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lunedì 1 agosto 2011

Simboli, potere ed emozioni

dopo essermi perso da qualche parte mi sono ritrovato.
ho dovuto guardare fisso il mare per un bel po' per sputare il veleno dell'anno, e sospetto che non sia finito
comunque sto scrivendo, con la ritrovata felicità del tempo che ci vuole. quello che segue è molto buono e non lo userò per il libro.

La concezione del mito elaborata da Jesi in questa prima fase sembra avere molti punti di contatto con altre teorie più o meno coeve e imparentate con la riflessione strutturalista. Per Dan Sperber, in una prospettiva cognivista (Le symbolisme en général, 1974) «l’interpretazione simbolica» è «un’improvvisazione che si appoggia a una sapere implicito e ubbidisce a regole inconsce[1]». Come in Lévi-Strauss, per cui il senso simbolico dei miti esprime proposizioni che hanno come oggetto le categorie del pensiero[2] ma rigettandone la concezione semiologica per la quale il simbolo è segno di qualcos’altro, in Sperber, il «dispositivo simbolico» è un meccanismo generale di ordine cognitivo, i cui principi di base fanno parte di un apparato mentale innato sotteso da attività intellettuali diverse e stratificate (come la cognizione, la simbolizzazione, la ideologizzazione) che rendono possibile l’esperienza. In tal senso il dispositivo simbolico, preposto all’elaborazione di sistemi simbolici, è una forma di bricolage della mente che adottando «i rifiuti dell’industria concettuale» conservati, dispone e riutilizza i materiali culturalmente precedenti e trasformandole in rappresentazioni simboliche, «inventando per esse un’appartenenza e uno spazio all’interno della memoria»[3].

Rappresentazioni concettuali che non hanno potuto essere regolarmente costruite e valutate in base agli elementi culturali di un gruppo umano costituiscono l’elemento di informazione nuova che si introduce nel sistema culturale di simbolizzazione («in altri termini, il dispositivo simbolico ha per input l’output difettoso del dispositivo concettuale»[4]) in modo tale che rappresentazioni concettuali vengano ristabilite in un livello di comprensione soddisfacente. Così come avviene con la metafora, la coscienza sotto la spinta della costrizione generata da una dissonanza integra la nuova immagine simbolica, inserendola nell’intenzionalità reinterpretandola, cioè includendola in una normalità superiore. L’evocazione chiama in causa la memoria nella ricerca di un’informazione che permetta di stabilire una condizione concettuale inizialmente non soddisfatta, in modo da costruire una rappresentazione concettuale ricollocandola in un nuovo livello di significato. Accanto alla rinarrazione di storie precedenti che implica «la trasformazione di altri miti, endogeni o esogeni», figurano altri dati dell’esperienza di volta in volta trasformati in mito, ad esempio nuovi racconti storici tramandati oralmente[5]: in questo senso il mito è «oggetto culturalmente esemplare e psicologicamente emozionante», che diviene mito «dal momento in cui è adottato da una società»[6].

Così come avviene per Jesi, Manfred Frank, richiamandosi alla tesi di Sperber, scrive che il simbolo deve essere inteso come un «segno libero, il cui senso non dipende da un rapporto codificato tra l’espressione materiale e il significato intellegibile, ma è il risultato di un atto inventivo originario»: «la realizzazione simbolica collega magicamente il senso al suo sostrato. [...] Nell’azione rituale i gesti compiuti [...] non rimandano a un’idea esterna all’azione, ma sono l’idea stessa». Ogni simbolo può diventare ciò che rappresenta in «virtù di un’attribuzione di senso ritualizzata mediante la quale gli attori sociali rafforzano (simbolicamente) la propria identità»[7]; presupponendo la funzione denotativa del linguaggio gli atti di natura simbolica o rituale, «prendono quel segno o quella serie di segni come spunto per una proiezione di senso che si sovrappone a quella abituale», come avviene tanto nel rituale quanto nella poesia, fenomeni estetici che consentono la coesistenza di due livelli di codificazione (letterale e simbolica).

«Il sistema segnico funziona sul piano della parola espressa soltanto se una comunità interpretativa ha già fissato il suo valore duso, predisponendo un sistema di rappresentazione che colleghi i segni codificati ai loro oggetti, per poi ridefinirlo via via nel corso della sua storia empirica». La tesi di Frank è che «la funzione denotativa del discorso sarebbe allora vincolata [...] a un sistema di atti simbolici e di decisioni assiologiche la cui origine va cercata sul piano dell’interazione sociale, e che in prima approssimazione direi mitica»[8]: si tenga presente fin d’ora per comprendere la dimensione politica di Jesi che la fissazione di valori di uso e l’istituzione di piani assiologici sono forme di esercizio dell’autorità (Jesi dirà Gewalt), prerogative implicite e inderogabili di ogni forma di potere, il quale si esercita primariamente in forma ‘mitologica’. La miticità implica il rapporto tra individuo e collettività: il mito ‘vissuto’ è prassi comunicativa che consente la reciproca interazione di individuale e collettivo. L’elemento di innesco dei processi di coinvolgimento che si attivano nella ricezione mitico-simbolica riguarda l’importanza della dimensione emotiva nella vita psicologica individuale e collettiva: la performatività politica dei miti, antichi e moderni, è resa possibile innanzitutto dalla sua dimensione emotiva.



[1] D. Sperber, Per una teoria del simbolismo (1974), ed. it. Einaudi, Torino, 1981, p. VIII-XI.

[2] «il pensiero simbolico[...] farebbe uso delle proposizioni sul mondo per stabilire dei rapporti tra categorie», Ivi. p. 9.

[3] Ivi, p. 111 (cit. parzialmente modificata).

[4] Ivi, pp. 137-138.

[5] Ivi, p. 78. Anche per Sperber l’opera di Dumézil in ambito indo-europeo fornisce un’«ottima testimonianza» di tale modalità di costruzione dei processi culturali.

[6] Ivi, p. 79; cfr. «tutte le opere individuali sono miti in potenza, ma è la loro assunzione in chiave collettiva che attualizza all’occorenza la loro “miticità”» C. Lévi-Strauss, Luomo nudo (1971), ed. it. Il Saggiatore, Milano, 1974, p. 590.

