venerdì 23 luglio 2010

piramidi di sabbia



in ossequio all'ozio estivo recupero materiali passati, e sospendo la normale programmazione per un racconto di fiction, già un po' datato, ma del resto non credo che l'abbia letto veramente nessuno.

post estivo, tra bagnetti e giardinetti,

costruendo piramidi di sabbia.








prologo

giugno 2010


Strana emozione quella di chi, dopo aver avuto il suo primo, benché piccolo, contratto da autore di racconti si trova a dover fare causa al suo primo editore. La sua prima causa contro chiunque, peraltro.

Cose che ti tolgono il piacere di vedere pubblicato il tuo lavoro e ti inducono ad amare meno il libro in cui hai creduto, ha guardarlo con rancore, con vergogna per quello che gli hanno fatto, ti hanno fatto, ci hanno fatto.

Un passo indietro. Quasi due anni fa, un caro amico e già compagno in altri progetti, instancabile promotore di iniziative culturali e editoriali, pensa a un libro tributo ai Radiohead che ha tutte le caratteristiche per piacermi.

L'idea è semplice ed efficace: se i Radiohead sono il più interessante gruppo di oltre-rock contemporaneo capace di stare nel mainstrem venendo dall'undergroung, veicolando e tratti grafici e poesia, viaggiando tra alto e basso, pop e sinfonia, emotività viscerale e cerebrale sperimentazione, melodia e selotenga (... ehm), allora si faccia un libro una raccolta di narrazioni a partire da loro. Una squadra di musicisti, scrittori, disegnatori, famosi e no, appartenenti a quella generazione che nei Radiohead ha trovato il loro 'non chiedermi la parola' si è mossa in moto intorno a una consegna: scegliere una loro canzone e generare una storia, un racconto narrativo, graphic novel, fumetto.

Oltre all'aspetto di comporre la squadra si è posta la questione di cercare un editore. Dopo lunghe ricerche e proposte, l'editore XXXXXX ha aderito con entusiasmo, gettandosi nel progetto con dedizione e passione e ha fissato anche condizioni contrattuali addiritura migliori di quelle che avevamo preso in considerazione.

Penso allora, le persone coinvolte sono come noi, tutti amiamo i Radiohead, quella cultura è la nostra cultura e il libro si farà. A volte le cose girano, questo mondo non è poi così male. E sto pubblicando il mio primo racconto di fiction.

Bello, dunque, ognuno di noi - nel frattempo si è creato un certo senso di appartenenza grazie al coordinamento del curatore - si lanciato, oltre che nella scrittura del suo lavoro sulla promozione del progetto collettivo, sono partiti contatti, segnalazioni, insomma un vero collettivo di narratori. Il libro esce, forse un po' caro rispetto a quanto si pensava, qualche problema nella gestione della grafiche, ma del resto poteva andare peggio.

I problemi arrivano dopo. Passano i mesi e nessuno viene retribuito. Le cordiali e pazienti richieste di chiarimento vengono alternativamente ignorate o neutralizzate con promesse di pagamento imminente. Scopriamo che non siamo i soli a essere nelle stesse condizioni, e che l'editore, non l'unico nel mondo per carità, tende a pagare con ritardi notevoli i collaboratori considerati poco importanti. Gli stessi con cui abbiamo lavorato ammettono di essere in imbarazzo per le modalità di gestione dei pagamenti. Insomma.

La questione è che eravamo orgogliosi del fatto che l'editore, come noi tutti, è di sinistra. Che tra le cose di quella cultura che ci ha prodotti e che abbiamo voluto celebrare, la correttezza tra le persone e la corresponsione di quanto spetta per una prestazione di ingegno sono dati elementare di un codice di convivenza, se hai problemi gravi almeno me lo dovresti spiegare; dovrebbe essere una delle prime cose, quelle date per scontato e su cui si fonda un modo di vivere diverso, diverso da quello che rende questo paese un posto da cui scappare o in cui vivere in trincea.

La questione è che molti di noi, una generazione di illusi, sciocchi e ostinati, che non possono contare sui patrimoni di famiglia, spesso attraversano un precariato umiliante e sfiancante per vivere di cultura, si ritagliano nicchie di sopravvivenza da cui tentare ogni tanto timidi voli, e l'idea che per avere quello che c'è scritto su un contratto devo contattare un avvocato e andare in tribunale, mi fa male, davvero. Una storia molto Radiohead anche questa, che racconta dell'ennesima ferita di un mondo fuori squadra.

Comunque, con il bonifico arrivato ho preso una chitarra, una epiphone jumbo e qualche giorno di mare. Ai ragazzi di Oxford farà piacere saperlo.



