dei differenti modi in cui si
ricopre il ruolo religioso (c’è il clero ordinato da un lato, i pastori, e c’è il laicato dall’altro, le
pecore). Quindi, in realtà, la dissoluzione del religioso si traduce per B. nell’indistinguibilità del
pastore – classico, tradizionale, cristiano-cattolico – da alcune categorie di laici – che lui chiama
“nuovi chierici”, ma noi potremmo definire come “nuovi pastori” – per quanto concerne la titolarità
del monopolio sul religioso e sulla fornitura di servizi religiosi. Quello su cui il pastore sembra aver
perso il controllo, in sostanza, è l’imposizione del punto di vista per cui ciò che è “religioso” lo
decide lui perché attiene a una funzione che è solo sua. Ma diamo la parola al B. del 1982:
“Non si vede più molto bene, oggi, dove sia finito quello spazio in cui regnavano i chierici (nel senso
ristretto del clero). Allo stesso modo, tutta la logica delle lotte se ne ritrova trasformata. Per esempio, nel
confronto coi laici, i chierici sono vittime della logica del cavallo di Troia. Per difendersi contro la
concorrenza di nuovo tipo che gli fanno, in maniera indiretta, alcuni laici (gli psicoanalisti, ad esempio), essi
sono obbligati a prendere a prestito le armi dell’avversario, esponendosi così al rischio di doverle applicare;
ora, se i preti psicoanalizzati si mettono a trovare nella psicoanalisi la verità sul sacerdozio, non si vede come
potranno dire la verità pastorale della psicoanalisi [...] [D]ai chierici antichi fino ad arrivare ai membri delle
sette, agli psicoanalisti, agli psicologi, ai medici (medicina psicosomatica, medicina lenta), ai sessuologi, ai
professori di espressione corporale, degli sport di combattimenti asiatici, ai consiglieri di vita, ai lavoratori
sociali. Tutti fanno parte di un nuovo campo di lotto per la manipolazione simbolica della condotta di vita
provata e l’orientamento della visione del mondo, e tutti mettono in atto nelle loro pratiche una serie di
definizioni concorrenti, antagoniste, a proposito della salute, della guarigione, della cura dei corpi e delle
anime [...] Tutti questi agenti che lottano per dire come bisogna vedere il mondo sono professionisti di una
forma di azione magica che, attraverso parole capaci di parlare al corpo, di “toccare”, fanno vedere e fanno
credere, ottenendo così effetti assolutamente reali delle loro azioni. Così, là dove esisteva un campo religioso
distinto, si ha ormai un campo religioso dal quale si esce senza saperlo (se non biograficamente) pochè molti
chierici sono divenuti psicoanalisti, sociologi, lavoratori sociali, ecc. ed esercitano forme nuove di cura delle
anime con uno statuto di laicità e sotto una forma laicizzata. Si assiste così a una ridefinizione dei limiti del
campo religioso, alla dissoluzione del religioso in un campo più ampio che si accompagna a una perdita del
monopolio della cura delle anime nel senso antico del termine, almeno a livello della clientela borghese”.
Chiarissimo. C’è un doppio, concorrenziale movimento dunque: da un lato, abbiamo chierici che
sconfinano nel campo, anzi nei vari campi laicali, secolari, professionali della world vision making
e della cura di corpi e anime; dall’altro, competenze laiche di vario genere che penetrano nello
spazio numinoso, magico dei depositari della parola capace di far credere, far vedere e far fare “su
cui una volta regnavano i preti”. Risultato: il campo religioso ha perso i cuoi confini tradizionali, si
è ampliato al punto tale da risultare indeterminato e indeterminabile.
Voglio segnalare due cose. La prima: gli dei. Nel testo di B., che si occupa di “religione” e di
“religioso”, dio e gli dei nemmeno compaiono. Certo B. è sociologo anche della religione, ateo e
assai poco interessato agli dei. Ma il punto è un altro. Se gli dei, compagni di antichissima data dei
nostri cervelli, si defilano e arretrano il loro margine di intervento, è certo perché su un numero
sempre crescente e socialmente diversificato di persone, altri sistemi di governance cognitiva e di
mobilitazione pratica possono riuscire a operare magnificamente anche senza di loro – a giudizio
sia di chi li manipola sia di chi vi si sottopone. È la secolarizzazione, bellezza, e con la
secolarizzazione il pastore ha imparato a convivere da tempo. Ma se gli dei smobilitano perché, su
un numero sempre crescente e socialmente diversificato di persone, altre definizioni della salute,
della guarigione e dell’ottimalità psico-fisica fanno presa senza menzionarli (o quasi), allora per il
pastore, sociologicamente parlando, tira davvero una brutta aria. Se gli dei si diradano o addirittura
spariscono dai radar di nuovi dispositivi di “governo del sé” (psicoanalitico, biomedico, sportivo,
arte-marzialesco, sessuologico, socio-assistenziale, e via dicendo), che li ignorano, i pastori non
devono più solo vedersela con la secolarizzazione, l’ateismo e la concorrenza dei loro colleghi
accreditati delle altre religioni: per intenderci, quelli che la globalizzazione dei corpi e delle
informazioni ha portato “a casa loro”, spezzando i recinti territoriali e/o coloniali storicamente
piantonati dai vari mandatari di dio. Ma devono misurarsi bon gré mal gré con tantissime altre
figure professionali cui un pubblico sempre più numeroso e vario riconosce – per dirla in breve –
statuto, funzioni e poteri analoghi a quelli del vecchio pastore. Per concludere su questo primo
punto: la crisi del pastorato è crisi di identità pastorale ed è crisi di sovrapproduzione,
disseminazione e fuoriuscita dagli argini dell’economia pastorale. La dissoluzione del religioso,
invece, è la sanzione dell’irrilevanza e dell’impotenza degli dei nel contrastare, con il segnale della
propria assenza, la proliferazione di pastori e l’esodo dei pastori. L’un fonomeno retroagisce
sull’altro.
