domenica 29 maggio 2011

Vedere/ricordare



Capita di riuscire ad andare al cinema. Non ho resistito e sono andato a vedere The tree of life, di cui ogni persona con qualche velleità intellettuale al mondo avrà già una sua idea. Rompendo la tradizionale ritrosia a parlare di cinema (ne so troppo poco, ho visto troppi pochi film che tutti reputano fondamentali, ci vado troppo poco spesso) ho deciso di scriverci comunque due cose sopra.
C’è nel nuovo film di Malick il grandioso e coraggioso tentativo di raccontare una storia, che è la storia dell’universo e di ogni essere vivente, servendosi di un ‘nuovo’ linguaggio della visione che cerca di tagliare fuori la razionalità logico discorsiva e la concatenazione sequenziale puntando a una sequenza di significati modale e ricorsiva, basata sull’asse occhio/emozione, senza l’eversività e la provocazione delle imprese surrealista e dadaista ma con modalità evocative, mnestiche e mistiche. Da queste premesse si potrà capire che il progetto di partenza è di per sé impegnativo, e questo può giustificare il fatto che il lavoro del regista texano (ma di sensibilità europea) sia un progetto incompiuto, con momenti visivi molto felici e altri che rischiano l’estetizzazione sublime e compiaciuta. In più, date le premesse, gli inevitabili momenti di snodo e nessi narrativi che accompagnano la storia di Jack e della sua famiglia – su tutti un fratello morto in giovane età, una madre dolcissima e diafana, un padre severo e intagliato nell’autismo volontaristico del selfmademan – finiscono per compromettere l’intransigenza del progetto estetico; mentre la voce narrante, intermittente e dialogante con dio/l’essere/il mistero a cui chiede continuamente ragione dell’esistere, rischia continuamente la caduta nel kitsch, almeno per un’europeo cinefilo e di buone letture.
Vi sono momenti di emozione e pura gioia visiva, ma rimangono tali. Chiunque abbia perso qualcuno di importante non può rimanere impassibile di fronte all’incontro del protagonista con i suoi cari del passato. Il ritrovarsi in uno spazio tempo che sembra essere quello della memoria (ma di chi?), in una sorta di grande ricomposizione risolutiva del mistero della vita e dei suoi conflitti che Malick ci mostra come una spiaggia inondata di luce con persone che si ritrovano e finalmente si guardano davvero.
Ma il punto è che, come avviene anche con la rappresentazione della maternità struggente e dolcissima di una madre ormai perduta, questa rappresentazione della perfezione confina con l’assenza di ogni tensione vitale che non può che essere la morte, e dunque il nostro sguardo può placarsi in una visione che è visione di morte, priva di conflitti e mutamento, un traguardo finale che è quello del mistico.
Se qualcuno si sente di seguire Malick fin lì ha trovato il suo film culto. Nell’insieme ho conservato un piacevole ricordo di alcune immagini e sequenze visive di rara intensità, come solo un americano manicheo malato di Alzheimer e ansioso di trovare se stesso e di raccontarsi con urgenza potrebbe fare.

Intanto invece una nuova puntata del perché Jesi, (di cui su www.doppiozero.com è partito lo speciale Cultura di destra) sia autore fondamentale per l'oggi.
Di seguito una versione rough di un mio recente intervento.



Ferrara, 27 maggio 2011

Mito, potere, letteratura in Furio Jesi

Cosa saremmo noi senza il soccorso di quello che non esiste?

P. Valery

Prima di tutto un ringraziamento per la vostra presenza, qui. Sono molto lieto di essere nella stessa città e negli stessi ambienti che vent’anni anni fa dedicarono il primo convegno nazionale a Furio Jesi. Di essere con Roberto Roda, che si occupò dell’organizzazione di quelle giornate di studi e della rivista Faraqat; con Andrea Cavalletti, che da dieci anni cura le opere e l’archivio di Jesi e con Wu Ming, che da scrittore ma anche da teorico di letterarura e di politica si è interessato di Jesi da anni proponendo una sua applicazione a attualizzazione nella propria attività, che va annoverata tra le realtà più interessanti della nostra letteratura nazionale più recente.