Si apre il sipario





La canzone della piramide



Angeli dagli occhi neri nuotavano con me

Una luna piena di stelle e macchine astrali

Tutte le figure che ero solito vedere

Tutte le mie amanti erano lì con me

Tutto il mio passato ed il futuro


E andammo tutti in paradiso su una piccola barca a remi

Non c'era nulla da temere e niente di cui dubitare

Mi sono tuffato nel fiume


Angeli dagli occhi neri nuotavano con me

Una luna piena di stelle e macchine astrali

Tutte le figure che ero solito vedere

Tutte le mie amanti erano lì con me

Tutto il mio passato ed il futuro


E andammo tutti in paradiso su una piccola barca a remi

Non c'era nulla da temere e niente di cui dubitare

Non c'era nulla da temere e niente di cui dubitare

Non c'era nulla da temere e niente di cui dubitare


Radiohead, Pyramid song, Amnesiac


1.

Dalle carte di Niccolò Steno. Egitto, 4 ottobre 1582


L’aria è cupa e densa di tenebra, mi sembra di essere sul fondo limaccioso di un pozzo, fa freddo e ho paura. C’è qualcosa fuori dal mio campo visivo che mi paralizza: credo di essere sveglio, provo a muovermi ma non ci riesco, provo a parlare ma non succede niente. Avverto la presenza, il suo odore di terrore si avvicina lentamente, fino a quando mi sveglio con un senso di angoscia inesplicabile. è il mio sogno ricorrente, mi accompagna come gli uccelli marini hanno seguito la nave che mi ha portato fin qui.

L’ho sentita la prima volta, bambino, in un paese della Provenza, in viaggio con mio padre verso il convento. Durante una processione per scongiurare la peste, un vecchio - lo dicevano cataro - aveva avuto la sconsiderata idea di uscire di casa. La folla rumorosa, scomposta, furibonda aveva dato fuoco alle sue vesti tra insulti rabbiosi, risate volgari e battute oscene. Corsi via, scosso dai conati di vomito, per perdere i sensi in un fosso poco fuori dal centro abitato. E nel regno delle ombre l’avevo incontrata. Risvegliarsi per gli scrolloni di mio padre, ritrovare il sole e l’odore sgradevole e familiare degli uomini, degli animali e dell’erba e delle strade sporche, scoprire di essere ancora vivo e in questa dimensione, mi era sembrato meraviglioso. Da allora la sua ombra ha sempre camminato non troppo lontano. Per questo posso dire che ho sempre avuto paura e dubitato di tutto. L’ho intravista così tante volte che con il tempo ha cominciato a far parte dello sfondo della mia vita. In ogni paese, ogni luogo, ogni stanza. Così ho iniziato a ignorarla. È come recitare il rosario fino a quando stremato non ti addormenti, avendo cura di non lasciare spazi tra una parola e l’altra e senza mai aprire gli occhi né sporgere testa, mani e piedi fuori dalla coperta. Funziona. Allora la sua immagine si è ripresentata sotto forma di sogno. Sogno di sognare di sognare, svegliarmi è come chiudere alle spalle le porte di tanti ambienti che sembrano non finire mai. La sento avvicinarsi, allora comincio ad agitarmi e poi mi sveglio. L’ho evitata. Ma so che da qualche parte c’è qualcosa che mi aspetta per fare a pezzi la mia anima, trascinarla negli abissi del buio e del dolore, dove è pianto e stridore di denti.

Per questo adesso sono qui: avere il coraggio di rimanere immobile e aspettare che la Presenza manifesti il suo volto. Altri sono stati con me, ma oggi sono solo. Oggi è il 4 ottobre 1582. Domani per i Signori del tempo sarà il 15 ottobre. Da mesi si prepara la riforma del nostro calendario per rimediare agli errori di calcolo degli equinozi. Miserabili. Come se fossero questi gli errori da emendare. Nei Dieci-giorni-che-non-sono, io ho la possibilità di essere: mi aspetta l’ingresso della Piramide. Dieci giorni per scendere le scale degli Arconti e stare da solo a solo con il Rettile la cui testa è Paura e la coda Dubbio.


2.

Roma, gennaio 1600


Il freddo buio e silenzioso che pungeva e trafiggeva le sue ossa fu per un attimo interrotto dalla lama di luce che filtrava attraverso la porta. Dopo una lenta esitazione lo riconobbe sotto il pesante mantello con il cappuccio, il suo portamento era sicuro e rapido, silenzioso e circospetto. Gesti scolpiti come nella pietra, scatti perentori di chi da lungo tempo non si permette indecisioni, attutiti e sommessi nel fruscio delle vesti: «Abbiamo poco tempo, tieni questo. È tutto quello che sono riuscito a fare.»

Nonostante la lunga permanenza al buio e gli occhi ridotti a strette fessure, Niccolò vide il nuovo venuto tenere in una mano un lume ad olio dal fioco bagliore, alto sopra la testa, l’altro braccio ospitava una coperta. La mano gli porse un involucro.

«Signore benedetto, come sei ridotto», commentò Zenone, «pazzo incosciente che non sei altro.»

Con la lentezza delle membra provate dalla tortura, ma che pure in piena salute non avevano mai conosciuto il guizzo e la rapidità, Niccolò trasse fuori un soffio di lente e faticose parole: «strano vederti, frater, sono anni.»