Secondo elemento. Come abbiamo visto, la crisi del pastorato e la dissoluzione del religioso parlano
della disintegrazione di una frontiera: quella del campo religioso come spazio all’interno del quale
si lotta per l’imposizione della definizione legittima del religioso e dei differenti modi di riempire il
ruolo religioso. B., in quel suo saggio, coglieva puntualmente che questa disintegrazione non
sarebbe possibile, o non sarebbe così radicale, se non si legasse a un’altra disintegrazione: quella
dei confini tra anima e corpo, segnati dalla divisione storica dei rispettivi lavori di cura. Questa
confini, un po’ come quelli della vita e della regola per i monaci studiati da Agamben, entrano ora
in una zona di indifferenza e di indeterminazione. Il pastore disciplinava i corpi per curare, salvare
le anime. Entro la sua economia, i confini del mezzo e del fine erano chiari. Ora, tra i nuovi chierici
e i nuovi pastori, e presso la loro clientela, lo sono assai meno. B. scrive: “una parte della clientela
borghese dei venditori di servizi simbolici ha cominciato a pensare più al corpo che all’anima”. Poi
un po’ si corregge: “Forse si è scoperto che parlare del corpo era un modo di parlare dell’anima –
cosa che alcuni sapevano da molto tempo –, ma facendolo in modo completamente diverso: parlare
del piacere come se ne parla a uno psicoterapeuta è tutt’altra cosa che parlarne di fonte a un prete”.
Parlare del corpo, quindi, come modo diverso di parlare dell’anima. Qui la storia millenaria della
fortuna pre- e post-cristiana, pre- e post-cartesiana della distinzione ontologica anima-corpo non ci
interessa. E in ogni caso non c’è tempo. Guardiamo piuttosto alcune cose. Consideriamo la
trasmigrazione del “dispositivo di sessualità” dall’arredo del confessionale al lettino dello
psicanalista; e poi la più recente costituzione di un sapere genetico predittivo e premonitorio,
amministrato da consulenti e sollecitato da sempre più numerose “minacce alla salute”
geneticamente insidiate; e infine l’esplosione dello yoga come possibile pratica globale di
adeguamento agli imperativi del fitness e come indicatore globale di adeguatezza sociale. Niente di
tutto ciò sarebbe possibile se il sito di applicazione del nuovo potere pastorale fosse ancora il corpo
come prigione dell’anima. O tutt’al più il corpo come docile e malleabile alleato dell’anima. Il
nuovo pastorato, pazientemente, ascolta l’anima come ostinato linguaggio del corpo da trattare, ma
poi si dedica al corpo come oggettivo e concreto terminale da curare. Corpus vel anima. La scelta è
fatta e la decisione per il corpo è presa. Salus, termine latino che designa tanto la salute fisica che la
salvezza metafisica, incarna un’ambiguità che semmai tolta. Se da un lato parlare di soggetti, di
cure e di pastori “psico-somatici” è usare una lingua un po’ torbida, perché il modo in cui si
congiungono i due termini potrebbe ancora suggerire l’antica distinzione gerarchica tra i settori di
investimento terapeutico (psico – somatico), parlare, come fa il sociologo e bio-politologo Nikolas
Rose, di “individui somatici” e di “sé somatici”, di “esperti somatici” e di “pastori somatici” è
molto più utile. Nella sua parzialità quasi faziosa, aiuta almeno ad assumere un punto di vista
preciso e una presa di posizione teorica chiara. Questa:
“Sempre più, suggerisco, ci andiamo rapportando a noi stessi come a individui ‘somatici’, cioè come a esseri
la cui individualità è, almeno in certa misura, radicata nella nostra esistenza carnale, corporea, e che fanno
esperienza, si esprimono, giudicano e agiscono su se stessi, almeno in parte, nel linguaggio della medicina. A
partire dai discorsi ufficiali di promozione della salute, attraverso racconti di esperienza di malattie e di
sofferenza offerti dai media, alle diffuse chiacchiere su diete ed esercizi, siamo testimoni di un sempre
maggiore rilievo conferito alla ricostruzione personale grazie all’intervento sul corpo in nome di un
benessere al contempo corporeo e psicologico. Esercizio, dieta, vitamine, tatuaggi, piercing, farmaci,
chirurgia estetica, rassegnazione del genere, trapianto d’organi: l’esistenza corporea e la vitalità del sé sono
diventate il luogo privilegiato degli esperimenti relativi alla nostra persona [...] è in termini corporei che
vengono immaginati la nostra verità e il nostro destino: la nostra corporeità, adesso [anche] a livello
molecolare, è l’oggetto dei nostri giudizi e delle tecniche che usiamo per migliorare noi stessi”
Gli “individui somatici” di Rose sono degli antropo-tecnici, direbbe Sloterdjik, degli esercitanti che
si immunizzano da vaghi rischi di malattia, invecchiamento e morte ottimizzando il loro stato vitale.