[7] M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia (1982), ed. it. Einaudi, 1994, p. 94.

[8] Ivi, p. 95.

domenica 29 maggio 2011

Vedere/ricordare



Capita di riuscire ad andare al cinema. Non ho resistito e sono andato a vedere The tree of life, di cui ogni persona con qualche velleità intellettuale al mondo avrà già una sua idea. Rompendo la tradizionale ritrosia a parlare di cinema (ne so troppo poco, ho visto troppi pochi film che tutti reputano fondamentali, ci vado troppo poco spesso) ho deciso di scriverci comunque due cose sopra.
C’è nel nuovo film di Malick il grandioso e coraggioso tentativo di raccontare una storia, che è la storia dell’universo e di ogni essere vivente, servendosi di un ‘nuovo’ linguaggio della visione che cerca di tagliare fuori la razionalità logico discorsiva e la concatenazione sequenziale puntando a una sequenza di significati modale e ricorsiva, basata sull’asse occhio/emozione, senza l’eversività e la provocazione delle imprese surrealista e dadaista ma con modalità evocative, mnestiche e mistiche. Da queste premesse si potrà capire che il progetto di partenza è di per sé impegnativo, e questo può giustificare il fatto che il lavoro del regista texano (ma di sensibilità europea) sia un progetto incompiuto, con momenti visivi molto felici e altri che rischiano l’estetizzazione sublime e compiaciuta. In più, date le premesse, gli inevitabili momenti di snodo e nessi narrativi che accompagnano la storia di Jack e della sua famiglia – su tutti un fratello morto in giovane età, una madre dolcissima e diafana, un padre severo e intagliato nell’autismo volontaristico del selfmademan – finiscono per compromettere l’intransigenza del progetto estetico; mentre la voce narrante, intermittente e dialogante con dio/l’essere/il mistero a cui chiede continuamente ragione dell’esistere, rischia continuamente la caduta nel kitsch, almeno per un’europeo cinefilo e di buone letture.
Vi sono momenti di emozione e pura gioia visiva, ma rimangono tali. Chiunque abbia perso qualcuno di importante non può rimanere impassibile di fronte all’incontro del protagonista con i suoi cari del passato. Il ritrovarsi in uno spazio tempo che sembra essere quello della memoria (ma di chi?), in una sorta di grande ricomposizione risolutiva del mistero della vita e dei suoi conflitti che Malick ci mostra come una spiaggia inondata di luce con persone che si ritrovano e finalmente si guardano davvero.
Ma il punto è che, come avviene anche con la rappresentazione della maternità struggente e dolcissima di una madre ormai perduta, questa rappresentazione della perfezione confina con l’assenza di ogni tensione vitale che non può che essere la morte, e dunque il nostro sguardo può placarsi in una visione che è visione di morte, priva di conflitti e mutamento, un traguardo finale che è quello del mistico.
Se qualcuno si sente di seguire Malick fin lì ha trovato il suo film culto. Nell’insieme ho conservato un piacevole ricordo di alcune immagini e sequenze visive di rara intensità, come solo un americano manicheo malato di Alzheimer e ansioso di trovare se stesso e di raccontarsi con urgenza potrebbe fare.

Intanto invece una nuova puntata del perché Jesi, (di cui su www.doppiozero.com è partito lo speciale Cultura di destra) sia autore fondamentale per l'oggi.
Di seguito una versione rough di un mio recente intervento.



Ferrara, 27 maggio 2011

Mito, potere, letteratura in Furio Jesi

Cosa saremmo noi senza il soccorso di quello che non esiste?

P. Valery

Prima di tutto un ringraziamento per la vostra presenza, qui. Sono molto lieto di essere nella stessa città e negli stessi ambienti che vent’anni anni fa dedicarono il primo convegno nazionale a Furio Jesi. Di essere con Roberto Roda, che si occupò dell’organizzazione di quelle giornate di studi e della rivista Faraqat; con Andrea Cavalletti, che da dieci anni cura le opere e l’archivio di Jesi e con Wu Ming, che da scrittore ma anche da teorico di letterarura e di politica si è interessato di Jesi da anni proponendo una sua applicazione a attualizzazione nella propria attività, che va annoverata tra le realtà più interessanti della nostra letteratura nazionale più recente.

Ho lavorato su Jesi per il mio dottorato in Filosofia, riuscendo a congiungere nell’analisi della sua filosofia molti dei miei interessi; e da quel lavoro di ricerca è nato anche il numero monografico della rivista ‘Riga’, che ho curato con Marco Belpoliti.

Riga ha l’ambizioso progetto di presentare un autore complesso come Jesi mostrando la vastità dei suoi interessi e fornendo una sorta di magazzini di materiali anche rari – inediti, minori, antologia della critica – inserendosi in una sorta di Jesi renassaince, che io credo, la nostra stessa presenza qui e il numero (e la qualità) di pagine recenti dedicate a Jesi stanno a dimostrare. A trent’anni dalla sua scomparsa per un tragico incidente non si sono ancora fatti veramente i conti con la sua opera, ma la nostra idea è che a dispetto di questo Jesi sia autore di una straordinaria attualità per le questioni che i suoi scritti ponevano.

Ecco alcuni elementi a favore di questa tesi.

Jesi è un intellettuale pienamente inserito negli anni settanta ed erede di una grande tradizione critica ancora precedente, è davvero uno studioso di straordinaria competenza e di vaste e solidissime letture, capace di coniugare cultura classica, formazione umanistica mitteleuropea e innovazione metodologica negli ambiti che più ha frequentato: storia delle religioni, critica letteraria, storia delle idee e teoria del mito.

Ha scritto di lui Ferruccio Masini, Risalire il Nilo, 1983:

C’era nel suo sguardo tranquillo e penetrante, nel suo sorriso timido e dolcissimo, qualcosa di familiare e insieme una luminosità interiore, fatta di una sostanza inalterabile che non si spiega soltanto con la straordinaria giovinezza di uno studioso che aveva cominciato là dove molti altri finiscono: questa sostanza pura e preziosa era, per così dire, la maturità di un’intelligenza nutrita dei succhi della grande cultura europea, da Kerényi a Martin Buber, da Eliade a Thomas Mann, un’intelligenza filtrata attraverso il pudore di un’aristocratica riservatezza e tuttavia mai prigioniera di quella distanza a cui si attaccano disperatamente tutti coloro che, come direbbe K. Kraus, si portano appesa addosso la cultura come fossero dei manichini.