La figura, solenne come un Arconte del Settimo cielo, lo zittì rapido sussurando: «Lascia perdere, non siamo fratelli. Sei spacciato e lo sai, la tua autodifesa ha irritato anche quei pochi che avrebbero voluto evitarti la morte. Non posso fare nient’altro che portarti queste poche cose. La coperta la riprendo, la sua presenza qui desterebbe troppi sospetti.»

«Sei venuto solo per dirmi questo?» fluì lento Niccolò.

«Non farmi perdere le staffe anche quando stai per morire», staffilò Zenone. Avvolgendosi dentro la coperta, rimanendo sdraiato sull’asse di legno, il prigioniero rispose: «questa mi serve, ti ringrazio, del cibo non me ne faccio niente. Quanto alla mia sorte, non mi dici nulla di nuovo. Ho incominciato a camminare verso questo momento fin dai primi giorni delle nostre letture».

«Taci!» Interruppe secco l’altro. «Se ti sono stato compagno nell’errore è stato per un istante, e sono passati lustri. Ho rimediato ai miei errori da tempo.»

Il ridestarsi di Niccolò era completo e le parole uscirono maliziosamente insinuanti anche nel suono, ma senza rabbia: «Questo è vero, visto che sei tu che decidi quali libri devono essere bruciati.»

Occhi di collera avvamparono perforando il buio. Si percepiva un enorme sforzo di autocontrollo: «Sentiamo che cosa avrei dovuto fare? Offendere i sacramenti, irridere i fondamenti dell’ordine come hai fatto tu negli ultimi quindici anni – e qui la voce si fece un sussurro appena udibile - o andarmene in Oriente a praticare culti blasfemi e demoniaci?»

Niccolò, dopo una lunga pausa che sottolineò lo scarto tra la formulazione delle parole nel pensiero e la loro espressione, disse: «Ho celebrato Colui-che-forse-È e spinto la mia osservazione fin dove si poteva, cercando il sapere che viene dalle cose. Pietre, metalli, fuochi e acque – sembrava intonare una struggente litania – materie e forme, pesci e uccelli, rettili e quadrupedi, epoche trascorse e vizi sempre uguali. Ho fatto come Talete che ha misurato l’ombra della Piramide dopo avere osservato l’ombra del suo corpo nell’ora in cui è uguale alla sua altezza.»

L’impazienza e il nervosismo dell’altro erano sempre più difficili da trattenere, un sibilo tra denti stretti: «Me lo dicevano che eri completamente pazzo. Parli come uno stregone.»

«Amo quello che tu e i tuoi amici calunniate, assassini di animali migliori di voi. Sei tu che hai dimenticato il geroglifico vegetale che nutre l’animale universo e metti i tuoi sigilli al fondo di documenti che invitano a crocefiggere i gatti…»

La furia di Zenone ormai era evidente in ogni gesto: «Miserabile pazzo, la tua poesia non ha mai sfamato nessuno, né potrà fermare gli eserciti. L’unico Dio Uno e Trino garantisce l’ordine, gli incolti sono feccia incapace di capire. Il nostro dovere è arginare la marea. Ora devo andare. Sei perduto. Di te non resterà traccia.»

Niccolò si lasciò lentamente cadere, senza più guardare il suo interlocutore; mentre la guardia armeggiava con la serratura, disse con voce ferma: «Ma come può a Malta un dente di pescecane trovarsi dentro uno strato di roccia?»

Ma l’altro era gia fuori e il sinistro clangore della porta richiusa si portò via le ultime parole. Nel buio il silenzio faceva compagnia al respiro di Niccolò. La coperta, comunque, era rimasta lì. Ormai la Paura e il Dubbio non potevano nulla contro di lui.


3.

Roma, 16 febbraio 1600.

Quando Niccolò Steno entrò con le catene ai polsi, rivestito di una tunica bianca e accompagnato da un drappello di guardie armate e preceduto dal crocefisso, l’aula del palazzo arcivescovile era già gremita di prelati in abito talare, notai con i loro scranni per la cancelleria, nobili e dame con i loro seguiti e armigeri ai lati per tenere a bada una folla di borghesi e popolani che erano riusciti a entrare. Molti altri attendevano fuori vociando scompostamente, sotto lo sguardo severo di soldati duri e legnosi come stoccafissi. La magrezza estrema, dovuta ai patimenti subiti durante la carcerazione e al rifiuto di prendere cibo, la cerchiatura violacea degli occhi e l’aspetto da animale ferito che caratterizzava quell’eretico lunare e curvo suscitava non poca compassione tra gli astanti di ogni rango. Un lusso che da anni pochi si potevano permettere. Nessuno osava tenere il suo sguardo, dolce, liquido e febbrile al tempo stesso. Il cardinal Zenone **********, costantemente incappucciato tra i membri del Collegio inquisitoriale, serrò involontariamente la mandibola, pensando alla distanza e alla posizione che lo separava dall’accusato; il suo giudizio sui testi di Steno aveva confermato le richieste di una condanna severa. La lunga cantilena iniziale in latino e la serie di locuzioni in volgare che elencavano le accuse rivolte al condannato, perché di fatto lo era già per tutti e da tempo, era per tutti priva di qualsiasi significato, considerato che le accuse, le testimonianze e anche le logiche retrostanti la denuncia erano false. Servì solo per aumentare la tensione fino a quando il tono stesso sembrò suggerire una conclusione. Niccolò udiva il suono remoto della voce come se fosse la medesima di Ade, solo meno fragorosa.

