i miei archivi, sulla strage di Cefalonia. c'è la scuola media intitolata ai suoi caduti nel quartiere da dove vengo.
Cefalonia, 14-24 settembre 1943
Gli avvenimenti di Cefalonia
Enrico Manera
Quando l’8 settembre 1943 viene reso
noto l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, firmato il 3
settembre a Cassibile, in Sicilia, il paese e le forze armate
precipitano nel caos. Di fronte al tergiversare delle autorità
italiane, che continuavano a rinviare l’annuncio dell’armistizio,
la notizia è diffusa da Radio Algeri (controllata da angloamericani
e da francesi degaullisti) alle 18,30. Solo in serata, dopo ore di
silenzio, Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, in fuga
verso Brindisi, fanno diffondere dalla radio un comunicato in cui
l’armistizio è confermato. Alle forze armate e agli apparati
amministrativi dello Stato non vengono date indicazioni di
comportamento, se non quella di cessare in ogni luogo le ostilità
contro le forze angloamericane e, ambiguamente, di difendersi contro
attacchi provenienti «da qualsiasi parte» (sono le cosiddette
ordinanze OP 44 e 45). Privi di direttive precise, i reparti del
regio esercito iniziano a sbandarsi. Nella notte tra l’8 ed il 9
settembre le unità dell’esercito tedesco, calato in forza nel
paese dopo il 25 luglio, cominciano a disarmare le truppe italiane e
a occupare punti strategici, aree industriali e vie di comunicazione.
Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle opposizioni,
comunica la costituzione del Comitato di liberazione nazionale,
lanciando un appello alla lotta e alla resistenza, senza nascondere
la richiesta di sostituzione del governo in carica, della fine della
monarchia e dell’istituzione della repubblica.
Per le truppe italiane fuori dal
territorio nazionale, incapsulate dai reparti tedeschi che ne avevano
praticamente accerchiato la maggior parte nelle settimane successive
la caduta di Mussolini, la situazione diventa drammatica. Nell’isola
di Cefalonia, nel mar Ionio, occupata dal regio esercito dalla
primavera 1941, dopo la resa della Grecia di fronte all’aggressione
italogermanica, è stanziata un po’ più della metà (11 700 tra
soldati ed ufficiali) della divisione «Acqui», assieme al suo
comandante, il generale Antonio Gandin; il resto (circa 10 000
uomini) è sulla vicina isola di Corfù. Il 14 settembre 1943 i
militari italiani a Cefalonia, dopo una consultazione interna che
coinvolge ufficiali e soldati, rifiutano di obbedire all’ordine dei
tedeschi di consegnare le armi e di arrendersi, e si apprestano a
resistere con le armi (non senza, nel frattempo, aver fucilato cinque
greci che avevano manifestato in pubblico contro l’occupazione
italiana che si protraeva da oltre due anni). Di fronte al rischio di
un collegamento tra le truppe britanniche che nel frattempo hanno
raggiunto Brindisi e le unità italiane che continuano a tenere
diverse isole del Dodecaneso, i comandi tedeschi decidono di
attaccare Cefalonia e Corfù e di applicare l’ordine, emanato il 10
settembre dal Comando supremo della Wehrmacht (OKW), secondo
il quale gli ufficiali italiani che avessero dato ordine di resistere
dovevano essere fucilati. La battaglia che ne segue si conclude tra
il 22 e il 24 settembre: 1300 soldati e ufficiali italiani muoiono
durante negli scontri, oltre 5000 vengono fucilati dopo essersi
arresi, altri 1400, fatti prigionieri e caricati su alcune navi,
scompaiono in mare. Dei circa 4000 sopravvissuti, 2500 verranno
trasferiti nei campi d’internamento militare in Germania, mentre
gli altri saranno utilizzati a Cefalonia come manovalanza coatta al
servizio dei tedeschi fino allo sgombero dell’isola da parte della
Wehrmacht, nel settembre 1944. Solo un piccolo gruppo di
ufficiali e soldati riuscì a sottrarsi alla cattura e ad unirsi alle
forze della Resistenza greca operanti nell’isola.
Se Cefalonia è il caso più noto,
nella convulsa fase di sbandamento caratterizzata dall’assoluta
assenza del re Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali in
fuga (è il caso di ricordare che la mancata dichiarazione di guerra
alla Germania da parte del governo italiano fu presa a pretesto dalle
autorità civili e militari tedesche per dichiarare «franchi
tiratori», e perciò passibili di fucilazione, quei militari
italiani che avessero rifiutato di cedere le armi), gli episodi di
resistenza che hanno come protagonisti membri dell’esercito
italiano sono stati numerosi, da Corfù (anche in questo caso per
opera degli uomini della divisione «Acqui») a Lero, a Scarpanto, a
Spalato, a Barletta, al Moncenisio.