Furio era (ma vorrei proprio dire: è) una puntuale antitesi di costoro; apparteneva a quel raro genere di intellettuali che concepiscono la loro stessa esistenza come un testo nel quale fluiscono e magari anche si scontrano, in onde sempre più alte, i pensieri pensati e le immagini vissute fino a comporsi in una distesa variegata e compatta che se può sembrare pacificata, pur continua ad essere il cristallino equilibrio di tensioni segrete, quasi la trasfigurata armonia di profonde inquietudini e occulte dissonanze.

Furio non amava i facili paradossi, bensì i difficili: per questo mi avrebbe sorriso se a conclusione di tutte le sue limpide decostruzioni del mito tecnicizzato, avessi osato citare, ancora una volta, Valéry: «Mito è il nome di tutto quello che non esiste e non sussiste che nell’avere il linguaggio come causa». E mi avrebbe forse guardato con la complicità di quella sua intelligenza solitaria affascinata dagli enigmi e anche dal pericolo che si annida negli enigmi: quell’intelligenza che conosceva le maschere d’oro e le barche dipinte, i demoni babilonesi del vento e le lunghe strade dei Chassidim, la spenta fissità degli idolatri dei mitologemi del potere e i geroglifici rilkiani della fuga dal possesso.

Jesi è stato un intellettuale radicale nelle scelte di vita e nella militanza politica, un fatto che caratterizza la sua produzione filosofica e che si radicalizza progressivamente. Oltre a una militanza in movimenti della Nuova sinistra italiana e un’attività di critico assai duro, da studioso ha saputo affrontare la religione e il sacro da un punto di vista antropologico, mostrando il rapporto indissolubile tra sacro e politica, con riflessioni che lo accomunano a pensatori del calibro di Benjamin e Caillois;

da un punto di vista filosofico ha fiancheggiato la germanistica post-lukacsiana e quel neo-nietzscheanesimo volto soprattutto a far emergere gli sfondi irrazionali della razionalità e la presunta dicotomia tra Mythos e Logos, svettando – questa è una delle ipotesi che guidano il mio lavoro interpretativo – come voce italiano di quel dibattito sul mito che attraversato la Germania e la Francia dai tardi anni sessanta fino agli anni ottanta.

In questo senso Jesi è stato poligrafo e cultore di diverse scienze trasversali, contaminando reciprocamente critica, narratologia, antropologia e storia fino a praticare un genere di scrittura saggistica originale, affascinante e a tratti enigmatico.

Il suo pensiero risulta coerente e si risolve in modo nitido se si tiene conto che la riflessione sul mito, intesa come forma antropologica di rapporto con la realtà, è lo snodo che gli consente di giocare su almeno tre piani: religioso, letterario, politico.

Ecco un passo jesiano decisivo, da Esoterismo e linguaggio mitologico, 1976:

Abu Simbel è un tempio rupestre. Di là dalla facciata su cui vigilano ai lati della piccola porta le quattro statue gigantesche addossate alla parete rocciosa, si apre una cavità oscura, scandita dai pilastri ricavati nella pietra del monte e modellati in figura di Osiride, sole dell’Aldilà. Pure, il tempio di Ramesse non è un tempio funerario, ma una solenne celebrazione delle glorie militari del sovrano. (…) Quelle, in quell’occasione, erano per l’uomo moderno in apparenza testimonianza di una religione della morte. Di fatto testimonianze di una religione del potere, più brutale di qualsiasi religione della morte, e tale da usare la religione della morte per fingersi potere consacrato. E quella stessa nave che risaliva il Nilo verso Abu Simbel, e che avrebbe potuto benissimo suscitare miti egizi di navi sulle acque dell’aldilà, era di fatto, con tutto il suo mogano e il suo ottone lucido, ancora una della navi, sopravvissute che erano servite a portare le truppe inglesi di Lord Kitchener a reprimere la ribellione del Sudan. Se di mito si doveva parlare, in quell’occasione c’erano molti miti del potere che si affollavano verso i confini nubiani, sotto le costellazioni.

Il mito è un fattore inemendabile, la narrazione ha un significato per le vite di chi racconta le storie che non può essere in alcun modo sostituito: questo dato elementare giustifica la sopravvivenza dei miti oltre l’epoca in cui erano vettori di esperienze metafisiche e spiega la presenza delle immagini miti tanto nell’arte quanto in altre pratiche sociali di ordine estetico, come la moda. Miti sono immagini di valore archetipico capaci di interagire con la storia, nel senso che la modificano e ne sono modificati. Per questo stesso motivo il lavoro sul mito, compiuto comunque e dovunque da ogni individuo su ogni tradizione, è anche quello della tecnicizzazione del mito, concetto che Jesi riprendeva dal suo maestro Kereny. Il mito politico è mito tecnicizzato, ovvero manipolazione intenzionale e strumentale che serve a produrre effetti di mobilitazione su una collettività in base al valore emotigeno di ogni racconto mitico: i miti moderni, come già in Cassirer e poi in Adorno e Horkheimer, sono allora quelli del fascismo e del nazionalsocialismo, quelli che il pensiero di destra ha portato al massimo livello ereditando e amplificando una tradizione culturale precedente, borghese, neoclassica, nazionale. Cultura di destra era per Jesi la cultura che si serviva del linguaggio mitico, quello che naturalizza e che per semplicità possiamo chiamare ‘ideologia’ occulta e pervasiva, inserita nei discorsi della nostra vita a un livello di ‘microfisica’ per citare Foucault.