Per il che essendo stato visto e considerato il processo contra di te formato e le confessioni delli tuoi errori ed eresie con pertinacia e ostinazione, benché tu neghi essere tali, tutte le altre cose da vedersi e considerarsi: proposta la tua causa nella Congregazione nostra generale e quella votata e risoluta, siamo venuti all’infrascritta sentenzia. Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua Gloriosissima Madre Sempre Vergine Maria, per questa nostra definitiva sentenzia, quale di consiglio e parere dei Reverendi Padri Maestri di Sacra Teologia e dottori de l’una e l’altra legge, nostri consultori, proferiamo in questi scritti, diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo te fra’ Nicolaus Steno predetto essere eretico impenitente pertinace ed ostinato e perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche e pene dalli sacri canoni, leggi, costituzioni. E come tale te dichiariamo dover essere scacciato, si come ti scacciamo dal foro nostro ecclesiastico e dalla nostra santa e immacolata Chiesa della cui Misericordia ti sei reso indegno; e dover essere rilasciato alla corte secolare per punirti delle debite pene. Di più condanniamo e proibiamo tutti gli sopradetti ed altri eresie ed errori, ordinando che tutti quelli che sin d’ora si sono avuti, e per l’avvenire verranno in mano del Santo Officio, siano pubblicamente guasti ed bruciati sulla pubblica piazza, e come tale che siano posti nell’indice de libri proibiti, sì come ordiniamo che si faccia’.

La lettura della lista dei firmatari del documento, si perse mentre il brusio aumentava di volume, fino a diventare protesta per la strada, mentre gli armigeri serravano le alabarde con cui trattenevano la folla, le dame sussurravano concitatamente tra loro e alle orecchie delle damigelle, i cardinali rigidie seduti muovevano solo gli occhi gli uni alla ricerca di quelli degli altri, i segretari assorti nell’inchiostro delle loro pagine.

Niccolò dal canto suo era già altrove da tempo. Pensava, se può essere pensiero uno stato di coscienza così diverso da quello che l’aveva fatto grande, tagliente e rapido come una lama nel buio, caldo e generoso come un fuoco nella notte, all’incontro con la Presenza notturna da cui non si era mai più separato dopo il viaggio in Egitto. Al silenzio, alla ricerca, alla notte oscura, alla catena dei maestri, alle scale e alle soglie. Al Rettile la cui testa è Paura e la coda Dubbio davanti a lui nel cerchio tracciato intorno a sé, che gli sussurra insistente e crudele: «Sei come me.»

Al fondo della Piramide aveva scoperto che l’orrore non era niente più delle forme con le quali gli pareva di averlo intravisto. Non aveva conosciuto sua madre, morta di parto, e il padre, un banchiere al servizio del duca di §§§§§§§, non aveva tardato molto ad affidarlo al convento domenicano per la sua educazione. La Presenza l’aveva sentita in paesi spettrali stando vicino ai malati di peste, riducendo fratture e cucendo ferite senza chiedere come erano state procurate, nei bambini malnutriti che se andavano via senza un lamento, nelle bestie stremate rese pazze dalla fatica, nella figlia del conte aiutata a sbarazzarsi di un fardello che le sarebbe costato la vita. Nelle tonache luride dei conventi, nelle storie oscene dei viaggiatori, negli sguardi privi di espressione dei villani, negli zibellini e nelle dita inanellate, nella sale gremite di pedanti delle università, nelle piazze solenni e tremanti, eccitate e oscene delle pubbliche esecuzioni. Era stato come essere davanti a uno specchio e avere davanti a sé tutti i giorni di tutti gli uomini di tutti i tempi. Ora infine i rapporti tra le cose e l’ombra si erano invertiti. Adesso era quest’ultima a dominare la scena, e il mondo era un paesaggio distante e incolore con molteplici forme indefinite che si agitano senza posa parlando lingue sconosciute.

Quasi solo il cardinal Zenone, membro eminente del Collegio inquisitoriale, lesse sulle labbra esangui dell’eretico, parole distinguibili in una frase, che peraltro sarebbero risultate incomprensibili ai più in ogni circostanza. Le stesse che risuonavano da qualche parte nella sua mente, come provenienti dall’oltretomba, rimbalzando dalla memoria di segreti scambiati vent’anni prima. Dopo le lezioni, poi sussurrati tra piacere, timore e sorpresa, all’alba in boschi brumosi e poi ritrovati su pagine meravigliose e terribili stampate all’estero da qualche editore coraggioso.

Di come i denti di pescecane possano trovarsi nella roccia e cosa leghi ombre delle piramidi alle ombre umane sarebbe stato il fuoco a decidere.


4.