Finita la guerra, familiari delle
vittime e superstiti di Cefalonia hanno promosso attivamente una
mobilitazione per ottenere giustizia nei confronti dei 31 militari
tedeschi responsabili dell’eccidio, che a Norimberga era stato
definito «una delle azioni più arbitarie e disonorevoli della lunga
storia del combattimento armato». In quella sede il generale Hubert
Lanz, comandante del XII corpo d’armata da montagna, in cui erano
inquadrate le unità responsabili della strage di Cefalonia, era
stato condannato a 12 anni di carcere, di cui però solo cinque
scontati. Le pressioni poc’anzi ricordate indussero all’inizio
degli anni Cinquanta il Tribunale militare territoriale di Roma ad
aprire un duplice procedimento, per «omicidio di prigionieri di
guerra» contro gli ufficiali della Wehrmacht, ma anche, per
«cospirazione e rivolta», contro 28 ufficiali italiani
sopravvissuti che erano stati tra coloro che più attivamente si
erano adoperati per convincere Gandin a resistere! Nel 1957 questo
secondo gruppo fu assolto con formula piena, ma di una sentenza
analoga avrebbero beneficiato, nel 1960, i tedeschi. L’andamento
del processo fu pesantemente influenzato dalla situazione politica
internazionale, che indusse le autorità politiche occidentali a
sostenere la tesi di una Wehrmacht sostanzialmente immune da
responsabilità nelle stragi naziste, totalmente addossate alla SS ed
alla Gestapo, per favorire il riarmo della Germania in
funzione antisovietica. Furono in particolare due ministri del
governo Segni nel 1956, il liberale Gaetano Martino e il
democristiano Paolo Emilio Taviani a impegnarsi in tal senso.
Recentemente Taviani, intervistato da «l’Espresso», ha ricordato
che «la guerra fredda imponeva delle scelte ben precise […]
l’Unione Sovietica stava invadendo l’Ungheria con tutte le
ripercussioni che chi ha vissuto in quel periodo conosce bene».
La rivalutazione del caso Cefalonia da
parte del presidente della repubblica Ciampi costituisce solo
l’ultimo dei segnali di attenzione verso quei drammatici
avvenimenti da parte della storiografia antifascista,
dell’associazionismo democratico di ogni colore e di chi aveva
combattuto per la Liberazione.
«l’Unità», 11 maggio
2001
La memoria di Cefalonia e la malafede del centrodestra
Brunello Mantelli
«I soldati che combattevano nella
divisa, con le stellette, e sotto la bandiera del Regio Esercito, per
fedeltà a un giuramento e alla Patria, non avevano i requisiti del
Partigiano che si batteva contro questi valori, e magari per
altri non meno nobili, ma «di parte», come del resto diceva la sua
qualifica, non di patria. Ecco perché i caduti di Cefalonia non
potevano entrare nel sacrario della Resistenza. Ne avrebbero
inquinato il Dna e il blasone». Così, il «Corriere della Sera»
del 1° marzo 2001 commentava la visita di Ciampi a Cefalonia,
sostenendo che «in Italia se n’era ogni tanto – ma ogni tanto –
parlato come di cosa imbarazzante, perché politically uncorrect».
La tesi viene ribadita il giorno successivo, sempre sul «Corriere»,
là dove si afferma che il presidente avrebbe «corretto la
storiografia antifascista», espressione di una «sinistra che
pretese subito di egemonizzare la Resistenza, escludendo» i
militari. Il 4 marzo Ernesto Galli della Loggia, noto commentatore
del quotidiano milanese nonché professore di Storia contemporanea
all’Università di Perugia, rincara la dose sostenendo che eventi
come Cefalonia sarebbero «stati dimenticati o "addomesticati"
per anni dalla vulgata corrente tutta ispirata dalla sinistra». Si
innesca così un dibattito che coinvolge anche altri quotidiani e
che, quasi sempre, non contesta l’assunto di partenza: la
resistenza della divisione «Acqui» a Cefalonia come episodio
ignorato dalla storiografia e assente dai libri di scuola. Tale
«rimozione» sarebbe da ricondursi all’egemonia della storiografia
antifascista, tesa a privilegiare la resistenza dei partigiani
rispetto a quella dei militari.
