Riscritture di Antigone. Variazioni sul mito in Anouilh e Brecht
Il tipo di riflessione che intendo proporre si attua su due livelli: l’analisi di Antigone come figura nelle letture di Anouilh e di Brecht, che solo nel secondo caso di presenta come figura specificamente politica;
la perlustrazione di possibili modalità di operare sulla dimensione mitico-simbolica in ambito letterario e artistico, a partire dalla «significatività» di alcuni topoi della cultura europea, che vuole essere una metariflessione sul rapporto mito-politica.
Per fare questo lo schema che intendo seguire è il seguente:
a. Presentare le due riscritture, Antigone di Jean Anouilh (1942) e Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht (1947) mostrandone le rispettive peculiarità mediante una breve analisi svolta sui testi nella versione a cura di M.G. Ciani, Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2000 (a cui fanno riferimento i rimandi di pagina). In entrambi i casi è presente una dimensione esistenziale e politica che si gioca all’interno della dicotomia ribellione ideale/ragion di stato, nel primo caso, e resistenza ed emancipazione/repressione imperialistica nel secondo.
b. Proporre alcune conclusioni sul differente tipo di lavoro sul testo a partire dalla filosofia implicita/posizione ideologica di cui gli autori sono portatori. La prima come tragedia esistenzialista contemporanea che accentua la dimensione dell’ambiguità e ripropone un pensiero tragico, fortemente nichilista e misantropico; la seconda come forma di un teatro epico che si presenta come macchina retorica al servizio delle idee rivoluzionarie di un marxismo critico e umanista.
0.
Il punto di partenza di ogni discorso sul valore del mito è la sua «significatività», termine diltheyano che intende sottolineare la capacità di una figura narrativa di suscitare significato, emozione, valore in chi si relaziona ad essa. È il presupposto su cui si basa ogni teoria estetica sulla finzione: certi testi ci parlano e dicono cose importanti. La persistenza delle figure mitologiche del mondo greco dentro la cultura europea moderna è la tautologica dimostrazione di tale importanza: quello che qui interessa è la capacità del mito di comunicare all’interno dei processi di ricezione, la sua potenzialità ermeneutica in campo letterario.
Secondo la teoria di Hans Blumenberg (Elaborazione del mito, 1979), che qui assumo come sfondo teorico, il senso del mito è legato alla sua ricezione: lo studio del mito è analisi delle funzioni che un contenuto svolge nel corso del processo di ricezione di cui è protagonista. L’orizzonte autentico di un mitologema è quello del suo pubblico, come costrutto che si realizza in fieri nella storia della sua ricezione; in essa deve essere cercato il significato di un’opera, non nel suo valore intrinseco.
Tale discorso vale a maggior ragione per la tragedia (per la quale mi rifaccio alle opere di Vernant e Vidal-Naquet Mito e tragedia, I e II, 1972, 1986), che si presenta come elaborazione autorale di una tradizione epica: il mito e la tragedia sono correlati ma distinti, nel senso che il mito è nella tragedia, ma al tempo stesso da essa rigettato.
Nella tragedia il patrimonio mitico viene messo in discussione nello spazio pubblico: l’eroe dell’epos diviene oggetto di un dibattito grazie al quale, nello spettacolo tragico l’uomo del V secolo, si scopre un problema, una domanda senza risposta. In questa capacità della tragedia di manipolare plasticamente il mito per farsi riflessione pubblica viene ‘inventata’ la dimensione della verosimiglianza, discussa in Platone e Aristotele attraverso la categoria di mimesis. Rappresentare tragicamente significa quindi elaborare materiale mitologico per fornire materiale alla riflessione degli individui mediante l’istituzione della sfera della finzione che permette la «purificazione delle passioni», ovvero la loro intelligibilità nella distanza rispetto all’opacità che esse hanno all’interno dell’esperienza reale.
La tragedia utilizza il mito per radicarsi nella realtà sociale, ma ciò non significa che essa sia riflesso perfetto della società: «essa non riflette questa realtà: la mette in causa», (Mito e tragedia I, p. 12). Le riscritture che propongo qui fanno questo, rielaborano il testo sofocleo e la sua dicotomia tra oikos e polis, declinandoli all’interno di contesti riattualizzati, segnatamente quelli della seconda guerra mondiale, laddove resistenza e rifiuto del potere esprimono una critica dell’esistenza reificata e al paternalismo borghese, al fascismo e al nazionalsocialismo e una riflessione sulla possibilità/dovere di opporvisi. In esse, seppur con vistose e importanti differenze, viene mostrato il dibattersi dell’individuo Antigone intrappolato nell’inesorabile e immensa tagliola della storia.
1.1
Jean Anouihl (1910-1987), è stato un drammaturgo di successo e figura intellettuale di spicco nella Parigi degli anni trenta. La ripresa di temi mitici è una costante della sua opera e l’Antigone è forse il più famoso tra i suoi testi. Nella Francia del 1942, soggetta all’occupazione nazista e al regime collaborazionista di Vichy, un episodio colpisce profondamente lo scrittore. In agosto Paul Collette, un giovane reduce di guerra, privo di legami con la resistenza organizzata, spara e ferisce Pierre Laval, primo ministro francese. Il gesto è fallimentare: l’attentatore è condannato a morte, pena poi trasformata in lavori forzati, e l’attentato sarà usata come pretesto per un’ampia repressione (lo stesso Collette è una figura insolita di resistente nazionalista e anticomunista), ma colpisce Anouilh per il valore di un gesto solitario e gratuito, disperato e privo di prospettiva, ostinato e ‘privato’. Ispira al drammaturgo la figura di Antigone come adolescente nervosa e selvaggia, che sfida il potere mostruoso dello Stato di Creonte con la sua paletta per la sabbia di bambina, forte del ricordo dei fiori di carta che il fratello maggiore Polinice le regalava.
