mercoledì 22 settembre 2010

Rivolta e speranza





Ieri è stato inaugurato alla reggia di Venaria Reale, presso Torino, l'anno scolastico con la consueta pagliacciata ministeriale, soubrette e bambini vestiti tricolore con le bandierine. Chiunque viva un qualsiasi rapporto con la scuola oggi sa che l'istituzione affonda: i docenti sono in sofferenza, incapaci di fare fronte alle rivoluzioni epocali comportate dalla diffusione sempre più capillare dei dispositivi multimediali dei 'nativi digitali' e privi di strumenti per arginare la fine della cultura letto-scritturale così come la conosciamo; e gli studenti, nella maggior parte dei casi, vivono in una spaventosa ignoranza delle più elementari conoscenze relazionali e dei fondamenti delle discipline che dovrebbero conoscere, vittime di un combinato disposto di sub-cultura di massa, 'narcinismo' e mancanza di prospettive da parte del mondo degli adulti, i quali non sono migliori di loro. anzi.
Vedo la mia generazione umiliata e presa in giro, costretta al precariato, all'emigrazione o a una dequalificazione professionale sistematica, gli intellettuali in particolare, ovvero coloro che hanno creduto nella cultura come professione e non come hobby per figli di famiglie facoltose, e sono furibondo come un puma: per questo oggi faccio il padre costituente.
In mezzo a tutto delirio grottesco, offensivo e lesivo dell'intelligenza come la riforma Gelmini (è nata nel mio stesso anno, potrebbe essere una compagna di liceo laureata in legge e raccomandata che fa il ministro, è fantastico no?) come professore di storia e filosofia, il lavoro meno inaccettabile che ho ritenuto di poter fare, continuo a pensare che le parole di Pietro Calamandrei sulla scuola abbiano nuovo senso.
Così Calamandrei nel noto convegno sulla scuola del 1950:

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. (...)
Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto:
- rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni.
- attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.
- dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico!

(qui il testo completo: http://www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/2002_3_art1.html)

Qui il discorso agli studenti del 1955. (http://www.youtube.com/watch?v=XRTG9duEnww).
Calamadrei, autore di Uomini e città delle Resistenza, fondò anche una rivista, 'il Ponte', che nel numero di settembre tra le tante cose ospita un mio articolo. Eccolo.



[da «Il ponte», 9, 2010, pp. 100-105]

Spartakus o della rivolta. Furio Jesi e il legittimo uso politico del mito

Enrico Manera

L’istante della rivolta determina la fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una collettività. [...] Lo spazio individuale di ciascuno, dominato dai propri simboli personali, il rifugio del tempo storico che ciascuno ritrova nella propria simbologia e nella propria mitologia individuale, si ampliano divenendo lo spazio simbolico comune a un’intera collettività, il rifugio del tempo storico in cui un’intera collettività trova scampo. [...] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.

I trent’anni che ci separano dalla tragica scomparsa di Furio Jesi (1941-1980) hanno mostrato come il critico torinese, molto più che mitologo e germanista, sia un pensatore politico sempre più attuale, i cui temi e strumenti intellettuali, magistralmente intrecciati in una filosofia della cultura e della scrittura, si adattano alla realtà sfuggente della tarda modernità. Tra 1967 e 1969, in una fase in cui sposta l’asse dei suoi interessi dal mondo antico alle metamorfosi del mito nella letteratura moderna e alla critica dell’ideologia, Jesi scrive Spartakus. In questo testo, inedito per lungo tempo, l’insurrezione spartachista del 1919 e la fine di Luxemburg, Liebknecht e compagni diventano il punto di partenza per una discussione sul ruolo della simbolica e della mitologia nel conflitto politico e sociale.

Contro la svalutazione marxista-leninista che bollava le posizioni luxemburghiane come spontaneismo irrazionale, Jesi ripensa il significato della rivolta in una versione derivata dalle categorie della scienza del mito e percorsa da un afflato anarchico. Ogni rivolta è sempre inattuale, rappresenta nella sfera politica l’«intersezione del tempo mitico e del tempo storico» ed è un agire mitico e infondato «che prepara il dopodomani»: la rivolta muove tra i poli del passato e del futuro, e se in termini strategici è un errore (suscita la reazione e non favorisce la maturazione della coscienza di classe), «in quanto esasperazione delle dominanti della coscienza borghese» è «effettivo superamento della società, della cultura e dello spirito borghese» e contribuisce alla «maturazione di una coscienza umana» nel suo complesso. Con la sua insensatezza il gesto di rivolta, che ha sempre qualcosa di intimo e privato, sopravvive oltre le realizzazioni storiche della rivoluzione riuscita.