Ho lavorato su Jesi per il mio dottorato in Filosofia, riuscendo a congiungere nell’analisi della sua filosofia molti dei miei interessi; e da quel lavoro di ricerca è nato anche il numero monografico della rivista ‘Riga’, che ho curato con Marco Belpoliti.

Riga ha l’ambizioso progetto di presentare un autore complesso come Jesi mostrando la vastità dei suoi interessi e fornendo una sorta di magazzini di materiali anche rari – inediti, minori, antologia della critica – inserendosi in una sorta di Jesi renassaince, che io credo, la nostra stessa presenza qui e il numero (e la qualità) di pagine recenti dedicate a Jesi stanno a dimostrare. A trent’anni dalla sua scomparsa per un tragico incidente non si sono ancora fatti veramente i conti con la sua opera, ma la nostra idea è che a dispetto di questo Jesi sia autore di una straordinaria attualità per le questioni che i suoi scritti ponevano.

Ecco alcuni elementi a favore di questa tesi.

Jesi è un intellettuale pienamente inserito negli anni settanta ed erede di una grande tradizione critica ancora precedente, è davvero uno studioso di straordinaria competenza e di vaste e solidissime letture, capace di coniugare cultura classica, formazione umanistica mitteleuropea e innovazione metodologica negli ambiti che più ha frequentato: storia delle religioni, critica letteraria, storia delle idee e teoria del mito.

Ha scritto di lui Ferruccio Masini, Risalire il Nilo, 1983:

C’era nel suo sguardo tranquillo e penetrante, nel suo sorriso timido e dolcissimo, qualcosa di familiare e insieme una luminosità interiore, fatta di una sostanza inalterabile che non si spiega soltanto con la straordinaria giovinezza di uno studioso che aveva cominciato là dove molti altri finiscono: questa sostanza pura e preziosa era, per così dire, la maturità di un’intelligenza nutrita dei succhi della grande cultura europea, da Kerényi a Martin Buber, da Eliade a Thomas Mann, un’intelligenza filtrata attraverso il pudore di un’aristocratica riservatezza e tuttavia mai prigioniera di quella distanza a cui si attaccano disperatamente tutti coloro che, come direbbe K. Kraus, si portano appesa addosso la cultura come fossero dei manichini.

Furio era (ma vorrei proprio dire: è) una puntuale antitesi di costoro; apparteneva a quel raro genere di intellettuali che concepiscono la loro stessa esistenza come un testo nel quale fluiscono e magari anche si scontrano, in onde sempre più alte, i pensieri pensati e le immagini vissute fino a comporsi in una distesa variegata e compatta che se può sembrare pacificata, pur continua ad essere il cristallino equilibrio di tensioni segrete, quasi la trasfigurata armonia di profonde inquietudini e occulte dissonanze.

Furio non amava i facili paradossi, bensì i difficili: per questo mi avrebbe sorriso se a conclusione di tutte le sue limpide decostruzioni del mito tecnicizzato, avessi osato citare, ancora una volta, Valéry: «Mito è il nome di tutto quello che non esiste e non sussiste che nell’avere il linguaggio come causa». E mi avrebbe forse guardato con la complicità di quella sua intelligenza solitaria affascinata dagli enigmi e anche dal pericolo che si annida negli enigmi: quell’intelligenza che conosceva le maschere d’oro e le barche dipinte, i demoni babilonesi del vento e le lunghe strade dei Chassidim, la spenta fissità degli idolatri dei mitologemi del potere e i geroglifici rilkiani della fuga dal possesso.

Jesi è stato un intellettuale radicale nelle scelte di vita e nella militanza politica, un fatto che caratterizza la sua produzione filosofica e che si radicalizza progressivamente. Oltre a una militanza in movimenti della Nuova sinistra italiana e un’attività di critico assai duro, da studioso ha saputo affrontare la religione e il sacro da un punto di vista antropologico, mostrando il rapporto indissolubile tra sacro e politica, con riflessioni che lo accomunano a pensatori del calibro di Benjamin e Caillois;

da un punto di vista filosofico ha fiancheggiato la germanistica post-lukacsiana e quel neo-nietzscheanesimo volto soprattutto a far emergere gli sfondi irrazionali della razionalità e la presunta dicotomia tra Mythos e Logos, svettando – questa è una delle ipotesi che guidano il mio lavoro interpretativo – come voce italiano di quel dibattito sul mito che attraversato la Germania e la Francia dai tardi anni sessanta fino agli anni ottanta.

