Il procedimento contenuto nelle tesi Sul concetto di storia[1] è il consapevole antidoto ai luoghi comuni dello storicismo à la Ranke e strumento critico di disintegrazione della razionalità tardo-borghese e del presunto continuum spazio temporale da essa edificato mediante la delineazione fittizia di epoche e avvenimenti inseriti in una «immagine “eterna del passato”»[2].
Per Jesi quella di Benjamin è una «tecnica di “composizione” critica di dati e dottrine, fatti reagire tra di loro, il cui modello metodologico si trova nella formula del conoscere per citazioni (che divengono schegge interreagenti)»[3].
Benjamin è un pensatore che, nella saldatura tra romanticismo tedesco e messianismo ebraico, hanno elaborato una nuova percezione della temporalità sulla base della nozione metodologica di anacronismo[4]: l’invito a «spazzolare nel senso opposto il pelo troppo lucido della storia»[5] implica una concezione della cultura consapevole che «tradizione è innanzitutto memoria; ma la memoria è una realtà partecipe più del presente che dal passato: un atto creativo, il quale si giustifica proponendo come propria prospettiva il passato e proiettando sul fondale del passato le proprie componenti non risolte»[6].
Benjamin e Jesi sono vicini, sia per il modo militante di intendere la critica che per l’affinità con l’idea della redenzione profana e della cultura come utopia[7].
allegoria
Nel Trauerspiel l’allusività dei simboli e la verità della narrazioni mitiche sono svuotate di valore metafisico e riportate a una rivalutazione dell’allegoria[8]: al «carattere indiretto e intransitivo della significazione simbolica» Benjamin ha opposto quello «diretto e transitivo dell’allegoria»[9] che appartiene alla sfera del dire e della narrazione, spingendo all’estremo l’idea che per attingere alla verità si debba sprofondare nella soggettività, ma in modo tale da evitare qualsiasi approccio mistico. «Se ogni forma che pretenda alla dignità del simbolo è destinata all’inautenticità, sarà accettabile solo quella che porrà in primo piano la propria natura rappresentativa, che mostrerà appunto di non essere niente più che rappresentazione ed eluderà così la fascinazione della presenza mitica»[10].
In questo senso il Benjamin il «metodo di commento [...] conferisce al commentatore una funzione straniante nei confronti del testo lirico analoga a quella dell’attore nei confronti del testo teatrale»[11] secondo Brecht: il ribaltamento dell’istituzione linguistico-letteraria non sostituisce il momento rivoluzionario ma lo prepara, perché ha la funzione di «troncare il circuito ideologico dell’opera d’arte come rifornimento di un apparato capitalista di produzione. La letteratura diventa così una produzione di significanti (di qui il rapporto con l’avanguardia), sottratti al cemento ideologico della reificazione, come all’ipostasi dei valori universali di cui la società borghese si proclama depositaria»[12].
ricezione
Citando le tesi Sul concetto di storia («articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato” ma impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo»[13]) si tratta di «privilegiare il metodo della citazione saliente»: se l’approccio scientifico storicistico ha la pretesa di cogliere le cose “così come esse si sono verificate”, Jesi si propone di riconoscere la distanza che ci separa inevitabilmente dal mito, all’interno di una teoria della ricezione consapevole dell’arbitrarietà di ogni discorso sulla mitologia. La riflessione ermeneutica implica il riconoscimento della significatività come criterio del rapporto con la storia, che è momento in cui il ricordo è vitale, urgente e attuale. Il critico torinese riteneva «inutile, inopportuno e vacuo studiare un testo poetico senza adoperarlo»[14] ovvero con l’intento di capire il presente e di evitare di esserne travolti: nella continuità tra un testo e la realtà sociale che lo riceve, l’interprete fa «della propria pagina lo spazio tristemente privilegiato entro il quale il passato diviene nella sua ‘cosità’, versione interlineare del presente»[15].
In conformità con la nozione di ‘origine’ esposta nel Trauerspiel[16] il passato è presenza reminiscente e «immagine dialettica»[17]: «produrre un’immagine dialettica vuol dire fare appello al Già-stato, accettare lo choc di una memoria rifiutata di sottomettersi o di “tornare al passato”: vuol dire per esempio accogliere i significanti della teosofia, della cabala o della teologia negativa risvegliando questi riferimenti dal loro sonno dogmatico, e così facendo decostruirli, criticarli»[18].