Per tutta la giornata i martelli avevano scandito il tempo, con il loro sinistro rintoccare. Tutti sapevano che quello che era stato montato con energica solerzia era un palco per il rogo previsto. Inutilmente le acque del cielo avrebbero ostacolato le fiamme ravvivate dalla pece. La notte del carcere era popolata di silenzi pesanti, nell’ora che precede la morte. La cella sembrava più piccola rispetto all’ultima volta. Due uomini e il condannato la occupavano.

Mi sono tuffato nel fiume, cosa ho visto?

I nostri cuori saranno due grandi fiaccole

Ma tu chi sei?

«Ha la febbre alta, magister.» La voce del giovane speziale era rotta dall’emozione. «Non siamo qui per curarci della sua salute», rispose la figura incappucciata, famigliare a quei sotterranei, incapace nonostante tutto di pensare agli insetti che si agitavano nel buio senza provare un doloroso senso di nausea.

Negli animali le loro parti sono in continua alterazione e moto, ed hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa dall’estrinseco e mandando fuori qualche cosa dall’intrinseco.

«Ho paura magister», ed era vero; le mani tremavano nel cercare di aprire il sacchetto nascosto sotto lo scapolare.

«Avrai la tua assoluzione, se è quello che temi.»

«Non è quello, sapete voi cosa è opportuno, non sono uso a discutere con un gigante di Nostra Madre Chiesa cosa è cristiano e cosa non lo è. Il posto… mette i brividi.»

«Ora taci e fai in fretta», intimò severo Zenone.

Angeli dagli occhi neri nuotavano con me

Essendo che ogni cosa partecipa della vita molti ed innumerevoli individui vivono non solamente in noi ma in tutte le cose composte.

Una sera di rosa e azzurro mistico ci scambieremo un unico bagliore simile a un lungo singhiozzo risonante di addii

Io sono l’Intelletto della Sovranità Assoluta

Gli occhi del prelato alla fioca luce del lume cercarono di abbracciare la figura del condannato, simile alla sua in giorni in cui i destini sembravano intrecciati. Erano tempi diversi, pensò Zenone, in cui il fossato che separa l’errore dalla verità non era ancora stato scavato, e in cui giocare agli infiniti mondi e leggere libri proibiti si poteva ancora fare.

Tutte le figure che ero solito vedere, al di sopra degli stagni, delle valli, delle montagne, dei boschi, delle nubi, dei mari, oltre il sole e l’etere, al di là dei confini delle sfere stellate

Chi ben considera saprà che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo quando eravamo fanciulli e vecchi non abbiamo quella medesima quando eravamo giovani, perché siamo in continua trasmutazione

So quello che tu vuoi e sono con te dappertutto

«Non ci sente, magister. È dalla condanna che le guardie riferiscono uno stato catatonico e nessuno dei confessori mandati a parlargli è riuscito a cogliere lumi di intelletto.» Zenone aveva profondamente amato quel corpo, la lingua tagliente e lo spirito arguto, altrettanto sottile ma diverso da quello proprio, incline alla mediazione e poco avvezzo al conflitto. Li aveva uniti il disprezzo per la mediocrità, la passione per le lettere, la fede sentita come impegno e ricerca interiore. L’abbandono di quella vita gli era costato non poco, ma non si rinuncia a una sede vescovile e a una carriera di inquisitore se porti il nome che porti.

Fuggi lontano da questi miasmi pestiferi

Una luna piena di stelle e macchine astrali

Il principio ordisce la tela, intesse le fila, digerisce e distribuisce gli spiriti, infibra le carni, stende le cartilagini, salda l’ossa, ramifica li nervi, incava le arterie, infeconda le vene, fomenta il core, inspira i polmoni.

Guarda bene nel tuo intelletto tutto quello che vuoi sapere

Io ti istruirò

Bisogna pur sapere crescere, Signore Iddio, e riconoscere le sacre verità della fede dalle schermaglie dialettiche e dagli incantamenti del maligno che suole irretire le menti migliori facendo leva sull’orgoglio che scatena le menti. Lo aveva amato, ma era un altro tempo, decisamente.

«Procedi allora Teofilo, abbiamo poco tempo. Sarà difficile giustificare alla Congregazione quanto sta per accadere.» Dopo aver fissato intensamente il superiore, lo speziale estrasse dalla sacca un cucchiaio. Lentamente lo immerse nel sacchetto che teneva con l’altra mano.

Tutte le mie amanti erano lì con me

Gli egizi sanno che sono nel grembo della natura, la quale come dal mare e fiumi dona i pesci, da gli deserti gli animali selvatici, da le miniere li metalli, dagli alberi le poma.

La fonte da cui procede il corpo individuale è la somma oscurità, da cui viene la natura umida

Niccolò continuava a essere privo di coscienza, immerso in un sonno scosso da brividi e brevi schiocchi delle labbra e contrazioni involontarie. Non sentì il cucchiaio che lo speziale Teofilo, sotto lo sguardo vigile e attento di Zenone, gli appoggiò alle labbra socchiuse, aiutandosi con l’altra mano per far arrivare il contenuto alla gola. «Non soffrirà magister, se ne andrà senza svegliarsi, come avete chiesto», la voce di Teofilo era un sussurro.