Il testo, dalle potenziali implicazioni politiche eloquenti, fu sottoposto alla censura tedesca che lo considerò innocuo (Creonte ne usciva vivo e vincitore), e ottenuto il visto, fu rappresentato solo due anni dopo nel 1944 al Thèatre Atelier di Parigi. Non ci furono applausi alla prima rappresentazione: molti vi lessero un’apologia del governo di Pétain e Laval, proprio laddove altri videro un elogio della resistenza a oltranza, estrema fino al sacrificio. Difficile districarsi nel mare delle intenzioni, delle accuse e dei fatti: Anouilh considerò un grave errore l’aver inscenato l’opera, approvò la distribuzione di volantini della resistenza e in seguito prese pubblicamente le distanze dai collaborazionisti («Non ho mai neanche di lontano simpatizzato con i nazisti e con i complici») ma criticò l’epurazione successiva («confesso di aver compassione per i vinti e provo timore per gli eccessi dell’epurazione») e si tenne lontano dal clima intellettuale e militante della Francia post-bellica. Il suo testo, letto dopo sessant’anni, non reca traccia di tutto questo se non il sentore umbratile di un cupo senso di impotenza, lo stesso che viveva la Francia occupata, nel quale ognuno potè trovare le sue ragioni, rispecchiate tanto in Antigone che in Creonte.
1.2
Anouilh rimane sostanzialmente fedele al plot di Sofocle, che però è modernizzato, a partire dall’ambientazione: si parla ancora di Tebe, ma abiti e oggetti sono quelli della Francia degli anni Quaranta e i caratteri dei personaggi hanno una connotazione psicologica molto moderna. Antigone, figlia di re, è una ragazza ‘selvaggia’, adolescente ribelle, magra e scontrosa, inquieta e insoddisfatta, desiderosa di dare senso alla propria vita: la sua figura è inscritta nella sfera della ribellione infantile, testarda e irrazionale. Afferma la sua gelosia per la sorella Ismene (p. 70), sana e bella, si fa sposare e non sa perché (p. 63) e ci viene presentata quando già ha deciso di incaricaricarsi di un ruolo sacrale, la sepoltura fuori legge del fratello, come di fronte a un atto decisivo di redenzione, coincidente con la sua morte.
Il dialogo con la nutrice mette in luce tale dimensione di infantilismo irriducibile: Antigone ha già la morte negli occhi, si comporta da invasata, intenerita e misteriosa, allude alla sua decisione per enigmi, ma invoca una protezione e vagheggia una felice incoscienza perduta (p. 74). Al centro delle sue relazioni compare un tema caro ad Anouilh che è l’adolescenza in quanto problematica dimensione di purezza ideale.
«Io non voglio comprendere» (p. 71), afferma Antigone pur dichiarando il suo assoluto amore per la vita (p. 72), «ho già pianto abbastanza per essere una ragazza» (p. 73).
A Emone, suo promesso sposo, dice: «nostro figlio avrebbe avuto una mamma piccola e spettinata» (p. 77), ma non è chiara nella comunicazione e si comporta in modo tale da generare il classico litigio tra fidanzati: gli giura che avrebbe voluto essere sua, gli fa promettere di non chiedergli niente, gli dice che non lo potrà sposare e lo caccia via in modo completamente irragionevole.
La «piccola Antigone» appare come chi ha problemi con la propria immagine e identità, a partire dal corpo, per nulla femminile e seducente, si comporta sempre in modo stravagante ed eccessivo: sembra voler cercare un gesto clamoroso capace di affermare pubblicamente il suo essere donna, nella forma ieratica della martire onnisciente e visionaria.
Creonte, primo uomo di corte divenuto re suo malgrado, rappresenta la ragion di stato: la posizione tipica dell’uomo di governo, incline al compromesso e a quell’arte della mediazione e della menzogna, osservabile tanto in Platone quanto in Machiavelli, secondo cui il fine giustifica qualsiasi mezzo, e le masse, ottuse ma irrazionalmente sensibili, devono essere manipolate.
Non è un tiranno, è un “impiegato”: vi è in lui un senso pragmatico e del governare come lavoro, una passione “grigia” che incarna le ragioni del principio della realtà e del buon senso. Non avrebbe voluto il potere, rimpiange la sua esistenza precedente ed ogni la sera si interroga se «non sia vano governare gli uomini» ma la mattina si alza come un operaio» (p. 64). Questo suo volto di quotidianità non esclude però un atteggiamento spregiudicato: si serve pragmaticamente dell’esposizione del cadavere di Polinice, quanto della celebrazione di quello di Eteocle come mezzi di persuasione del popolo, facendo del nichilismo e del realismo la sua bandiera.
Di fronte alla notizia che il corpo di Polinice è stato seppellito «con una paletta da bambino vecchia e tutta arrugginita», sospetta una macchinazione dell’opposizione democratica, e dice: «devono aver pensato che così sarebbe stato più toccante» (p. 82), ragiona nei termini della macchinazione e del valore esemplare, il codice che lui conosce e manipola quotidianamente come tutti gli uomini adulti e in quanto tali, di potere.