Questo interesse è costante in Jesi: fin dal 1965 Jesi scriveva che il ricorso al mito da parte della propaganda politica è «per la sua stessa natura – un elemento “reazionario”» (Letteratura e mito, 2002, p. 42) anche quando le sue finalità sono progressiste. Una volta che si siano evocati soggetti di forte impatto emotigeno, come sono le immagini mitologiche, la razionalità critica viene messa fuori gioco. «Tutti i linguaggi propagandistici [...] sono usati in modo moralmente condannabile là dove non si prevede il superamento dell’esperienza raggiunta entro l’evocazione tecnicistica del mito. [...] Se cioè il linguaggio del mito tecnicizzato è considerato un linguaggio oggettivo e pieno di intrinseca verità, la reazione resta reazione. [...] Com’ è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento? Tutto ciò non ci sembra praticamente possibile» (ivi, p. 43). Già allora Jesi meditava su una necessaria «demitizzazione nella propaganda politica del mito tecnicizzato», proponendo sulla scia di Mann, di Brecht, di Benjamin, di Adorno che il discorso artistico fosse l’unica possibile esperienza mitica ‘genuina’, capace di parlare alla collettività nel «rispetto per l’uomo». Altrimenti ogni discorso, anche ‘di sinistra’ diventa ‘di destra’.

Quali risposte ha dato come studioso, allora? Ancora da Esoterismo e linguaggio mitologico:

Tutto questo è per me oggi il significato della parola mito. Una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto cuore misterioso, il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serva a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna, e che poi talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi anche il sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella innanzitutto di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un “eterno presente”.

Jesi pensava che il mito fosse il prodotto di una ‘macchina mitologica’, termine con indicava i dispositivi socio-culturali che producono ‘materiali mitologici’, ovvero ricoprono di un aura di valore determinati oggetto che vengono come illuminati di un di un surplus di significato. Con questa impostazione Jesi, che viene dalle suggestioni di Jung, di Mann, di Kerènyi e di Lèvi-Strauss, fiancheggia anche il post-strutturalismo francese, in particolare Derrida, per quanto riguarda la critica del pensiero metafisico (in definitiva una forma di mitologia particolarmente riuscita) e Barthes, per quanto riguarda la questione dei miti d’oggi e di come le mitologie siano modalità di costruzione di desiderio, emulazione, invidia sociale che ancora una volta sacralizzano anche luoghi come merci e mercato.

Mi vorrei fermare a questo punto, dicendo come Jesi, e in questo sta anche la sua attualità, non si sia fermato a un solo discorso di critica del mito, ma che abbia anche riproposto il valore del mito in termini utopici, un valore di posizione di significati che fossero nel segno della vita e di un nuovo umanesimo emancipativo e liberatorio.

La mitologia possibile, il ritorno di nuove grandi narrazioni deve coincidere con una consapevole mitopoiesi 'leggera', che si sà racconto infondato e che mostra i segni del lavoro dell'autore, attraverso il montaggio e la citazione che mostrano la dimensione umana del mito, attraverso una pratica di scrittura nella quale il linguaggio espone la frattura tra realtà e immaginazione, tra io e oggetto mitico.

Questo sarebbe potuto accadere nella misura in cui il mito fosse restituito alla sua origine di racconto, qualcosa che si mantiene nel luogo di origine di ogni apparire dei fenomeni alla coscienza. Come ha scritto Lacoue-Labarth «funambolismo metafisico senza parapetto metafisico. O se preferite esperienza metafisica svuotata, pura esposizione al nulla».


martedì 22 febbraio 2011

Contro la cultura di destra. La primavera è in arrivo?








Scrivo poco sul blog perché sto scrivendo molto altrove e sono stato molto felice di presentare il lavoro su Jesi in contesti differenti. Circolo dei lettori a Torino, Bartleby a Bologna sono le due anime di una cultura che Jesi ha attraversato e che nella sua mente, nella mia mente, nella nostra mente non sono affatto distanti ma comunicano e dicono la stessa urgenza di stare nelle cose in modo diverso.
Revolution starts at home preferably in the bathroom mirror, scrivevano gli Hüsker Dü nel 1987.



http://bartleby.info/content/bologna-è-antifascista-verso-il-18-febbraio


e intanto Jesi è viralizzato su youtube.

http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3209

Poi altri segnali di nuova stagione si apre per la cultura In Italia e il modo di diffonderla,




Di seguito invece il testo di un intervento tenuto durante il convegno dedicato a Giordano Bruno e al Pensiero nomade che si è tenuto nella mia scuola. Storia, memoria ed eredità culturale del Nolano nelle periferie ferite della città, dove tutto è più difficile.


Una attualizzazione di Bruno. La critica dei miti dell'antisemitismo e dell'antiziganismo