Tutto il mio passato ed il futuro

Ciò che era seme si fa spiga, da che era spiga si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavere, da questa terra.

Se potessi tenerti tra queste braccia

Attraverso la natura umida il corpo è costituito nel mondo sensibile

Dove si abbevera la morte

I due uomini in piedi fissavano il terzo disteso, finalmente rilassato, per un tempo interminabile. Se c’erano rumori nel sotterraneo, loro non erano in grado di sentirli. Dopo un po’ il più giovane osò parlare: «Ormai non ci sente più. Il veleno deve essere giunto al cuore.» Insieme fecero il segno della croce, mentre una muta preghiera attraversava la mente del più anziano. Il gesto estremo era compiuto, è tutto finito. Doveva solo dimenticare. Ma la luce che filtrava come da una porta chiusa dietro cui splenda una fiamma intensa si accese nella sua mente, impedendo il buio desiderato. Lampi più luminosi dei fuochi greci che avevano progettato insieme si accesero molesti, senza che fosse possibile allontanarli. Era stato lui a iniziare tutto. Quando suo padre aveva ricevuto in dono quel prodigio da Malta, il dente di pescecane incastrato nella roccia, non sapeva che l’ossessione d'infanzia sarebbe stata condivisa con il compagno di gioventù. Insieme avevano iniziato a cercare di capire come un corpo solido possa stare all’interno di un altro corpo solido. Di lì alla prima dissezione clandestina il passo non è poi così lungo. La via era aperta e ogni cosa parlava di ogni cosa. Il segno dell’aria che bagna le geometrie arboree, il fuoco che danza e trasforma ciò che sta in basso e ciò che sta in alto, la metamorfosi che esplora i mondi. Dubitare di tutto e cercare nuove strade. Ma era stato l’altro a continuare. Lui aveva dimenticato la posizione che cambia. Aveva scelto la definizione, e di non essere più né muto pesce del mare né fanciulla. Di non avere paura e di non dubitare. Lui non c’era stato più a un certo punto, perché per lui dopo il 4 ottobre 1582 era seguito il 15. Ma sapeva che c’era un’uscita dalla Piramide.

Ave Maria, gratiae plena hoc est meum corpus

Si noi fossimo ne la luna o in altre stelle non saremmo in loco molto dissimile a questo. Non più è imprigionata la nostra ragione coi ceppi de fantastici mobili e motori otto, nove e dieci

Una la forma una la materia una la cosa

E così porta i fratelli, i suoi tesori e i suoi figli, fragoroso di gioia, in seno alla madre che attende

Angeli dagli occhi neri nuotavano con me

Zenone si rivolse a Teofilo. «Inginocchiati, ti assolvo», ordinò mentre l’altro obbediva.

«Ora te ne andrai.»

«Ma magister, non devo fare altrettanto con voi? Non venite…» proruppe stupito dal cambiamento di programma.

«Fai come ti ho detto. Ora vai via,» lo interruppe secco.

Sai Sofia sei sei Sofia

La mutazione non cerca altro essere ma è altro modo di essere

Nessun corpo nel suo luogo è assolutamente grave o lieve

Tu stai con il cuore inesplorato aperto e impenetrabile sopra il mondo attonito

Sospeso sull’acqua e sulla terra simile agli dei

Una luna piena di stelle e macchine astrali

Tutto il mio passato ed il futuro

I loro coltelli non avranno potere su di me

Perché conosco i loro nomi

Andremo in paradiso su una piccola barca a remi

Lo sapeva perché Niccolò aveva voluto raccontarglielo al ritorno dall’Egitto. Poco prima che si separassero per diciassette anni, dopo una lite furibonda. L’uscita dalla Piramide la trova solo chi ha guardato a lungo in faccia il Rettile.

Rimase a lungo in silenzio mentre la sua mente traboccava di immagini e parole che credeva cancellate, il cuore martellante in petto. Poi decise. Non volle tracciare il cerchio, né pronunciare la formule di rito. Non perché non ne avesse il tempo, ma perché lo ritenne superfluo, o forse inutile.

Come Talete misurò l’ombra della Piramide dopo aver osservato l’ombra del suo corpo nell’ora in cui è uguale alla sua altezza, prese le misure delle sua esistenza, sottratta all’infinito processo e all’ininterrotta espansione. Allora pianse, a lungo, e piangendo, non gli rimase che estrarre il rasoio nascosto nel saio. Si asciugò le lacrime e senza solennità, con gesti precisi e netti si recise le arterie all’altezza dei polsi e delle caviglie. Poi si lasciò cadere dolcemente sul giaciglio a fianco delle spoglie di Niccolò, mentre il liquido caldo sgorgava dolcemente come da una fonte stillante miele.

Non c’era più nulla da temere e niente di cui dubitare.









giovedì 15 luglio 2010

Stanze gemelle. Tracce fantasma di un lavoro su Jesi.