Ma chiediamoci: il punto di partenza di
queste affermazioni è vero? Facciamo qualche controllo. Quasi mezzo
secolo fa, nel 1953, esce la Storia della Resistenza italiana,
pubblicata da Einaudi. La scrive Roberto Battaglia, storico
dell’arte, partigiano, comunista. All’eroica resistenza della
divisione «Acqui» a Cefalonia che rifiuta, con un «tumultuoso
plebiscito in cui tutta la divisione si pronuncia per la lotta contro
il tedesco», di arrendersi alla Wehrmacht sono dedicate due
fitte pagine, in cui le coordinate essenziali dell’evento vengono
lucidamente tratteggiate: la pressione esercitata dagli ufficiali
inferiori e dai soldati sul generale Gandin, comandante dell’unità,
perché venisse respinto l’ultimatum tedesco; il già ricordato
«plebiscito», che porta alla stesura di un comunicato in cui si
risponde ai tedeschi che: «per ordine del comando supremo e per
volontà degli ufficiali e dei soldati la divisione “Acqui” non
cede le armi»; il successivo attacco della Wehrmacht che,
vinta la resistenza degli italiani, sfocia in un massacro
indiscriminato dei prigionieri. La ricostruzione, sintetica ma
esaustiva, di Battaglia influenza non pochi libri di testo: «i
reparti dell’esercito all’estero lottano eroicamente ma
sfortunatamente contro i tedeschi, come a Cefalonia e a Lero». Così
il Corso di storia per i Licei e gli Istituti magistrali
pubblicato nel 1973 da Petrini, di cui è autore Guido Quazza. Come
Battaglia, Quazza è personaggio emblematico: storico, antifascista e
partigiano, negli anni Settanta succede a Ferruccio Parri nella
carica di presidente dell’Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia. Rappresenta perciò
autorevolmente la storiografia antifascista.
«L’esercito si disgregò
immediatamente e solo pochi reparti non si sbandarono: a Cefalonia,
dopo alcuni giorni di combattimento, la guarnigione italiana fu
costretta alla resa e poi completamente massacrata». È la sintesi
di altro manuale largamente diffuso negli anni Settanta: il Corso
di Storia per le scuole medie superiori steso da Franco Gaeta e
Pasquale Villani e pubblicato nel 1974 da Principato.
Paradossalmente, a non far cenno al rifiuto opposto da migliaia di
soldati ed ufficiali alle profferte di resa della Wehrmacht
sono invece i libri di testo di orientamento moderato (se non
francamente conservatore). Se dai manuali passiamo alle sintesi, lo
spazio dedicato a Cefalonia aumenta: «A Corfù e Cefalonia gli
episodi più tragici e gloriosi: i reparti italiani si rifiutarono e
ingaggiarono battaglia [...] I nazisti, sopraffatte le truppe
italiane in durissimi scontri […] procedettero alla fucilazione
della maggior parte dei superstiti. […] A Cefalonia la decisione di
resistere con le armi [fu] assunta con un plebiscito tra ufficiali e
soldati», così la Storia d¹Italia 1860-1995 pubblicata nel
1996 da Bruno Mondadori e scritta da Alberto de Bernardi e Luigi
Ganapini, entrambi esponenti autorevoli degli Istituti storici della
Resistenza. Per quanto riguarda gli studi specialistici, mi limito a
citare il fondamentale La divisione Acqui a Cefalonia. Settembre
1943, curato da Giorgio Rochat e Marcello Venturi e pubblicato da
Mursia nel 1993. Frutto di un convegno promosso dalla città di
Acqui, che – retta allora da una giunta di sinistra – aveva
istituito in ricordo della divisione martirizzata a Cefalonia un
premio di storia, il volume raccoglie in 349 pagine nove saggi di
studiosi italiani e tedeschi (tra cui Mario Montinari, dell’Ufficio
storico dello Stato maggiore dell’esercito, e Gerhard Schreiber,
dell’omologo Ufficio storico della Bundeswehr).
Pare sufficiente a dimostrare che
raffigurarsi una Cefalonia dimenticata dalla storiografia
antifascista è una menzogna detta per ignoranza o per malafede. In
entrambi i casi con lo stesso risultato: diffondere un senso comune
che, attribuendo alla sinistra e alla storiografia a essa vicina
rimozioni, censure e distorsioni della verità storica (non importa
se del tutto inventate, come in questo caso) punta a sminuirne il
ruolo nella lotta di Liberazione e nella costruzione della Repubblica
democratica.
Un ultimo appunto: forse è fatica
sprecata indignarsi perché giornalisti, anche autorevoli, scrivono
senza documentarsi, è purtroppo costume diffuso nella categoria; ma
da personaggi come Ernesto Galli della Loggia, da anni nei ruoli del
ministero dell’Università, si deve pretendere che – prima di
impugnare la penna – vadano a controllare le fonti. In questo caso
bastava dare un’occhiata al vecchio e ben noto Battaglia.
«l’Unità», 11 maggio
2001