Enrico Manera

Antisemitismo e antiziganismo, l’odio per ebrei e zingari, sono fondati e alimentati da veri e propri miti. L’accusa di omicidio rituale praticato dagli ebrei o del rapimento di bambini da parte dei rom sono invenzioni che servono a indirizzare l’odio verso gruppi percepiti come diversi: rientrano nella logica di disumanizzazione che rende legittima la violenza del gruppo culturalmente dominante sulle minoranze e che contribuisce a istituire, alimentare, rafforzare l’ideologia della differenza assoluta tra il Sé (posto come bene) e l’Altro (posto come male). Come lo studio comparativo dei genocidi ha messo in luce, quando la forma mentis che produce e stabilizza le identità procedendo per differenziazione e separazione diventa ossessione della purezza e timore del contagio, la sistematica demonizzazione del diverso può legittimarne l’esclusione, che è il primo livello di una escalation dell’odio le cui tappe progressive (marginalità, segregazione, deportazione, sterminio) sono storicamente interconnesse.
1. Nel mio intervento di oggi intendo partire da alcuni aspetto dell'eredità culturale lasciata da Bruno per poterla attualizzare e trasformare in prassi, per restare anche fedele al tema del pensiero nomade, che seminato da qualche parte mette radici anche a distanza e in altri contesti.
Innanziutto l’eredità di Bruno, che sintetizzerei con il concetto di autoaffermazione.
Autenticità, coerenza. Non nascondere la verità di fronte al rischio della morte e come Socrate rendere significativo il proprio gesto, per questione di integrità.
Anticonformismo Solitudine come destino di chi è scomodo per il suo tempo. Saper imprimere la propria energia per portare la realtà dalla nostra.
Trovare il proprio significato senza approvazione e consenso altrui. Credere nella propria ragione e azione.
Disincanto, vedere oltre le convinzioni condivise. Ironia sferzante, nei confronti delle false rassicurazioni. Morte di ogni illusione, smascheramento dell’inganno. Critica della credulità e della semplificazione, mai disperata mai nichilista.
Irregolarità, non appartiene a niente di definito. Saper scegliere le situazioni senza consegnarsi totalmente a qualcosa e a qualcuno (chiese, partiti, gruppi). Attraversare i luoghi del proprio tempo riuscendo a esserne parte, senza ridursi a un ruolo o un’appartenenza specifica.
Mutazione Tutto cambia e si trasforma in continuazione. Quella umana non è l’unica forma di vita, animale e terra. Il futuro è aperto, non avere paura di ciò che non si conosce ancora. Pensare che tutto non è per sempre: non disperarsi per ciò che si è perduto, ma serbare la speranza per ciò che deve ancora venire.
Pensare criticamente e assumere posizioni contro il senso comune, contro le opinioni condivise e i ‘miti’ diffusi è oggi, come ieri, difficile. Oggi sorridiamo di fronte alle superstizioni dei nostri antenati, li crediamo ingenui e sciocchi, senza renderci conto che semplicemente abbiamo altri pregiudizi che oggi non vediamo, ma che domani faranno sorridere i nostri pronipoti. Per questo ho intenzione di parlare di due fenomeni di razzismo, collegati a una stessa struttura ideologica della storia europea, che però ha avuto esiti diversi: l'antisemitismo e l'antiziganismo. L'odio nei confronti degli ebrei è oggi antistorico e appannaggio di minoranze fanatiche e ignoranti, un sentimento percepito dalll'opinione pubblica come ingiusto e assurdo; l'odio nei confronti degli zingari pur essendo altrettanto irrazionale è vivo e vegeto e le storie anche più strampalate che girano su rom, sinti e altri 'camminanti' sono credute da molti come vere. Non più di due giorni fa ho assistito incredulo alla seguente discussione: due madame in piemontese all'ufficio postale tra di loro commentavano il recente rogo in cui hanno perso la vita 4 bambini rom e si auguravano che capitasse agli adulti, per poi snocciolare tutta una serie di luoghi comuni falsi quanto odiosi secondo i quali rom, sinti e altri soggetti sarebbero oggetto di privilegio, li manteniamo tutti noi, non lavorano, rubano tutti, e i nostri vecchi chi li aiuta etc etc.
Per la cronaca di sicuro le signore erano pie e devote: personalmente le ritengo moralmente ripugnanti e simili a Göbbels, per la mancanza di pietà che mostrano. Probabilmente si commuovo vedendo La vita è bella, ma in Germania dopo il 1935 non avrebbero mosso un dito.

2. L’accusa del sangue

Andiamo ai fatti storici, avvicinandoci alla recente riflessione sulla Shoah, che è l’ultima estrema conseguenza di una catena logica che, prima pensata, viene poi attuata in modo stringente. Parlare di ‘accusa del sangue’ signfica parlare del mito antisemita dell’ebreo sacrificatore di vite cristiane[1]. ‘Accusa del sangue’ è l’espressione ebraica che designa ellitticamente l’accusa rivolta agli ebrei di usare il sangue dei cristiani come ingrediente di cibi e delle bevande prescritti per le feste pasquali.
Si tratta di un cavallo di battaglia del repertorio antisemita, il ‘tratto invariante’ di un’associazione tra ebrei e la categoria simbolica ebrei/vampiri/streghe, destinato a ricomparire sulla base di un medesimo prototipo in diversi momenti storici.
Il primo caso di accuse rivolte ad ebrei di aver ucciso bambini cristiani si ha in Inghilterra nel XII secolo, ma è notissima la vicenda leggendaria del piccolo Simonino da Trento, poi beatificato dopo la sua uccisione in circostanze misteriose nel 1475: ciò che è più sorprendente è che non mancano i casi moderni come a Damasco nel 1840, Kiev nel 1913, Kielce in Polonia nel 1946! In tutti i casi legati a presunti rapimenti di bambini ci furono persecuzioni e violenze collettive sugli ebrei, vero e proprio capro espiatorio, prototipo del ‘diverso che vive fra noi’ a cui si imputano i crimini peggiori. A tali accuse, che seguono da vicino quelle che accusavano gli ebrei francesi di diffondere la peste già nel 1348, seguivano puntualmente pogrom. Inutile dire che tutti i processi erano basati su accuse false: la stessa idea è frutto di un’immagine negativa di un popolo diverso, considerato malvagio per natura.
Pensare che gli ebrei impastassero il sangue dei bimbi con la farina delle azzime di Pesah è una fantasia che presenta i tratti dell’elaborazione in ambito cristiano. Attraverso rovesciamenti, riletture e fraintendimenti avvenuti sulla base di una mentalità pregiudizialmente informata dalla nozione dell’ebreo ‘infido’ e ‘perfido’, il sangue di Cristo diventa nell’immaginario antisemita il sangue di un cristiano di cui gli ebrei si nutrirebbero in modo cannibalistico per volgere a proprio vantaggio il potenziale salvifico (si mangia il nemico per inocularne la forza). Il «ribaltamento in negativo dell’eucarestia» si vedrebbe nell’immagine secondo cui gli ebrei, contrapponendo Pesah alla Pasqua, celebrerebbero riti in cui pane azzimo e vino sono mescolati con «sangue cristiano», pervertendo ulteriormente il senso del rito cristiano, rendendo delittuoso e magico ciò che è mistico e santo; allo stesso modo la tipica accusa dell’infanticidio celerebbe la reversione dell’immagine dell’agnello di Dio e del bambino Gesù.
Scrive Levi della Torre: «c’è una mentalità cristiana, che assimila a sé l’ebraismo per poi respingerlo come imitazione degenerata»[2]. «“Diverso” per eccellenza, l’ebreo acquistava così la fisionomia precisa dell’essere umano simmetricamente opposto al cristiano: non solo [...] l’ebreo praticava culti bizzarri, risibili, turpi, bensì esso faceva esattamente il contrario di ciò che facevano i cristiani. Ed è noto che queste precise simmetrie, queste coppie di opposti, sono peculiari del funzionamento della “macchina mitologica”»[3].
All’antigiudaismo ‘classico’ derivato dal pensiero cristiano si associa l’immagine moderna del vampiro prodotta dalle società tradizionali: qui il vampiro è interpretabile come fantasma della modernità da parte dei soggetti che subiscono il trauma sociale seguito alla rivoluzione industriale[4]. Studiare l’immaginario antisemita significa affrontare la performatività del «fatto mitologico»: «un prodotto della macchina mitologica il quale concentra in un sol punto, extratemporale, extraspaziale, le luci che vengono dal passato e dal futuro»[5].
La macchina mitologica antisemita nel dodicennio nero della storia tedesca è la macchina della propaganda congeniata da Göbbels, a partire dalla quale un nuovo incantamento, creazione di realtà a partire da una mitologia, è diventata possibile: Himmler si interessò moltissimo del Jüdische Ritualmorde, preoccupandosi di fornire materiale, con la più ampia diffusione possibile, a quanti fossero implicati direttamente nella “questione ebraica”.
La mitologia antisemita del nazismo era una rigorosa manifestazione della retorica del nemico interno. Ma perché? L’antisemitismo è una cartina di tornasole del rifiuto della modernità che si manifesta nell’emancipazione degli ebrei[6] e avviene sulla base della stessa mentalità che accompagna l’ideologia della violenza e giustifica il colonialismo nazionalista. La storia degli ebrei nell’Europa moderna, prima oggetto di una politica di sottomissione e poi protagonisti di un disegno di cambiamento in senso progressista, in un contesto di stabilizzazione delle identità etniche, culturali, nazionali e ‘razziali’ determina l’ossessiva insistenza dell’antisemitismo nel mettere la raffigurazione dell’ebreo al centro di ogni discorso[7].

