venerdì 18 giugno 2010

anni novanta

terza puntata della metaarcheologia del sé, eccetera eccetera. forse smette di piovere, la bicicletta è riparata, pizze con gli studenti e tra poco tempo per scrivere.

Vento d'estate

porta via stanchezza e malumori

le stelle sono tutte al loro posto


3. Novanta. Dopo Smel like Teeen Spirits

Studio filosofia, dopo un liceo scientifico affrontato con onore, ma dal lato sbagliato delle scienze: la storia, la riflessione sul passato, e in particolare l'importanza della dimensione religiosa e mitico-sacrale nelle idee degli uomini sono il mio interesse. Diversi peccati da emendare: non conosco il greco, la mia cultura classica ha diverse lacune, la biblioteca di famiglia la lascerei perdere. Potrebbe essere interessante per cogliere il tentativo di una piccola borghesia di recente urbanizzazione di dare un futuro migliore alla loro prole: su tutti un Pinocchio, Il Grande libro della storia, e il Grande libro della natura, le cui immagini mi stanno ancora oggi dinnanzi agli occhi: le immagini dell’evoluzione sui libri per bambini sono sempre la certezza rassicurante che c’è distanza tra noi e quelle quasi scimmie pelose e seminude che arrosticono animali sui pali, attorno a un fuoco. La raffigurazione degli stadi di evoluzione che accompagna le enciclopedie per ragazzi che andavano di moda negli anni sessanta e settanta, lineare e costante serve a rassicurarci, che noi non siamo più quegli esseri che tremavano nel buio e si cibavano di carne semicruda, siamo quelli che alle fine dei libri vanno nello spazio con le loro tute spaziali linde e così tecnicamente perfette. Poi antologie di Marx, Malthus e Smith che mio padre ha recuperato da un ragioniere e compagno di avventure dei ruggenti anni da scapolo, spiritualità varia e pochi classici d'antan da attribuirsi all'adorata genitrice. La biblioteca è cresciuta grazie a mio fratello maggiore, e alle sua passione per la letteratura, che si è nutrita di diversi Garzanti colorati. A lui devo anche, scelti appositamente per me, i primi classici che tutt’ora considero fondamentali dal Primo dizionario di Richard Scarry a Tolkien, per poi passare molto tempo dopo a Thomas Mann.

Ma andiamo con ordine, in questa fase mi ritaglio un percorso personale e alternativo.

Tornando a casa MTV mi trasmette gli occhi vitrei di Kurt Cobain e ragazzi in palestra di scuola con ponpon girls incendiarie e Acerchiate, alternativamente il ritmo al fulmicotone della Manonegra e la micidiale sintesi di psichedelia, new-wave e hard rock che viene da Seattle, in quel tempo Ten dei Pearl Jam vende 5 milioni di copie in pochi mesi e una copia è a casa mia, il mio ritornello preferito di quei confusi anni è dello scanzonato Beck, I’m a Loser, Baby, why don’t you kill me. Il mio romanziere preferito in questi anni è Lovecraft, di cui mi compro l'opera omnia in Newton Compton, presto scopro Auster, Moon Palace in particolare, è un libro soglia su mille altri; contando le millelire fotocopio l'inverosimile, comincio a comprare libri usati sulle bancarelle, libri di liceo classico degli anni settanta, colleziono garzantine di provenienza illecita, insomma incomincio a raccogliere cose che oscuramente sono collegati e fittamente intrecciate tra loro, e sembrano chiamarsi. Le bancherelle di libri usati di Torino sono speciali per questo, ci ho anche lavorato in una (– senta ce l’avete ‘Se questo è un uomo’ di Italo Calvino?, – ehm, signora, sì ce l’ho anche se… –). Comunque, Lou Reed quando è venuto a Torino, dice per le librerie sembra di essere a Berkeley.

Con l'università, nonostante la laurea in filosofia non sia esattamente nelle tradizioni di famiglia e nelle scelte tendenziali del quartiere (il natìo borgo selvaggio), gira bene, leggo classici come vuole un rinnovato piano di studi restauratore e rigoroso e, contro qualche scetticismo, rendo molto bene, scegliendo l'ermeneutica filosofica come mio ambito d'azione (sulla scia della locale scuola pareysoniano-vattimiano) e sviluppando una certa passione per il primo Heidegger, che, lo capisco solo ora, in realtà scambiavo per Benjamin, il quale sarebbe arrivato solo dopo. Un bellissimo corso sull'estetica dello Sturm und Drang e su Goethe (grazie ancora professor Klein, anche se non lo sa ha salvato molte menti di una generazione con quel corso 1994-95) mi introduce alla meraviglia della grande letteratura europea e del suo potenziale filosofico immenso.

Capisco che qualcosa non va il giorno in cui, sfidando la timidezza, oso chiedere a un'anziana ordinaria in cattedra perché i padri cappadoci scelgono di adottare lo schema trinitario per la loro teologia, il cui modello mi sembra chiaramente plotiniano. «La domanda è mal posta» - mi sento rispondere - «bisognerebbe chiedersi perché Nostrosignore ha scelto di manifestarsi in quel modo». Annuisco, ammutolendo, non certo di aver sentito quello che ho sentito. Ma le facce intorno a me confermano. Comincio a sospettare che la metafisica e la filosofia morale siano da accantonare a favore della storia delle idee e della critica dell’ideologia. Per fortuna ci sono seminari anche su quello.