In questo senso Jesi è stato poligrafo e cultore di diverse scienze trasversali, contaminando reciprocamente critica, narratologia, antropologia e storia fino a praticare un genere di scrittura saggistica originale, affascinante e a tratti enigmatico.

Il suo pensiero risulta coerente e si risolve in modo nitido se si tiene conto che la riflessione sul mito, intesa come forma antropologica di rapporto con la realtà, è lo snodo che gli consente di giocare su almeno tre piani: religioso, letterario, politico.

Ecco un passo jesiano decisivo, da Esoterismo e linguaggio mitologico, 1976:

Abu Simbel è un tempio rupestre. Di là dalla facciata su cui vigilano ai lati della piccola porta le quattro statue gigantesche addossate alla parete rocciosa, si apre una cavità oscura, scandita dai pilastri ricavati nella pietra del monte e modellati in figura di Osiride, sole dell’Aldilà. Pure, il tempio di Ramesse non è un tempio funerario, ma una solenne celebrazione delle glorie militari del sovrano. (…) Quelle, in quell’occasione, erano per l’uomo moderno in apparenza testimonianza di una religione della morte. Di fatto testimonianze di una religione del potere, più brutale di qualsiasi religione della morte, e tale da usare la religione della morte per fingersi potere consacrato. E quella stessa nave che risaliva il Nilo verso Abu Simbel, e che avrebbe potuto benissimo suscitare miti egizi di navi sulle acque dell’aldilà, era di fatto, con tutto il suo mogano e il suo ottone lucido, ancora una della navi, sopravvissute che erano servite a portare le truppe inglesi di Lord Kitchener a reprimere la ribellione del Sudan. Se di mito si doveva parlare, in quell’occasione c’erano molti miti del potere che si affollavano verso i confini nubiani, sotto le costellazioni.

Il mito è un fattore inemendabile, la narrazione ha un significato per le vite di chi racconta le storie che non può essere in alcun modo sostituito: questo dato elementare giustifica la sopravvivenza dei miti oltre l’epoca in cui erano vettori di esperienze metafisiche e spiega la presenza delle immagini miti tanto nell’arte quanto in altre pratiche sociali di ordine estetico, come la moda. Miti sono immagini di valore archetipico capaci di interagire con la storia, nel senso che la modificano e ne sono modificati. Per questo stesso motivo il lavoro sul mito, compiuto comunque e dovunque da ogni individuo su ogni tradizione, è anche quello della tecnicizzazione del mito, concetto che Jesi riprendeva dal suo maestro Kereny. Il mito politico è mito tecnicizzato, ovvero manipolazione intenzionale e strumentale che serve a produrre effetti di mobilitazione su una collettività in base al valore emotigeno di ogni racconto mitico: i miti moderni, come già in Cassirer e poi in Adorno e Horkheimer, sono allora quelli del fascismo e del nazionalsocialismo, quelli che il pensiero di destra ha portato al massimo livello ereditando e amplificando una tradizione culturale precedente, borghese, neoclassica, nazionale. Cultura di destra era per Jesi la cultura che si serviva del linguaggio mitico, quello che naturalizza e che per semplicità possiamo chiamare ‘ideologia’ occulta e pervasiva, inserita nei discorsi della nostra vita a un livello di ‘microfisica’ per citare Foucault.