3. Il Rapimento dei bambini

Sui Rom e sulle loro caratteristiche negative esiste una simile mitologia: si tratta di un gruppo etnico di origine indiana, fatta oggetto di schiavizzazione e relegata ai margini della scala sociale nel lavoro umile, e fin dall’inizio una minoranza guardata con sospetto: nomadi, artisti e acrobati a Bisanzio e in Euopa Centrale.
Dall’enciclopedia Treccani nel 1937: “Erano indovini e chiromanti, specialmente le donne; manipolavano polveri e decotti per ogni sorta di male, spacciavano filtri d’amore e ricette e amuleti contro il malocchio… Tutte queste pratiche, che in generale, perché riuscissero ad abbindolare meglio gl’ingenui, gli Zingari circondavano di mistero…misero in circolazione la voci che essi fossero in comunicazione col demonio e in segreto consumassero riti tremendi. Si accusarono di rapire i bimbi per sacrificarli in certe loro circostanze, di cibarsi di carne umana. E allora si cominciò a dare loro la caccia come a ‘razza maledetta’”.
Una minoranza etnica e religiosa, senza terra e legata al nomadismo, si ritrova nell’Europa sedentaria che dal XV secolo ha orrore dei mendicanti al centro di racconti che li condannano di: non aver soccorso Giuseppe e Maria in viaggio verso l’Egitto, aver detto a Giuda di tradire il Cristo, essere discendenti dei responsabili della strage degli innocenti voluta da Erode. Esiste anche un racconto, sul fabbro zingaro che forgiò i chiodi della croce… Esaminiamo i pregiudizi. I nomadi si presentavano come pellegrini per reclamare ospitalità alle genti dei territori su cui transitavano, erano diversi, nei costumi, nella lingua, nei lavori, attirarono l’astio delle popolazioni residenti: se si eccettua la curiosità e la simpatia per le attività circensi subentra una diffidenza verso usanze e mentalità mal conciliabili con le società disciplinari che gli Stati moderni iniziano a organizzare.
“Turbatores socialitatis” (nemici del genere umano) vennero immaginati sempre coinvolti in oscure trame: ben più gravi dei furti di bestiame o delle frodi, che erano un genere comunque ampiamente praticato da molti europei.
II colorito scuro, i vestiti bizzarri e sgargianti, probabile reminiscenza delle origini indiane, il modo di vita e il linguaggio incomprensibile, li collocava tra gli stranieri di cui diffidare. La mendicità praticata da donne e bambini, costituiva nelle persone superstiziose repulsione e ostilità.
Ma l’accusa principale mossa dei gagè (i non rom) è, accanto alla mendicità, il furto. D’altronde il pregiudizio e lo stereotipo si diffondono non solo attraverso la proiezione popolare delle proprie paure e dei propri timori irrazionali, ma anche attraverso canali letterari assai sofisticati che nel tempo costituiscono solidi modelli culturali di riferimento per cogliere i tratti ritenuti essenziali di una popolazione misteriosa.
Nella “Gitanilla” di Cervantes la trama si fonda sul rapimento di una bimba da parte di una vecchia gitana. La bimba rapita verrà educata alla danza e ai mille trucchi per ciurmare le genti, ma il colpo di scena finale sarà quello di scoprire che la giovane gitana è in realtà una nobile fanciulla che potrà così sposare un nobiluomo di cui era perdutamente innamorata. Questo tema sarà utilizzato in seguito anche in altri paesi europei: in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Italia. Sempre il medesimo tema viene ripreso alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX sia in opere letterarie che nel melodramma. Anche in Victor Hugo in “Notre Dame de Paris”, Esmeralda è la figlia di una povera donna rapita dagli zingari che avevano lasciato al suo posto una bimba mostruosa, figlia di qualche “egiziana datasi al diavolo”.
Il rapimento dei bambini non è stato solo un tema letterario, ma era ed è ancora una leggenda profondamente radicata nelle popolazioni sedentarie. In realtà storicamente esistono pochissimi casi di rapimento e nessuno pare autentico, sia nel passato che nel presente. Una fonte tedesca del 1500 è straordinaria: una donna zingara per vendicarsi di altri zingari, li accusa di aver rapito un bambino per venderlo agli ebrei che l’avrebbero sacrificato al loro dio. Per uno storico delle mentalità sembra una barzelletta: l’associare Zingari ed Ebrei la dice lunga sulle menzogne, pregiudizi e stereotipi che nel tempo i due popoli dovettero subire.
Ora, l’assassinio di bambini è un’accusa ricorrente contro ogni gruppo odiato fin dal mondo antico, dagli ebrei fino ai comunisti che essendo atei mangiano bambini.
Guardiamo i dati reali dei minori scomparsi in Italia nel periodo 1999-2004 (nella fascia dei minori di 10 anni): ci sono bambini “portati via” da uno dei genitori per dissidi coniugali o, soprattutto nel caso di bambini stranieri, casi di bambini affidati dal Tribunale dei Minori a istituti, bambini che vengono “prelevati” da un genitore che si rende poi irreperibile assieme al figlio. Per quanto riguarda i minori di età tra i 10-14 anni e tra i 15-17 anni, si tratta di ragazzi allontanatisi volontariamente da casa per dissidi familiari, mentre rimangono presenti tra gli stranieri le fughe, assieme a un genitore, dalle strutture in cui i minori sono affidati, in maniera coatta, dai Tribunali dei minori. I media, però, negli ultimi anni hanno trasformato in senso comune quello che prima era solo una becera leggenda urbana montando veri e propri “casi” intorno a presunte vicende di rapimenti – mai avvenuti – di bambini da parte di “zingari”: recentemente a Lecco dove un giudice ha aperto un fascicolo per tentato rapimento d’infante avvenuto in condizione a dir poco ridicole, come rivelerà l’inchiesta. Due donne rom fanno l’elemosina e si avvicinano a una signora con passeggino, la donne le vede e dà in escandescenze insultandole, senza che neanche si siano avvicinate al bambino. La donna attira l’attenzione delle forze dell’ordine che procedono automaticamente all’arresto, un avvocato d’ufficio fa patteggiare alle donne un’ammenda per un reato che non esiste e che le due donne rom firmano senza aver capito di cosa sono accusate. Il mito diventa realtà per chi ci crede: la suggestione di una neomadre, il pregiudizio delle forze dell’ordine e il cinismo di un’avvocato che sa che la parola di una rom contro quella di una cittadina italiana non vale niente.