È con la scoperta della responsabilità di Antigone e nel confronto con lei che sta il nucleo tragico, vero agon tra due visioni del mondo simmetricamente invertite, di fronte al potere e al futuro. Creonte è incredulo ma quasi sereno: il guaio sembra essere rimediabile, è disposto a uccidere le guardie e a mantenere il segreto pur di non creare ulteriore scompiglio, non vede le ragioni di uccidere la nipote a cui regalò «la sua prima bambola» (p. 92), e sa che il sangue di una fanciulla avrebbe un valore inestimabile per il partito avverso.
Di fronte alla pervicacia della ragazza l’iniziale stupore si trasforma in una rivendicazione rabbiosa che affonda le ragioni in una storia di famiglia e che ruota attorno all’accusa di orgoglio e narcisismo: «tu sei l’orgoglio di Edipo» (p. 91), «l’umano vi fa sentire a disagio in famiglia. Vi ci vuole un corpo a corpo con il destino e con la morte». «Questi tempi sono passati per Tebe. Tebe ha diritto a un principe senza storia: (…) ho i miei due piedi conficcati per terra, le mie due mani conficcate nelle tasche e ho deciso, con meno ambizione di tuo padre, di dedicarmi semplicemente a rendere l’ordine di questo mondo un po’ meno assurdo. (…) i re hanno altro da fare che del patetico personale».
La sua è una rivendicazione anti-mitologica e anti-narcisistica: che esprime un bisogno pragmatico di ordine, prosaico e consuetudinario in contrapposizione a una dimensione dominata dal pathos. Il tipo di reazione passa poi sul registro “cresci e fammi lavorare”, insistendo sulle tonalità paternaliste del buon senso: «Hai vent’anni e non tanto tempo fa tutto questo si sarebbe sistemato con del pane secco e un paio di sberle», «ingrassa un po’ piuttosto per fare un bel bambinone a Emone, Tebe ne ha bisogno più che della tua morte, te lo assicuro». (p. 92)
Di fronte alla risolutezza della disobbedienza, nel crescendo del confronto, Creonte interroga Antigone sul senso del suo agire e si prende gioco del rito della sepoltura, il ‘passaporto ridicolo’ per l’aldilà (p. 93); implora per salvare la nipote, si assume il ruolo del cattivo (p.94) ma chiede comprensione e rivendica la necessità politica della punizione esemplare del ribelle e traditorel’avrebbe già fatto seppellire, non fosse che per igiene - «amo quello che è pulito, lindo, ben lavato» - «ma perché quei rozzi che governo lo capiscano, bisogna che il cadavere di Polinice puzzi in tutta la città per un mese» (p. 95-96).
Antigone potrà mantenere le sue opinioni, in segreto, basta che taccia e viva, e poi capirà: «bisogna comunque che ci sia qualcuno che dice sì. Bisogna comunque che ci sia chi guida la barca. Fa acqua da tutte le parti, è piena di crimini, stupidità e miseria», (p. 98), continua Creonte, dando voce a un vasto repertorio di variazioni sui temi del pessimismo antropologico e della sfiducia nelle possibilità degli uomini.
Al culmine del contrasto esprime il più radicale disincanto: distrugge l’immagine dei due fratelli, di fatto svuotando di senso il gesto di Antigone, essi sono due ladroni che si ingannavano l’un l’altro ingannandoci» e si sono uccisi in un volgare regolamento di conti: Eteocle non è migliore, si stava preparando a un uguale tradimento. Eppure c’è bisogno della macchina retorica che produca tanto il santo quanto il criminale per la folla, (p. 102) capace di muoversi solo nella dimensione dell’Osanna e del Crucifige. I due fratelli sono simmetrici nella violenza e nell’inganno: Antigone è ingenua e stupida a commuoversi, ricordando i litigi dei fratelli con il padre e le tenerezze verso di lei bambina, perché non sa niente di loro veramente, né di come va il mondo. I due sono uguali persino nella loro morte, al punto che i loro corpi non erano neanche più distinguibili. «Erano ridotti in poltiglia, ho fatto raccogliere uno dei corpi, il meno rovinato dei due per i funerali nazionali, e ho dato l’ordine di fare marcire l’altro dov’era. Non so nemmeno quale. E ti assicuro che per me è uguale» (p. 102).
Antigone, sempre più turbata e confusa, di fronte all’accusa di narcisismo e di ingenuità idealistica sostanzialmente sembra riconoscersi e pervenire a una serie di consapevolezze (p. 94). Ma continua a essere Antigone, non si fa convincere dalle retorica del padre, nel nome dell’interesse comune e della famiglia, come Toni Buddenbrook di fronte a un matrimonio-sacrificio.
Alla domanda «perché compi questo gesto? Per gli altri, per chi ci crede, per aizzarli contro di me?» risponde «Per nessuno. Per me».
Di fronte alle esigenze del realismo politico risponde dello zio e al suo richiamo alla responsabilità (p. 96) afferma «io non ho scelto di governare, posso dire no a tutto quello che non mi piace»; e contemporaneamente sembra riconoscere il potere implicito nel ricatto che la sua sfida pone rispetto alla posizione di futura martire, riconosce il proprio potere sacrificale (p. 97).
«Povero Creonte! Vi faccio paura. (…) Con le mie unghie spezzate e la paura che mi torce il ventre, io sono regina», «non voglio capire. Va bene per voi. Io sono qui per qualcosa d’altro che capire. Sono qui per dirvi di no e per morire» (p.98).