Oggi si chiude una intensa fase di lavoro per un numero di rivista su Jesi a cui ho dedicato quasi due anni di lavoro, in parallelo al dottorato. Posso solo dire che ne sono molto felice e rimandarvi al sito dell'editore www.rigabooks.it
Qui invece il montaggio di citazioni che segnano e ricalcano l'ideale struttura che ho seguito nel lavoro di tesi,
ogni libro parla di un altro libro,
ogni cosa parla sempre anche di altre cose.

Sto per andare al mare, con la Pimpa e l'orso polare
http://www.youtube.com/watch?v=QlK1N_DG-Zg
quindi non ho avuto voglia di pulire l'editing e uniformare le note. anzi dopo 350 cartelle e 1500 note a pié di pagina controllate nel dettaglio, mi piace l'idea di lasciarmi andare, anche malamente. oggi me lo posso permettere.

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Prologo

Fabbricheremo teorie che splendono come idoli di giada, affascinanti sistemi di ipotesi, a quattro facce, aggraziati. Risaliremo le traiettorie [...] fino alle vite che occupano l'ombra, uomini in carne ossa che gemono in sogno. [...] Qui la sacralità abbonda, un'aberrazione nel cuore del reale. Riaquistiamo la padronanza delle cose.

Don DeLillo, Libra


cap. 1


«chi ama il mito è in certa maniera filosofo»

Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b 18


«Non credo alle cose credo ai loro rapporti». R. Jakobson, Autoritratto di un linguista


cap. 2

[tendere] alla storia più antica e alla più recente. A quella dei sentimenti primitivi in situ, come a quella dei sentimenti resuscitati. Come alla nostra storia di continui risorgimenti e resurrezioni sentimentali. Culto del sangue, del rosso sangue, di quello che c'è di più animale e di più primitivo. Culto delle potenze elementari... resurrezione compensatrice di una specie di culto della Terra madre, sul cui seno è tanto dolce la sera, stendere le membra doloranti... esaltazione di sentimenti primari con una brusca rottura d'orientamento e di valenza; esaltazione della durezza a spese dell'amore, dell'animalità a spese della cultura – ma di un'animalità affermata e provata come superiore alla cultura.

L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi, pp. 108 sg.


cap. 3

L'archeologia non si occupa di oggetti sfavillanti, si occupa del contesto. E noi siamo parte del contesto. Sono i nostri lavoranti quelli i cui campi vengono incendiati, sono i loro figli ad avere la malaria. Noi veniamo a studiare un'antica civiltà, ma finiamo per scoprire tante cose sul nostro tempo.

A. Demares, cit. in Alan Weisman, Il mondo senza di noi, p. 271


cap. 4

L'impossibilità del sapere assoluto autorizza la poesia, e allo stesso tempo la riempie di malinconia, poiché essa deve la propria nascita al ritrarsi della luce sperata. La poesia è il residuo notturno dell'avventura luciferina, la traccia della caduta dell'angelo portatore di chiarezza.

Starobinski, in Riga 28 183


«Le mie ricerche continuarono a trattare di vertigine e di abissi, col proposito deliberato che l'intelligenza prendesse possesso di questi territori proibiti. Così studiavo la guerra, il sacro, la poesia, i giochi, tutti i soggetti che per natura offrono una resistenza intima all'analisi concettuale. Presi infine a misurare i poteri della fantasmagoria più banale e insieme più efficace: il sogno e quell'ombra di incertezza che esso lascia planare sulla veglia, quell'ultimo ricorso che esso sospende su ogni azione», Caillois in Riga 28, 24.



cap. 5

"Celebriamo le feste. Festeggiamo chi ci ama, le stagioni, le lune. Ciascuno ritroverà la certezza che quaggiù c'è posto per lui. Forse è questo, l'essenziale. La festa crea un ordine solenne in cui ciascuno è confermato, nel proprio ruolo, nel proprio posto rispetto al tutto. E' questo, credo, ciò che manca agli uomini del nostro tempo: la certezza di avere il proprio posto nella festa esuberante e tragica del mondo e della storia. Ancor più dell'uguaglianza, è di questa sicurezza che gli uomini hanno bisogno. Senza, prendono a mettere in dubbio il senso della vita, e vivere nell'immensità senza forma è insopportabile. Perché tutto, nell'assenza di senso, si dissolve. E' il regno della grande noia dell'uomo, è il contrario della festa."

Jeanne Hersch, Il manifesto, 9 giugno 2000 L'eterno presente di Jeanne Hersch


«gli antichi stili sfilano come una processione di fantasmi»

Alex Ross, Il resto è rumore, p. 158



prendi possesso di questo incantesimo di immortalità

io ti porto il soffio vitale e la vita

non andare verso le nere tenebre [da cui provieni]

restane indenne

va verso la luce dei vivi che sta davanti a te

Formula rituale vedica, in Van gennep, p. 47


Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò ch’è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre. Ma la filosofia nega queste paure della terra. Essa strappa oltre la fossa che si spalanca a ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo.