Cito un articolo di F. Merlo che commenta il presunto tentativo di rapimento: «gli zingari sono dei profughi apolidi, gente che non sta da nessuna parte. Non ci piace la retorica che li beatifica, ma non sono ladri di bambini. Nelle statistiche del ministero degli Interni non c´è un solo precedente. È vero che non esistono statistiche serie sui furti di bambini, che rimangono una specialità della malavita organizzata: per il commercio sessuale, per la prostituzione, per il traffico delle adozioni. In Italia c´è un´antica tradizione orale che attribuisce agli zingari tentativi di sequestri nei mercati, per la strada, dalle macchine. E c´è anche la leggenda che i rapimenti stiano alla base dell´industria di espianti e impianti di organi, con elicotteri a motore acceso e svelti camioncini adibiti a sala chirurgica volante per rapire e subito consumare. La verità è che non ci sono dati reali e non ci sono neppure sospetti sui nomadi nelle sparizioni che tutti conosciamo»[8].
4.
E allora da cosa nasce questo mito tenace? Già a partire dal XVII secolo, “secolo dei lumi”, in Europa furono attuate politiche di integrazione nei confronti di rom e sinti che prevedevano l’assimilazione forzata e che fallirono miseramente. 1768, Maria Teresa d’Austria con ottantamila zingani. Carlo III di Spagna negli stessi anni crea nelle città, su modello del ghetto ebraico, le “gitanerie”. I metodi furono violenti e coercitivi senza alcun rispetto per la cultura romanès. Il rifiuto di questa assimilazione aumenta le condizioni di persecuzione ed oppressione, molti bambini furono sottratti ai loro genitori e riassegnati in campi di lavoro e rieducazione: in tutta l´Europa centrale, per tre secoli decreti e leggi pretendono di "liberare" i bambini dai loro genitori naturali, in una escalation che culmina nella soluzione finale nazista, internamento di adulti e bambini “irrecuperabili” come gli ebrei. Oltre cinquecentomila le vittime del Samudaripen, chiamato spesso erroneamente Porajmos.
Fino al 1973 In Svizzera i bambini vengono affidati forzatamente a istituzioni cattoliche; nel mondo ex-sovietico si ricorre all’assimilazione forzata degli zingari e si continua a praticare la sterilizzazione delle donne dopo il parto in ospedale, senza nessun consenso.
Nel pregiudizio così antico e radicato c’è forse una rimozione storica per mettersi in pace con la propria coscienza di gente che ama i bambini e la famiglia: Merlo scrive «eravamo noi a rubare i loro bambini e invece nel fondo oscuro dell´immaginario collettivo da più di tre secoli sono loro a rubare i nostri». Un ennesimo ribaltamento e gioco di proiezioni per semplificare questioni difficili.
E’ vero che molti campi rom sono luoghi di degrado e povertà, in cui si perpetuano crimini, violenze e cose innaccettabili per una cultura dei diritti; sono luoghi di emerginazione programmata in cui ogni emancipazione è fortemente ostacolata; ma non è questo che all’opinione pubblica da fastidio. Allo stesso modo per cui sono completamente ignorati gli aspetti positivi di un’umanità che non vogliamo vedere, se non da pochi che alimentano un mito dello zingaro libero e felice, altrettanto falso e mitologico ma di segno inverso. La cultura rom è una scheggia di contraddizioni nel cuore della post-modernità, non esiste più il mondo in cui si è formata ed appare irriducibile alla vita delle nostre città, a cui si avvita nella crisi culturale, morale, economica. La distanza è sempre più grave e aggravata dal pregiudizio. Questi sono i problemi da risolvere. Fuori dalle confuse elaborazione mitologiche e dalle semplificazioni da sagoma cartonata.
5. Arriviamo alle conclusioni dei due casi che seguono uno stesso schema logico, c’è una infanzia ‘nostra’ colpita dagli altri, i diversi.
Si tratta di miti moderni, il codice retorico dell’accusa di omicidio rituale così come quello del rapimento dei bimbi, che rientra nella logica di demonizzazione del diverso e di «disumanizzazione che rende legittima la pratica di sterminio»[9] poiché contribuisce a istituire, alimentare, rafforzare l’«ideologia della differenza assoluta tra il Sé (posto come bene) e l’Altro (posto come male)»[10]: come lo studio comparativo dei genocidi ha messo in luce, quando la forma mentis che produce/stabilizza le identità procedendo per differenziazione e separazione diventa ossessione della purezza e timore del contagio, la sistematica demonizzazione del diverso può legittimarne l’esclusione, che è il primo livello di una escalation dell’odio le cui tappe progressive (marginalità, segregazione, deportazione, sterminio) sono interconnesse[11].
Il pregiudizio lavora sulla credulità, il sentito-dire e l’insinuazione, modalità che sono tipiche della diffusione di voci e delle cosiddette leggende metropolitane. La violenza è prima di tutto dentro un linguaggio che evoca anche l’immaginario del complotto[12]. Lo stile paranoico che si manifesta in età moderna con la fobia del complotto (società segrete, tentativi di colpi di stato, delazione, cospirazioni) è mito politico: gli uomini per bene devono difendersi da invisibili cospiratori, iniziati al segreto, dediti a vizi oscuri e abitatori di mondi paralleli. Uscendo dalla fantasmagoria il complotto assume una straordinaria forza d’impatto sulla società e sulle azioni politiche dei suoi attori sociali: a partire dalla fine dell’Ottocento in Europa giudei, frammassoni, stranieri, anarchici e comunisti sono gli elementi di una nebulosa cospirativa tale da costituire il nemico interno rispetto al quale la destra reazionaria prima e quella fascista poi vorranno porre una contrapposizione frontale.
Negli immaginari collettivi contemporanei operano stereotipi che trovano in materiali simbolici e mitici lo spunto per una rivendicazione dell’identità che si impernia sul tema del segreto di cui le «ossessioni della controstoria» care alle culture di destra sono una modalità di espressione[13]: sullo scenario di una mondializzazione sempre più complessa diversi temi intrecciati, che hanno il loro centro nella paura dell’altro, sono miti operativi capace di servire da combustibile per alimentare tensioni e rancori di natura sociale ed economica. Immaginare l’altro nel suo circolo chiuso è funzionale alla determinazione del proprio circolo chiuso, e può mettere in moto fenomeni reattivi e escalation di violenze simmetriche che determinano l’insolubilità di ogni guerra civile.
Quei bambini rapiti, che tanto ci fanno orrore, siamo noi, impauriti e bisognosi di protezione dai ‘cattivi’, chiediamo ordine e regolarità. La realtà è che diminuiscono i crimini, ma la sua rappresentazione mediatica è aumentata e la gente ha paura. Paura di avere paura. Seminare la paura è il miglior modo di governare, la paura genera paura, e chi ha paura non ragiona più. I pregiudizi sono proiezioni di timori irrazionali, personali e collettivi alimentati e oggetto di speculazione: come diceva Einstein, «è più facile disintegrare un atomo che un luogo comune».