La rivolta è «improvviso scoppio insurrezionale [...] che di per sé non implica una strategia» a differenza della rivoluzione, coordinata e orientata alla presa del potere; ma la distinzione è prima di tutto nella coscienza di chi vive «una diversa esperienza del tempo». Mentre il tempo della rivoluzione è lineare, storico e quotidiano, il tempo percepito nella rivolta è lampeggiante, mitico e festivo: mentre la rivoluzione «è deliberatamente calata dentro il tempo storico», la rivolta lo sospende e instaura «un tempo in cui tutto ciò che si compie vale di per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà o di perennità di cui consiste la storia». La rivolta è vissuto mitologico: esperienza ad alto livello di significatività in cui si concentra l’intera esistenza e in cui la folgorazione di una redenzione riscatta chi vi partecipa. La vita rivela il proprio senso in un attimo estatico di autoaffermazione e di pienezza. Il valore della rivolta è nel significato che assume per chi ne partecipa e non nella sua realizzazione.

Emergono a questo punto due ambiti di riflessione: la prima riguarda la teoria politica di Luxemburg come «il sogno di un rinnovato umanesimo» di stampo rivoluzionario:


la rivoluzione non sarà una nel tempo: [...] l’emancipazione dal condizionamento borghese, che prelude alla duratura conquista del potere, sarà raggiunta solo se le eredità borghesi [...] verranno colmate dal proletariato di una rinnovata qualità morale, tale da consentire di rivolgere contro la borghesia le sue stesse armi, di superare l’antinomia fra pensiero per sé e pensiero per gli altri, vita a sé e vita con gli altri [...]. Stabilire quale sia il tempo della rivoluzione è contribuire a renderlo prossimo.


Contro «un senso della storia super-umano» si tratta di far valere il fatto che «gli uomini “fanno da sé” la storia» e di considerare l’«utopia» come «concreto alimento ideologico dei movimenti rivoluzionari esterni alla Russia», un’utopia che «un concreto pessimismo distingue da quelle della rivoluzione riuscita una volta per tutte». L’utopia è critica dell’esistente: dall’immaginazione viene la spinta ad agire nella storia in senso emancipativo. Rifiutando tanto il socialismo reale quanto la socialdemocrazia e la linea del PCI, la Nuova sinistra a cui Jesi ha prestato la propria intelligenza vedeva in Luxemburg un punto di riferimento. La seconda questione è di ordine filosofico: in Spartakus il «tempo normale» è definito «concetto borghese e frutto della manipolazione borghese del tempo». Tale idea della rivolta, «esperienza-limite, come lo stato d’eccezione», pone Jesi in un ideale dialogo


con la concezione jungeriana del ribelle, che [...] sospende il tempo della quotidianità borghese, le sue regolarità e le sue norme; con le forme e le opposizioni estreme che caratterizzano lo stato d’eccezione secondo Carl Schmitt, ammirato da Walter Benjamin, a sua volta amato da Jesi; con l’attimo di Kierkegaard e la temporalità autentica di Heidegger.


La costruzione della realtà sociale operata dalla classe borghese implica la capacità di determinare le coordinate materiali del tempo, con l'amministrazione legata ai tempi del lavoro a cui è subordinata la vita; la manipolazione implica la «sospensione del tempo normale» come avviene con la mobilitazione straordinaria comportata dalla Grande guerra, le «manovre cruente» dei «Signori della Guerra» che rispondono allo stesso principio di controllo e che mutano radicalmente l’esperienza degli individui, intensificandola e dilatandola. Jesi suggerisce che la repressione del moto spartachista sia stato il cruento sacrificio dei ‘diversi’ sui cui la Germania di Weimar ha ricostruito la sua normalità borghese dopo la guerra, in quanto «ogni vero mutamento di esperienza del tempo è un rituale che chiede vittime umane».

La logica del sacrificio lavora però a beneficio di chi ha le chiavi di accesso ai codici del potere simbolico: ogni movimento rivoluzionario contemporaneo avrebbe dovuto abbandonare il residuo legame con la posizione metafisica del sacrificio fondatore e così «trovare scampo dal vicolo chiuso dei grandi sacrificatori o delle grandi vittime».

Per Luxemburg la dimensione mitologica emotiva sottesa dalla rivolta è indistinguibile dal momento strategico rivoluzionario, è la fase preparatoria senza la quale non vi è partecipazione cosciente della massa alla trasformazione della società. Ma il tributo di sangue degli spartachisti, nell’elaborazione della memoria identitaria del movimento rivoluzionario alimenta la mitologia della sconfitta, aggiungendosi alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna come momento di una storia alla quale chi combatte il capitalismo vorrebbe aver partecipato: la 'battaglia perduta' è un mito che contrappone vittime eroiche al nemico.


La rivolta, è nel profondo, la più vistosa forma autolesionistica di sacrificio umano. Al tempo stesso [...] la rivolta è un istante di folgorante conoscenza. Di là dalla strategia delle organizzazione classiste, i rivoltosi riconoscono fulmineamente nell’avversario il demone o il venduto ai demoni; i simboli del potere avversario non devono essere incorporati ma distrutti. Questa è dunque libertà e conoscenza. Ma il suo risultato è morte, l’apologia della morte e la mitologizzazione della morte.