L’apologia dell’anacronismo è il precipitato del caposaldo teorico della distanza, la Ferne che Jesi giudica come il più importante insegnamento kereniano, nei termini di una «frattura profonda, dinanzi al mito tra noi e gli antichi». «La mitologia in flagranti (la mitologia non tecnicizzata, s’intende non evocata e sfruttata per qualsivoglia interesse», che si presenta senza mediazioni, è per Jesi «assolutamente remota dalle nostre imprese gnoseologiche scientifiche oltre che dalle nostre esperienze quotidiane»: «solo così è possibile avvicinarsi al bordo esterno di ciò che – come per esempio la mitologia greca – non permette oggi altro approccio»[19].
dissoluzione della metafisica
«Analogamente a quanto si verifica in Benjamin, ossia l’abbandono delle entificazioni storiche fittiziamente costruite sullo storicismo [...] si è assistito, più di recente, in antropologia, a una smobilitazione delle entità etnologiche: culture e società (specie quelle “tribali” o “tradizionali”), intese come se fossero realtà naturali magnificamente sopravviventi nel loro vuoto storico o travolte dalla nostra storia, hanno perduto i loro contorni netti e definiti, il loro peso ontologico, la loro apparenza di forme volumetriche incastonate nell’ordine classificatorio [...] elaborato dagli antropologi»[20].
Secolarizzazione e messianismo
La questione posta da Benjamin con la sintesi tra marxismo e messianismo che Jesi rilanciava negli anni settanta italiani è allora la considerazione, da parte di un ateo, di come con l’ateismo di massa, in nome di una demitizzazione grossolana, si fosse perso ogni contenuto utopico in modo tale da preparare il terreno a nuove rimitizzazioni ‘tecnicizzate’.
Per Benjamin la fine della «coscienza storica [...] in Europa»[21] significava anche la perdita del legame sociale che la società illuministico-borghese ha introdotto nel mondo moderno. Un nuovo legame sociale poteva però nascere con la logica di classe: in Benjamin la «solidarietà è l’atto che trasforma la folla in classe», rompendo «i vincoli dell’antagonismo» che sono alla radice della frattura e dell’atomizzazione che caratterizzano la società borghese[22]. Nella lotta di classe il tratto panico della ‘festa crudele’ e ‘guerresca’ (che Benjamin vedeva nella piccola borghesia e che si esprime nell’«entusiasmo bellico, odio contro gli ebrei o istinto di conservazione»[23]) muta di segno e si apre al futuro. Contro il potere ipnotico del ‘mito’ in questi termini Jesi pensa un «modello gnoseologico che implica come condizione sine qua non la collettività e l’autoaffermazione nell’esperienza festiva»[24]. Nella voce di enciclopedia dedicata a Benjamin si legge: «La redenzione dell’uomo può giungere soltanto da una rottura radicale con il passato improntato dal dominio e da un recupero della tradizione sacra, messianica. Ma in mancanza di elementi di fede come i presupposti della liberazione-redenzione non sono dati, così anche la soggettività liberante attende di essere istituita»[25].
La festa rivoluzionaria della classe solidale rappresenta l’«oggi dell’eternità»[26] e l’apocatastasi la reintegrazione di un tempo ‘edenico’ futuro e lontano dai mali della storia: in questa prospettiva oltre il significato della distruzione in termini tragici si colloca quello di «rivolgimento, cambiamento di direzione. Catastrofe come “svolta”, ovvero come trasformazione, metamorfosi»[27]..