[1] Recente la pubblicazione del libro di A. Toaff, Pasque di sangue. Ebrei dEuropa e omicidi rituali, il Mulino, Bologna, 2007, a cui è seguito un vastissimo dibattito (tra gli altri, Luzzatto, Ginzburg, Prosperi, Cardini) sull’antisemitismo, sul rapporto mito/storia e mito/rito, sulla libertà di stampa, sulla metodologia storica, sulla responsabilità degli uomini di cultura e dei mezzi di informazione di massa. Cfr. D. Bidussa, Macchina mitologica e indagine storica. A proposito di Pasque di sangue e del «mestiere di storico», in Vero e falso. Luso politico della storia, (a cura di M. Cafiero e M. Procaccia), Donzelli, Roma, 2008, pp. 139-172.
[2] S. Levi della Torre, Il delitto eucaristico in «Immediati dintorni», 1, 1989, p. 316.
[3] F. Jesi, L’accusa del sangue, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, pp. 39-41.
[4] D. Bidussa, Retorica e grammatica dellatisemitismo, In F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., p. XVI.
[5] F. Jesi, L’accusa del sangue, cit. p. 17.
[6] «L’antisemitismo moderno è per molti aspetti una risposta all’emancipazione degli ebrei (una non-nazione transnazionale che si libera in mezzo al levitare nazionalistico) prototipo a suo modo di altre emancipazioni civili, sociali e culturali». S. Levi della Torre, op. cit., p. 318.
[7] La storia dei Protocolli dei Savi di Sion è paradigmatica: cfr. D. Bidussa, Retorica e grammatica dellantisemitismo, p. XXXIII ss.
[8] F. Merlo, La leggenda degli zingari, «La Repubblica», 11 febbraio 2005.
[9] Ivi, p. XXXII; cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino, 2007, pp. 97 ss.
[10] P. Portinaro, Genocidio, in Id., I concetti del male, Torino, Einaudi, 2002, pp. 109 ss.
[11] Cfr. F. Remotti, Contro lidentità, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 28-29; M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 27-29, p. 35, p. 39-40, p. 74-75; E. Donaggio e D. Guzzi, A giusta distanza. Immaginare e ricordare la Shoah, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2010, pp. 13 ss.
[12] Cfr. D. Bidussa, Retorica e grammatica dellantisemitismo, p. XXXIII ss. per il rapporto tra mito moderno e leggende urbane: il «rumore» nel senso di accavallarsi di voci incontrollate riprende il concetto di «brusio dell’Opinione» in Kraus e Canetti; cfr. Id. Macchina mitologica e indagine storica, cit., p. 141-2: «macchina mitologica» è sinonimo di «storia sociale di una credenza», ambito in cui si «incrociano e si sovrappongono immaginario sociale, uso politico dei miti e dei riti, credenze e loro diffusione»; cfr. Id., La ricerca storica e la questione del mito, in «Nuova corrente», n. 143, 2009, p. 151: Jesi è indicato come punto di riferimento per una «storia sociale delle idee».
[13] Cfr. D. Bidussa, La ricerca storica e la questione del mito, cit. p. 153.