Camminare in autostrada
Era capitato per caso, una stupidaggine. In autostrada sul furgone, diretti in Emilia, ancora prima di arrivare ad Asti avevamo finito la benzina. Fermi. Sotto il sole, carichi di strumenti e con tutto il viaggio da fare. Io e Pietro abbiamo scavalcato una rete sul ciglio della Torino-Piacenza e ci siamo incamminati attraverso i campi, verso l’abitato in cerca di carburante lasciando gli altri in attesa a discutere di chi fosse la colpa di tale idiozia. Dopo aver trovato un distributore, in un piccolo paese sonnolento disteso tra l’autostrada e una statale, con la benzina in una sacca di plastica abbiamo tagliato nuovamente per i campi dirigendoci verso l’autostrada, dove il furgone fermo nella corsia d’emergenza ci aspettava un paio di chilometri più indietro.
Abbiamo cominciato a camminare al bordo della Torino-Piacenza, un posto dove le distanze mostrano tutta le relatività del mezzo che le compie. Il tragitto, molto breve in auto, sembrava lunghissimo. Non passavano macchine, la strada era vuota. Il sole di fine luglio arroventava l’asfalto, l’aria tremolava all’orizzonte. Non mi sarebbe mai più capitata un’occasione del genere. Ho cominciato a camminare in mezzo all’autostrada. In centro alla corsia, aprendo le braccia, accennando alcuni passi di una danza e alternandola con salti e qualche segno tracciato nell’aria.
Quasi non sentivo la voce di Pietro, «Cosa fai? Sei impazzito? Torna qui». Pensavo a quel luogo non calpestato, un posto dove pezzi di metallo e gomma passano a 130 chilometri all’ora. Mi sembrava di essere il visitatore di un mondo parallelo che prova dimensioni inedite. Lì a rivendicare il diritto della specie a riconsegnare un suolo non pensato per velocità umane alla portata di gambe e piedi. Quasi come se con quel camminare, incerto, lento e solenne, potessi cancellare le tonnellate di asfalto e i centinaia di migliaia di chilometri che ricoprono la Terra, prima di perdersi nel mare, e rendere quel posto abitato e reale.
In quella manciata di minuti di camminata nel nulla, non saprei quanto e per quale distanza, sono stato semplicemente i miei passi sulla strada; il battito del mio cuore era lo stesso pulsare del sole e il mio sguardo era quello degli uccelli in volo. Senza sopra e sotto prima e dopo, soggetto e cosa, qualcosa in me ha ricordato distese di boschi popolati di animali mai visti, montagne percorse da ruscelli che si gettavano nel mare senza fine, cieli lividi su cui danzano bagliori gialli e rossastri come di stelle esplose e poi ricomposte in altra forma.
Poi il rumore di un’ondata di veicoli in arrivo mi ha riportato indietro, nei giorni che si rincorrono e nell’ora in cui l’io si può dire tale. Ho atteso di vedere avvicinarsi il bagliore feroce delle lamiere delle auto, fino al limite del ragionevole, poi mi sono spostato di nuovo sul ciglio della strada, ancora ridendo. Dopo poco raggiungemmo il furgone.