Questo interesse è costante in Jesi: fin dal 1965 Jesi scriveva che il ricorso al mito da parte della propaganda politica è «per la sua stessa natura – un elemento “reazionario”» (Letteratura e mito, 2002, p. 42) anche quando le sue finalità sono progressiste. Una volta che si siano evocati soggetti di forte impatto emotigeno, come sono le immagini mitologiche, la razionalità critica viene messa fuori gioco. «Tutti i linguaggi propagandistici [...] sono usati in modo moralmente condannabile là dove non si prevede il superamento dell’esperienza raggiunta entro l’evocazione tecnicistica del mito. [...] Se cioè il linguaggio del mito tecnicizzato è considerato un linguaggio oggettivo e pieno di intrinseca verità, la reazione resta reazione. [...] Com’ è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento? Tutto ciò non ci sembra praticamente possibile» (ivi, p. 43). Già allora Jesi meditava su una necessaria «demitizzazione nella propaganda politica del mito tecnicizzato», proponendo sulla scia di Mann, di Brecht, di Benjamin, di Adorno che il discorso artistico fosse l’unica possibile esperienza mitica ‘genuina’, capace di parlare alla collettività nel «rispetto per l’uomo». Altrimenti ogni discorso, anche ‘di sinistra’ diventa ‘di destra’.

Quali risposte ha dato come studioso, allora? Ancora da Esoterismo e linguaggio mitologico:

Tutto questo è per me oggi il significato della parola mito. Una macchina che serve a molte cose, o almeno il presunto cuore misterioso, il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che serva a molte cose, nel bene e nel male. È memoria, rapporto con il passato, ritratto del passato in cui qualche minimo scarto di linea basta a dare un’impressione ineliminabile di falso; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna, e che poi talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi anche il sospetto mai cancellabile dinanzi alle evocazioni di miti incaricate di una precisa funzione: quella innanzitutto di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un “eterno presente”.

Jesi pensava che il mito fosse il prodotto di una ‘macchina mitologica’, termine con indicava i dispositivi socio-culturali che producono ‘materiali mitologici’, ovvero ricoprono di un aura di valore determinati oggetto che vengono come illuminati di un di un surplus di significato. Con questa impostazione Jesi, che viene dalle suggestioni di Jung, di Mann, di Kerènyi e di Lèvi-Strauss, fiancheggia anche il post-strutturalismo francese, in particolare Derrida, per quanto riguarda la critica del pensiero metafisico (in definitiva una forma di mitologia particolarmente riuscita) e Barthes, per quanto riguarda la questione dei miti d’oggi e di come le mitologie siano modalità di costruzione di desiderio, emulazione, invidia sociale che ancora una volta sacralizzano anche luoghi come merci e mercato.

Mi vorrei fermare a questo punto, dicendo come Jesi, e in questo sta anche la sua attualità, non si sia fermato a un solo discorso di critica del mito, ma che abbia anche riproposto il valore del mito in termini utopici, un valore di posizione di significati che fossero nel segno della vita e di un nuovo umanesimo emancipativo e liberatorio.

La mitologia possibile, il ritorno di nuove grandi narrazioni deve coincidere con una consapevole mitopoiesi 'leggera', che si sà racconto infondato e che mostra i segni del lavoro dell'autore, attraverso il montaggio e la citazione che mostrano la dimensione umana del mito, attraverso una pratica di scrittura nella quale il linguaggio espone la frattura tra realtà e immaginazione, tra io e oggetto mitico.

Questo sarebbe potuto accadere nella misura in cui il mito fosse restituito alla sua origine di racconto, qualcosa che si mantiene nel luogo di origine di ogni apparire dei fenomeni alla coscienza. Come ha scritto Lacoue-Labarth «funambolismo metafisico senza parapetto metafisico. O se preferite esperienza metafisica svuotata, pura esposizione al nulla».


1 commento:

  1. So che The tree of life è piaciuto molto alla critica, e immagino per ragioni simili a quelle da te ben enucleate, tuttavia il film per me è stato una grandissima delusione.
    Di pochissimo impatto le immagini cosmogoniche, inevitabilmente rinvianti al Kubrick di 2001 Odissea nello spazio, e soprattutto accompagnate dall'orrenda musica di zbigniew Preisner.
    Molto bello il personaggio del Padre.
    Non per insensibilità al tema della scomparsa di una persona cara, ma la scena finale dell'incontro con i defunti mi è sembrata di una banalità sconvolgente, innanzitutto dal punto di vista visivo.
    Non concordo poi sul fatto che la sensibilità di Malick sia pseudoeruopea: proprio in questo film mi pare che mostri di essere più americano che mai, proprio per il suo manichesimo natura/grazia. Che non discuto affatto, dato che aveva dato vita a un autentico e sublime capolavoro come The thin red line.

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