Nel saggio Zur Kritik der Gewalt[28] (1921) Benjamin distingue la «violenza che impone il diritto dalla violenza che conserva il diritto: questa è la violenza legittima che viene esercitata dagli organi dello stato; quella è la violenza strutturale, tratta fuori nella guerra e nella guerra civile, latente in tutte le istituzioni»[29], violenza che si manifesta nella stessa conflittuale struttura della società di classe. In quello scritto si prefigura «l’ipotesi di una società liberata in cui il lavoro non sia più quello di prima sotto padroni diversi, bensì un lavoro interamente mutato o non imposto dallo stato»[30]: la violenza rivoluzionaria ‘pura’ creatrice di nuovo diritto è la festa futura in cui riluce il «riverbero della giustizia divina nella sfera umana»[31] contro la violenza conservatrice delle democrazie liberali e del fascismo. Così come mito e festa, se rivolti al passato, diventano strumenti reazionari, alternativamente possono diventare la lingua dell’utopia. Accanto alla rivoluzione politica l’esperienza creativa della scrittura, della filosofia e della critica ha così un compito strategico e preparatorio: «Jesi presuppone che la festa permetta “alle realtà incombenti sulla vita quotidiana di trasformarsi nella materia stessa del mito”. Se dunque manca la festa, l’artista avvertiva “l’obbligo morale di determinare egli stesso quella trasformazione nell’unico modo oramai lecito, e cioè superando il rimpianto e agendo, creando, narrando le vicende dell’oggi affinché attraverso il suo impegno morale l’oggi privato di festa tornasse ad essere il luogo ed il tempo del mito”»[32].
Contro la tecnicizzazione la mitopoiesi assume un aspetto positivo: attraverso il sapere critico, l’ironia e la parodia si tratta di salvare il meglio della tradizione umanistica, rilanciando una mitologia-narrazione (che implica anche la sua critica) e che sia discorso dell’immaginazione che lega senza fondare e ponendosi come regolativo[33].
[1] W. Benjamin, Angelus Novus (1955), ed. it. Torino, Einaudi, 1962, p. 81, nella traduzione di R. Solmi, riferimento di Jesi per la terminologia italiana; cfr. Id. Sul concetto di storia, (a cura di G. Bonola e M. Ranchetti), Einaudi, Torino, 1997. Tra i progetti di Jesi rimasti incompiuti vi è una monografia sul critico berlinese, progettata a partire dai primi anni settanta; sua è la voce dedicata a Benjamin dell’Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 1981, p. 83-84, da cui si può presumere in che direzione avrebbe sviluppato il testo.
[2] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 81; cfr. F. Jesi, Mito, cit., pp. 8-9 e Esoterismo e linguaggio mitologico, Quodilibet, Macerata, 2002, pp. 36-37; per la ‘riscoperta’ di Benjamin si veda G. Schiavoni, Walter Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Sellerio, Palermo, 1980, p. 11 e p. 35; cfr. J. Habermas, Attualità di Walter Benjamin, in «Comunità», n. 171, 1974, pp. 211-245, nella traduzione di Jesi. Per un inquadramento di Jesi nella cultura italiana: M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino, 2001, pp. 92-99, 285-287.
[3] F. Jesi, Mito, cit., pp. 8-9; cfr.: Id. Esoterismo e linguaggio mitologico, cit., pp. 36-37; Id., Materiali mitologici, cit., p. 206.
[4] G. Didi-Hubermann, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 52-54; cfr. M. Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea (1988), ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
[5] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 67.
[6] F. Jesi, Letteratura e mito, cit., p. 57.
[7] Nell’Archivio di Jesi vi sono pagine autografe sulla critica come «battaglia» risalenti al periodo 1958-61 che inducano a ritenere che già allora l’influenza fosse molto forte: cfr. W. Benjamin, La tecnica del critico in XIII tesi, in Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, (1928), ed. it. Einaudi, Torino, 1983, p. 28). «I. Il critico è stratega nella battaglia letteraria; II. Chi non sa prendere partito taccia; III. Il critico non ha a niente a che spartire con l’interprete di passate epoche artistiche; IV. La critica deve parlare la lingua degli artisti. Perché i concetti del cénacle sono parole d’ordine. E solo nelle parole d’ordine risuona il grido di battaglia; V. Bisognerà sempre sacrificare l’obiettivià allo spirito di partigiano, se la causa per cui ci si batte lo merita.; VI. La critica è una questione morale. [...]; VII. Per il critico i giudici d’appello sono i suoi colleghi. Non il pubblico. E tanto meno i posteri; VIII. I posteri dimenticano o esaltano. Solo il critico giudica al cospetto dell’autore; IX. Polemica significa stroncare un libro in base a un paio di sue frasi. Meno lo si è studiato meglio é. Solo chi sa stroncare sa fare della critica; X. La vera polemica si lavora un libro con lo stesso amore con cui un cannibale si cucina un lattante; XI. Il critico non conosce l’entusiasmo per l’arte. L’opera d’arte è in mano sua, l’arma sguainata nella battaglia degli spiriti; XII. L’arte del critico in nuce: coniare slogan senza tradire le idee; XIII. Il pubblico deve sentirsi sempre smentito e sentirsi ugualmente rappresentato dal critico».