Nella sua riflessione politica Jesi ha visto come, a dispetto della sua dichiarata scientificità, il marxismo sia stato storicamente «un sistema [...] immaginativo-concettuale [...] di massa» con la funzione di elaborare «emozioni e desideri, di generalizzare conflitti sociali, rendendoli politicamente spendibili». La rivolta è l’apice della dimensione mitologica della politica: in Eliade – che qui ancora Jesi apprezza – il mito è antidoto ai dolori della storia ed è riportato a modello di conoscenza generale («“funzionamento esistenziale” dell’io») che consiste nell’appartenere simultaneamente a differenti sfere di realtà. «Doppia Sophia» è duplice modo di conoscere che implica «commuoversi e intendere», emozione e ragione come polarità umane; i tempi del mito e della storia sono rispettivamente quello dell’immaginazione utopica, dopodomani, e quello della contingenza storica, qui ed ora: «l’io [...] è veramente partecipe dello scorrere della storia quando giunge a identificare a esso il decorso della sua distruzione, e dunque del suo accesso al mito».

Spartakus riflette il suo tempo: tra il 1967 e 1968 due morti lontane e diverse, quella di Padre Pio da Pietrelcina e di Ernesto Che Guevara, sono stati declinazioni del mito e hanno mostrato come il disincanto del mondo fosse lontano dall’essere un processo a senso unico, lineare e concluso. L’inevitabilità della dimensione mitologica che accompagna l’esistenza individuale e l’azione politica dei gruppi implica una duplice possibilità: un’immagine mitologica può ipostatizzarsi e monumentalizzarsi in funzione fondazionale e metafisica, oppure può mantenere la leggerezza dell’utopia ed essere mitologia al servizio della ragione. Questa seconda via, emotività e insieme riflessione, deve scongiurare il rischio ricorrente che un fatto mitologico, immaginazione di cui è intessuta la vita, possa trasformarsi in un mito-sostanza capace di sottrarre razionalità decisionale agli individui. La filosofia del mito di Jesi è un modo per stare lontano dal gorgo che esso genera, tracciandone i bordi esterni con meticolosa attenzione: la 'macchina mitologica', pochi anni dopo, sarà lo strumento intellettuale che permette di pensare in termini funzionali il mito, indagando i meccanismi che lo producono e gli scopi a cui serve, neutralizzando il fascino ipnotico di ogni mitologia.

La letteratura, scrittura che implica anche la critica e la filosofia, con la discorsività che articola in sequenze le idee e le ‘raffredda’, è la risorsa per l’uso possibile delle immagini mitologiche, altrimenti ‘idee senza parole’ pre-politiche: «se la rivolta è rottura del “tempo normale” ovvero della “manipolazione borghese del tempo” e della sua dialettica mito/storia, la scrittura della rivolta deve porsi in chiave di demitologizzazione». Letteratura è versione secolarizzata della mitologia che ne conserva le funzione più alta, quella di poter pensare altri mondi possibili rimanendo saldamente ancorati a questo. Permette l'uso del racconto mitico allontanando lo spettro della tecnicizzazione fascista: ne salva la significatività e il potenziale comunicativo, escludendo ogni fondazione metafisica. Per Jesi la letteratura è fonte di mitologia ‘genuina’, rinnova la mitopoiesi contro la ‘religione della morte’ tipica del mito pensato dalla ragione come altro da sé; come in Mann essa mostra la sua origine artificiale nella modalità del montaggio ironico e parodistico con un effetto simile allo straniamento che Brecht nel teatro e Benjamin nella critica hanno sistematicamente praticato, consentendo la simultanea presenza di intensità e riflessione.

Jesi conduce così la sua «battaglia contro ogni forma di teologia della storia» e contro ogni logica sacrificale: la filosofia della storia marxista deve abbandonare ogni ipoteca escatologica, rinunciando alla «fiducia in una mitica dell’età dell’oro della giustizia sociale» e lavorando per «il giorno che viene dopo l’oggi, il giorno in cui forse il dolore dell’oggi si trasformerà in bene». L'utopia è ideale regolativo che concede mediazione con la realtà storica. Kragler nei Tamburi della notte di Brecht è il reduce che torna dalla guerra e si scopre tradito dalla promessa sposa che lo ha creduto morto. Si getta nell’insurrezione berlinese, vaga nella notte della battaglia insieme a gruppi di ribelli, animato da uno spirito di distruzione privato e pubblico, salvo poi tirarsi indietro e rifiutare il sacrificio dopo aver ritrovato la pace personale, quando la fidanzata, avuta la notizia del suo ritorno, riconferma il suo amore e l’intenzione di vivere con lui. La rinuncia è scelta opposta alla rivolta suicida; ma come quella sorge da uno stesso 'vivere la morte ogni giorno', «istante in cui la vita appare vera» che trasforma la «vita in verità». «Ma, allora, dinanzi a colui che rinuncia si apre il labirinto dell'essere, poiché solo chi compie un gesto è destinato ad affrontare le illuminazioni e i terrori delle epifanie del vero». Se la rivolta innesca il movimento sacrificale che serve l’edificazione del potere, la rinuncia è rifiuto della mitologia eroica in favore di un momentaneo insabbiamento. In attesa di tempi più adatti alla rivoluzione con il ritiro ci si sottrae alla complicità con un gioco che non si può controllare.


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