Non solo questi soggetti non assegnano agli dei alcuna partnership apparente e ufficiale nella
realizzazione di questi processi immunitari. Ma, congedandosi esistenzialmente dal dispotismo
metafisico dell’anima, gli esseri somatici contemporanei escono da una sorta di stato antichissimo
di disponibilità cognitiva. Si tratta di quello stato atavico ma specifico di disponibilità alla
disposizione religiosa (cioè alla cattura, all’orientamento e alla fissazione religiosa) che è
determinato dall’investimento sull’anima come scrigno invisibile e fragile di vita e destino: uno
stato di permeabilità alla manipolazione religiosa ereditato fin dai tempi lontanissimi in cui i loro
antenati erano clientela degli sciamani e la loro “anima”, con gravi rischi per il corpo, veniva
catturata negli spazi non-umani solcati dallo specialista. Un gran sollievo, non c’è dubbio. Ma la
domanda finale è questa. Questo processo di de-divinizzazione, di de-animizzazione, se vogliamo di
de-religionizzazione delle antropotecniche, ai tempi del “soma per il soma”, ai tempi del soma
liberato dall’assillo dell’anima e orientato a una verità e un destino che riguardano solo lui, in che
relazione ci pone nei confronti dei “nuovi pastori” e dei “nuovi pastorati”? Fino a che punto il
soggetto somatico può dire di disporre del suo “sé somatico”, di questo nuovo fulcro di
costituzione del senso e di organizzazione dell’esperienza su cui lo specialista religioso d’antan
(sciamano e prete, prete e sciamano) non ha più né esclusiva né reale presa? Per dare un abbozzo di
risposta, sufficientemente vaga da lasciare il discorso aperto, dimentichiamo per un attimo l’hard
power della legislazione “bioetica”: quella normazione che coagula il potere antico di coercizione
politica, tramite la legge, al potere recente di presa in carica dei processi vitali dell’esistenza umana;
quella formazione che stabilisce ogni volta il confine dell’etica, delle questioni etiche, della
sensibilizzazione etica nella gestione autonoma e personale dei processi vitali stessi. Non apriamo
nemmeno il capitolo della “bioeconomia” come capitalizzazione tecnologica della vita, che
prolifera e sovente specula sul “bio-valore”, cioè sul valore latente nei processi biologici e nelle bio-
risorse rinnovabili per produrre al contempo salute migliore e crescita economica. Ritagliamoci
piuttosto uno spazio di ragionamento finale entro quell’ambito di problemi, obliquamente
biopolitici, che Rose raduna sotto il nome di “eto-politica”. Una formula apparentemente impervia,
questa di “eto-politica”, che in buona sostanza allude a una sorta di zona di transazione, di
pattugliamento reciproco ma anche, fatalmente, di interazione e corto-circuito tra due istanze
distinte: a) l’imperativo del buongoverno, con direzione top-down, che induce le istituzioni
governative, o comunque dei poteri economico-politici, a sforzarsi di modellare la condotta degli
esseri umani rispetto a loro stessi e alle loro responsabilità per il futuro, agendo sui loro sentimenti,
sulle loro credenze e sui loro valori, in breve: sull’etica; b) il desiderio di autogoverno, con
direzione bottom-up, corrispondente alle varie tecniche del sé in virtù delle quali i soggetti si
responsabilizzano, si giudicano e agiscono su se stessi per rendersi migliori. Questo è esattamente lo
spazio, che conserva il ricordo di antiche antropotecniche e di storici pastorati, in cui le nuove
forme di autorità dei nouvi esperti somatici si sono coagulate. Disertato dagli dei, inospitale per i
vecchi chierici, questo nuovo campo è lo spazio strategico, concorrenziale, potenzialmente molto
redditizio, in cui i pastori del soma esercitano il loro potere pastorale “mite”, dolce, negoziale,
relazionale, fatto di consigli, consulenze, terapie, sedute, lezioni, corsi. Uno spazio da cui il dio dei
monoteismi prende inevitabilmente congedo, in cui anche l’essere sovrumano minimamente
controintuitivo, lui che è sempre in attività, si rilassa, e dove anche il prete si rivolge al dietologo, al
promotore sanitario, allo yogin.