E se di fronte alla rivelazione della miseria dei fratelli sembra cedere (p. 102) «perché mi avete raccontato tutto questo? Io ci credevo», ma è solo per un attimo.
Creonte le predica la resa dell’adulto, il riconoscimento che la vita è fatta di piccole cose (p. 103): «la vita non è quello che credi. È un’acqua che i giovani lasciano colare senza saperlo, tra le loro dita aperte. Chiudi le tue mani, chiudi le tue mani, fai presto. Trattienila. Vedrai, diventerà una piccola cosa dura e semplice che si sgranocchia, seduti al sole. (…) Lo imparerai, anche tu troppo tardi, la vita è un libro che si ama, è un bambino che gioca ai tuoi piedi, un arnese che si tiene bene in mano, una panchina per riposarsi la sera davanti a casa. Mi disprezzerai ancora, ma scoprire questo, vedrai, è la consolazione derisoria di invecchiare, la vita, non è forse comunque che la felicità».
Antigone può rilanciare: (p. 104)«Quale sarà la mia felicità? Che donna felice diventerà la piccola Antigone? Quali miserie bisogna che compia anche lei, giorno per giorno, per strappare coi suoi denti il suo piccolo brandello di felicità? Ditemi, a chi dovrà mentire, a chi sorridere, a chi vendersi?»,«se la vostra vita, la vostra felicità devono passare» sopra di me «con la loro usura» non la voglio più. «Mi disgustate tutti con la vostra felicità! Con la vostra vita che bisogna amare costi quel che costi! Come dei cani che devono leccare tutto quello che trovano. (…) Io voglio tutto, subito – e che sia tutto intero -, altrimenti rifiuto! Non voglio essere modesta, io, e accontentarmi di un pezzettino se sono stata saggia. Voglio essere sicura di tutto oggi e che questo sia bello come quando ero bambina – o morire», p. 105.
Con questo Polinice diventa un pretesto per rilanciare il proprio grido di ribellione contro il principio di realtà, per l’affermazione dei propri desideri e del rifiuto di venire a patti con tutto ciò che contrasta l’immaginazione dell’individuo e il suo piano di conquista della felicità. Antigone si riconferma e si dichiara figlia di Edipo: «noi siamo di quelli che fanno le domande fino in fondo. Noi siamo di quelli che le saltano addosso alla vostra cara speranza!» (p.105), e vomita il suo odio verso la ‘gente comune’, gli adattati, quelli che vivono sereni e pacificati nella rinuncia mediocre, quasi i ‘porcaccioni’ della Nausea (1938) di Sartre: « ah, i vostri poveri volti di candidati alla felicità! siete voi a essere orrendi, anche i più belli. Avete tutti qualcosa di orrendo all’angolo dell’occhio e della bocca», (p. 105).
Anche il confronto padre Creonte-figlio Emone, si gioca sul medesimo piano adolescente/adulto, illusione/disincanto di rifiuto del soddisfatto paternalismo borghese: di fronte all’irreversibilità della situazione, che Antigone ha reso irremediabile nella sua rivolta, Emone scopre che il padre non è onnipotente, perché non può salvare la promessa sposa dalla sua stessa ostinazione: invoca il paterno antico potere sovrannaturale di gigante, protettore forte dell’infanzia: «sono troppo solo e il mondo è troppo spoglio se non posso più ammirarti». Creonte cerca di consolare il figlio, lo invita ad accettare l’inevitabilità della situazione, di un gioco della realtà troppo dura da scalfire. Il segreto è che, crescere, accettare di essere uomo, vuol dire vedere cadere tutte le illusioni, «si è completamente soli, Emone. Il mondo è spoglio» (p. 109).
1.3
Ridurre il testo a apologia della tirannide, come una lettura consegnata alla storia degli effetti dell’opera suggerisce, pare eccessivo: il testo è fortemente drammatico e davvero potente nella sua capacità di scavare nelle motivazioni dei personaggi, al punto da essere una vera tragedia, laddove la specificità di questa è l’ambiguità, il mostrare l’uomo come un problema, irridicibile a schemi ideologici chiari. Nel gioco delle simmetrie invertite, ognuno ha buone ragioni non tanto nell’affermare le proprie, quanto nello smascherare quelle dell’altro: Antigone ha davvero bisogno di trovare la sua identità, il suo non è un problema genuinamente politico; Creonte viceversa è di un cinismo pratico disperante e disumano, reificato e irenico, il cui scopo sembra essere la riduzione al minimo delle funzioni vitali.
Vengono mostrate le opposizioni dialettiche interne, ma non sono ricomposte in alcun modo: la tragedia esistenzialista mette ogni spettatore di fronte alla domanda sull’autenticità delle motivazioni della propria azione e sull’efficacia delle conseguenze di questa. L’individuo, con le sue interiorità, diventa qualcosa di diverso nella dimensione esteriore e pubblica, che pure è l’unica ‘effettiva’ nel suo essere socialmente condivisa. Antigone diviene malgrado sé una figura cristologica e sacrificale: dentro a tutte le rivolte, si cela il bisogno individuale di qualcosa di altro rispetto al fine politico dichiarato, un venire fuori che nasconde bisogni differenti. Una moltitudine di questioni private dietro la macina della storia che colpisce una collettività, impastate nel sangue e rese indistinguibili nella loro peculiarità.
Il testo è molto attento alle sfumature e caratterizzato da un profondo scavo psicologico dei personaggi, troppo sottile per una interpretazione ideologica, a cui si sottrae e sotto la cui presa finisce in pezzi. Il piano che interesse Anouilh è quello psicologico ed esistenziale, non quello politico, il che nella prassi politica dell’ora appare drammatico, inutile e non risolutivo (ricordiamoci che la Francia è occupata dai nazisti) e può anche avere un esito conservatore, ma di sicuro è molto umano. Una critica militante a Anouilh si riduce al considerare politicamente inopportuna la voce dei depressi dove già manca la speranza.
Al di là del fatto che il testo di Anouilh non funziona in nessun modo come strumento di mobilitazione, mi sembra piuttosto una presa di posizione molto politica la messa in luce, seppur un chiave depressiva e rassegnata, della vera dimensione impolitica espressa dal quadro di pessimismo antropologico in cui si svolge il tutto, al di sotto della dialettica dai bordi taglienti dentro la quale si affrontano i protagonisti.
Sullo sfondo di tutta la tragedia dominano squallore e medietà, banalità e terrore, una dimensione schiacciata su una quotidianità alienata: merita attenzione la descrizione delle guardie («sanno di aglio, di cuoio e vino rosso, e sono privi di ogni immaginazione»), meschine e preoccupate del solo interesse e del personale tornaconto, secondo una dinamica che ricalca la riflessione sulla «banalità del male» di Arendt come mancanza di idee: «sono gli ausiliari sempre innocenti e sempre soddisfatti di loro stessi e della giustizia» (p. 65).
La dimensione della comunicazione più semplice sembra preclusa: sono incapaci del più piccolo gesto di umanità, (p. 87): in un colloquio in carcere la guardia non è capace di ascoltare Antigone condannata e le racconta delle rivalità che si scatenano per la carriera e gli stipendi, il tentativo di scrivere una lettera di addio per Emone diventa una farsa.
Anouilh mi sembra dar voce al cupo pessimismo di chi piange perché ha perso la speranza e cerca di non affogare nella sua misantropia radicale. Anche la struttura circolare della tragedia conferma tale visione, con la rassegnazione che fin dall’inizio ricorda allo spettatore che ognuno ha preso il suo posto nella silenziosa apocalisse quotidiana di ininterrotta banalità, e che non può che essere così. La tragedia si conclude come da manuale: Antigone si impicca nella sua tomba di sepolta viva con la sua cintura di fili colorati, simile alla collana di una bambina. Emone, eterno bambino disperato, sputa addosso a suo padre prima di uccidersi, non prova neanche a rivoltarsi. Euridice, madre e moglie massaia e sottomessa, smette di fare maglioni per i poveri e si taglia la gola stendendosi su uno dei ‘letti gemelli fuori moda’ della stanza del suo consunto matrimonio. Creonte vorrebbe solo dormire ma deve andare al consiglio e fronteggiare la città.
La voce di Anouilh è nel coro: «è riposante la tragedia, perché si sa che non c’è più speranza, la porca speranza», (p. 85). E nel finale, che è invocazione di morte e oblio, (p. 118). «Ma adesso è finita. Sono comunque tranquilli. Quelli che dovevano morire sono morti. Morti uguali, tutti, stecchiti, inutili, marciti. E quelli che ancora vivono cominceranno dolcemente a dimenticarli e a confondere i loro nomi».
Come nel Prometeo di Kafka (1918), in cui la storia di ribellione e punizione finisce sulle montagne remote del Caucaso: Prometeo «si addossò sempre più alla roccia fino a diventare con essa una cosa sola», e pian piano «tutti dimenticarono, gli dei, le aquile, egli stesso». Mentre le guardie continuano a giocare a carte.
2.1
Bertolt Brecht (1898-1956) non ha bisogno di troppe presentazioni: nel suo lavoro di drammaturgo, oltre alle opere originali e a diverse riscritture (Shakespeare, Molière), figura l’Antigone di Sofocle del 1947, basata sulla traduzione di Hölderlin e rappresentata per la prima volta nel 1948 in Svizzera, in piena ricostruzione e all’inizio della Guerra fredda.
Nelle mani di Brecht, di cui è noto il cui pensiero militante, la tragedia perde ogni ambiguità: il testo subisce una torsione che modifica la struttura narrativa e semplifica le caratteristiche dei personaggi in stile manicheo e unilaterale. Il preludio non lascia dubbi: a Berlino, nell’aprile 1945, due sorelle assistono impotenti all’agonia del fratello disertore, impiccato in strada dalle SS. Una cerca di fermare l’altra che, disperata, vuole correre a toglierlo dalla corda e cercare di rianimarlo sotto lo sguardo dei soldati. In una versione del 1951 un prologo recitato da Tiresia, nell’annunciare le gesta di Antigone, ammonisce lo spettatore: «Noi vi preghiamo di ricercare nel vostro animo azioni simili del più recente passato, o l’assenza di azioni simili».
Date queste premesse lo schema narrativo è chiaro: Creonte è il tiranno assoluto, rappresenta il potere della guerra tedesca, fatta per interesse economico e ricoperta di giustificazioni ideologiche; egli muove una guerra di conquista e rapina ad Argo e alle sue miniere, mandando i giovani della città alla morte. I due fratelli di Antigone combattono sotto di lui: Eteocle è un caduto tra gli altri, Polinice è il disertore che Creonte uccide con le sue stesse mani, per punire i vigliacchi in fuga che non difendono la patria. L’eroina tragica è così la figura della ribellione contro la tirannia disumana, l’ingiustia sociale e l’assurdità della guerra imperialista: è la figura allegorica della nuova umanità che dovrà costruire un mondo nuovo sulle macerie di quello finito con la caduta di Berlino.
A partire da questa diversa impostazione e finalità, rispetto tanto a Sofocle quanto ad Anouilh, la questione estetica che l’opera brechtiana pone è di altra natura: riguarda la possibilità di utilizzare il mito per trasformarlo in una macchina epica al servizio della militanza, nel senso più nobile del termine, laddove il teatro vuole essere strumento di critica e di una ragione umanistica il cui fine ultimo sia la giustizia.
2.2
L’analisi si snoda attorno alla risignificazione delle posizioni determinata dal cambiamento delle premesse narrative, prive di ambiguità e di quell’opacità che separa moventi e azioni, anche se Brecht mantiene struttura, metrica e tono molto fedeli al modello sofocleo. Conforme al modello primigenio ad esempio è il confronto tra le due sorelle, tra Ismene che consiglia la prudenza - «A chi comanda. Adoperarsi invano non è da saggi» - e Antigone che rivendica giustizia per i suoi cari morti («è più opportuno che piaccia a quelli di laggiù»), con una nuova connotazione che oppone la paura individuale della repressione alla necessità della ribellione pubblica che unisce giustizia sociale e affetti privati (p. 130), in nome di una concezione di umani che vuole separare singolare e collettivo.
Fin dall’inizio della tragedia Creonte espone in tono arrogante il suo trionfo in guerra, quasi secondo lo schema delle modalità propagandistiche che nascondono i fallimenti:
«Hai steso, o Tebe, il popolo argivo: senza città, senza tomba chi rideva di te giace all’aperto», e ai vecchi: «Ancora non mi avete visto appendere la spada dentro al tempio. (…) voi mi dovete convincere Tebe che il sangue versato non supera la misura normale»; e così giustifica la sepoltura con tutti gli onori a Eteocle e la misura contro quella di Polinice seguendo lo schema amico/nemico: «il codardo e amico degli argivi, giacerà insepolto, come giacciono quelli (…) giacché chi antepone la sua vita alla patria, per me non vale nulla» (p. 133).
Nel secondo coro, che in Sofocle è una formulazione di ideologia del progresso (l’uomo controlla progressivamente un ambiente naturale che gli è ostile), si aggiungono altri elementi che connettono la razionalità tecnica con il conflitto e la tendenza alla sopraffazione reciproca: «Nulla lo coglie privo di risorse. In tutto ciò che non ha confini, ma un limite gli è posto. Lui che non trova amici, di sé fa il proprio nemico. Come al toro piega al suo prossimo la nuca: ma il prossimo gli strappa le viscere. Se avanza calpesta spietato i suoi simili. Da sé non può riempirsi lo stomaco, ma cinge d’un muro la sua proprietà, ed il muro deve essere abbattuto! Ed il tetto aperto alla pioggia! L’umano tiene in conto di nulla. Così terribile diventa a se stesso» (p. 139). La dinamica marxiana che vede l’antagonismo reciproco sorgere dalla proprietà e trasformarsi in dominio dell’uomo sull’uomo è svolta fino alla produzione di alienazione.
Le parole di Creonte sono riducibili a un’identica matrice: il potere che si autolegittima e che sfrutta i suoi sudditi, vittime ingannate di una sete di potere e denaro insaziabile. Ad Emone, che a nome della città chiede al padre di rivedere la sua durezza, svela quello che pensa di una democrazia o delle opinioni che vengono ‘dal basso’: «Tu vuoi che il guidatore sia guidato dal tiro! Questo vuoi?». Nella metafora del carro colui che guida comanda quelli che tirano, bestie da soma, puro strumento nella mani del potere (p. 155).
Nel confronto con Antigone avviene la demistificazione dell’ideologia bellicista e imperialista di cui l’umanesimo marxista di Brecht intende essere il verso. Antigone rivendica una giustizia contro la legge, il principio che legittima ogni forma di resistenza e rivoluzione contro l’oppressione fattasi Stato, privo di legittimità e consenso: «perché era la tua legge, quella di un mortale, quindi un mortale può violarla», (p. 141); non c’è macchia nell’agire di Antigone: «Solo quel che è mio ho preso e ho dovuto rubarlo», (p. 147) perché è lo Stato oppressivo che viola la vera legge.
Anche il suo agire è mosso da intenti nobili e autentici, ella rivendica il tentativo di seppellimento in onore del fratello disertore «solo per dare un’esempio» (p. 142) contro il conformismo creato dal terrore. Non si creda che il legame brechtiano tra tragedia e dimensione storica sia forzato nella sua retorica: ad esempio durante l’occupazione tedesca dell’Italia fascisti di Salò e soldati nazisti fecero realmente un uso terroristico dell’espozione dei corpi dei “ribelli”, a cui fece da contraltare l’azione partigiana che si caratterizzò per una difesa della pietas popolare. Seppellimento e cura dei cadaveri ebbero l’effetto di rinsaldare il sentimento comunitario e consolidare la solidarietà antifascista, proprio nel marcare una differenza tra la dimensione ferina che caratterizzava lo stragismo nazi-fascista, di fatto giuridicamente legalizzato, e quella del diritto “giusnaturalistico” del partigiano che difende il patto sociale, essendo però giuridicamente bandito e fuori-legge (si veda per questo Chiodi, Banditi; Luzzatto, Il corpo del duce; Pavone, Una guerra civile).
Contro la disumanizzazione dei rapporti tra umani portata dalla guerra Antigone contesta la logica amico/nemico imposta da Creonte («chi non ti era schiavo è pur sempre un fratello») e l’identificazione tra scelte di Creonte e bene della patria: «morire per te non è morire per la patria». La guerra che c’è è la guerra di Creonte, fatta per una offesa alla terra straniera: «non ti bastava regnare sui fratelli nella tua città, Tebe amabile, dovevi trascinarli ad Argo lontana per dominarli anche là».
La rivolta pubblica di Antigone è un messaggio ai vecchi del coro, la città, è la voce di Brecht che parla ai tedeschi e a tutti gli oppressi di ogni tempo: «Io vi invoco, aiutatemi nell’afflizione e aiutate voi stessi: perché chi insegue il potere beve acqua salsa, non può smettere, e séguita per forza a bere. Ieri al fratello, oggi a me» (p. 144).
«Voi governanti minacciate sempre: la città cadrebbe, rovinerebbe disunita, in preda agli altri, allo straniero, e noi chiniamo il capo innanzi a voi». E ancora contro l’idea di patria nazionalista: «Terra (Paese) è fatica. Per l’uomo la patria non è solo la terra, la casa: non dove ha versato sudore, né la casa che derelitta attende il fuoco. Non chiama patria il luogo dove ha chinato la testa» (p. 145). Vi è qui la difesa di una concezione di terra come luogo trasformato dal proprio lavoro, ma non sotto il giogo reificante dello sfruttamento capitalista e bellicista. Il vero nemico è il potere oppressivo e mistificato dal fascismo, che manda a morte i suoi figli inutilmente: «Meglio sarebbe per noi tra le macerie delle nostra città sedere, più sicuri che con te nelle case del nemico».
Come già si è detto, la rivendicazione della propria umanità appare simmetricamente inversa alla disumanità del potere: sarà anche divino l’ordinamento dello Stato, ironizza Antigone, «ma lo vorrei piuttosto umano», «per l’amore io vivo, non per l’odio» (p. 147).
Antigone si ribella e si riscatta, sceglie la morte, che non vuole, pur di non vivere sotto il peso dell’insopportabile tirannia. Ai vecchi di Tebe che la compiangono turbati dice:
«Non parlate vi prego del destino. Parlate di chi mi uccide, innocente: a lui collegate un destino! Non crediate di essere risparmiati, o infelici. Altri mutili cadaveri vedrete a mucchi giacere insepolti sull’insepolto. Voi che a Creonte la guerra trascinaste per terre straniere, per quante battaglie egli vinca, sarete inghiottiti dall’ultima. Voi che invocaste il bottino non pieni vedrete tornare i carri, ma vuoti».
Ogni fatto che riguarda l’individuo, tanto nella morte (la sepoltura di Polinice) quanto riguardo al significato del vivere (la ribellione di Antigone) appare indistricabile dalla comunità e da un fine comune, di cui tutti sono responsabili, in primis la liberazione della tirannia e a seguire l’edificazione di una società più giusta.
La sorte della Germania è sullo sfondo. Da qui in poi, la tragedia procede verso la fine: la crudeltà ha demotivato i soldati, forse si sono ribellati all’insensatezza dei comandi, e la resistenza degli argivi, fatta da donne e bambini, ha piegato i tebani.
Anche se la guerra è perduta e l’altro figlio del re, Megareo, sconfitto, Emone dovrà combattere fino alla fine. Solo per questo Creonte si precipita a liberare Antigone: ha bisogno di una nuova spada, il figlio come strumento della propria avidità. Ma è troppo tardi: la fanciulla si è impiccata, Emone cerca di uccidere suo padre e si toglia la vita.
La consapevolezza arriva dopo, come una severa lezione: Tiresia svela che la guerra non è né vinta né finita e rende chiaro a tutti l’inganno del potere: «il malgoverno reclama uomini grandi e non ne trova. La guerra si espande e monta e si spezza le gambe. Dalla rapina viene la rapina e la durezza vuole durezza: il più vuole sempre sempre di più e finisce in nulla».
I vecchi cominciano a capire e ora vedono la doppia guerra del tiranno, contro il nemico e contro il suo stesso popolo: «Una stretta, dicevi, ancora una battaglia. Ma ora cominci a trattare i pari nostri come il nemico. E crudelmente tu conduci la duplice guerra». Ma per il dittatore non esistono più né il diritto dello Stato né quello del sangue, «la guerra crea nuovo diritto» (p. 172).
Creonte si ritira e attende la fine maledicendo chi ha rovinato i suoi piani, i ribelli sabotatori, il nemico interno che causa la rovina nella paranoia complottista tipica degli autoritarismi. I vecchi della città lo vedono voltare le spalle, e attendono il nemico «che presto verrà ad annientarci», sapendo che ne avrà tuute le ragioni. L’ultima parola è il loro ammonimento, la consapevolezza che arriva troppo tardi, quella di chi ha scommesso sul Reich, ha perso tutto e si è visto rovesciare addosso un milione di tonnellate di bombe tra il 1942 e il 1945. «Il tempo è breve, e tutt’intorno è il fato: non basta continuare a vivere senza pensiero, lievi trascorrendo di sofferenza in delitto, e ad acquistare saggezza da vecchi» (p. 180).
2.3
«E adesso voi ci vedrete, insieme agli altri attori calcare nella recita l’un dopo l’altro l’angusta scena, dove un tempo, in mezzo ai bucrani di sacrifici barbari di un grigio tempo primordiale, l’umanità si levò grande». Così Tiresia presentava l’Antigone nel Preludio della versione del 1951 e credo che questa frase riassuma il lavoro che Brecht ha voluto fare sul mito, o meglio, la funzione che Brecht continua a riconoscere al mito anche nella sua rielaborazione contemporanea.
Ogni mitologia consiste in un sistema ideologico capace di innervare di significato la totalità della vita delle comunità, così come non esistono forme d’arte che siano completamente disinteressate, in una dimensione estetica autonoma e avulsa dal reale.
Quello di Brecht non è però un teatro biecamente pedagogico e ideologico: sarebbe ingeneroso usare la categoria di tecnicizzazione del mito in questo caso. Il «mito tecnicizzato», nella teoria di Kerényi (1964) è la rielaborazione strumentale di certe immagini che punta al conseguimento di determinati obiettivi servendosi del potenziale emotivo e della capacità comunicativa del mito, del suo ‘presentarsi come vero’. In senso estremo tecnicizzatori del mito sono stati i nazisti, sono i fondamentalisti islamici, I tifosi di ogni revival neoidentitario: coloro che abusano dei sistemi di produzione della verità per farne un dispositivo ideologico volto a raggiungere fini di ingegneria sociale o etnica, quali ad esempio l'omogeneizzazione culturale di un gruppo attorno alla dicotomia amico/nemico. La costruzione dlle identità politiche forti si muove intorno alla diade ‘noi/loro’, ha bisogno della santificazione di un lato verso cui promuovere riconoscimento e appartenenza e della demonizzazione dell'altro, sul quale vengono proiettati tutti gli aspetti negativi. Ma la tecnicizzazione avviene a partire dalla posizione di potere di chi detiene le chiavi di accesso alla macchina della comunicazione, di chi è capace di modularne ritmo e intensità, contando sulla reiterazione dei cliché e sulla capacità di costruire luoghi comuni e parole d’ordine in forza della sola frequenza e pervasività, come ad esempio succede nella gestione totalitaria dei mezzi di comunicazione di massa o, all’interno delle moderne democrazie televisive, con la pianificazione di campagne ideologiche e pubblicitarie.
Diverso è il caso della dispositivo mitologico messo in moto nella dimensione artistica, al servizio dell’utopico, quella che definirei una ‘mitologia della ragione’ per una filosofia politica: Brecht era consapevole della contraddizione insita tra la militanza comunista e il suo essere intellettuale di formazione borghese che si occupa in particolar modo di teatro, forma per eccellenza della cultura borghese. Non mette in scena un teatro pedagogico iperrealista e kitsch, come avviene nell’arte forzatamente popolare del realismo sovietico stalinista, della rivoluzione culturale maoista o del populismo ataturkiano.
A partire dalla proprie contraddizioni intende produrre un epica che vuole essere fortemente umanistica, come il mito tragico dell’antichità, ma tale da svolgere una funzione critica. Il suo teatro non vuole essere un generatore di emozioni tale da fare leva solo sull’empatia, ma un allegoria epica che permetta allo spettatore di pensare fornendogli argomenti di critica. In questo stava la sua tecnica dello «straniamento». Certi stratagemmi scenici, o assemblaggi di teatro nel teatro non volevano essere pirandelliani o avanguardisti, ma dovevano realizzare una distanza tra l’autore e la pura dimensione dell’emozione, quella che parla all’inconscio e al «cervello rettile» degli spettatori (è un’espressione di Wu Ming 1). L’antiaristotelica rottura dell’immedesimazione avrebbe permesso di mantenere desta la coscienza critica, in modo tale da garantire la consapevolezza della propria alienazione, e da permettere alla forma-teatro di essere emancipativa e non semplicemente consolatoria. Non solo riflessione sulle contraddizioni della propria interiorità borghese, ma pensiero politico che spingere a modificare la propria vita, mediante la produzione di azione.
La riscrittura brechtiana si colloca così, a mio avviso, nella ricerca di un equilibrio tra i due diversi e opposti rischi, quello della caduta nell’irrazionalità emotiva e nell’immedesimazione che non fa distinzioni e quello della razionalizzazione didascalica e moralistico-ideologica che fornisce ricette semplificate.
In quanto umani abbiamo bisogno di narrazione e ogni rielaborazione del racconto-mito continuerà a soddisfare questo bisogno elementare: la condizione per non cadere nell’incantamento di forze demoniache, nuove tecnicizzazioni fasciste o fascinazioni mercantilistiche e impolitiche, sembra risiedere nell’essere capaci di ascoltare le narrazioni, senza mai smettere di riflettere, in stato di veglia, sull’emozione che il mito genera. E di lì partire per arrivare altrove.
Bibliografia di riferimento
Sofocle, Antigone, Mondadori, Milano, 1982
Sofocle, Anouilh, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2000
H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna, 1991
K. Kerènyi, Scritti italiani (1955-1971), Guida, Napoli, 1993
F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968
F. Jesi, Brecht, La Nuova Italia, Firenze, 1973
J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia II, Einaudi, Torino, 1991
Wu Ming 1, Allegoria e guerra in 300, in «La Valle dell’Eden», IX, 18, 2007
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