[8] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, ed. it. Einaudi, Torino, 1999, pp. 134 ss.; cfr. G. Raio, Ermeneutica e teoria del simbolo, Liguori, Napoli, 1988.
[9] P. Cresto-Dina, Perché non possiamo non dirci moderni. Benjamin, Gadamer, Baudelaire e la temporalità estetica, in «l’ombra», 5/6, 1998, Moretti e Vitali, Bergamo, p. 112.
[10] M. Pezzella, Mito e forma in Furio Jesi, cit., p. 293, c. n.
[11] Ivi, p. 78.
[12] F. Masini, Gli schiavi di Efesto. L’avventura degli scrittori tedeschi del novecento, Studio Tesi, Pordenone, p. XXXVII.
[13] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 77.
[14] ELM, p. 37.
[15] F. Jesi, Il testo come versione interlineare del commento, in Caleidoscopio benjaminiano (a cura di E. Rutigliano e G. Schiavoni), Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 219.
[16] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), ed. it. Einaudi, Torino, 1999, pp. 20-24
[17] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, ed. it. Einaudi, Torino, 2002, p. 516.
[18] G. Didi Hubermann, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, cit., p. 225.
[19] M, p. 9.
[20] F. Remotti, Walter Benjamin in una prospettiva antropologica: uno sguardo a ritroso sulla modernità, in AA.VV., Walter Benjamin: sogno e industria, Atti del Convegno del 21-22 ottobre 1994 (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea), a cura di E. Guglielminetti, U. Perone e F. Traniello, Torino, Celid, 1996, p. 145-146.
[21] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 81.
[22] «La coscienza di classe proletaria, che è la più studiata, modifica radicalmente la struttura della massa proletaria. Il proletariato dotato di coscienza di classe forma una massa compatta solo dal di fuori, nella rappresentazione dei suoi oppressori. Nell’istante in cui inizia la sua lotta di liberazione, la sua apparente massa compatta si è in verità già allentata. Essa smette di essere dominata dalla semplice reazione; passa all’azione. L’allentamento della massa proletaria è l’opera della solidarietà. Nella solidarietà della lotta di classe proletaria viene soppressa la morta, adialettica contrapposizione tra individuo e massa; per il compagno essa non esiste». Si tratta di un passo di W. Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nella trad. di Andrea Cavalletti, in Classe, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 38.
[23] A. Cavalletti, Classe, cit., p. 37.
[24] F, p. 22.
[25] F. Jesi, Walter Benjamin, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, 1981, p. 84
[26] A. Cavalletti, Note al «modello macchina mitologica», cit., pp. 39-40; «Poiché eternità è proprio questo, che tra l’istante presente ed il compimento non c’è tempo che possa reclamare un posto, bensì già tutto il futuro è afferrabile nell’oggi». (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, ed. it. Marietti, Genova, 1985, p. 351.
[27] M. Belpoliti, Crolli, Einaudi, Torino, 2005, pp. 131.
[28] W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus, cit., pp. 5-30.
[29] J. Habermas, Attualità di Walter Benjamin, in «Comunità», n. 171, 1974, pp. 211-245, p. 239-40. Traduzione di Jesi.
[30] G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino, 2001, p. 79.
[31] Ibidem.
[32] M. Belpoliti, Settanta, p. 95; cfr. LM, pp. 167-168.
[33] MM, pp. 246-252 e pp. 253-271 dedicate a Thomas Mann e all’«umanizzazione del mito» compiuta nei romanzi del ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli.