Scoiattoli che si menano.
La
crisi nella scuola
Enrico
Manera
1.
Disagio
Affrontare
il tema della scuola oggi vuole dire fare i conti con un disagio
profondo, per la serie di nodi problematici che ad essa sono
collegati, di cui solo chi ci vive quotidianamente pare essere
consapevole. Ne è una prova il tono medio delle reazioni della
'società civile' che, recentemente, non ha trovato nulla di strano
nel fatto che il governo intendesse aumentare da diciotto a
ventiquattro le ore di lezione frontale per ogni docente, senza
aumenti salariali.
La
scuola pubblica, repubblicana e laica è uno spazio in cui si
concentrano le contraddizioni culturali, economiche e sociali del
presente, in una fase di trasformazione che tocca in primo luogo i
suoi soggetti principali, gli studenti: è un luogo di formazione e
di scoperta individuale, un punto di intersezione tra cultura alta e
bassa, libresca e di strada; di avvicinamento alla politica, nel suo
senso più ampio, attraverso cui guardare le pratiche di democrazia e
di cittadinanza vissuta nel quotidiano.
La
scuola è anche un ponte tra le generazioni, un mezzo di
comunicazione con gli adulti fuori dalla famiglia, e quindi un punto
di incontro e scontro tra visioni della realtà anche antagoniste; è
il luogo dove si sperimentano e si mettono alla prove le relazioni di
genere e gli affetti all'interno del gruppo dei pari e si testano le
differenze tra l'involucro dell'ovvietà familiare e il diverso da sé
in tutte le sue forme; è il luogo dove ci si confronta con fenomeni
relativamente nuovi per l’Italia come le migrazioni internazionali,
che fanno della scuola un laboratorio di multiculturalità molto più
vivace e attivo di quanto non emerga dai media.
La
scuola è un microcosmo, in qualche modo protetto ma ancora capace di
durezza, che ospita sperimentazione, innovazione e accoglienza (ma
anche nozionismo, conservazione e privilegio a seconda dei contesti);
riflette quello che succede al suo esterno è un osservatorio
privilegiato sul paese reale e su un mondo dell’adolescenza che i
genitori non vedono nella sua integrità e che ogni adulto continua a
pensare a partire dai propri ricordi.
La
scuola è anche il modo in cui la società riproduce se stessa, o
meglio intende riprodurre se stessa, perché nel frattempo è in essa
che il cambiamento sociale si mostra prima che altrove. Da qui l'idea
che la scuola sia al centro di dinamiche sociali emergenti di fronte
alle quali la essa reagisce con strumenti datati e sempre meno
efficaci.
Ragionare
sulla scuola significa dunque mettere al centro della riflessione la
crisi della nostra società e le possibilità di uscirne. Ma occorre
ricordare che essa è un organismo plurale e complesso, che non può
essere governato in base a logiche che non le appartengono.
Non
si ha idea del tipo di disagio che si vive a scuola se non si tiene
conto di alcune semplici questioni: bisognerebbe parlare di riforme
dei programmi e dei metodi per un mondo che è cambiato e invece non
abbiamo ancora risolto il problema della sicurezza dell'edilizia
scolastica; dovremmo ancora capire cosa sta succedendo alle nuove
generazioni in campo cognitivo di fronte a media multimediali (che
ormai fa ridere chiamare 'nuovi') e invece ci si sta affrettando a
santificare il tablet e a proporlo per tutti, senza tenere conto che
in Italia si ha l'età media dei docenti più alta d'Europa e un
corpo docenti precarizzato e falcidiato dai tagli di personale,
praticamente inesistente sotto i quarant'anni.
La
stessa classe dirigente che deplora la crisi di valori e l'ignoranza
dei suoi giovani, a ben vedere dopo aver avallato politiche di
desertificazione morale e culturale che ne sono all'origine, è
quella che ha di fatto impoverito e umiliato il corpo docenti e
distrutto l'idea di pubblica istruzione.