Rosenzweig, La stella della redenzione


Capì che c'era un tempo Naturale dove gli elementi, gli animali, i fiori, le foglie e lui stesso, deperivano giorno per giorno e infine perivano, e un Tempo metafisico, Eterno, Immutabile, al di fuori della Natura e di lui stesso, cui era difficile pensare.

Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, p. 24


Nella ricerca e nella nostalgia del primordiale, nell'ossessione delle origini, dei mondi anteriori all'uomo il nulla è in definitiva solo una versione più pura di Dio e proprio per questo vi si sono sprofondati con tanta frenesia i mistici, come del resto i non credenti di ogni indole religiosa

Cioran in Riga 28 170



Mi tuffavo completamente nella profondità dello stupendo mare del romanzo e gioivo di quella folle esistenza laggiù

E. Rohde,


leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di confermare

Pavese, Il mestiere di vivere


Ma siano queste lacrime le ultime/che ora ho versato per l'amata Grecia:/ stridano le cesoie delle Parche, /perché il mio cuore già appartiene ai morti,

Hölderlin, Liriche, 1977, p. 151


che cosa avrebbero di così piacevole per noi anche un semplice fiore, una fonta una pietra coperta di muschio, il cinguettìo degli uccelli, il ronzio delle api e altre cose simili a queste? che cosa potrebbe dar loro diritto al nostro amore? non sono questi oggetti, bensì l'idea da essi rappresentata ciò che noi amiamo in loro. Noi amiamo in loro la silenziosa vita creatrice, il sereno operare per se stessi, l'esistenza secondo leggi proprie, l'intima necessità, l'eterna unità con se stessi. Essi sono ciò che noi eravamo; sono ciò che noi dovremo tornare a essere. Come loro eravamo natura, e a essa la nostra cultura deve ricondurci attraverso la via della ragione e della libertà. Sono dunque rappresentazioni della nostra infanzia perduta, che rimane in eterno per noi la cosa più cara, e per questo ci colmano di una vaga tristezza. E sono nel contempo rappresentazione della nostra perfezione più alta nell'ideale, e per questo ci donano una sublime commozione»,

F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, trad. it. Milano, SE, 1986, p. 12-13


senza lasciare spazio a ciò che noi chiamiamo il caso, ogni elemento, ogni avvenimento, caricato di senso, si trova in rapporto e in interazione con gli altri

Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, 1965, p. 43, Le renard pâle. tome I, fasc. I: La création du monde, Travaux et memoires de l'Institut d'Ethnologie, LXXII, Paris. (in Ferraro, 1979, p. 242)



Una chiara consapevolezza della morte. Tutta l'arte è in rapporto con la morte.

Rothko, Conferenza al Pratt Institute di Brooklyn, 27 ottobre 1958


“l’uomo di Stato è portatore di una responsabilità di fronte a Dio e alla storia. Non tanto perché dalle sue risoluzioni dipendano il bene e il male di innumerevoli uomini, quanto perché non ha al di sopra di sé nessuna istanza da potere interrogare”

H. Plessner, Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus (Francoforte 1981), trad. it. I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, Laterza, Roma- Bari 2001, p. 115.


la visualità dell'immagine è una categoria anacronica della temporalità

Didi-Hubermann, in Gesti d'aria e pietra


Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce annoiato che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi, com'è l'acqua?”. I due giovani pesci nuotano un altro po'. poi uno guarda l'altro e fa: che cavolo è l'acqua?

D. F. Wallace, Questa è l'acqua.


«Vi ho detto la verità [...] la verità della memoria, perché la memoria ha una sua verità particolare. Seleziona, elimina, modifica, esagera, minimizza, glorifica e anche diffama; ma alla fine crea una propria realtà, una propria versione, eterogenea ma di solito coerente, degli eventi; e nessun essere umano sano di mente si fida mai della versione di qualcun altro più che della propria»

I figli della mezzanotte, Garzanti, 1989, p. 236


Importa che la gente ci creda perché a questo vuole credere. Forse è qualcosa in cui ha bisogno di credere, perché altrimenti resterà colpita dalla rivelazione un po' deprimente che la gente morta è semplicemente morta. Tutto il resto non è che una costruzione degli uomini: tutto il resto non ha niente a che vedere con l'individuo che è morto e ha tutto che vedere con coloro che sono rimasti (e che forse desiderano che i loro ruoli siano in qualche modo rovesciati).

C. Klosterman, Il giorno in cui il rock è morto, p. 244


Quel pensiero ritorna qui, io che aborro la morte: una memoria propagata e dilatata all'infinito, un'universo fisico di memoria, che sostituisce Dio ma anche gli somiglia. Conto su quella memoria precisa, energica, fedele, la stessa che mantiene registrati in me i momenti d'amore, di bellezza e di gloria. Dipendono solo da me per la loro sopravvivenza, esigono da me di farli sopravvivere con il rigore della fedeltà intransigente. La mia speranza è un universo intelligente di memoria che si ricorderà di noi e dei nostri distacchi. Mi penso come un astro che compie la sua traiettoria con sopra le città, le case, la gente, i paesaggi (...) finché si spegne e poi svanisce, ma quello che portava si fissa in memoria dell'universo.

G. Piovene, Le furie