Nel frattempo arrivano i Radiohead, siamo circa 1993 quando l’NME (New musical Express) faceva uscire della cassette contenenti i singoli più interessanti del momento, che oggi, pare, valgono una fortuna; per chi non poteva permettersi da studente il regime di acquisto compulsivo del trentenne che ha barattato la sua libertà con un salario e in absentia della rete e del suo inflattivo potenziale di exploitation musicale si trattava di una straordinaria fonte di nuovi materiali. Detto altrimenti, si poteva fare una trasmissione radiofonica d’avanguardia con roba sempre fresca e molto cool (che tra l'altro non compravo neanche io ma il fratello maggiore), per fare il dj con le cassette, che non è certo il massimo della vita ma del resto non se ne è mai accorto nessuno. Nel numero che ospitava Pearl Jam in copertina (“Can Eddie Vedder save the world?”) tra i brani della cassettina omaggio c’era Vegetable. Chitarre deviate, melodia zuccherina, ritornello insidioso e un certo controllato rumore di fondo, da Oxford, segnalati come molto promettenti. Quanto basta per un prima serio innamoramento. Nel 1994 Pablo Honey è già un must e il video di Creep è entrato nelle reti neurali dei ragazzi che solo due anni prima avevano cominciato a scaldarsi alle fiamme della palestra di Smell like teen spirits. A Milano, tra le tante date vista in quegli anni (con tappa obbligatoria al ritorno all’autogrillone di Novara, che vivo ancora oggi come qualcosa di simile al Cammino di Santiago e non posso non prendere almeno un Capri) con un drappello di ‘veri credenti’ vado al City Square a vedere per la prima volta i Radiohead. Un piccolo, stazzonato e pesto Thom Yorke in giubbotto di jeans, fuma fuori dal locale, timidi saluti e niente di più. Poi il concerto è strepitoso: tre chitarre che suonano sempre eppure non è mai troppo, basso e batteria inesorabili, rigorosi e millimetrici. Strumenti bellissimi, ancora difficili da vedere in giro. E le canzoni sono struggenti. Thom urla, si dimena e si contorce, Johnny Greenwood è un funambolo della chitarra, handsome devil che non pecca mai di virtuosismi inutili o personalismi sterili, ma mette le mani in un modo che non capisci come ma viene sempre fuori magia: è il guitar hero del terzo millennio, che combina rumore, alchimie da pedalino analogico e giubbettini di pelle striminziti (che in Italia non si trovano). Quando inizia a suonare una tastiera servendosi della paletta della chitarra (!) la sensazione è che potrebbe fare qualsiasi cosa, probabilmente sa suonare lo xilofono infilandosi una scopa nel naso e sarebbe comunque elegante. Quando arriva Creep la zappata di chitarra che introduce il ritornello, e che tutti stiamo aspettando con desiderio, proviene da un piccolo ampli casalingo completamente imballato e distorto ed ha il volume onnipotente che hai sempre desiderato: una cassa grande quanto un condominio e questo mondo che viene spazzato via da un accordo potentissimo. Dio suona una telecaster, lo sapevo.

La contemporanea lettura del Pendolo di Foucault è la mia folgorazione sulla via di Damasco: da lì il mio piano di studi prende la via degli studi religiosi in chiave sempre pià antropologica e storica e capisco che si può affrontare lo studio del passato e dello spirito umano senza offendere l'intelligenza. Appena posso scegliere qualcosa incappo in Ironia e Poesia di Alleman Beda, e poi uno studio di Festugiére sull'ermetismo gnostico e sulla mistica del politeismo. Un corso di estetica e un fraterno amico mi mettono in mano il libro giusto per una tesi di laurea, Hans Blumenberg e l'ermeneutica del mito. Incomincio a documentarmi e mi prende lo sconforto: letteratura vastissima e potenzialmente infinita, la sensazione che chiunque sappia più di me del mondo greco e la sensazione di inadeguatezza più spaventosa che si possa immaginare. Un cugino più grande, sapiente e laureato, lo stesso che ci aveva inziato a Whole lotta love (sento ancora la puntina che scende e l’ingresso di basso e batteria pulsare nelle vene e nelle tempie nel retrobottega di un colorificio) anche lui in fuga dalla provincia in cerca di cose diverse e migliori, mi parla di Jesi, il grande mitologo, - Devi leggerlo -. Registro l'informazione. Quando trovo Mito lo compro su una bancarella, anche se quando inizio a leggerlo è come sbattere contro un muro, tanto frustrante quanto emozionante: capisco meno di un quinto di quello che mi viene detto ma intuisco che lì, se solo potessi capirlo, ci sarebbe tutto quello che vorrei sapere. Ci tiro fuori comunque un buon paragrafo su mito e allegoria nell'illuminismo; ma ho un conto in sospeso con quel libro e tutto quello che io non sono per poterlo leggere.

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