Quello
che accade non può essere considerato un incidente: la scuola
pubblica nell'ultimo decennio, oltre a essere andata incontro a tagli
pesantissimi per quanto riguarda risorse e personale (che se avessero
riguardato l'industria privata sarebbe state considerate epocali
licenziamenti di massa), è stata oggetto di una controffensiva
ideologica volta a delegittimarla in modo direttamente proporzionale
alle politiche neoliberiste che hanno inteso disintegrare la nozione
di 'educazione' sostituendola con quella di 'addestramento'.
Il
ruolo dei docenti, la formazione e la condizione professionale (e
psicologica) sono tanto importanti quanto sottovalutate, tanto dal
punto di vista culturale quanto da quello salariale; lo dimostrano
studi internazionali recenti (sistematicamente ignorati dalle
politiche culturali) che correlano successo formativo, qualità degli
insegnati, sviluppo umano di un Paese .
Se
la scuola della Costituzione è indiscutibilmente un presidio di
democrazia reale, inclusiva e partecipativa è il caso di ricordare
che siamo
di fronte a un vero e proprio deficit cognitivo che riguarda una
cospicua fetta della società italiana: l'analfabetismo di ritorno di
generazioni che hanno vissuto le scuole autoritarie (quelle che
secondo la vulgata funzionavano ancora) si mescola con la resistenza
alla scuola che viene offerta dalle fasce deboli o indebolite dalla
crisi economica: un cittadino su tre non è in grado di scrivere o
comprendere una frase anche breve. La ricerca sociale mostra che
nella scuola la diseguaglianza continua
a esistere:
negli accessi, nell'abbandono, nella ripetenza e nel conseguimento
dei risultati, rispetto agli esiti e alle competenze acquisite e in
rapporto con la posizione sociale occupata. In altri termini, se per
un breve periodo la scuola italiana è stata un fattore di mobilità
sociale verso l'alto, da tempo essa non lo è più e riconferma
differenze sociali che paiono sempre più ampie.
Non
solo la scuola è in crisi, la
crisi a scuola si sente, si vede più
che altrove,
semplicemente perché la società reale (non la sua rappresentazione
mediatica e le astrazioni statistiche) passa dalle scuole, abitate da
piccoli e giovani cittadini e cittadine che chiedono ogni giorno
ragione della frattura tra il mondo ideale che i docenti spiegano e
quello che vivono. La scuola non produce più cambiamento sociale
ormai da tempo, quando va bene tampona il disastro, grazie
all'impegno che ci lavora mette dentro nonostante
tutto.
Potrebbe non essere più in grado di fare neanche questo.
2.
Da
dove viene la crisi
La
crisi dell’istruzione superiore, in una narrazione di larga fortuna
condivisa dal neoliberalismo in tutte le sue declinazioni e dal
cattolicesimo conservatore, viene fatta risalire alla cultura
libertaria del Sessantotto che avrebbe cancellato il senso del
dovere, della fatica e del merito. Sul banco degli accusati finiscono
puntualmente Don Milani, Gianni Rodari e addirittura il gruppo
Giscel, a cui si devono le note tesi per una linguistica democratica,
che vengono letti in modo riduzionista e macchiettistico e diventano
i primi responsabili di quello che viene dipinto come una nuova
barbarie.
Solo
per memoria corta, ignoranza e malafede si può ignorare che la
scuola, in particolare la superiore, fino agli anni sessanta era
ancora fascistizzata nei programmi e nelle pratiche; dove non lo era
era cattolicizzata, in senso preconciliare, e se non lo era era
ipocrita, perbenista, censuale e provinciale, sorretta da tutele
antropologiche e solidarietà di ceto che passavano sopra alla
decantata severità; animata da docenti gentilianamente
autoreferenziali, capaci tanto di carisma e di costruire vocazioni
genuine quanto di allontanare per sempre dalla propria materia
studenti traumatizzati. Un’istituzione che sui grandi numeri
produceva già allora ignoranti, abulici e rancorosi, ancora oggi
memori di pratiche didattiche poco tollerabili. Lo dimostrano le già
citate statistiche sulle competenze degli adulti di oggi, in termini
generali, per non dire dell’ignoranza che molti professionisti
stimati hanno in ambiti diversi dal loro, senza che nessuno si
scandalizzi più di tanto.
La
democratizzazione è servita allora, sostengono i nostalgici della
scuola che non c'è più, a livello di istruzione dell’obbligo per
un paese in crescita, demografica ed economica, e poi si è
trasformata in diritto al successo formativo che è falsa democrazia,
appiattimento culturale e svilimento di contenuti, con la scuola che
diventa la palude-parcheggio attuale. La colpa principale sarebbe
dunque del Sessantotto che ha spazzato via ogni competenza e
difficoltà scambiando banalità e superficialità per allargamento
della base democratica.
Contro
tale falsificazione va affermato che quel periodo ha costituito un
argine importante contro pratiche didattiche autoritarie,
antistoriche e deteriori, i cui echi non sono peraltro del tutto
scomparsi (esiste ancora un gentilianesimo fantasma che abita
programmi e didattiche).
Le
radici del problema sono altre, e se proprio dobbiamo assegnar loro
un’epoca, allora sono gli anni ottanta (che chi scrive ha vissuto
da adolescente):
la cultura dei licei era già in difficoltà rispetto alla
colonizzazione della sfera dell’immaginazione, degli affetti e del
desiderio che emergeva in modo evidente con i primi anni di massiccia
televisione privata, l’esplosione della pubblicità, il craxismo,
il narcisismo, il trionfo del kitsch, l’emulazione impacciata del
mondo americano.
Da
allora la cultura della borghesia tradizionale ha visto erodere i
propri valori ‘grigi’ in favore di una logica economicista e
edonista a cui si è ben presto abbandonata.
Fino
a qualche decennio fa la cultura espressa dal liceo classico e
scientifico era la cultura ‘alta’ delle credenziali e del codice
di riconoscimento delle classi dirigenti; poi le élite hanno
cominciato a identificarsi in altri valori che non prevedono più il
sapere tradizionale: di fronte all’emergere di nuove ricchezze
nell’Italia del boom economico l’ignoranza non è stata più un
problema, mentre lo è progressivamente diventato non essere alla
moda, non avere determinati stili di vita e non possedere certi
status
symbol.
Nell'età
segnata dal 'berlusconismo' si può essere spaventosamente ignoranti
e incompetenti nel proprio lavoro; si deve
parlare apertamente di sesso greve, di gossip, tradimenti, crimini
efferati con gusto voyeristico ma non si può essere poveri. Il
valore mitologico dei beni di consumo, a cui hanno avuto accesso i
ceti subordinati, ha giocato un ruolo chiave nell’emulazione
sociale e nella costruzione del consenso, con una dilatazione del
concetto di classe media schiacciata sempre più verso il basso e
priva di qualsiasi specifica identità se non il circolo
desiderio-consumo-successo.
La
scuola, contrariamente a quanto sostengono editorialisti nostalgici
del loro liceo classico e insegnanti che producono best-sellers
apocalittici sulla scuola, non ha dunque innescato il declino. Lo ha
subìto e gli si è avvitata intorno perché
è l’unico istituto di socializzazione che ancora è settato sul
‘vecchio’ modello antropologico e sociale che attribuiva valore
al sapere.
La
scuola è stritolata da contraddizioni come questa. Funziona come un
meccanismo, a tratti ottuso e inceppato, producendo valori umanistici
e scientifici in cui nessun altro soggetto istituzionale sembra più
credere, salvo rilanciare slogan di retorica impacciata. E lo fa con
programmi e metodi alla cui efficacia molti docenti non credono più,
con margini di libertà e di felicità sempre più stretti.
Difendiamo
la scuola comunque, ma non possiamo non chiederci: a cosa deve
servire la scuola oggi? Ci serve ancora questa
scuola? E se non siamo d’accordo con una società che rifiuta la
cultura e il suoi canoni, ha senso resistere e insistere con quella?
E se sì e crediamo nel suo valore formativo, a cosa siamo disposti a
rinunciare per poterla diffondere? Risocializziamo alla cultura i
figli impoveriti della middle
class,
essendo più indulgenti nelle valutazioni e tollerando una mediazione
inevitabilmente al ribasso? O, persa ogni fiducia nell'emancipazione
della massa, proteggiamo i già bravissimi che vengono da famiglie
che credono ancora nella cultura, tendenzialmente a reddito
medio-alto, selezionandoli verso l’eccellenza?
3.
Verso
dove?
Ogni
vera riforma non può prescindere da un progetto di società più
vasto e di ampio respiro: prima ancora dei dispositivi organizzativi
sono le persone che fanno un’istituzione e il personale della
scuola è oggi troppo in sofferenza per riuscire da solo nell’impresa
titanica. L’età media dei docenti è alta, i loro carichi di
lavoro sempre più gravosi e complessi e i cambiamenti sociali e
culturali in atto nel mondo digitale sono incompatibili con la sola
didattica frontale. Gli strumenti della valutazione oggettiva tratti
dal mondo dell'industria e della certificazione della qualità non
possono essere applicati a qualcosa come l'istruzione e
l'apprendimento che sono incommensurabili, non misurabili e
imprevedibili, se non riducendoli a una contabilità docimologica
basta sul sistema quiz/nozionismo. Tanto nella produzione scientifica
quanto nell'apprendimento vi sono elementi imponderabili che nessuna
griglia potrà mai controllare.
Le
analisi comparate dei sistemi educativi internazionali confermano
che, in sistemi molto diversi, i risultati migliori basati sulle
competenze degli studenti sono correlati all'alta qualità
dell'insegnamento, animato dal senso di responsabilità nel
raggiungimento degli obiettivi e da una missione civica e morale
sottostante. In questo senso in Italia deve essere riconquistato il
ruolo intellettuale del docente, che va accompagnato a una didattica
che non può essere più solo quella frontale. In
una situazione di crisi dell'educazione è necessario rivolgersi
verso una pluralità di strumenti, dalla didattica in compresenza
alla didattica laboratoriale, all'uso educativo delle nuove
tecnologie comunicative.
Da
questo punto di vista, l’uso dei diversi media deve essere
insegnato e integrato con quello tradizionale. Come insegnante di
storia e filosofia in un liceo nutro seri dubbi sul fatto che il
canone letterario-filosofico tradizionale nella sua integrità
conservi un potenziale significativo per l’oggi, troppo ancorato
all’Ottocento e al primo Novecento nei suoi paradigmi di
riferimento rispetto a svolte culturali più recenti;
indipendentemente da questo credo che insegnando contenuti, anche
questi contenuti, simultaneamente si insegni a imparare e decifrare
la realtà; la difficoltà, la distanza, l’urto con la cultura e la
complessità, vanno mantenute e si deve insegnare a superarle e a
rispettarle. Di più, credo al valore di contraddizione, di utopia e
di riscatto dell’opera d’arte e nell’importanza di mostrarlo
attraverso una educazione estetica, oggi più mai completamente
assente. Così come sono convinto del potenziale emancipativo del
sapere e del suo valore ricreativo, senza la ricerca dell’immediata
spendibilità del mondo del lavoro, che troppo spesso si trasforma in
miraggio e ricatto.
Si
tratta piuttosto di riconfermare a più generazioni che senza
impegno, fatica e dedizione non si riesce a raggiungere risultati,
quali che essi siano; di condurre una battaglia politica contro la
dismissione dell’educazione pubblica, forti dell’idea che come
docenti si ha un ruolo cruciale nella salute del Paese e che si possa
essere contagiosi senza intraprendere crociate o missioni, e
soddisfatti di poter indicare vie per la felicità della mente o
anche solo di aver avvicinato i propri studenti a qualcosa di diverso
da ciò che da cui sono partiti.
Troppi
discorsi fatti sulla scuola, anche in buona fede e spesso da chi non
ne sa più nulla, si reggono su implicite premesse logiche che di
fatto negano la possibilità di cambiamento e di uscita dalla crisi,
stabilendo che la cultura buona è una sola, è quella dei padri e va
imparata come hanno fatto loro. Esiste una retorica sulla scuola che
la pensa come se ci fossero ancora la Famiglia e il Sacro di cui
deplora la fine (se mai ci sono state fuori dalla finzione che ne ha
fatto la borghesia storica), senza il rumore di fondo e il bagliore
disturbante dei media e senza il virus dell’accumulazione
feticistica. Come se nel frattempo la sur-modernità e l’alienazione
che tutti
subiamo quotidianamente, e chi è nell’età dello sviluppo ancora
di più, non esistessero o fossero l’invenzione di qualche astruso
filosofo post-moderno che crea problemi inutili quando bastava
Aristotele a dirci cosa dovevamo fare per essere felici.
Alla
fine di ogni discorso che si voglia politico sulla scuola rimane il
dato ineliminabile che dentro una classe si stabiliscono relazioni
educative decisive per lo sviluppo di giovani soggetti in crescita
entro un campo di regole prefissate, costitutivamente autoritarie e
gerarchicamente ordinate, continuamente soggette a tensioni e
rinegoziazione, in un ambito di variabilità enorme. Non si può non
esserne consapevoli.
Personalmente
credo che il sistema educativo nel suo insieme non riesca a uscire
dalle logiche della metafisica tradizionale, tanto nei programmi
quanto nelle pratiche. Ripensare la scuola di oggi significa anche
rinunciare a pensare che l’identità di un soggetto – sapere chi
si è,
cosa
si vuol fare,
cosa
si vuol diventare
– sia un’ipostasi che sta al di sotto di tutto; come conferma il
ruolo primario della scuola nella memoria di qualsiasi adulto,
l'identità personale sembra piuttosto essere il risultato di un
percorso di costruzione e ricostruzione, a volta lungo una vita, che
prevede errori, sviste, cadute, fratture, ripensamenti, oltre che
successi e soddisfazioni. Quasi sempre, tutto succede a partire da
una scuola.
Un
docente
non sa niente di quello che è maturato nei suoi allievi dopo che li
ha lasciati.
Non gli è dato saperlo e se ne dimentica sempre. Quale che sia la
scuola che verrà, penso che si debba recuperare la fiducia nel fatto
che la scuola possa trasformare gli studenti, dando loro più
strumenti per la loro personale via al mondo adulto. Questo significa
rinunciare a voler riprodurre una nozione idealizzata di noi stessi.
E fare in modo che il cambiamento, anche verso qualcosa che non
conosciamo, possa non essere così male.
4.
Agenda per
una rinascita della scuola
Recentemente
la crisi attuale, che è frutto del neoliberalismo consapevolmente
adottato ed è aggravata dal degrado etico della classe dirigente, ha
portato moltissimi soggetti pensanti a ridiscutere il tema del bene
comune:
la scuola è un tema trasversale a esso, poiché come mostrano tutti
gli indicatori, l'istruzione è la miglior risorsa per il benessere e
la stabilità di un paese che abbia la giustizia
come obiettivo primario. Chiunque metterà piede nel nuovo ministero
si trova di fronte una situazione critica e una serie di risoluzioni
già avviate fallimentari. Di
seguito alcune cose che andrebbero fatte se si crede che il futuro
dell’Italia dipenda dall’istruzione dei suoi cittadini:
promuovere l’immagine del lavoro dell’insegnante come
intellettuale e funzionario pubblico. Eliminare l’idea che il
sapere sia addestramento a superare prove. Aumentare gli stipendi dei
docenti. Ripristinare gli organici funzionali e le compresenze e
smetterla con l’ossessione del completamento cattedre di diciotto
ore. Abbassare il numero di allievi per classe a venti studenti (oggi
sono fino a trenta) a fronte delle nuove richieste educative.
Ritornare alla programmazione individuale e alle offerte formative
con modalità meno rigide rispetto alle indicazioni ministeriali.
Aprire una riflessione sui contenuti minimi e condivisi delle
discipline incentrando i programmi sul Novecento e riformulando
canoni oramai consunti. Incentivare l’informatizzazione e la
formazione multimediale del personale segnato dal digital
divide rispetto
agli studenti. Migliorare biblioteche e risorse informatiche (pc e
Lim, aule multimediali). Abbassare l’età pensionabile riconoscendo
la delicatezza del ruolo del docente. Fare in modo che gli insegnanti
si dedichino alla ricerca e alla formazione incentivando part-time e
congedi. Aprire un osservatorio sulla sindrome del Burn Out per
prevenire il crescente disagio della categoria. Organizzare nuove
immissioni in ruolo ed eliminare il precariato. Stabilire regole
chiare e canali realistici per la formazione dei futuri insegnanti.
Affrontare le esigenze dei nuovi studenti migranti con appositi
progetti in vista di una reale inclusione. Tutelare la disabilità in
un’ottica non solo custodialista. Trovare forme di riconoscimento
del merito condivise e premianti. Rilanciare una vera autonomia
didattica con criteri di uniformità territoriale. Eliminare la
logica della certificazione della qualità secondo modelli tratti dal
mondo dell’industria e ispirati all’impossibile misurazione
oggettiva basata sui test. Semplificare la burocrazia interna e
potenziare le segreterie senza che i lavori gravino sui docenti.
Monitorare gli edifici scolastici dal punto di vista della sicurezza
e della vivibilità. Sostenere l’apertura delle scuole al
territorio con la promozione di attività pomeridiane. Rivedere
statuto e responsabilità del personale non docente considerandolo a
tutti gli effetti personale educativo. Aumentare le risorse e le
agevolazioni alle scuole tanto più difficile è il contesto
socio-culturale in si trovano. Il tutto all’interno di un processo
costituente che ridia centralità ai lavoratori della scuola, agli
studenti e alle famiglie e li includa nei processi decisionali.
Ok, ora voglio aprire un think-tank sulla scuola con te :D
RispondiEliminagrazie, parliamone,
RispondiEliminasu Dopppiozero/lavagna c'è già del materiale.
Sto dando un'occhiata agli articoli su doppiozero. Nel frattempo ti posto una conversazione su Fb fatta sul tuo articolo. Mi piacerebbe sapere che ne pensi dei rilievi che ti fa il mio amico:
RispondiEliminaAmico: Mmm mi sembra una cosa scritta da un sindacato docenti. D'accordo su alcune questioni pratiche come abbassamento del numero per classe e digitalizzazione. Basta dare la colpa al neoliberismo poi è demodè.
Io: mah, secondo me non è demodè manco per niente, visto che è attualità assoluta. Comunque il punto interessante secondo me è l'idea di ripensare la scuola in maniera globale.
Amico: Sì su questo non c'è dubbio che sia interessante però non c'è scritto qui cioè, liberare gli insegnanti dai programmi è storia trita e per certi versi è già così non c'è niente di rivoluzionario. Mi puzza soprattutto la questione pagare di più gli insegnanti non vedo una correlazione diretta tra miglioramento dello status degli insegnanti e maggior felicità degli allievi parla di ricambio generazionale ma non di formazione continua, inoltre non collega al mondo del lavoro che è una cosa reale dalla quale non si può far finta che non esista perché è neoliberista e ci sta sulle palle. Sono un po' tranchant e l'ho letto solo una volta quindi probabilmente non ho colto tutte le sfumature però non mi ha impressionato.
leggo solo ora, a distanza di qualche mese, mi spiace.
RispondiElimina- non vedere correlazione tra status insegnanti e felicità degli allievi è miopia. se chi insegna sta meglio, lavora meglio, comunica energia ed conquista autorevolezza. Essere pagati di più in termini simbolici significa riconoscimento. Gli insegnanti sono afflitti da cronica frustrazione e bisogna lavorarci.
- Non parlo di neoliberismo ma di NEOLIBERALISMO, discorso più complesso che implica le retoriche dell'efficienza e della naturalezza dell'economico: quella retorica di cui siamo imbevuti e che impedisce all'amico di cogliere le questioni.
- la scuola NON deve essere collegata al mondo del lavoro: produce competenze che dopo potranno essere usate nel mondo del lavoro. Altrimenti diventa addestramento. Chi lo vuole fare lo faccia: si lavori dunque sull'apprendistato in modo innovativo.
- Formazione continua: sono d'accordo ma mi sembra che ci sia nel pezzo, dove si dice 'Fare in modo che gli insegnanti si dedichino alla ricerca e alla formazione incentivando part-time e congedi.' Ovvio, tutto deve essere documentato e dare seguito a una qualche forma di riscontro. Ma il concetto è che se non hai tempo per studiare non puoi essere un buon insegnante.